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Loporcaro, Michele. Due poesie di Guilhem de Saint Gregori (BdT. 233.2 e 233.3). "Medioevo Romanzo", XV (1990), pp. 17-60.

233,002- Guillem de Saint Gregori

 

DUE POESIE DI GUILHEM DE SAINT GREGORI

(BdT. 233.2 e 233.3).*

 

Sotto il nome di Guilhem de Saint Gregori sono traditi cinque componimenti poetici in lingua provenzale (BdT. 233.1-5) (1):

 

1. Be·m platz lo gais temps de pascor;

2. Ben grans avolesa intra;

3. Nueyt e iorn ai dos mals senhors;

4. Razo e dreyt ay si·m chant e·m demori;

5. Seigner Blacatz, de dompna pro.

 

Fra questi, solamente due si presentano nei canzonieri con attribuzione univoca a quel poeta: 233.5 è attribuito a Guilhem in DªIK, ed è anonimo in GQ (2); 233.4 è attribuito da C a Guilhem ed è anonimo in K (3). Nel caso degli altri componimenti, il nome di Guilhem de Saint Gregori concorre nelle rubriche con quello di altri trovatori più noti: il celebre sirventese 233.1 è generalmente attribuito a Bertran de Born, secondo l’indicazione di IKTa¹d; ABD lo ascrivono a Guilhem de Saint Gregori, PUV a Blacasset, Ce a Lanfranc Cigala, Sg a Pons de Capdueill ed infine M ad un Guillem (ms. Guiellm) Augier de Grassa (4). Anche per 233.2 e 3 l’attribuzione nei canzonieri è controversa (su questo punto cfr. infra).

Il carattere controverso delle attribuzioni, in concomitanza con l’assoluto silenzio di ogni altra fonte letteraria e non letteraria riguardo a Guilhem, ha indotto alcuni a dubitare dell’esistenza stessa del poeta. Carl Appel, sostenendo che Razo e dreyt sia da attribuire ad Arnaut Daniel, demolisce sistematicamente la figura di Guilhem de Saint Gregori: non si tratterebbe che di un Versteckname (5). Ma a ben guardare, tale posizione presenta implicazioni fortemente problematiche. Questo nome, vuoto di contenuto e non designante alcun personaggio storico, sarebbe scaturito poligeneticamente, in forma identica, in sei diversi canzonieri — ABC (due volte) D (tre volte) IK — alcuni dei quali, si osservi, solitamente considerati autorevoli in materia di attribuzioni. È difficile crederlo, e di fronte a questa semplice constatazione la soppressione di Guilhem de Saint Gregori si rivela per quel che è: un espediente adottato al fine di semplificare la questione attributiva di una canzone e di un sirventese (Razo e dreyt Be·m platz) che ebbero notevole successo, come attesta la loro tradizione diretta e indiretta (6), e che ai più ripugna attribuire ad un poeta sulla cui figura mancano affatto notizie storiche. Un poeta modesto, attivo alla corte di Blacatz, signore di Aups (7), principalmente come esecutore di testi altrui, che compose imitando lo stile, per quel che ci è noto, di Arnaut Daniel e Bertran de Born (8).

Si presentano qui edizione e commento della sestina e di Nueyt e iorn ai dos mals senhors, cui non è parso superfluo dedicare qualche cura testuale ed interpretativa, a distanza di molti decenni dalla loro prima pubblicazione (9).

 

I. Ben grans avolesa intra.

Rubriche: Dª Willems de Saint Gregori; H manca; a¹ en Bertran del Born.

Metrica: a7’ b10’ c10’ e10’ f10’ (Frank 864.5).

 

6 coblas singulars retrogradadas con tornada di 3 versi. Mots-refrains: intra, ongla, arma, verga, oncle, cambra (ad, be, cf sono assonanti). La retrogradatio cruciata delle parole rima avviene secondo lo schema abcdef > faebdc > cfdabe ecc.

 

I vv. 31 ss. sono perduti in DªH. La carta 42 di H si presenta deteriorata: la resezione dell’angolo superiore è risultata nella perdita del supporto per le prime 8 righe. Poiché il taglio ha andamento obliquo ed irregolare, le righe iniziali non sono tutte danneggiate in egual proporzione: la 1ª e la 2ª sono completamente asportate, restandone un piccolo frammento all’estremità destra; delle righe 5, 6, 7 è rimasto un terzo; dell’8ª la metà. Ciò per quanto concerne il supporto pergamenaceo. La scrittura poi è illeggibile ad occhio nudo per un buon tratto ancora al di sotto della lacerazione (altre 15 righe, fino alla 23). Gauchat e Kehrli, nell’edizione semidiplomatica del canzoniere, poterono trascrivere solo la parte di testo in cui l’inchiostro non risulta svanito, riducentesi alle strofe IV e V ed a qualche spezzone della III (10). Su questa trascrizione si basa il Bertoni, e nessuna novità apporta, per questo rispetto, l’ed. Paden, condotta senza procedere ad un riesame diretto del canzoniere (v. p. XIX). Gouiran² non informa sul metodo seguito ma dall’apparato, che continua a dire perduto il testo di H per le prime due strofe e l’inizio della terza e comincia a riportare lezioni di H dal v. 15, si evince che il canzoniere è stato rivisto, ma non così accuratamente come si sarebbe potuto (11). In realtà con l’ausilio della lampada ultravioletta è possibile leggere anche le strofe II e III per intero, nonché pochi frammenti della I (12). Il che permette un’integrazione dell’apparato ed una più compiuta discussione stemmatica giacché, proprio nella sua parte difficilmente leggibile, H rivela in due luoghi congiunzione in errore con Dª. È possibile quindi confermare con prova formale l’asserzione del Bertoni (p. 32 n. 1): «i mss. DH vanno assieme».

Al v. 7 Dª legge Vaimars fai lum en sa chambra (la maiuscola iniziale si deve ad un errore del rubricatore: ma è visibile, in alto a sinistra, la lettera guida n); H lum en sa cha(m)bra (il primo emistichio è perduto per il guasto meccanico descritto; nella parte conservata la lezione è identica a quella di Dª); a¹ naemar sa lum em chambra. Il possessivo che si legge in DªH, da espungersi, fu certo inserito da un copista italiano che, computando erroneamente Aimar bisillabo, credette di ristabilire la misura del metro inserendo una zeppa (la scelta di sa sarà stata guidata da sa chambra che termina il verso precedente). Questo errore che tradisce una sillabazione da alloglotto, ritornando in H, congiunge DªH contro a¹ dove il verso ha un computo sillabico regolare (13).

Una seconda lezione che congiunge in errore DªH separandoli da a¹ è il dezitat (per degitat a¹) che si legge al v. 16. Si tratta di una forma linguisticamente illegittima per de(s)gitar (cfr. LR, III 469 ss., s.v. gitar), in cui il passaggio g > z andrà considerato alla stregua di venetismo prodotto dal copista di un antigrafo comune a DªH (14). Il canzoniere estense ed il Vat. lat. 3207 furono entrambi confezionati in ambiente veneto e, risultando frequentemente accomunati ai piani medio-bassi di stemmi relativi alla tradizione di componimenti in essi contenuti, vengono ricondotti com’è noto ad una medesima costellazione, discendente da una editio variorum costituitasi in un’officina scrittoria veneta, probabilmente veneta occidentale (15). In un antigrafo comune α, afferente a questa tradizione, avrà avuto origine l’erroneo dezitat, ed allo stesso antecedente è da attribuire la perdita dei vv. 31 ss.

Queste considerazioni portano a tracciare lo stemma seguente:

 

 

La bipartizione operata con argomenti di critica interna trae conferma dai dati storici disponibili. Se DªH sono, come ricordato, di ambiente veneto, a¹ discende invece dal canzoniere di Bernart Amoros, esemplato in Provenza dal monaco alverniate (16).

Il testo di DªH si presenta in condizioni sensibilmente migliori, e pertanto lo si assume qui a base dell’edizione, come Bertoni e diversamente da Paden e Gouiran². Tuttavia le lezioni di a¹, laddove non siano palesemente erronee, vanno prese in considerazione e discusse singolarmente in quanto a¹ rappresenta un ramo autonomo della tradizione e non già una versione peggiorata del testo di DªH (17). A provarlo, del resto, basterebbe da sola la conservazione dei vv. 31 ss. Data la quasi assoluta identità di lezione fra DªH, la scelta meccanica fra varianti adiafore non è quasi mai consentita e, dunque, la rilevanza pratica dello stemma ai fini della costituzione del testo risulta limitata. Solamente al v. 29 scegliamo ab ferm voler Ha¹ contro a f. v. Dª.

