La canzone «Si·m sentis fizels amics» di Giraut de Bornelh.
Scopo preminente, se non esclusivo, di questo contributo vuol essere quello di riciclare in un’ampia fascia di utenti, con un minimo di apparato esegetico, un testo fra i più negletti e meno divulgati — oltre una ristrettissima cerchia di specialisti — della lirica trobadorica (1). Un testo che certamente non meritava un siffatto destino: non tanto per i pregi estetici, comunque considerevoli seppure opinabili, quanto per il suo indiscutibile e non comune interesse di ordine culturale. Basti ricordare, a tale riguardo, che esso è il primo che Dante menzioni esplicitamente nel De vulgari eloquentia.
Nel grande fervore di studi occitanici in atto da qualche lustro e che ha prodotto, fra l’altro, una larga messe di nuovi testi critici, l’unica edizione completa del canzoniere giraldiano attualmente disponibile è ancora quella di Adolf Kolsen, che vanta una invidiabile anzianità di servizio di poco meno di un secolo (2): edizione senza dubbio meritoria, ma certo insoddisfacente nel metodo se la si consideri alla luce dei vigenti orientamenti dell’ecdotica (3), oltre che ovviamente in larga parte superata nell’informazione.
Essa resta, tuttavia, uno strumento indispensabile per il provenzalista e il suo autore sarà pertanto il principale interlocutore nella parte strettamente tecnica del nostro discorso.
La canzone Si·m sentis fizels amics, per la sua strutturazione fonico-ritmica, per le modalità della scrittura, insomma per tutto il suo dispositivo semiotico nella complessa molteplicità di articolazioni è senza dubbio fra le più peculiari e meglio rappresentative dello stile giraldiano. Uno stile che la grande varietà delle forme metriche, le rime sovente ricercate e difficili, la tendenziale polivalenza semantica di una quota rilevante del lessico, i non rari neologismi, la sintassi a volte ardua per il gusto della concentrazione ellittica degli enunciati qualificano come singolarmente artificioso e difficile (4).
Ma il dato più caratterizzante della personalità letteraria di Giraut de Bornelh sta forse nell’aver egli voluto e saputo gestire, insieme alla maniera difficile e oscura, quella opposta facile e chiara. È noto che Giraut proprio la seconda affermò di privilegiare nella famosa tenzone con Linhaure sui due stili, e che in base a tale presa di posizione il Kolsen, seguito dal Panvini (5), ipotizzò una successione cronologica fra le due suddette maniere istituendo su tale presupposto una cronologia relativa delle canzoni del trovatore. Il Salverda de Grave ha però contestato efficacemente tale ipotesi, argomentando per contro con persuasive considerazioni in favore della sostanziale simultaneità di gestione da parte di Giraut dei due orientamenti stilistici (6). Non per questo, per altro, la scelta dell’uno o dell’altro dovette essere di volta in volta casuale o capricciosa: infatti « Giraut n’aurait pas été l’enfant de son temps et le savant ”homme de lettres” que nous montre sa biographie [...] s’il n’avait pas cherché une différence psycologique qui séparerait les deux genres. D’après lui, ils correspondent à des états d’âme opposés; le poète ne peut faire des vers ”clairs” que quand il est heureux en amour; d’autre part, la poesie ”abscure” correspond au découragement et aux revers amoureux » (7). D’altra parte, non si può escludere che talvolta l’opzione stilistica fosse compiuta anche in risposta a precise istanze al riguardo di un determinato pubblico: « on peut croire, d’après certains passages dans les poésies de Giraut, qu’à la cour d’Aragon on était porté pour les vers difficiles, tandis que dans les cercles aristocratiques qu’il fréquentait en Provence, on avait une autre préférence » (8), dato che ai vv. 9-10 della canzone Tot suavet e de pas si legge che in terra provenzale « chanson leu entenduda lai vai e lai s’esvertuda ».
