UN SIRVENTES, SI POGUES, VOLGRA FAR
(BdT 401,9)
Raimon Gaucelm vuole offrire un saggio della sua arte nel comporre. L’esordio ha un avvio dimesso: «Un sirventes, si pogues, volgra far / quez agrades e plagues a la gen», in cui il poeta dichiara, con un poco credibile rincrescimento, di non sentirsi maestro di quel modo poetico fatto di parole raffinate, ricercate e convenienti, che raccoglie i favori e l’approvazione di tutti («ni sai que s’es trobars ab maiestria»). La sua poesia infatti è volta a ritrarre il mondo, gli uomini e i loro comportamenti, e con la riprovazione e il biasimo che ne conseguono, non si può riuscire graditi a tutti. Si appresta così a comporre un sirventese con cui darà dimostrazione di quale sia la sua maniera di poetare:
Aissi cum sai, en vuelh un acabar
de so qu’om ve per lo mon a prezen:
Egli coglie in questo modo l’occasione di esprimere alcune riflessioni di impronta moralistico-didascalica sul vivere secondo i principi del giusto e dell’onesto. Il sirventese pare infatti strutturato a risposte su questioni di carattere morale che egli si dispone a trattare strofa dopo strofa: è preferibile l’amicizia del ricco o del povero? è giusto biasimare il malvagio? è meglio parlare o tacere?
Il primo quadro d’attualità riguarda il comportamento del ricco a qui platz mot tolre mais que donar, la cui compagnia ogni home bo e valens dovrebbe accuratamente evitare, perché la sua frequentazione potrebbe trasformarsi in uno svantaggio ed arrecare perdita anziché giovamento. L’argomento si inserisce dunque in un ambito tradizionale della lirica trobadorico-giullaresca: il motivo della critica ai ricchi avari, «escas e tenen», che è il tema centrale della seconda e terza strofa. L’accusa che usualmente si rivolgeva ai ricchi signori era quella di non mettere a disposizione i propri beni per promuovere la vita cortese e cavalleresca e di non conoscere largueza, frutto di nobiltà d’animo. RmGauc adatta il motivo alle nuove condizioni di vita sociale ed economica (il sirventese è del 1270) e, facendo uso di espressioni metaforiche mutuate dal mondo borghese mercantile, sostiene come sia poco conveniente soggiornare presso un uomo ricco «que tolh e non daria»:
... pus que non pot d’el aver jauzimen
ni·s pot, en re quez elh aja, tornar. (vv. 19-20)
Improntata alla morale del profitto e del guadagno è anche la cinica conclusione: poiché avere familiarità con un ricco avaro non è proficuo, anzi è una perda e un dans, è molto più giovevole al proprio tornaconto avere l’amicizia del povero che non conosce l’arroganza del ricco né la sua meschinità, anzi è supplichevole e pronto a sottomettersi e a servire:
Mais valria cen tans aver paria
d’ome paupre, e mais proficharia. (vv. 21-22)
Nella IV cobla invece, il poeta avanza una sorta di giustificazione delle azioni malvage e spregevoli commesse dall’avol home, sostenendo quasi una predestinazione negli uomini a compiere il bene o il male. Ognuno ha il proprio compito nel mondo: il cortes deve praticare cortesia, l’uomo di valore compiere azioni degne di pregio e, allo stesso modo, il malvagio deve commettere vili iniquità. Sbaglia chi condanna il suo agire, perché il suo è un compito, quasi un destino, al quale non può sottrarsi: «fa so que deu, quar d’elh se tanh a far» (v. 28).
La V cobla conclude curiosamente queste riflessioni moralistiche con un ammonimento, di sapore sapienziale, a non parlare a sproposito per evitare di pentirsi di ciò che si è detto quando ormai è troppo tardi:
Per so o dic: que quascus aja sen
ans que parle, si·l valria mais callar,
quar tals vetz ditz hom so que no deuria,
que s’en repen pueis, si pro li tenia. (vv. 35-38)
Un non troppo velato riferimento al suo avventato discorrere contro i ricchi avari?