La sestina di Guilhem de Saint Gregori riprende lo schema metrico e le parole-rima della sestina di Arnaut Daniel Lo ferm voler qu’el cor m’intra, che serve ancora da modello, più tardi, al veneziano Bertolome Zorzi (En tal dezir mos cors intra) (18). Alla sestina-sirventese di Guilhem dovette arridere un considerevole successo — al quale non rende giustizia la povertà della tradizione di cui oggi disponiamo — se nel v. 34 della sestina di Bertolome Zorzi è da leggere un probabile riferimento ad essa: Pois qu’eu l’am mais qu’Aimiers non fetz son oncle (19). Il caso è dunque analogo a quelli di 233.1 e 233.4, che testimoniano la fortuna di alcune opere di quello che per noi resta un poeta pressoché ignoto. Analogo il caso ed analoghi i dubbi sollevati circa la paternità di Guilhem, ai quali fornisce appiglio l’attribuzione di a¹. Ha però ragione il Lewent quando invita a diffidare di tale attribuzione in base alla constatazione che «a¹ bezüglich der Verfasserschaft Bertranscher Lieder schlecht unterrichtet zu sein scheint» (20). La sezione dedicata a Bertran in quel canzoniere si apre con Be·m platz lo gais temps de pascor (num. 191) e si chiude con la nostra sestina (num. 202). È ivi erroneamente attribuita a Bertran de Born anche Cant le douz temps d’abril (num. 193) di Peire de Bussinhac (BdT. 332.1). Per quanto riguarda l’attribuzione in a¹ di 233.1 e 233.2 siamo di fronte ad un caso non infrequente: l’inizio e la fine delle sezioni di canzoniere dedicate ad un nome illustre costituiscono punti di tensione ove facilmente si genera un cambio di attribuzione a danno di un minore, ovvero si osserva l’attribuzione al trovatore famoso di un componimento adespoto nell’antigrafo. E benché di questo criterio si debba usare cum grano salis, nel caso specifico esistono motivi indipendenti per dubitare dell’attribuzione a Bertran dei due componimenti.

Il Bertoni, pubblicando la sestina (p. 37), propende per l’attribuzione a Guilhem de Saint Gregori soprattutto per motivi di datazione, su cui torneremo discutendo i riferimenti storici contenuti nel testo. Carl Appel si dichiara invece di opposto avviso, muovendo dal presupposto generale che il nome stesso di Guilhem de Saint Gregori non designi un personaggio effettivamente esistito e sia in realtà un Versteckname. L’intera argomentazione è sviluppata in funzione dell’attribuzione ad Arnaut Daniel di Razo e dreyt. Ma al di là di questo assunto aprioristico — oggi non più sostenibile (21) — gli argomenti specifici addotti dall’Appel non paiono sufficienti a confortare un’attribuzione di per sé inaffidabile qual è quella di a¹. Insorge, anzitutto, un problema di datazione, poiché la sestina è da collocare, secondo il Bertoni (p. 39), «all’alba del sec. XIII». Ciò sulla base dell’identificazione dell’Aemar oggetto dell’invettiva — come tale la sestina si configura — col signore della casa di Poitiers, succeduto nel 1189 al padre Guglielmo, dal quale ereditò il titolo di conte di Valentinois e di Diois, e morto nel 1230.

Il principale argomento dell’Appel poggia però sulla discussa questione dei rapporti fra Bertran de Born ed Arnaut Daniel. Riferendosi alla nota tradizione attestante un legame d’amicizia fra i due, l’Appel ricostruisce una prassi di imitazione per le rime da parte di Bertran. E dunque basterebbe a garantire la paternità di quest’ultimo la sola derivazione arnaldiana della sestina, in base alla parallela imitazione di Si·m fos Amors de joi donar tan larga, spunto per il bertrandiano Non puosc mudar un chantar non esparga (22). Questa tuttavia resta nel campo delle ipotesi, ed in realtà ripugna attribuire a Bertran de Born (il quale, è vero, sovente non lavora di cesello ma è pur sempre poeta di alta caratura) una imitazione «efferata» (23) com’è questa sestina, nella quale davvero nessun elemento è dato riconoscere che riconduca al signore di Altaforte. Essa è, più probabilmente, il prodotto di un poeta di qualità non eccelse il quale, versificando, suole imitare questa o quella maniera alla moda. Spesso lo fa con garbo, ma resta in questo caso schiacciato dalla difficoltà del mezzo espressivo (24). Ma infine, la miglior confutazione della tesi sin qui discussa viene dall’Appel stesso il quale, nell’edizione di Bertran de Born, non include la sestina neppur fra i componimenti di incerta attribuzione (25).

Veniamo ora a parlare più distesamente dello sfondo storico nel quale è collocabile la sestina, grazie alle pur parche indicazioni contenute nel testo. Si tratta di una serrata invettiva rivolta ad un n’Aemar, il cui titolo di conte risulta dal v. 23 (26), al quale si augurano morte e rovina (vv. 11s.) per la sua malvagità. Gli vien contrapposto il bon prevost, suo zio, modello di virtù. Resta oscura l’identità del terzo personaggio menzionato (Mon-Berart al v. 31, congetturato dal Bertoni su mont berart di a¹ ed inteso come senhal). Il Bertoni proponeva potesse trattarsi di Raimondo VI conte di Tolosa, definendo però egli stesso arbitraria la propria congettura.

Dallo Chabaneau e poi dal Bertoni, l’Aemar ed il bon prebost della sestina sono stati identificati, rispettivamente, con Aemar II di Poitiers (1189-1230), figlio di Guglielmo I di Poitiers e con Eustachio, fratello di quest’ultimo, che fu per alcuni decenni prevosto della cattedrale di Valenza (Valence, Drôme) (27). Solo Gouiran², nel tentativo di annettere la sestina al corpus bertrandiano — tentativo che egli stesso deve infine confessare fallito, concludendo per l’incertezza dell’attribuzione — si spinge sino a negare, come neppure l’Appel s’era arrischiato a fare, l’identificazione di Aemar e del prevosto con i due personaggi della casata di Poitiers. Egli preferisce, ai vv. 23s., la lezione di a¹ e stampa: Ai! Com savais es cel qi s’amor intra |De ren ab lui, supponendo «qu’un copiste a vu dans l’adverbe com, suivi d’un mot commençant par s-, un substantif, a pensé avoir affaire à une apostrophe: coms savais et a remplacé vos par lui [sic]». Si sarebbe così originata la lezione di DªH, viziata però da un’incoerenza logica che tradirebbe la sua natura di corruttela (28). Ciò detto, egli crede d’aver mostrato «que la base même de l’argumentation de Chabaneau était fausse» e che «dès lors, rien ne s’oppose plus à ce que Adhémar appartienne au monde aquitain et non à celui du Diois et du Valentinois». Ma è difficile restarne persuasi, poiché non è avanzata nessuna ipotesi alternativa. Personalmente ritengo invece che il fondamento dell’identificazione non sia neppur scalfito: anzitutto, è difficile non ammettere col Bertoni che, nel luogo citato, per aplografia si sia mutato coms savais in com savais, sotto la penna di un copista che non avesse presente il riferimento storico; mentre mi pare alquanto improbabile che accadesse il contrario. Se poi si volesse concedere che il testo di DªH non appaia perfettamente piano — ma in realtà il concetto ivi espresso è difendibile: più strettamente ci si lega ad uno scellerato e più se ne viene corrotti — va però osservato che anche la lezione di a¹non è senza difficoltà. La traduzione che ne dà il Paden («how miserable is the man who enters in any friendship with him») può intendersi solo ammettendo un anacoluto mentre quella del Gouiran («Il faut être bien misérable pour placer si peu que ce soit son affection en lui») impegnerebbe almeno a produrre riscontri per l’uso transitivo di intrar in a. prov. (29). Ma aldilà di questo, la base della duplice identificazione è ben più salda, risultando dal perfetto accordo degli elementi ricavabili dalla sestina con il panorama storico ricostruibile attorno ai due personaggi in base ai documenti disponibili, panorama che in quanto segue mi propongo di illustrare.

