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Sansone, Giuseppe. Per il testo della tenzone fittizia attribuita a Peire Duran. "Romania", 118 (2000), pp. 219-235

234,008- Peire Duran

 

PER IL TESTO DELLA TENZONE FITTIZIA

ATTRIBUITA A PEIRE DURAN

La tenzone fittizia, tra una moglie scontenta delle prestazioni sessuali del marito e le giustificazioni che questi adduce, propone quesiti testuali di tale entità da aver indotto il più attento dei suoi editori, Aimo Sakari, a proporre una edizione sinottica, ossia la stampa a fronte dei due soli testimoni pervenuti, non esente ovviamente da ritocchi e cauti interventi (1). Soluzione salomonica indubbiamente apprezzabile, che però pone da canto il problema fondamentale circa la natura del tràdito, con il ventaglio di ipotesi plausibili che è dato avanzare: non fosse altro in vista di un progetto di edizione filologicamente discussa e razionalmente proposta, pur nella persistenza di alcuni invincibili dubbi, di cui la più recente edizione, a cura di Arno Krispin, francamente sommaria e aleatoria, non si cura (2). In verità, il tema ecdotico primordiale che la tenzone sollecita risiede in un non evitabile quesito da cui far discendere la proposta editoriale: ossia se, in una tradizione povera e grosso modo omogenea, il non irrilevante numero di lezioni fortemente alternative, ossia le saltuarie ma sostanziali e impegnative varianti, siano da attribuire ad azione redazionale dell’autore, plausibilmente, oppure debbano considerarsi frutto d’operazioni interpolative di vario raggio, magari risalenti alla particolare natura del testo e agli àmbiti della sua fruibilità (3).

Rispetto al problema appena profilato, non risulta di stretta pertinenza l’altro della duplice autoria addotta dai codici di trasmissione diretta, tanto più che non si sono isolati sinora fattori di concomitanza formale e stilistica, plausibili o addirittura determinanti, atti a corroborare concrete possibilità d’attribuzione. Il fatto che nel ms. C si attribuisca la tenzone a «G. de Sant Desdier», una volta acquisito che il testo si trova nella serie delle poesie di tale trovatore, significa assai poco (4); tanto più se si considera che paternità illegittime nell’àmbito della serialità sono ricorrenti. lnoltre, il contenuto lubrico (e ridanciano) della tenzone, non nell’uso lessicale ma nella sostanza rappresentativa, sembrerebbe mal attagliarsi al Canzoniere di un trovatore nobile e raffinato come Guilhem de Saint-Didier (5).

Maggiore credibilità sembrerebbe avere —almeno nella tradizione critica—l’attribuzione riscontrabile nel ms. R,che adduce l’iscrizione in margine «P. Duran», ovvero il poco noto trovatore di cui si conservano tre componimenti, uno dei quali è sirventese (cfr. PC 339) mentre gli altri due s’iscrivono sotto l’esponente del grande canto cortese (6). Anche qui, tuttavia, riscontri formali, echi espressivi, affinità strutturali non parrebbero individuabili, tanto è vero che l’attribuzione a Peire Duran sembra preferibile (come da sempre si è fatto) solamente perché meno problematica o azzardata. E pure, per altro canto, trascurando completamente la circostanza, tutt’altro che rara, di trovatori esperti e ‘cortesi’ i quali, in margine ai loro componimenti d’esemplare adozione della fin’amor, poi si svagavano con testi osceni, come dimostra esemplarmente la plurima tenzone di Arnaut Daniel e compagni.

Anche l’assetto metrico del testo non consente di avviare il discorso delle certezze. L’organizzazione in strofe di otto versi, di cui i primi quattro in endecasillabi femminili e i secondi quattro in settenari maschili, i primi con due rime alternate e i secondi con due rime baciate, e cioè:

A 11’ B 11’ A 11’ B l l’ C 7 C 7 D 7 D 7

risponde a uno schema che Frank registra per altri tre casi (7).Ma l’estraneità di questi componimenti rispetto alla nostra tenzone di “malmaritata” è piena: non solo nel caso del sirventese didatticoallegorico di Peire Cardenal Qui se vol (PC 335,44: cinque strofe e una tornata) o nell’altro dell’anonima cobla PC 461,220, ma anche in quello, che avrebbe potuto essere molto più significativo, della tenzone di Guilhem de Saint-Didier En Guillem de Saint Deslier, vostra semblanza (PC 234, 12), priva di tornada e trasmessa dal ms. a1 e, solo per due strofe, da Da.Il componimento altro non è se non una sorta di devinalh dall’impianto decisamente allegorico, che dovrebbe avere ben altra definizione che non quella di “tenzone con una donna”, dal momento che la donna è figura del tutto assente (8).