Nell’invio, con il tradizionale topos di modestia, RmGauc dichiara compiuto il sirventese, composto a sua guia; ma il componimento non è conchiuso, anzi è “aperto”, tanto che il poeta invita chiunque volesse perfezionarlo, a intervenire, perché ciò sarebbe per lui occasione di un onorevole e vantaggioso successo:
... e si negu·i volia
re melluirar fass’o, que no m’er dans
ans m’er honors e profiegz et enans.
SCHEDA RETORICO-STILISTICA
La modestia, proclamata nell’esordio e ribadita nel congedo, non collima affatto con l’ostentata ricerca di effetti retorici, attuata soprattutto attraverso le ripetizioni, le sequenze allitteranti e i continui giochi di costrutto.
In quantità cospicua sono presenti le figure della ripetizione, come l’anafora «no·l sai.../ ni sai.../ ni sai...» (vv. 3-5), «non pot.../ ni·s pot...» (vv. 19-20), «d’ome paupre... / quar lo paupre...» (vv. 22-23), «Tal vetz... / e tal... / .../.../ tals vetz» (vv. 33-34 e 37), l’iterazione sinonimica «agrades e plagues» (v. 2), «ben ni gen» (v. 3), «perda ... e dans» (v. 15), «escas e tenen» (v. 18), «croi ni desavinen» (v. 26) e le dittologie «belhs digz, ni azautz motz» (v. 4), «ricx faitz prezans» (v. 31), «vils faitz malestans» (v. 32); poi figure dell’accumulazione, come l’enumerazione «si·l ve, ni·l au, ni es sos abitans» (v. 16), «vil, escas e tenen» (v. 18), «honors e profiegz et enans» (v. 44).
Notevole è la successione delle voci del verbo far, che crea una fitta rete di corrispondenze lungo tutto il sirventese: infinito far (vv. 1, 3, 7, 28, 30, 31, 32), indicativo presente 3ª ps. sg. fa (vv. 26, 28) e fai (v. 27), congiuntivo presente 3ª ps. sg. fass(a) (v. 43), condizionale I, 1ª ps. sg. faria (vv. 6, 24), participio passato fach (v. 41), sostantivo faitz (vv. 31, 32) e fach (v. 26).
Il tono didascalico è sorretto dal punto di vista lessicale dalla grande frequenza di voci del verbo dever: il presente per indicare proibizione col sintagma «no deu» (vv. 17, 25), o per annunciare l’ineluttabilità del destino dell’avol home («fa so que deu» vv. 28 e 32 «deu far»), o i doveri del cortes e dell’hom valens («deu far» ai vv. 30, 31); il condizionale è invece impiegato per l’ammaestramento e il monito, agli altri «deuria / no deuria» (vv. 14, 37, 39) e a sé stesso «degra» (v. 33).
La ripetizione morfemica di più elementi appartenenti alla stessa parte del discorso, ma con una diversa flessione, è frequente all’interno della stessa cobla: vv. 1-3-6-7 far / far / faria / far; vv. 12-13 tolre / tolh ; vv. 25-29 blasmar / blasma; 26-28 fa / fai / fa / far; 33-36 calliei / callar; 33-37-39 degra / deuria / deuri(a); 33-34-36-40 parlar / parliei / parle / parlar; 34-38 m’en repen / s’en repen; 35-37-40 dic / ditz / disses.