Questi versi, in cui si prende posizione netta per il prevosto di Valenza biasimandone il nipote, sembrano presupporre un conflitto fra i due e, benché di tale conflitto non siamo direttamente informati da alcuna fonte, l’ipotesi è più che probabile se si considerano le condizioni politiche della regione a cavallo fra i secoli XII e XIII.

I Poitiers detennero fin dal 1125 all’incirca il titolo di conti di Valentinois, al quale aggiunsero successivamente quello di conti di Diois (30). Fu un Aemar ad acquisire alla casata queste due contee, attraverso il matrimonio con la contessa ereditiera di quelle terre, Véronique de Marsanne (31). Dal matrimonio nacque Guglielmo I di Poitiers (1158-1189), che resse le due contee sino al 1189 o ad una data di poco anteriore. Nel giugno del 1189 infatti il figlio di lui, Aemar II, rese omaggio a Raimondo V conte di Tolosa, dichiarando di tenere in feudo da questi il Diois ed il Valentinois (32). Aemar II ebbe da Philippe de Fay, signora della Voulte, un figlio di nome Guglielmo, premortogli nel 1226. Aemar morì di lì a quattro anni, nel 1230, e nel titolo di conte gli successe il nipote Aemar III (m. 1277), figlio di Guglielmo II e di Flotte de Bérenger, che ricevette l’investitura da Raimondo VII conte di Tolosa nel 1239 (33).

Per quanto riguarda l’organizzazione ecclesiastica della regione, la diocesi di Valenza era in quel periodo, come quella di Die, suffraganea dell’arcivescovato di Vienne (34). Il vescovo di Valenza era signore temporale della sua città episcopale, e s’intitolava dal 1150, per investitura imperiale, «Episcopus et comes Valentinus». Nel 1157 ricevette dall’imperatore Federico Barbarossa i privilegi di sovranità su tutte le sue terre, i quali furono in seguito costantemente rinnovati (35).

In tale situazione di condominium i rapporti fra i due poteri dovevano comportare frequenti attriti, e realmente dalle carte dell’epoca è possibile raffigurarsi i complessi equilibri fra la casa di Poitiers, da un lato, e le due diocesi di Valenza e di Die, dall’altro. Nel 1163 Guglielmo di Poitiers fece omaggio al vescovo di Die dei due castelli di Sauzet e di Gigors, nonché di tutti i suoi possedimenti nel territorio della diocesi, dichiarando di riceverli in feudo dal vescovo (36). Il 30 luglio 1178 l’imperatore Federico Barbarossa investì ad Arles il vescovo Roberto di Die di tutti i feudi dipendenti dalla sua chiesa, ivi compresi i possessi di Guglielmo di Poitiers, menzione che sarà stata resa necessaria dall’indocilità del conte (37). Al 24 novembre 1214 è datata un’epistola di Federico II, «Romanorum rex et rex Sicilie», all’indirizzo di A(demarus) de Pictavia (Aemar II), in cui si confermano le disposizioni di Federico I a proposito della dipendenza dalla diocesi di Die dei possessi della casa di Poitiers in quel territorio, e si diffida Aemar dall’esigere pedaggi all’interno di tale diocesi (38).

I rapporti con la diocesi di Valenza furono ugualmente conflittuali e sfociarono a più riprese in aperte ostilità. Al 1158 risale un «Edictum Frederici I imperatoris de dissidiis inter episcopum et populum Valentiae», che attesta direttamente uno stato di tensione a breve distanza di tempo dalla conferma al vescovo Odo dei privilegi di sovranità, avvenuta nel 1157 e destinata ad essere rinnovata il 13 agosto 1178, sempre ad opera del Barbarossa (39). In seguito, la cronaca dei vescovi di Valenza riporta notizia della cacciata del vescovo Guglielmo di Savoia (1229), avvenuta «perfida rebellione civium Valentinensium, qui illum episcopum et dominum suum a civitate ejiciunt» (Chron. Val (b), p. 66). Qui la casa di Poitiers non è menzionata come responsabile della ribellione al vescovo, ma essa appare direttamente coinvolta in analoghe vicende verificatesi sotto i due vescovi successivi:

 

Successit Guillermo Philippus de Sabaudia, qui bellum habuit cum Aymario de Pictavia, comite Valentinensi et Diensi (vexabat enim semper episcopum dictus comes) (ivi p. 66);

Insultus tam varii et frequentes in Guidonem [Guido de Montelauro, vescovo di Valenza dopo Filippo] excitati, quare ut potentiæ tyrannorum resisteretur, maxime Aymarii de Pictavia, sedes Valentinensis et Diensis unitæ sunt anno 1275, Viennæ sub Gregorio Xº papa (ivi p. 67) (40).

 

Queste notizie riguardano il periodo in cui le due contee furono rette da Aemar III, ma la tensione fra i due poteri dovette essere endemica, sin dalla creazione delle sue premesse con le due contrapposte investiture. A tal punto che una tradizione orale del luogo, diffusa e durevole, riconnetteva lo stesso matrimonio della contessa di Marsanne con Aemar I, donde originò il dominio dei Poitiers su quelle terre, alla necessità di difendersi dalle aggressioni del vescovo di Valenza (41).

Nella gerarchia ecclesiastica della diocesi di Valenza, il prevosto della cattedrale era figura di primo piano. Insieme ad un decano, all’abate di Saint-Félix, ad un arcidiacono e a dieci canonici era membro del capitolo di Valenza, ed a questa dignità cumulava quella di abate di Bourg-lès-Valence, del quale borgo era signore temporale assieme al capitolo della locale chiesa di S. Pietro, antica abbazia secolarizzata nel sec. IX (42).

La carica di prevosto fu ricoperta, si è detto, per alcuni decenni da Eustachio, fratello cadetto di Guglielmo I di Poitiers. Egli era prevosto nel 1183, anno in cui dispose una permuta di decime concedendone alcune proprie alla ecclesia Burgi e ricevendone altre in cambio (43). Altre carte lo menzionano come prevosto negli anni 1188, 1189, 1210 (44), mentre nell’ottobre 1220 il Vescovo di Valenza Geraldus dirime una questione fra la «ecclesia Burgi» e «Lambertus præpositus Valentiæ». Nel documento si menziona Eustachio come già scomparso: «quæ ... canonici possidebant tempore Heustachii præpositi» (45).

Ciò offre un terminus ante quem per la sestina. Se essa rispecchia veramente, come da più parti si è pensato, un contrasto fra i due nobili consanguinei schierati in campi avversi — il che è senz’altro verosimile, visto il collimare dei dati cronologici disponibili e data la situazione politica della regione, di cui sin qui abbiamo detto — dev’essere datata entro il secondo decennio del sec. XIII. Il che dà modo di precisare la formulazione del Bertoni, che ascriveva il componimento «all’alba del sec. XIII» (p. 39). D’altro canto, questo dato si accorderebbe con la collocazione cronologica relativa ipotizzata dal Beltrami per la sestina all’interno del canzoniere di Guilhem de Saint Gregori: la sua manifesta inferiorità stilistica rispetto a Be.m platz ed a Razo e dreyt suggerisce che possa trattarsi di un esercizio giovanile (46).

Sia Aemar che il prevosto ci sono noti anche dalla tradizione lirica provenzale. Al Prebost de Valensa è attribuita una tenzone con Savaric de Mauléon, Savaric, e·us deman (BdT. 384.1), composta entro il 1219, datazione che non contraddice le attestazioni documentarie sopra prodotte a proposito del prevosto Eustachio (47). La prima tavola di C gli attribuisce inoltre — rispettivamente alle cc. 14r, 10r e 11r — i tre componimenti 273.1a (Jordan Bonel), 457.12 (Uc de Saint Circ), 245.1 (Guiraut de Luc).