Sempre nell’àmbito della versificazione, va notato che pure lo schema rimico del testo non trova corrispondenze significative. La struttura, consistente di due coblas doblas per le prime quattro strofe, di una ulteriore cobla, nonché di una duplice tornada, ognuna di quattro settenari con rime identiche a quelle della quartina conclusiva dell’ultima strofa, per cui si ha:

I-II

III-IV

V

VI-VII

-ada

-ia

-aire

 

-ura

-eira

-ire

 

-ada

-ia

-aire

 

-ura

-eira

-ire

 

-an

-en

-ier

-ier

-an

-en

-ier

-ier

-e

-it

-itz

-itz

-e

-it

-itz

-itz (9)

è formula rimica di amplissima adozione, come dimostra la serie di ben 112 presenze registrate sotto l’esponente 382 del Frank. Ma in questa larga fascia documentaria si ha una tale varietà di tipi metrici da lasciar subito intendere che lo schema di rime si applicava ad amplissime modalità versificatorie indistintamente, tanto è vero che non è dato rilevare, in tanto materiale, richiami di un qualche significato rispetto alle uscite rimiche qui presenti (10).

La situazione codicologica del testo, infine, non si avvale di elementi tali da aprire una sia pur tenue pista per la conduzione dell’edizione. A fronte delle varianti di notevole peso che divaricano il tràdito di R rispetto a quello di C, ossia dei due unici testimoni, si ha la ben nota collocazione stemmatica dei due codici, da sempre riconosciuti quali esponenti fortemente affraternati di un ramo basso. Lo dimostrava già il Gröber (11) e sono andati confermandolo tanto Avalle (12) corne Zufferey, il quale si è intrattenuto opportunamente sui tratti linguistici atti a confermare l’appartenenza dei due testimoni al «Languedoc occidental» (13), la loro contemporaneità sostanziale (14), la scripta tolosana per R e quella narbonese per C, che è esemplare non esente da influenze catalane (specie di Ve di Z) (15). Va tuttavia tenuto presente —anche se ciò non offre elementi dirimenti e di certa utilità in ordine alla selectio —che, se da una parte la presenza di codici a coppia non è un’eccezione nei piani bassi del canone, come appunto si dà in R e C in rapporto al collettore y, quel che di solito accade è che «quando poi questa lezione diverge [nelle coppie], compare subito il fenomeno della contaminazione come ad esempio nel caso di C R»(16).

Nel nostro caso —ed è da dire purtroppo—l’ipotesi di contaminazioni, sia pure in assenza di codice interposto utilizzato orizzontalmente, risulta inconsistente visto che manca quasiasi appiglio utile a spiegare la divaricazione di lezioni. C ed R hanno un gruppo di varianti decisamente alternative, opposte, che non è possibile riferire ad alcun tratto diretto o indiretto della tradizione, per cui ci si trova in cospetto di un fronteggiamento nudo e crudo, senza altra possibilità d’esegesi se non l’esame puramente interno isolato in se stesso. In tale situazione, l’instabilità del tràdito, a dispetto della stretta parentela fra i due soli testimoni, rende quanto mai opinabile l’alternativa —che pure potrebbe essere delle più ovvie—fra ampio rimaneggiamento interpolativo del copista e doppia redazione d’autore: alternativa da esperire esclusivalente sul piano delle argomentazioni interne, deduttivamente, che sono, come ben si sa, le più rischiose.

Il problema testuale della tenzone, pertanto, richiede una cura specifica e distinta per ognuna delle lezioni di più profonda differenziazione, al fine di rintracciare, se possibile, un iter variantistico nelle sue particolarità: ma anche nelle sue probabili convergenze. Cioè, si tratta di sondare la possibilità di individuare un tracciato che iscriva la pluralità variantistica sotto un denominatore mobilmente comune, sia pure esile e ondivago, che tuttavia porga un qualche fondamento alla selectio costitutiva del testo (17). Si procederà, perciò, all’esame delle dualità di massima emergenza strofa dopo strofa, rimettendo all’apparato delle lezioni anche secondarie, come di solito, la documentazione completa del tràdito, e proponendo alla fine una edizione che, se non altro, produrrà il massimo possibile di examinatio (18).