Allitterazione, all’interno del verso; «sirventes, si pogues» (v. 1), «sai que s’es» (v. 5), «aissi quo ssai, qu’aitals es mos talans» (v. 8), «paupre ... proficharia» (v. 22), «seria soplejans» (v. 23), «fai falhimen» (v. 27), «s’en repen pueis, si pro» (v. 38), «esser enans / que res disses, de sos parlars duptans» (vv. 39-40), e in rima 2 gen : 3 gen; 12 donar : 13 daria : 14 deuria : 15 dans; 16 abitans : 17 abitar; 21 paria : 22 proficharia; 27 falhimen : 28 far : 29 folhia. Figura etimologica arricchita dall’allitterazione: «cortes cortezia» (v. 30), «fa lunh fach» (v. 26), «far ricx faitz» (v. 31), «far vils faitz» (v. 32). Interessante è la costruzione parallela, non solo nella sintassi ma anche nel gioco dell’antitesi, della figura etimologica e dell’allitterazione, dei vv. 30-32:
qu’aissi quon deu far cortes cortezia
e homs valens deu far ricx faitz prezans,
avol hom deu far vils faitz malestans
e dei vv. 33-34:
Tal vetz calliei que degra mielhs parlar
e tal parliei que aras m’en repen
oppure la disposizione a chiasmo dei vv. 10-11:
de so qu’om ve per lo mon a prezen:
pel mon ve hom alqun home manen
Numerosi sono anche gli esempi di una figura per ordinem come l’iperbato «Un sirventes, si pogues, volgra far» (v. 1); «mar no·l sai far, don m’es greu, ben ni gen» (v. 3), «pero far n’ai un, e non er trop grans, / aissi quo ssai» (vv. 7-8), «quar perda es ad hom valen, e dans» (v. 15), «ni·s pot, en re quez elh aja, tornar» (v. 20), «mais valria cen tans aver paria / d’ome paupre, e mais proficharia» (vv. 21-22), «per que quascus deuri’esser, enans / que res disses, de sos parlars duptans» (vv. 39-40). L’antitesi «tolre ... donar» (v. 12), «tolh ... daria» (v. 13), «ric vil» (v. 18), «calliei ... parlar» (v. 33), «parle ... callar» (v. 36), «no m’er dans / ans m’er honors e profiegz et enans» (v. 43-44). Un’ulteriore aggiunta alla ricca struttura retorica del sirventese è data dalla concatenazione capfinida fra le coblas I e II, vv. 8-9: «aissi quo ssai, qu’aitals es mos talans // Aissi cum sai, en vuelh un acabar»; e fra le coblas II e III, vv. 16-17: «si·l ve, ni·l au, ni es sos abitans // Doncx ges no deu hom valens abitar».
Per ultimo bisogna segnalare la frequenza di hom usato sia in funzione impersonale (vv. 10, 11, 25, 37) che accompagnato da un attributo, a designare il tipo umano che RmGauc intende rappresentare. Questo procedimento conferisce al sirventese l’impronta sentenziosa tipica delle composizioni didascalico-moralistiche.
Rubrica: Lo ters sirventes d’en .R. Gaucelm l’an m.cc.lxx.
Scheda metrica: Frank 577:119. Sirventese di cinque coblas unissonans + 1 una tornada di 4 vv.
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rime a -ar b -en c -ia d -ans
Decasillabi a maiore: vv. 21, 24 (con scansione 5’+4), 31.
Cesura lirica: vv. 22, 23, 27, 36.
Cesura mediana: vv. 7, 30, 32, 37, 38.
Al v. 20 la cesura non è chiaramente definibile.
Coincidenza tra cesura e pausa logica: vv. 1, 3, 7, 8, 9, 13, 16, 22, 27, 28, 35, 38, 40, 42, 43.
Incontri vocalici: dialefe (vv. 4, 7, 15, 16, 34, 35, 41), dialefe in cesura (vv. 9, 14, 22, 25, 42); sinalefe v. 39.
Tenendo conto delle cesure, si possono osservare delle rime interne: 2 agrades : 40 disses; 3 far : 43 melluirar; 12 mot : 19 pot; 13, 18 ric : 35 dic; 33 calliei : 34 parliei; delle rime identiche a distanza 1 : 41 sirventes; 3 : 30 : 31 : 32 far; 8 : 9 : 42 sai; 5 : 15 es; 11 : 37 hom; 13 : 18 ric; 22 : 23 paupre; 17 : 25 : 28 deu; 24 : 27 ome, ed anche rime interne grammaticali: 34 parliei : 36 parle; 35 dic : 40 disses.
Rime grammaticali: 16 abitans : 17 abitar; 1, 28 far : 6 faria; 18 tenen : 38 tenia.
Enjambements: vv. 17, 21, 39, 42.