N’Aemar tenzona con Perdigon e Raimbaut de Vaqueiras: Senher n’Aymar, chauzes de tres baros BdT. 392.15; 4.1; 370.12a (l’inscriptio di Dª recita N’Aimars de Peiteus); ed. Linskill IX, datata al 1196 durante il viaggio in Provenza di Raimbaut, che è successivo al conferimento al trovatore della dignità di cavaliere da parte di Bonifacio di Monferrato (fine 1194/inizi 1195), dal momento che nella tenzone si fa riferimento alla mutata posizione sociale di Raimbaut. Secondo un’ipotesi di Hoepffner, accolta dal Linskill, Perdigon e Raimbaut potrebbero essersi incontrati alla corte di Aemar.

Aemar è ricordato ancora in due altre poesie di Raimbaut de Vaqueiras: Leus sonetz (BdT. 392.22, probabilmente del 1189, ed. Linskill II) vv. 23s.: «que n’Azemars lor [scil. alla casata di Baux] fui, | de Peitieus, tot enans»; e Tuich me pregon, engles, qe vos don saut (BdT. 392.31; 209.1; 392.15a) ed. Linskill XXVII: n’Aimars ai vv. 17 e 24 (48).

Ad un N’Azemar è inviato anche il sirventese di Peire Cardenal, Un sirventes fauc en luec de jurar (BdT. 335.66, ed. Lavaud XXXV, v. 29 : En Bostía, digatz m’a N’Azemar | Que, si se vol defendre de clersía), nel quale a costui sono impartiti consigli per ben potersi difendere dall’avidità dei chierici. Il sirventese è datato dal Lavaud (p. 218) «entre 1230 — plus probablement 1235 — et 1237» in base al fatto che il giullare Bostías figura come inviato al delfino di Viennois nel sirventese Qui se vol tal fais cargar que·l fais lo vensa (BdT. 335.44, ed. Lavaud XXI, v. 41), anch’esso contro l’avidità dei chierici, databile agli anni 1235-37. In quel periodo il trovatore parteggiò per il delfino di Viennois nella contesa che lo oppose all’arcivescovo di Embrun per il territorio di Gap (49). Nel sirventese inviato a n’Azemar — che, se è da accogliersi la datazione proposta dal Lavaud, è da identificarsi non con Aemar II ma col nipote Aemar III, che gli successe nel 1230 — sarà forse da vedere un’analoga presa di posizione sulle vicende ora ricordate delle contee di Valentinois e Diois, che videro i conti di Poitiers ed i vescovi locali scontrarsi per molti decenni. Se è così esso costituisce come il pendant della sestina, rappresentando in versi il punto di vista opposto circa il conflitto fra i due poteri.

 

(Cf. II. Nueyt e iorn ai dos mals senhors).

 

Note:

*Quest’articolo è stato presentato come seminario a Pisa (maggio 1987) nel quadro del corso di Filologia romanza del prof. P. G. Beltrami. ()

1. BdT. = A. Pillet e H. Carstens, Bibliographie der Troubadours, Halle (Saale), Niemeyer 1933. Altre abbreviazioni correnti usate nel seguito sono: LR = F.-J.-M. Raynouard, Lexique roman, Paris 1836-1845 [rist. Heidelberg, Winter]; SW = E. Levy, Provenzalisches Supplement-Wörterbuch, Leipzig, Reisland 1894-1924. ()

2. Edito in O. Soltau, «Die Werke des Trobadors Blacatz», ZRPh 23 (1899), pp. 201-48 (v. p. 237) e 24 (1900), pp. 33-60 (v. p. 47). ()

3. Edizioni: C. Appel, «Petrarka und Arnaut Daniel», ASNSL 147 (1924), pp. 212-35; M. Perugi, Trovatori a Valchiusa. Un frammento della cultura provenzale del Petrarca, Padova, 1985; P. G. Beltrami, «Appunti su Razo e dreyt ay si.m chant e.m demori», Rivista di letteratura italiana 5 (1987), pp. 9-39. ()

4. Il sirventese si trova edito insieme alle opere di Bertran de Born, talora incluso nella sezione dei versi di dubbia attribuzione: cfr. C. Appel, Die Lieder Bertrans von Born, Halle (Saale) 1932, num. 40, pp. 92 ss. (fra i componimenti dubbi); G. Gouiran, L’amour et la guerre. L’oeuvre de Bertran de Born, Aix-en-Provence 1985, num. 37, pp. 723-45 [Gouiran¹]; G. Gouiran, Le seigneur-troubadour d’Hautefort. L’oeuvre de Bertran de Born, seconde édition condensée, Aix-en-Provence, Publications de l’Université de Provence 1987, num. 37, pp. 515-27 [Gouiran²]; W. D. Paden Jr., T. Sankovitch e P. H. Stäblein, The Poems of the Troubadour Bertran de Born, Berkeley-Los Angeles-London 1986, num. 30, pp. 334 ss. In SMV 34 (1988), pp. 27-68, ho tentato di mostrare come da una razionalizzazione dei rapporti stemmatici l’attribuzione a Guilhem risulti corroborata a scapito di quella usuale a Bertran de Born. ()

5. Cfr. Appel, «Petrarka und Arnaut Daniel» cit. Questo parere è seguito dal Perugi, Trovatori cit., p. 40, che però attribuisce la canzone a Guilhem de Murs. ()

6. Circa la nota ripresa da parte del Petrarca, che chiude la prima strofa di Lasso me (LXX, 10) con l’incipit di Razo e dreyt («Drez et rayson es qu’ieu ciant e.m demori»), cfr. Appel, «Petrarka» cit.; Perugi, Trovatori cit.; Beltrami, «Appunti» cit., e soprattutto M. Santagata, «Petrarca e Arnaut Daniel (con appunti sulla cronologia di alcune rime petrarchesche)», Rivista di letteratura italiana 5 (1987), pp. 40-89. Si è ipotizzato che Be.m platz (vv. 9 s. «qan vei per campaigna rengatz | cavalliers e cavals armatz») sia riecheggiata in RVF CCCXII, 3 «né per campagne cavalieri armati»; cfr. M. Scherillo, Il canzoniere di Francesco Petrarca, Milano, Hoepli 1908², p. LXIII, n. 2 e F. Suitner, «Due trovatori nella Commedia (Bertran de Born e Folchetto di Marsiglia)», Atti Accad. Naz. dei Lincei, s. VIII, vol. 24 (1980), pp. 575-645 (alla p. 590), il quale argomenta inoltre che Dante, in Inf. XXVIII, descrivendo la pena cruenta dei seminatori di discordia fra cui è Bertram del Bormio, abbia presente Be.m platz (p. 594). ()

7. L’aver tenzonato Guilhem con Blacatz (BdT. 233.5) permette di situare cronologicamente la sua produzione poetica. Blacatz morì nel 1236 e, fra i suoi versi, quelli databili si collocano fra il penultimo decennio del sec. XII (1190-95: BdT. 97.3 e 97.4) ed il terzo decennio del secolo successivo (1221 per 97.1 e 1220-28 per 97.2) secondo O. Soltau, «Die Werke des Trobadors Blacatz», cit. ZRPh 23, pp. 216 ss. Nello stesso periodo va collocato Guilhem de Saint Gregori: cfr. C. Chabaneau, Les biographies des troubadours en langue provençale, Toulouse 1885, pp. 151 s. ()

8. Questa la tesi sostenuta da K. Lewent, «Zur provenzalischen Bibliographie (Gr. 461,165 und Gr. 233,1)»,ASNSL 130 (1913), pp. 324-34, secondo cui, anzi, Guilhem sarebbe stato presente nella cerchia di Blacatz in qualità di giullare. Recentemente Pietro G. Beltrami ha dedicato due studi ai versi ed alla figura del trovatore, dando corpo all’ipotesi del Lewent: «Appunti» cit. e «Remarques sur Guilhem de Saint Gregori», relazione inviata al II congresso AIEO, Torino 1987 (che leggo in dattiloscritto). Ad essi si rimanda per ogni ulteriore dettaglio circa le opere di Guilhem (questioni di attribuzione, collocazione cronologica, ecc.). ()

9. Nel caso della sestina si dispone di due edizioni recenti che non costituiscono però complessivamente un significativo progresso, rispetto all’ed. Bertoni, né sotto il profilo testuale né per quanto concerne il commento. ()