E’ fin dal primo verso che la tenzone pone problemi. Di fronte alla lezione di R: Una dona ai auzit que s’es clamada, C propone: D’una don’ai auzit dir que s’es clamada. Premesso che la misura del verso è in ordine in ambedue le lezioni, il confronto si pone fra un dettato più laconico, ma non scorretto nella sua modalità di discorso diretto (R), e un altro nella sostanza indiretto, ma certamente più circostanziato, inteso a meglio precisare la cognizione della querelle. Naturalmente, ognuna delle due lezioni è formalmente impeccabile; ma se ci si pone il quesito della discendenza di C da R oppure di R da C, quello che appare più plausibile è il primo rapporto e non il secondo: e proprio perché C, specificando e in qualche modo grammaticalizzando (concettualmente) la scrittura di R, propone un tratto di esegesi descrittiva specificante. Più che probabilmente la relazione non è da intendersi da testimone a testimone, bensi a livello di antigrafo (ora e sempre, ovviamente), nell’un caso trascritto fedelmente e nell’altro manipolato, ovvero atto di amanuense tanto attento quanto indipendente e, per ciò stesso, glossatore. Non altro che glossa sembra essere la lezione di C, facilior , malgrado la sua apparenza puntualizzante, rispetto alla sinteticità di quella di R, che quindi si configurerebbe come difficilior, seppure di grado non elevato. E’ pacifico, per altro, che ove nel prosieguo dell’analisi il sospetto di avere a che fare con operazioni glossative (e perciò stesso interpolative, ma pure non necessariamente banalizzanti) dovesse trovare conferme, si avrebbe tra mani uno strumento —una cartina di tornasole—ai fini della constitutio.

Solo a mo’ di commento della selectio in atto nella edizione che chiude queste note, registro il paio di casi del secondo verso di non rilevante entità. L’ipermetria presente in R a causa di son nel sintagma de son marit, potrebbe agevolmente sanarsi mediante atetesi, come in C (del); ma plausibile alternativa può essere la riduzione di sai vos di ambedue i codici alla forma proclitica sai·us. Alla fine del verso la variante di C de qual risulta meno affidabile di quella di R de que·s (19).

Ben diversa è, invece, la condizione del terzo verso. Lasciando da canto le varianti di poco peso, sono due le divergenze da esaminare. Quanto al nuech di R rispetto al mieg di C l’evidenza dell’errore di R è chiara a prima vista. La sua genesi è facilmente spiegabile: da un parte deve aver agito il grafema a quattro zampe in sede antigrafica (nu invece di mi); dall’altra il trascinamento lessicale verso l’atto sessuale fra coniugi, per solito notturno. E se ciò è vero, questo equivoco non porrebbe in crisi l’ipotesi che il copista di R esegua più affidabilmente l’esemplazione. L’altra variante che richiama l’attenzione è nada di R rispetto a dada di C. Che la prima lezione sia ampiamente dubbia è confermato dalla considerazione secondo cui non si vede come il marito possa aver posseduto sessualmente la moglie fin dalla nascita d’essa. Per altro canto, già Sakari fa riferimento a una «sorte d’assimilation» (20), equivalente all’errore d’anticipazione (-n d- che diviene -n n-). Non è da escludere, inoltre, che nella genesi dell’errore abbia agito una sorta di memoria meccanica delle locuzioni comuni ‘esser nato’, ‘mai nato’, ‘nato da madre’, per le quali basti il rinvio, oltre al francese antico, al LR IV, 300 (G. Ademar, P. R. de Tolosa, G. Faidit, ecc.). Ma, quali che siano le motivazioni genetiche del doppio errore di R, più che a una grafemica anomala o difficoltosa nell’antigrafo, si dovrebbe pensare (forse più nel secondo caso) a una caduta d’attenzione da parte dell’amanuense. E allora parrebbe opportuno convocare anche l’ulteriore variante pus li di C rispetto a de pus di R presente subito dopo mieg [nuech, ma leggi miech], in un passo in cui, per la presenza di dada, il pronome li risulta ineliminabile (data a chi?). Naturalmente, logica per logica, così come nel sintagma fon nada il pronome non ha ragion d’essere, allo stesso titolo in fon dada esso diventa indispensabile, mentre la ricaduta metrica della situazione si risolve facilmente riducendo que anc di R alla forma contratta di C qu’anc. Certo, di fronte a un quadro variantistico nel complesso abbastanza mobile e non poco problematico, si può restare non poco perplessi. Fino a che punto in R vi fu distrazione, ove si rifletta al fatto che, mentre si cancella opportunamente quel li trascrivendo nada, poi si incade in un nuech nonché nello stesso nada, così poco accettabili? E, per altro verso, la lezione in complesso scorrevole e certo meglio coordinata nei significati di C va riportata direttamente ai precedenti d’esemplazione oppure ammette il dubbio, l’incertezza, che quella figura d’amanuense interventista e glossatore (ma, in questo caso, meno sospetto) sia riuscito a fornire un testo ben equilibrato? Certo, di fronte a un tràdito come quello in discussione non si può far altro che affidarsi a ciò che ha la parvenza del meglio, o almeno del meno peggio; mentre, per quel che concerne il quesito di fonda circa la tendenza di C a esercitare atti d’arrangiamento puntando alla glossa salvifica e calcolata, una risposta convincente, entro i limiti del possibile, non potrà provenire che dalla somma dei casi.

Nel quarto verso la variante di maggior peso è d’aquo di R rispetto a del sobreplus di C, che oltretutto presenta ipometria (21). L’interesse maggiore della variante sta nella ripetizione delle lezioni di ambedue i mss. poco dopo (in R al v. 8, in C al v. 7), che appare, in questo secondo codice, come un ribattimento insistito sul riferimento osceno, ossia l’allusione al membro virile, chiaramente altra cosa dalla piana neutralità pronominale di d’aquo: sembrerebbe, cioè, che anche in tale circostanza si possa presumere intervento glossatorio dello scriba di C, questa volta inteso a caricare la licenziosità allusiva e paradossale della rappresentazione. Insomma, quel “soprappiù” sornione, proprio perché più ricercato, potrebbe tradire l’intervento partecipe quanto manipolatorio del copista (22).

Quanto al resto delle varianti presenti in questa strofa iniziale, nessuna di esse assume livello critico atto ad attribuire valore al problema costitutivo. Le lezioni di R arrete, fes (su cui cfr. Appel, Prov. Chrest., Abriss) rispetto a rete, fezes di C sono in linea con le comuni oscillazioni di poco peso; anche la variante solo formale e non semantica, falhida R perdoa C, sembrerebbe allinearsi, non determinantemente, al criterio interventista di quest’ultimo copista; e ciò vale pure per l’inversione fra i due ultimi versi (sempre in C), plausibili nell’ordine sintattico in ambedue le versioni, ma meglio rispondente alla formulazione sintagmatica per distici di cui è portatore R.

Nella seconda strofa, contro le non poche varianti secondarie sulle quali qui è superfluo intrattenersi, quel che occorre premettere, in ordine al problema che si va affrontando, è la caduta di livello della lezione di C rispetto a quella di R. Sembrerebbe come se il copista manipolatore, con intenti di miglioramento magari mediante saltuarie sottolineature oscene, avesse avuto un momento di assenza partecipativa. Da una parte e dis razo al v. 10 di R contro il mero collante grammaticale e dis li cum di C e, dall’altra, e temeria que fos di R rispetto a qu’esser poiria ben di C, v. 12, che sono varianti pienamente omogenee, palesano in C una specie di demotivazione diegetica, mentre la lezione di R presenta lessemi (razo, temeria) di giusta dimensione rappresentativa. Anzi, proprio questa assenza, diciamo così, di partecipazione qualitativa modificante —ovvero quel che s’è già denominato “glossa”—sembra confermare, e contrario, la qualità e sostanza della situazione percepibile, o se si vuole sospettabile, del codice C: insomma, parrebbe non privo di fondamento un supporto testimoniale in questo codice, quanto al senso e valore della sua lezione, anche nelle rare fasi in cui tace (a prescindere, ovviamente, da lutte le parti della lezione che non delineano situazioni speciali). Ma subito dopo, va segnalato che l’ipermetria di R al v. 11 è stata sanata di solito mediante la riduzione di negus a nus (23); però, se si tiene conto del fatto che negus è in ambedue i testimoni, mentre il car iniziale è presente solo in R, la sua espunzione è la soluzione da preferire. Naturalmente, la riduzione del verso a una dichiarativa netta e asciutta appare di ben maggiore spessore espressivo che non la formulazione causativa (car), ove si consideri che questo è verso pivot, disvelando il centro della rappresentazione (l’eccesso d’attributo sessuale del coniuge); e non è da escludere che anche qui l’intervento riduttivo (contro l’ipermetria) ed espressivo della copia ‘interventista’, sia in linea con quel che s’è rilevato nella prima strofa e non in contraddizione con la situazione appena sopra precisata per il resto della strofa (24).