10. L. Gauchat e H. Kehrli, «Il Canzoniere provenzale H (cod. vaticano 3207)»,in SFR 5 (1891), pp. 341-568. Segnalo qui alcune imperfezioni nella trascrizione della sestina, num. 136 del canzoniere, ivi contenuta alla p. 491: v. 23 na coms sauais per ha c.s., v. 27 e si mintres (in realtà e sieu intres), v. 29 m’es bon pretz dinz sa cambra per met ...ca(m)bra. Al v. 22 l’apparato del Bertoni, che si fonda sulla trascrizione di Gauchat e Kehrli, registra erroneamente en sa cort H, mentre la trascrizione reca es s. c., che effettivamente si legge in H. ()

11. L’apparato di Gouiran² contiene alcune imprecisioni: v. 4 malversta Dª per malueistaz, v. 11 durja verja per duria veria, v. 22 El malvestatz DªH per El maluestaz Dª, e maluestatz H. ()

12. Una trascrizione completa si legge ora in M. Careri, Ricerche sul canzoniere provenzale H (Vat. Lat. 3207), Tesi di laurea, Roma 1985 [in pubbl. nella Collana di Studi, Testi e Manuali del Dip.to di Studi Romanzi dell’Università di Roma]. Mi sono avvalso di tale trascrizione, conducendo inoltre una verifica autoptica sul codice vaticano. ()

13. Buona l’interpretazione data da Gouiran² (s’alum ‘si fa luce’) della lezione di a¹ sa lum. Ma va stampato s’alum’ en chambra, con elisione, trattandosi indubitabilmente di forma di I coniug. (LR IV 104, SW I 53 ed anche Tobler-Lommatzsch I 318). Il Paden adotta invece una innecessaria soluzione compromissoria, forzando il sa di a¹ in un fa nient’affatto piano dal punto di vista linguistico, pur in presenza di due lezioni corrette. ()

14. L’inserzione di un tratto dialettale in due manoscritti redatti in ambiente linguisticamente omogeneo potrebbe a priori considerarsi poligenetica e dunque non congiuntiva. Nel caso specifico mi pare però da escludere come altamente improbabile la possibilità di un’inserzione indipendente da parte di due copisti di un unico dialettalismo identico, nel medesimo punto del testo. L’affricata dent. sonora dal lat. (—) I̯̯— (e (—) Ge/i —, (—) GI̯̯—, (—)DI̯̯—) è esito comune ai diall. italiani settentrionali antichi, rispecchiantesi di regola nelle scriptae corrispondenti. Tale tratto può qui considerarsi venetismo in base a quanto indipendentemente noto circa la storia esterna e la generale facies linguistica dei due canzonieri. ()

15. La «costellazione dei piani medi ε» (già individuata dal Gröber), nella nomenclatura di D’A. S. Avalle, La letteratura medievale in lingua d’oc nella sua tradizione manoscritta, Torino 1961, pp. 97-112. Su H e la sua collocazione geografica cfr. G. B. Pellegrini, «Di un venetismo alpino delleVidas nel codice H», in Archivio per l’Alto Adige 51 (1957), pp. 253-62 [ora in Id., Studi di dialettologia e filologia veneta, Pisa 1977, pp. 111-9], da integrarsi con la correzione apportata in Id., «Appunti su alcuni italianismi (venetismi) delle biografie trovadoriche. A proposito dell’edizione di G. Favati», Atti Ist. Veneto 121 (1962-63), pp. 442-66 [in Studi cit., p. 103]; G. Folena, «Tradizione e cultura trobadorica nelle corti e nelle città venete», in AA.VV., Storia della cultura veneta, vol. I, Vicenza, Neri Pozza 1976, pp. 453-562, a p. 461, ed ora soprattutto M. Careri, bn, contenente in particolare un’approfondita analisi linguistica delle glosse di copista leggibili nel canzoniere. Su D v. il riepilogo in F. Pirot, Recherches sur les connaissances littéraires des troubadours occitans et catalans des XIIe et XIIIe siècles. Les «sirventes-ensenhamens» de Guerau de Cabrera, Guiraut de Calanson et Bertrand de Paris, «Memorias de la R. Academia de Buenas Letras de Barcelona», 14 (1972), pp. 80 ss. e l’introduzione di D’A. S. Avalle ed E. Casamassima in Il Canzoniere provenzale estense, riprodotto per il Centenario della nascita di Giulio Bertoni, (Subsidia al Corpus des Troubadours), parte I, Modena 1979. ()

16. Cfr. G. Bertoni, Il canzoniere provenzale di Bernart Amoros. I: Complemento Càmpori, Friburgo, Gschwend 1911. ()

17. Le frequenti corruzioni di a¹ si inquadrano facilmente nella tipologia dei travisamenti grafici ad opera del copista Jacques Teissier de Tarascon, delineata dal Bertoni, Il canzoniere cit., pp. XXIV ss. ()

18. La forma metrica della sestina è invenzione di Arnaut, come ha riconosciuto la tradizione critica a partire da Dante, De vulg. eloq. II, X, 2 (nel passo di Dante, come precedente letterario della sestina Al poco giorno è menzionata non la sestina di Arnaut, bensì Si·m fos Amors de joi donar tan larga). Fra i molti studi dedicati all’indagine dei precedenti di questa forma metrica nella tradizione poetica provenzale ed in quella latina medievale, nonché all’evoluzione del genere, cfr. G. Mari, «La sestina di Arnaldo, la terzina di Dante», RIL 32 (1899), pp. 953-85; F. J. A. Davidson, «The origin of the sestina», MLN 25 (1910), pp. 18-20; A. Jenni, La sestina lirica, Berna 1945; J. Riesz, Die Sestine, München 1971; Au. Roncaglia, «L’invenzione della sestina», Metrica 2 (1981), pp. 3-41. ()

19. Cfr. E. Levy, Der Troubadour Bertolome Zorzi, Halle (Saale) 1883, p. 68, num. XI, v. 34. Data la storia di questa forma metrica — per quanto ci è noto, Guilhem e Bertolome furono gli unici a riprenderla da Arnaut con le medesime parole rima — mi pare assai probabile che il veneziano rimandi puntualmente a Guilhem de Saint Gregori. La sestina di Bertolome è d’argomento amoroso, come quella di Arnaldo e diversamente da quella di Guilhem: viene implorata l’ammissione alla chambra dell’amata, e fra gli argomenti atti a persuadere è enunciata la professione d’amore in questione (v. 34). In essa la dedizione amorosa del poeta è posta a contrasto con l’odio nutrito da Aemar (protagonista negativo di 233.2: cfr. oltre) per lo zio, designato attraverso una locuzione antifrastica. Se ciò è vero, viene ad assumere maggior spessore il gioco intertestuale dello Zorzi con i precedenti del genere, additato da Au. Roncaglia, art. cit.,p. 41 a proposito del v. 18 «com Perlesvaus tro qu’anet a son oncle». Verso che, egli mostra, rimanda alla seror de mon oncle arnaldiana (v. 19), corroborandone l’ipotizzata derivazione da un luogo del Conte du Graal di Chrétien de Troyes. Che lo Zorzi possa qui far riferimento a Guilhem de Saint Gregori è eventualità non presa in considerazione dal Levy, p. 88, che non individua, nella nota al v. 31, alcun precedente letterario («Ich vermag über Aimiers und seinen Onkel keine Auskunft zu geben»), nonostante egli leggesse la sestina di Guilhem in MG, nº 940, come risulta da Levy, p. 28. G. Folena, art. cit., p. 557 ritiene invece che Aimiers sia Aimeric de Narbonne. In tal modo, le due menzioni di Perlesvaus e di Aimiers si configurerebbero come generici «exempla romanzeschi» e certo, nel secondo caso, sarebbe facile pensare che la coppia di zio e nipote qui richiamata potesse essere una fra le paradigmatiche dell’epica galloromanza, quella composta da Girart de Vienne ed Aimeric de Narbonne. Si dovrà tuttavia convenire della maggiore ovvietà, della minor pregnanza di questa interpretazione alla quale osta inoltre una difficoltà linguistica. Così come lo si legge in IKd, Aimiers (pur con la vocale tonica dittongata) va ricondotto al germ. Hadamar (< *Hadumar), donde a. fr. Aimer ed a. prov. Azemar, Aemar (cfr. W. Kalbow, Die germanischen Personennamen des afrz. Heldenepos und ihre lautliche Entwicklung, Halle (Saale), Niemeyer 1913, pp. 23 s., 89) tipo onomastico distinto da Haimrich > Haim(e)ricus, evolutosi nell’a. prov. Aimeric, da cui l’a. fr. Aimeri (ivi, pp. 79, 107s). Fra le varianti attestate del nome dell’eroe narbonese (Aimeri, Aymeri, Aimeric, Aymeric: cfr. R. Lejeune, «La question de l’historicité du héros épique Aimeri de Narbonne», in Ead., Littérature et société au moyen âge, Liège 1979, pp. 3-14) non ve ne sono di formalmente ravvicinabili all’Aimiers della sestina di Bertolome Zorzi. Anzi, in quel ciclo epico compaiono più personaggi a nome Aymer, uno dei quali è Aymers li Chetis, sesto figlio di Aymeri de Narbonne (cfr. Aymeri de Narbonne, éd. L. Demaison, 2 voll., S.A.T.F., Paris, 1887, v. 4590; Aliscans, Kritischer Text von E. Wienbeck, W. Hartnacke, P. Rasch, Halle (Saale) 1903, v. 2601) e la distinzione fra i due tipi onomastici (Aymer e Aymeri) è ben salda. Pertanto, se ad esempio in a¹ 291 Ademar de Rocaficha è citato, nella rubrica di BdT. 5.1, come Aimeric de Rochafiza (un caso affatto isolato di scambio, come risulta dalle schede della BdT.) si dovrà ritener questa un’erronea sostituzione fra due nomi distinti ad opera di un copista, e non certo una scelta fra possibili varianti di un medesimo nome. Ma chi volesse leggere Aimeri nell’Aimiers del nostro passo — postulando una confusione fra i due nomi che qui dovrebbe essere di langue (o perlomeno, più restrittivamente, d’autore) in quanto non si può supporre l’alterazione di un originale *Aimeric, impossibile per il metro — resterebbe in obbligo di produrre documentazione comparativa a conforto di tale lettura. Il terminus ante quem che la citazione dello Zorzi fornisce per 233.2 è ridondante, essendo troppo bassa per interessarci la data in cui Bertolome redige la sua imitazione che, priva di appigli cronologici precisi, si colloca genericamente come le altre sue opere durante la prigionia genovese iniziata nel novembre del 1266; cfr. Levy, pp. 5 s.; O. Schultz[-Gora], «Die Lebensverhältnisse der ital. Trobadors», ZRPh 7 (1883), pp. 177-235 alle pp. 226-9; V. De Bartholomaeis, Poesie provenzali storiche relative all’Italia, Roma 1931, pp. 238 e 241; Folena, art. cit., pp. 539 ss. ()