Che con la terza strofa si avvii un discorso diretto, nel dialogo fra i due attori della discussione, che poi nelle strofe seguenti esiterà nei quattro attacchi designativi (molher, marit), è tratto che procura improvvisa vivacità al testa. Ma tale condizione rende quanto mai problematica la variante fra i due codici: da una parte, C produce un Senhors d’apertura che rende ben chiaro il riferimento a un pubblico (fittizio) o addirittura a una di quelle Corti d’Amore (di giustizia) convocate in occasione di dibattuti quesiti ‘cortesi’ (ma qui, farsescamente, chiamata a ben diversa materia); dall’altra, l’attacco allocutivo manca in R. L’alternativa di porre a testo o meno un sostantivo indubbiamente chiarificatore non è di facile soluzione. Certamente, se si muove dalla considerazione che, nel passaggio dalle prime due strofe espositive e d’introduzione narrativa ora si attua la formula distributiva del discorso diretto che, in questa sua prima fase, ha funzione pressoché proemiale (e anche di coralità), quel Senhors, al plurale, appare non solo esplicitante, ma anche letterariamente ben pensato, perché dà enfasi all’alluso sollazzo del pubblico scandalo. Infatti, anche uno studioso attente corne il Sakari si è lasciato tentare da una utililizzazione se non altro chiarificatrice del vocative (25). Ma è proprio questo aspetto a renderlo sospetto, giacché sembra tornare qui in tutta evidenza lo stesso atteggiamento glossatorio di C già rilevato in precedenza. D’altronde, è indiscutibile che, con quel Senhors o senza, la comprensione del testo non soffre dubbi, né vien meno la sua esplicitezza. Inoltre, c’è un elemento aggiuntivo di giudizio che parrebbe conferire spessore al sospetto di interpolazione: l’inserimento del sostantivo tout court avrebbe comportato ipermetria di due sillabe, sillabe che invece vengono annullate, in C, portando la lezione d’attacco Tot aiso di R a so (tre meno due): cioè, si opera una riduzione minima, ben pensata e ben calcolata, proprio come par solito fare il lucido e scrupoloso copista, glossatore per eccesso di chiarezza (26). Per altra parte, un nuovo elemento che induce a considerare con molta attenzione la condizione di C si osserva nei versi 3 e 4: in primo luogo, si ha qui inversione fra i due endecasillabi, con effetto di durezza nei nessi sintattici e nell’ordine logico; quindi, e soprattutto, si ha perdita della rima, con quel dire irrelato, e la conseguente sconnessione del quadro (A B B C contro il regolare A B AB). La crisi di questo distico, probabilmente, non è in diretta relazione col problema posto dal vocativo d’apertura; ma di certo questa situazione getta altra luce sulla qualità della copia, che procede corne saltellando fra manipolazioni avvedute (entro un canone tutto suo) o come che sia pensate e, per contro, interventi di banalizzazione deteriore (27): ma, come che sia, tanto l’un atteggiamento quanto l’altro testimoniano una presenza rielaborativa, interventista, variamente interpolante. Infine, lasciando da parte le varianti di grado inferiore (tra cui sentit di R reso al femminile come in C), richiama l’attenzione nel penultimo verso la divergenza fra R, ans l’a a mos obs, e C, qu’ieu sai ben qu’el n’a. Forse quest’ultima lezione contiene un grado di maggiore allusività sessualmente burlesca a quel membro che la moglie scontenta ora definisce a chiare lettere petit, tanto più se s’assume a mos obs, non tanto come “a mio piacimento”, “a mio parere”, ma come “bisogno” o, meglio, “profitto” (28); però, come che si voglia valutare il passo, la divaricazione, ancora una volta, fra i due testimoni apporta altro sostegno al profilo dello scriba, con le conseguenze che ne derivano circa la modalità di edizione.

Nella quarta strofa è solo il penultimo verso (31) a palesare variante di una qualche entita: pessaza for’ essernit R; trop a que for’ yssernit C. Sakari, che stampa pessaz’a , considera questa, come trop a, «locutions temporelles», rinviando a pesa a, pes’a nel PD: nei due mss. insomma si avrebbe identità di significato: «il y a bien longtemps» (29). Ma il senso da accogliere è quello addotto da R, riandando al LR IV, 496 e al PSW lemma pezanza (con ottima documentazione), che garantiscono la piena plausibilità della lezione; mentre la forma in uso neutrale essernit è accettabile, tanto più se si pensa alla rima. Inoltre, la variante di R ha tutto l’aspetto di una difficilior, rispetto a quella trasmessa da C, fortemente sospetta di semplificazione banalizzante: altro tassello, chiaramente di più modesta entità, rispetto al tema in discussione.