20. K. Lewent, art. cit., p. 331, n. 3. ()

21. Cfr. la discussione in Beltrami, «Appunti» cit. che conclude per la paternità di Guilhem de Saint Gregori. È da notare che un’eventuale spiegazione autoschediastica dell’origine del nome di questo trovatore potrebbe applicarsi solamente al luogo di C in cui, con attribuzione a G. de sant gregori, è contenuta Razo e dreyt ay si.m chant e.m demori dove, al v. 46, si legge «fe que deg Saynt Gregori». Non potrebbe però applicarsi, una tale spiegazione, agli altri luoghi sopra citati in cui canzonieri trobadorici riportano questo nome. ()

22. La discussa questione dell’amicizia fra Bertran de Born ed Arnaut Daniel trae origine dalla glossa marginale che, nel canzoniere H (c. 12b, 11), così spiega il senhal contenuto nell’invio della sestina arnaldiana (XVIII, 39): «[Dezirat] idest a’n Bertran de Born, ab cui se clamava Deszirat». La notizia fu accreditata da G. M. Barbieri, Dell’origine della poesia rimata (ed. Tiraboschi), Modena 1790, p. 97: «Bertran de Born e Arnaldo Daniello furono così amici, che insieme si chiamavano l’un l’altro Dezirat, come nota una chiosa sopra la chiusa della sestina di Arnaldo». Il Bertoni, G. M. Barbieri e gli studi romanzi nel secolo XVI, Modena 1905, p. 42, e «Per la storia del cod. H (vat. 3207)», RLR 50 (1907), pp. 45-8, a p. 46 sostiene che Barbieri abbia visto H, posseduto dal Castelvetro: questo darebbe la certezza che l’informazione fornita dalla glossa in quel canzoniere è in realtà singularis, e che la notizia del Barbieri ne dipende direttamente. Non sono mancati assertori autorevoli dell’amicizia dei due trovatori, fra cui l’Appel ed il Lavaud, ma ha ragione G. Toja, Arnaut Daniel, Canzoni, Firenze 1960, pp. 9 s. e 382 s. quando conclude che non si dispone a questo proposito di nessun elemento certo. Si osservi infine che nelle recenti edizioni di M. Perugi, Le canzoni di Arnaut Daniel, Milano-Napoli 1978, vol. II, p. 634 e di M. Eusebi, Arnaut Daniel, Il sirventese e le canzoni, Milano 1984, p. 136, il senhal scompare: nella prima è preferita la variante son desirar, mentre l’Eusebi congettura sul tradito son desirat un son cledisat ‘suono contesto a graticcio’. ()

23. Così, pittorescamente, Michele Scherillo, Il canzoniere di Francesco Petrarca, Milano, Hoepli 1908², p. LXIV. Ed è commento giusto. Il Lewent, art. cit., p. 331, invece, gratifica il Nostro, forse un po’ troppo generosamente, della qualifica di «nicht ungeschickten Nachahmer der Arnaut Danielschen Sextine». ()

24. Il modesto valore della sestina di Guilhem, che rientra a buon diritto nella categoria degli «aridi precedenti provenzali» della sestina italiana (A. Jenni, La sestina lirica cit., p. 36), risalta in tutta evidenza da un confronto anche sommario con il modello. L’intenzione imitativa è attestata, oltre che ovviamente dalla ripresa della forma metrica, anche a livello sostanziale da alcune riprese lessicali puntuali: lo ferm voler, che apre la sestina arnaldiana, ritorna in Guilhem al v. 29 (q’ab ferm voler met bon pretz dinz sa chambra) ed al v. 35 (s’ab f. v. de tot bon pretz non s’arma). È ripresa l’idea della vicinanza espressa tramite la iunctura charn et ongla, peraltro banale e già passata in proverbio (Roncaglia, «L’invenzione della sestina» cit., p. 36): Arnaut (cit. dall’ed. Eusebi) v. 17 de lieis serai aisi cum carn e ongla (cfr. anche v. 21), Guilhem v. 30 et es ab lui aissi cum charns et ongla (cfr. anche il v. 2). La misura piena della differente levatura è data dalla diversa tensione del testo poetico, che in Arnaut reagisce alla rigidità del meccanismo metrico risultando in un’unità bene integrata in cui la durezza del mezzo stilistico enfatizza, anziché spegnere, le valenze figurali del testo, la sua strutturale poeticità. Particolarmente il ricorrere delle parole-rima in diverse e predeterminate disposizioni dà adito ad una investigazione, ad uno scavo delle possibili relazioni semantiche fra queste intercorrenti, arricchendo di significato il testo. Ed è poi da notare, col Roncaglia, art. cit., pp. 31 ss., come Arnaut di queste virtualità del mezzo — più alluse che sfruttate — si serva parcamente (a differenza di Raimbaut d’Aurenga, additato come diretto precedente tecnico), instaurando per ciò stesso una forte tensione che domina il componimento. Nulla di ciò nell’imitatore che, al contrario, dal mezzo è chiaramente soggiogato. Si osserva qui un totale appiattimento al grado zero, attraverso cui ogni scarto poetico è drasticamente cancellato: le difficili parole-rima, che in Arnaut sono talora inserite in γρίφοι dotti e danno vita ad immagini ricercate o impreviste, in Guilhem sono sempre piattamente e desolatamente denotative. In Arnaut oncle compare al v. 19 nella perifrasi la seror de mon oncle ‘mia madre’, al v. 26 in una ricercata locuzione designante il genere umano (pus ... de n’Adam foron nebot e oncle); verja ricorre nelle similitudini al v. 32 (s’enongla | mos cors en lieis cum l’escors’ en la verja) e al v. 11 (no.m fremisca ... | aissi cum fai l’enfas devant la verja). E compare nell’oscuro e dotto riferimento cronologico pus floric la seca verja (v. 25), variamente interpretato. Si ha invece in Guilhem univocità costante della designazione: la veria è sempre, ossessivamente, materialissimo strumento per battere altrui, e l’oncle sempre, non meno stucchevolmente, il prevosto zio di n’Aemar. ()