Nella quinta e ultima strofa prima delle sue strofette d’uscita si ha il caso forse di maggiore impegno. Va subito rilevato che i sostantivi fi di R e patz di C si equivalgono pienamente, visto che “far pace” e “por fine” equivalgono a “concludere”, smetterla con la diatriba. Anche l’aggettivazione di dan, trastot, in R, e di patz, bona, in C, si iscrivono nella categoria della varia lectio. Il problema si propone col secondo verso, che, una volta costruito l’intero passo, s’ordina così: de trastot lo dan e del mal que·m podetz far, vos fas fi faire, al mieu albire; cioè un invito alla pacificazione in nome di un desiderato incontro carnale, che, mediante l’applicazione iterativa dan e mal, ottiene, come per solito, effetto intensificativo. Tutto ciò scompare in C, che presenta un verso di totale riscrittura: si o faitz ab aisselui qu’ieu non aus dire: una riscrittura né banalizzante né deteriore, soprattutto se si pensa che il riferimento a “colui che non oso dire” è ben coordinato alla modalità del testo in cui non si ricorre a grevi esplicitezze, ma si predilige l’allusione trasparente. Certo, la lezione di questo ms. è più sapida, divertente, polposa, ma, se la immettiamo nel circuito di quei già visti interventi in buona parte protesi a caricare i sensi e a spingere l’oltranza verso ben partecipati limiti, questa pur gustosa variazione s’iscrive nel già documentato far glossativo dello scriba e nella propensione interpolante per solito retta da consapevolezza partecipativa. Certamente, in questo caso assai più che altrove parrebbe guadagnare terreno l’ipotesi di doppia redazione; ma ad essa sembra opporsi l’intero complesso delle varianti; senza poi dire della considerazione di fondo —che va tenuta assai ben presente—relativa ai testi licenziosi e scollacciati, che sono per lo più frammenti sciolti di un mondo di sollazzi lubrichi enormemente più esposti, rispetto alla poesia d’intrattenimento cortigiano e culto, alla manipolazione (che essi stessi, per propria natura, paiono sollecitare), al sovraccarico di significati e spesso anche di linguaggio. Inoltre, la non remota età del componimento —se, come pare, sia meglio attribuirlo a Peire Duran che non a Guilhem de Saint-Didier—, nonché la sua scarsa e non antica documentazione codicologica, parrebbero corroborare il sospetto d’interpolazione, ovvero la traccia manipolativa di copista attivo (suffragata dalla folta presenza di varianti secondarie), piuttosto che l’ipotesi di doppia redazione.

Le alternative di lezione presenti nel prosieguo della strofa hanno profilo più basso. Quanto al trinomio verbale di C rispetto al binomio di R (v. 35), non si hanno motivi per preferirlo, tanto più ove si consideri il sistema a coppie di questa stessa strofa (dan, mal; iustiziar, ausire);inoltre, la coordinazione è più scorrevole in quest’ultimo codice. E quanto al verso seguente ed ultimo endecasillabo, l’ipometria presente in ambedue i mss. si sana agevolmente portando il m’en di R a mi en, ricorrendo al mi di C (privo però di en). Nella coda di settenari, l’alternativa bachalier di C rispetto a batallier di R non si pone neppure, non solo perché la lezione di C è fuori senso, ma anche perché è evidente l’errata lettura di un -t- assunto come -c-, seconda notissima confusione (bac[h]alier). Nel verso seguente la variante di C feritz contro vensera di R, appare sospetta ripetizione del feritz che figura al verso seguente, tanto da far ritenere plausibile l’anticipazione favorita anche dalla presenza di fier. Inoltre, il livello dei significati è ancora una volta a favore di R, dal momento che il combattente il quale, ferito, non ferisce, riduce la sessualità a un atto pressoché fisiologico, mentre il combattente che vincerà pur senza ferire, ossia il voglioso sesso della donna che domina senza danneggiare ciò che le dà piacere, è più in linea con le mascherature di un erotismo non pervasivo.

Nelle quartine di congedo sono da prendere in considerazione soltanto due passaggi. Nei due versi centrali della prima stanza, invertiti in C contro l’ordine delle rime, la variante di questo ms., trahitz rispetto a grazitz, presenta sconnessione di senso (tradito da che?); ma forse l’arrangiamento abbastanza sconclusionato potrebbe rimontare alla difficoltà di accettare una lezione quale fleis, forma assai rara meglio definita nel PSW che non nel LR III, 340 (30). Per quel che concerne parssa (v. 45), variante di C rispetto a part, difesa con acume da Sakari e presa pari pari da Krispin (31), la stessa ipotesi di hapax in ordine al senso ne denuncia la debolezza (32); soprattutto se si pensa che il significato dato al termine (cfr. PSW e LR) di “precauzione, riguardo” non collima in alcun modo con “l’equivalente di un danaro”. Non può trattarsi che di “parte” (come è nel testimonio più attendibile): quella sezione intorno alla quale gira tutto il testo,e cioè la vantata metà dell’organo sessuale abnorme, simbolo negativo e positivo al contempo, rifiutata a favore dell’interezza dalla famelica sposa, malmaritata ma anche Santippe, di un caustico witz, che è erede non spregevole, e a torto trascurato, della tradizione del gap.

Si conclude così la piccola storia di un testo problematico: tale, probabilmente, anche perché si è stati restii in passato ad accettare che la figura dell’amanuense, regredita troppo spesso al livello di scriba meccanico e ottuso, di trascrittore brutalmente passivo, applicava canoni e concezioni che includevano aree di libertà maturate per via di esercitata partecipazione, in un’epoca in cui tale mestiere non comportava impensabili obblighi di fedeltà.

 

Note:

1. A. Sakari, «Une tenson-plaidoirie provençale», in Mélanges I. Frank, Universität des Sarralandes, 1957, p. 595-613.()

2. A. Krispin, «La Tenson Una donn’ai auzit dir que s’esclamada (P.C. 234,8). Édition critique; attribution; l’œuvre du troubadour Peire Duran», in Via Domitia, t. 26 (1981 ), p. 1-5. Come si intuisce già dal numero delle pagine, l’articolo dà molto di meno di quanto promette. Nella mia stampa del testo nel volume I trovatori licenziosi, Milano, 1992, p. 76-79, ho apportato alcune modifiche a tale edizione, ma assai limitate, non trattandosi di edizione critica. Ricordo qui che questo teste, finora edito provvisoriamente, non è incluso né nell’antologia di R. Nelli, Ecrivains anticonformistes du moyen-âge occitan, due voll., Paris, 1977 (tradotta in italiano da M. Infurna e F. Zambon, Milano, due voll., 1993-1996), né in quella di P. Bec, Burlesque et obscénité chez les troubadours, Paris, 1984.()

3. La difficoltà di raggiungere certezza piena su situazioni che normalmente non la consentono, è qui accresciuta dalla natura del testo, destinato naturalmente, come tutti i lacerti di poesia oscena provenzale (contrafacta o meno), a una circolazione diversa da quella della poesia culta (ma non per questo estranea alle corti), in certo modo sotterranea e periferica, come la stessa tradizione manoscritta di tali testi dimostra.()

4. L’edizione è in C. A. F. Mahn, Die Werke der Troubadours in provenzalischer Sprache, quattro voll., Berlin, 1846-1853 [ristampa Genève, 1977].()

5. Del trovatore di nobile schiatta, documentato fra il 1165 e la fine del secolo, ci sono pervenute tredici poesie di sicura attribuzione, nelle quali il codice cortese è applicato con garbata pertinenza, pur se priva di spiccante originalità. L’edizione critica è stata curata da A . Sakari, Poésies du troubadour Guillem de Saint-Didier, Helsinki, 1956.()

6. L’edizione è nella raccolta di K. Bartsch, Provenzalisches Lesebuch, Elberfeld, 1855.()

7. I. Frank, Répertoire métrique de la poésie des troubadours, due voll., Paris, 1955-1957, vol. I, p. 68, n. 382.()

8. Edizione a c. di Sakari, op. cit., p. 128-135.()

9. Si notino le omofonie tra i blocchi rimici del tipo -an -en, -eira -aire, -it -itz, ecc., che sono altra prova del carattere per nulla ‘popolare’ del testo.()

10. Il Frank registra quale primo schema proprio il nostro testo, che, sulla scorta del Pillet-Carstens, viene attribuito senz’altro a Guillem de Saint-Didier. Anche K. Lewent, come altri, nell’articolo «Das Scherzgedicht des Peire Duran», in Neuphilologische Mitteilungen, t. 39 (1938), p. 237-260, propende per tale attribuzione, scrivendo: “Immerhin scheint mir die grössere Wahrscheinlichkeit auf seiten der Verfasserschaft Guillems zu liegen”, p. 238. Per contro Sakari non include la tenzone, neanche fra le attribuzioni dubbie, nella sua edizione. Il problema della paternità del componimento, tuttavia, non è stato mai sottoposto a giudizio, sia pure indiziario. Mi permetto di rinviare al mio intervento «Sirventese e tenzone: la discussa paternità di Peire Duran», in corso di stampa negli Atti del Congresso di Vienna della AIEO.()

11. Nel famoso, e in buona parte non superato, saggio, «Die Liedersammlungen der Troubadours», in Romanische Studien, t. 2 (1875-1877), p. 337-670, p. 368 ss.e 574 ss.()

12. I manoscritti della letteratura in lingua d’oc, nuova ed. a c. di L. Leonardi, Torino, 1993, part. p. 90.()

13. F. Zufferey, Recherches linguistiques sur les chansonniers provençaux, Genève, 1987, p. 129 e cfr. p. 151-152; nonché per l’analisi di R p. 105-133 e, per quella di C, p. 134-152. Vd. anche C. Brunel, Bibliographie des manuscrits littéraires en ancien provençal, Paris, 1935, ai numeri 143 e 194.()

14. Cfr. op. cit., p. 130 e 151. Ambedue i mss. risalirebbero al primo quarto del XIV secolo.()

15. Cfr. op. cit., p. 152.()

16. Avalle, op. cit., p. 75, e vd. p. 74 per la prima affermazione, il quale conferma quanto siano «instabili i rapporti» nel gruppo di codici cui appartengono C ed R: p. 90.()