25. Alla paternità bertrandiana crede invece fino in fondo il Paden, che pubblica la sestina nell’edizione di Bertran de Born. Essa è considerata autentica — manca finanche la formula dubitativa — sulla base degli argomenti di Appel cui nulla di nuovo viene aggiunto. Ed agli stessi argomenti si richiama Gouiran che, nella seconda edizione di Bertran de Born, aggiunge con il nº 48, ma fra i componimenti di dubbia autenticità, per l’appunto Ben grans avolesa intra, già esclusa dalla precedente edizione. ()

26. La lezione è solo di DªH, ha coms sauais, mentre a¹ legge aicom sauais con differente sintassi. Non v’è dubbio che la prima sia la lezione buona (cfr. Bertoni p. 37). Ingiustificabile la condotta editoriale di Paden che stampa secondo a¹ (Ai, com savais es cel qi ...), ripetendo però, d’altro canto, le notizie biografiche su Aemar desunte dal Bertoni, senza dar conto (e neppure notizia) del fatto che il diverso assetto conferito al v. 23 fagocita il titolo di conte, tassello importante per l’identificazione del personaggio. Identificazione che il solo Gouiran² ha voluto negare (v. oltre). ()

27. Cfr. Chabaneau, Biographies cit., p. 88, n. 1, p. 120 e pp. 178 s. e U. Chevalier, Cartulaire de l’église de Die, in Documents inédits relatifs au Dauphiné, 2e vol., Grenoble 1868, p. 7, n. 10. ()

28. «La séquence en grant amor intra de ren ab vos [lez. di DªH] n’est pas logique: c’est l’existence d’un rapport et non son intensité qui est ici en question», Gouiran², p. 628. ()

29. Un uso non registrato nei lessici: cfr. LR III 567, SW IV 232, ed i gloss. in Appel, Prov. Chrest.6; Bartsch, Chrest. prov.6; Crescini, Manuale3. In a. fr. l’impiego transitivo/causativo — normale, come in generale per i verbi di moto, nella lingua moderna — è invece attestato, ma alquanto marginalmente: Tobler-Lommatzsch III 676. ()

30. Cfr. J. Brun-Durand, Dictionnaire topographique du département de la Drôme, Paris 1891, p. 404. Nel 1189 Aemar è investito di entrambe le contee, di cui già il padre Guglielmo era signore. ()

31. Queste notizie in Chevalier, Die cit., p. 7, n. 10. Del matrimonio con la contessa come origine della signoria dei Poitiers si riferisce anche in A. Du Chesne, Histoire genealogique des comtes de Valentinois et de Diois, Seigneurs de Saint Valier, de Vadans et de la Ferté, de la maison de Poitiers. Iustifiée par tiltres, histoires & autres bonnes preuves par André du Chesne Tourangeau, Geographe du Roy, in Histoire des ducs de Bourgongne de la Maison de France, Paris 1628, pp. 5 s. e append. p. 5, dove non è specificato il nome del Poitiers che acquisì quei domini. Di qui attingono la notizia C. De Vic e J. Vaissete, Histoire générale de Languedoc, Toulouse, Privat 1872 ss², III, p. 800, che identificano in Guglielmo I l’iniziatore della casata (cfr. oltre la nota 33). ()

32. Vic-Vaissete VI, p. 133 s. La carta relativa è pubblicata in VIII, num. XLV, coll. 395 s. Notizia dell’investitura dà anche, più succintamente, Du Chesne, op. cit., p. 7. ()

33. Du Chesne, op. cit.,p. 9; Vic-Vaissete VI, p. 710. Sempre nell’Histoire de Languedoc, altre informazioni sulla casa di Poitiers fra i secoli XII e XIII si ricavano da VI pp. 76, 133 s., 433 s., 486, 514. Da notare che in quest’opera il numero dinastico degli Aemar di Poitiers (il nome più frequente nella genealogia dei signori di Valentinois e di Diois) è diminuito di una unità: Aemar II (1189-1230) è detto Aemar I, Aemar III (1230-1277) è detto Aemar II, e così via. Questo perché gli autori desumono le notizie al riguardo principalmente dall’opera del Du Chesne, il quale non possedeva, come egli stesso esplicitamente dichiara, alcun documento che gli permettesse di rimontare a prima del regno di Filippo Augusto, ed in particolare non aveva notizia dell’Aemar padre di Guglielmo I: «Neantmoins le temps a celé & couuert iusques à present la memoire de ceux, lesquels ont precedé le regne de Philippe Auguste. Parquoy ie commenceray seulement cette Histoire par Aimar de Poitiers, qui viuoit sous le mesme Roy, le qualifiant pour cela premier du nom». Fissato convenzionalmente il punto d’inizio della dinastia, Du Chesne, pp. 5-7 ricapitola, senza dar loro gran credito, le diverse ipotesi circolanti sull’origine del casato, inclusa quella secondo cui esso rimonterebbe a Guglielmo IX d’Aquitania. In Vic-Vaissete I, p. 800 è ripresa quest’ipotesi, e si suppone che Guglielmo I di Poitiers, col quale è fatta iniziare la stirpe, fosse figlio naturale di Guglielmo IX. Nel seguito, onde non introdurre ulteriori oscurità, anche citando informazioni da queste due opere normalizzerò i numeri dinastici secondo quanto si legge in Chevalier, Chabaneau, ecc. (locc. citt.). Circa la morte di Aemar II e del figlio Guglielmo, le date sopra riportate si ricavano da Vic-Vaissete VI, p. 711. La morte di Aemar II è fissata al 1230 anche dallo Chabaneau, Biographies cit., p. 88, n. 1, e con lui da F. M. Chambers, Proper names in the lyrics of the troubadours, Chapel Hill (N. C.) 1971, p. 62. U. Chevalier, Répertoire des sources historiques du Moyen Age [rist. New York 1960], Bio-bibliographie I, col. 82 la fa risalire invece al 1239, probabilmente riferendosi alla data di investitura di Aemar III, ma rimanda al passo su citato di Chabaneau. Esistono tuttavia alcuni elementi che contrastano con la cronologia sopra riferita. Il Du Chesne, p. 8, collocava approssimativamente la data di morte di Aemar II negli anni 1215-1220 e riteneva, ma solo congetturalmente, che il figlio Guglielmo gli fosse succeduto. Il che potrebbe spiegare la distanza cronologica fra la morte di Aemar II (al più tardi nel 1230, cfr. anche oltre, n. 48) e l’investitura del nipote Aemar III (1239); si osservi inoltre che una carta, non datata, edita da Chevalier, Die cit., num. XXVIII, pp. 60 s. reca i sigilli di Guglielmo II e della madre («Willelmi de Peiteus et domine Philipe»). È però certo che Aemar II fosse ancora in vita almeno fino a tutto il secondo decennio del secolo. Durante la spedizione contro gli Albigesi egli prese dapprima partito per Raimondo VI di Tolosa, per poi arrendersi a Simon de Montfort, lasciandogli alcune piazzeforti in pegno d’obbedienza (cfr. Du Chesne, p. 7; Vic-Vaissete VI, p. 486). Al gennaio del 1218 risale un’epistola del papa Onorio III ad Aemar II, in cui questi è ringraziato per il sostegno offerto al Montfort (Vic-Vaissete VI, p. 514). In mancanza di elementi certi mi attengo a questo riguardo, sia pure con riserva, alla cronologia dell’Histoire de Languedoc. La questione perde tuttavia di rilevanza, per il problema che qui discutiamo, se si considera che, come si vedrà nel seguito, la data di morte del prevosto Eustachio (entro il 1220) ci riporta comunque per la sestina ad un datazione più alta. ()

34. Cfr. Brun-Durand, op. cit., pp. 402-4. ()

35. U. Chevalier, Chronique des évêques de Valence, in Documents inédits relatifs au Dauphiné, vol. II, Grenoble 1868, p. 34. Cfr. Gallia Christ. nova, vol. XVI, Paris 1865, instr. col. 103 (24 novembre 1157): «Fredericus I imperator jura Valentinensis episcopi confirmat». L’investitura del comitatus Valentiae ricevuta dal vescovo Odo è menzionata anche in un’altra e più dettagliata cronaca pubblicata, sempre dallo Chevalier, quasi un quarto di secolo dopo la succitata e a suo dire da questa indipendente: Description analytique du cartulaire du chapitre de Saint-Maurice de Vienne, suivie d’une appendice de chartes et Chronique inédite des évêques de Valence et de Die, publiées par le chanoine Ulysse Chevalier, Valence 1891 [Collection de cartulaires dauphinois II, 2]. La cronaca (che nel seguito sarà citata come Chron. Val. (b)), è alle pp. 61 ss., e dell’investitura si dice a p. 63. Il vescovo Falco beneficiò di un provvedimento analogo da parte di Arrigo VI, re dei romani, fra il 1190 e il 1191, e così il suo successore Umbertus de Mirabello, nel 1204, ad opera di Filippo di Svevia (cfr. Chron. Val. (b), p. 65). Federico II imperatore rinnovò i medesimi privilegi a vantaggio del vescovo di Valenza Guglielmo di Savoia nel 1238 (ivi, p. 66). ()

36. La carta relativa è pubblicata da U. Chevalier, Cartulaire de l’église de Die, in Docum. inéd. cit., pp. 35 s., num. XIII della raccolta. ()

37. Chevalier, Die cit., pp. 4-7, num. 1. ()

38. Chevalier, Die cit., num. III ter, pp. 17 s. ()

39. Cfr. Chron. Val. (b), p. 64. L’editto del 1158 si legge fra gli «Instrumenta ecclesiae Valentinensis» in Gallia christ. nova, vol. XVI, instr. col. 106. ()

40. Anche il Chron. Val. (a), pp. 34 s. informa, pur senza nominare esplicitamente Aemar III, su quel periodo di lotte che ebbe per conseguenza l’unificazione delle due diocesi derivata dalla necessità di contrapporre un’unica più compatta organizzazione ecclesiastica alla signoria unica delle due contee (tale unione si protrasse dal 1275 sino al 1687):

Eo autem tempore, commoti sunt nonnulli superbi tyranni diabolica invidia in augmentum ecclesiæ Valentinæ et ejusdem divini officii, qui nitebantur spoliare bonis temporalibus ipsam ecclesiam Valentinam atque Diensem, adeo ut WILLELMUS, filius Thomæ comitis Sabaudiæ, ac — PHILIPPUS DE SABAUDIA, vir strenuus, remanserint tantummodo electi, — donec GUIDO DE MONTELAURO electus, sanctitate ac virtutibus pollens, ut quotidie apparet, in præsenti ecclesia, contra tyrannorum vesaniam unionem ecclesiarum Valentiæ et Diæ per felicis recordationis summum pontificem Gregorium X sacrum concilium in ecclesia Lugdunensi celebrantem perficere curavit anno MCCLXXV.

Notizie storiche sui vescovi che ressero la diocesi di Valenza in quegli anni si ricavano, oltre che dalle citate cronache, da U. Chevalier, Notice chronologico-historique sur les évêques de Valence, d’après des documents paléographiques inédits, Valence 1867, pp. 7-10 e da U. Chevalier, Cartulaire du prieuré de Saint-Pierre-du-Bourg-lès-Valence, Paris 1875, pp. 17-9. ()

41. Tale tradizione fu raccolta nel 1421 allorché, a due anni dall’estinzione del ramo principale dei Poitiers con la morte di Luigi II, che non lasciò eredi legittimi, fu disposta un’inchiesta sulla situazione generale dei possedimenti della casa. Estratti delle deposizioni concernenti il punto in questione si leggono in Du Chesne, op. cit., append., pp. 3-5. ()

42. Cfr. Brun-Durand, op. cit.,p. 47 e p. 403. ()

43. Chevalier, Bourg cit., num. VI pp. 15-7: «... permutationem quam ecclesia Burgi fecit cum Heustachio». ()

44. Ivi, num. IX, pp. 19-21 (1188): si tratta di una donazione di Eustachio alla chiesa del Bourg, confermata dal vescovo Falco e dal prevosto medesimo; num. XIX, pp. 40-4 (settembre 1210): conferma da parte del vescovo di Valenza Umbertus di permute e donazioni precedenti «ab Heustachio nunc temporis preposito Valentino & abbate Burgensi». «E. Valentiniensis praepositi» figura per primo nella lista dei testimoni che, nel giugno 1189 a Saint-Saturnin (oggi Pont-Saint-Esprit, sul Rodano), presenziarono all’atto di omaggio reso a Raimondo V di Tolosa da Aemar in occasione della sua investitura a conte di Diois e di Valentinois; cfr. Vic-Vaissete, Hist. Languedoc, VIII, num. XLV, coll. 395 s. ()

45. Chevalier, Bourg cit., num. XXX, pp. 57-9. ()

46. Cfr. Beltrami, Remarques cit., p. 13. ()

47. Chabaneau, Biographies cit., p. 175; Beltrami, «Appunti» cit., p. 33. ()

48. Linskill a proposito di quest’ultimo luogo commenta in nota, riguardo all’identificazione di n’Aimars: «This is perhaps Adémar II of Poitiers, Count of Valentinois and Diois from 1188 to 1230, who died c. 1250 ... But the Adémar of this line may also be his grandson Adémar III, who took over the government of the county in 1239» (p. 271). L’incertezza circa l’identificazione del personaggio è dovuta al fatto che l’editore non crede, diversamente da quanto un tempo comunemente ammesso, che il senhal Engles possa qui riferirsi a Guglielmo IV di Baux (1182-1219, cfr. Chabaneau, Biographies cit., p. 88 e p. 148; J. Boutière e A. H. Schutz, Biographies des troubadours, Toulouse-Paris 1950, p. 385), come vogliono invece la razo e la rubrica di H (cfr. Linskill, pp. 38 s.). Col che cadrebbe, egli sostiene, la base per l’attribuzione di questi versi a Raimbaut de Vaqueiras. Le date contenute nella nota del Linskill contrastano con la cronologia che si è delineata sopra. Nel 1239, come si è detto, Aemar III ricevette l’investitura dal conte di Tolosa, e non si può in effetti escludere che a quell’anno, e non al 1230, vada fatta risalire la successione di questi ad Aemar II. Quanto alla data di morte di quest’ultimo, essa è collocata nel 1250 dal Linskill il quale par desumere tali informazioni da U. Chevalier, Mémoires pour servir à l’histoire des comtés de Valentinois et de Diois, Paris 1897. Non avendo potuto sinora vedere quest’opera debbo rimandare un pronunciamento definitivo limitandomi a segnalare la difficoltà che comporterebbe, a mio avviso, una datazione sì tarda della morte di Aemar II. Nella carta del 1163 su ricordata (Chevalier, Die cit., num. XIII, pp. 35 s.) registrante l’atto di omaggio con il quale Guglielmo I di Poitiers dichiarò di tenere in feudo dal vescovo Pietro II di Die tutti i territori da lui posseduti in quella diocesi, figura, terzo nella lista dei testimoni ed unico citato senza un titolo, un Ademarulus che è con tutta probabilità da identificare con il figlio di Guglielmo e suo futuro successore, Aemar II. Questi doveva dunque esser già a quell’epoca un giovanetto, e collocandone il trapasso nel 1250 — almeno un decennio, o forse due, dopo la successione dell’erede — si verrebbe ad attribuirgli una straordinaria longevità. Contrasta con l’informazione ricavabile dalla carta del 1163 la data di nascita di Aemar II (1170) — con ogni probabilità non più che congetturale — fornita da Georges de Manteyer, citato attraverso comunicazione per lettera da R. Lavaud, Poésies complètes du troubadour Peire Cardenal (1180-1278), Toulouse 1957, p. 221, a proposito di Un sirventes fauc en luec de jurar (su cui cfr. oltre). Nella storia di Provenza del Manteyer (La Provence du premier au douzième siècle, Etudes d’histoire et de géographie politique, Paris 1908) non è dato leggere notizie in proposito, e non so se l’Autore abbia altrove sviluppato questo argomento. ()

49. Lavaud, op. cit., p. 619. ()

 

 

 

 

 

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