17. Tuttavia, occorre ricordare premissoriamente che C, codice di notevole importanza per il numero dei testi tràditi (1206), già da Gröber fu definito «eklektisch», nel saggio cit., p. 581. Per la sua parte I. Frank, nell’articolo «Babariol-Babarian dans Guillaume X», in Romania, t. 73 (1952), p. 231-33, sottolinea come questo amanuense intervenga in ogni dove al fine di avere redazioni “de sa préférence, coulantes, faciles, modernisées”. Alla stessa data é del medesimo avviso F. M. Chambers, nell’articolo «Matfre Ermengaud and Provençal Ms. C», in Romance Philology, t. 5 ( 1952), p. 41-46. Allo stesso modo J. Monfrin, «Notes sur le chansonnier provençal C», in Recueil C. Brunel, Paris, 1955, vol. II, p. 292-311, ribadisce la poca affidabilità di un codice sostanzialmente instabile.()

18. L’edizione viene condotta secondo i criteri oggi correnti. Si é preferito premettere l’analisi delle lezioni di maggior impegno, dato il loro carattere di discussione determinante ai fini della editio. Ricordo, solo per completezza, che il componimento figura in C (ms. BNF, fr. 856, anc. 7226) nel f. l34b/d e in R (ms. BNF, fr. 22543) nel f. 100d-l0la. Quanto alla traduzione, già presente nei miei I trovatori licenziosi, op. cit., essa ha subito modifiche in rapporto alla presente edizione; ma si é serbata la struttura in settenari, doppi nella prima quartina (tetradecasillabi), semplici nella seconda.()

19. Sakari, art. cit., p. 604, si chiede, a proposito di dir, se “Est-ce pour produire un effet comique voulu que les deux premiers hémistiches de la pièce se terminent par dir?”; ma, a mio avviso, l’ipotesi è del tutto remota, trattandosi di asserzione strettamente funzionale.()

20. Sakari, art. cit., p. 605.()

21. Tanto è vero che il risanamento del Bartsch, ottenuto mediante l’inserzione di aver, è stato pacificamente adottato dal Sakari.()

22. Va notato, in ordine all’usus scribendi, che in R figura di nuovo d’aco al v. 19, assente in C.()

23. Così in Sakari; ma già Bartsch aveva ridotto a nuls. Krispin espunge car, ma passa sotto silenzio l’intervento, né lo commenta.()

24. Si veda, per altro, la medesima struttura sintattica al v. 2, con corrispondenza anche locativa. Le dichiarative d’altronde non sono rare nel testo. Va da sé che la soluzione adottata si fonda sostanzialmente sulla presenza di negus in ambedue i testimoni. Quanto a palpan (v. 13) nel senso di ‘risparmiare’, cfr. PD.()

25. Nella nota a questo verso in art. cit., Sakari ritiene che l’errore sia in R che non avrebbe capito: “Ne comprenant pas de quoi il s’agissait, le scribe de R aura négligé tout le titre”. Appare tuttavia francamente difficile ritenere che il copista non capisse un allocutivo ovvio e chiarificatore.()

26. Questa riduzione sembra rafforzare l’ipotesi d’intervento calcolato da parte del copista del codice deteriore; né il fatto che nelle quattro strofe seguenti si abbia inizio nominativo deve indurre a ritenere automatico l’attacco di questa strofa, altro e dissimile: anzi, potrebbe essere stato proprio il richiamo a una specie d’omogeneità a dar luogo all’interpolazione. Va inoltre tenuto presente che in altro testo di Peire, di sicura paternità, torna l’introduzione del discorso diretto privo di allocutivo: cfr. il mio art. cit. qui alla nota 10.()

27. Anche queste presenze testuali inducono a relegare fra le ipotesi meno credibili quella di una doppia redazione d’autore.()

28. Basti il rinvio al PD. Sakari, art. cit., p. 606, commenta: “La leçon de R est excellente”.()

29. Sakari dedica al passaggio una lunghissima nota (p. 608-609) e traduce “je serais depuis longtemps privé de vous” (p. 603). Cfr. la traduzione qui sopra “da voi, con me ingrata, / sarebbe scella pena” (non si dimentichi che il tipo di traduzione prescelta obbliga alle clausole metriche), cioè ‘da voi, moglie, sarebbe prescelto di soffrire, a causa del mio pene, e non mi siete neanche grata delle mie attenzioni’: cfr. nota a p. 78 dei miei I trovatori op. cit.()

30. Nel PSW il termine è significato come “Zurückhaltung, Enthaltung, Enthaltsamkeit”, ossia quel ‘freno’ che è portatore di chiari riferimenti. Nella relazione fra i due mss. fleis si proporrebbe ancora una volta corne difficilior.()

31. Sakari, art. cit., p. 612-613. Il Krispin accoglie la lezione del codice deteriore, ma non la traduce.()

32. Ciò vale anche a mettere sull’avviso circa la recente proposta, avanzata finanche a livello teorico, di intervenire su lezioni dubbie congetturando nientedimeno che degli hapax: che è come dire il massimo dell’arbitrio in un campo in cui la circospezione e la misura dovrebbero mettere al riparo da azzardi vani.()

 

 

 

 

 

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