Risulta comunque chiaro, come il Salverda de Grave ha egregiamente mostrato, che per Giraut la tecnica non era oggetto di esibizionismi formali, ma veniva caricata di rilevanti responsabilità testuali in funzione dei valori contenutistici; pertanto « l’obscurité des vers avait une signification plus profonde » (9), ben oltre il limite del mero virtuosismo.
In questa prospettiva sull’arte di Giraut de Bornelh, si può altresì supporre che anche l’escursione formale della sua scrittura poetica fra le polarità contrapposte del trobar clus e del trobar leu — con facoltà di sagaci commistioni e integrazioni equilibrate delle componenti espressive orientate verso l’uno o verso l’altro (10) — sia stata, non meno dei contenuti, all’origine dell’interesse dantesco per « quel di Lemosì » (11). Un interesse che lo stesso succedersi di valutazioni divergenti sul trovatore formulate dall’Alighieri nelle sue opere conferma essere stato particolarmente vivo.
Se questo si ammetta, la citazione della canzone Si·m sentis nel nono capitolo del primo libro del De vulgari eloquentia (con precedenza assoluta rispetto agli altri numerosi testi ivi menzionati) dubito si possa ritenere determinata da circostanze di fortuita opportunità materiale, come supposto dal Santangelo (12): avrà piuttosto intuito la verità il Marigo osservando che quella lirica « poteva essere stata ammirata da Dante per le raffinatezze del « trobar clus » cioè per le sottigliezze di pensiero accompagnate dal « fren dell’arte » (13). Non credo proprio che per citarla Dante fosse costretto a consultare la sua antologia provenzale e tanto meno che egli non avesse in mente alcun verso trobadorico con la parola amor: reputo invece che la citazione sia indizio che quel componimento, per le caratteristiche di spiccata rappresentatività sopra ricordate, era eminentemente presente alla mente dantesca, occupava insomma un luogo privilegiato nella memoria del poeta (14).
La struttura metrica della canzone Si·m sentis consta di otto « coblas unissonans » più due brevi « tornadas ».
La strofa è formata da nove eptasillabi maschili, bipartita in fronte di quattro versi e sirma di cinque; la fronte è a sua volta divisa in due piedi di due versi ciascuno, non identici ma simmetrici. Il suo schema è dunque il seguente:
a b b a c d d e e.
Ci sono inoltre due rime interne: una al sesto verso, maschile, che replica la rima del verso precedente; una al quinto verso, femminile (con atona soprannumeraria agli effetti del computo sillabico), che non ha riscontri all’interno della strofa ma ritorna nella stessa sede di tutte le strofe. Per dare anche ad esse una opportuna rappresentazione, introducendo fra parentesi le rispettive lettere (un apice in esponente sta ad indicare la rima femminile), lo schema di cui sopra risulta così completato:
a b b a (x’)c (c)d d e e.
Quanto alle «tornadas», la prima riproduce la serie delle rime degli ultimi tre versi della strofa ( d e e ), la seconda le rime degli ultimi due ( e e ).
Note:
(1) Non figura in alcuna delle sillogi di uso corrente: Bertoni, Crescini, Cavaliere, Piccolo, Viscardi, neppure in quella vastissima del Riquer. Il testo del Kolsen è riprodotto da G. Folena in Vulgares eloquentes. Vite e poesie dei trovatori di Dante, Padova 1961, pp. 31-33. (↑)
(2) Sämtliche Lieder des Trobadors Giraut de Bornelh, Erster Band, Texte mit Varianten und Ubersetzung, Halle 1910; Zweiter Band, Vida, Kommentar und Glossar, Halle 1935. (↑)
(3) Asuo tempo, del resto, J. J. Salverda de Grave ebbe a rilevare nella edizione del Kolsen « une constitution du texte que ne semble pas toujours justifier la tradition des manuscrits » (Giraut de Borneil et la poésie obscure, in Mélanges ... J. van Ginneken, Paris 1937, pp. 297-306, a p. 298). (↑)
(4) Tali elementi sono stati posti in evidenza dall’ottimo studio citato del Salverda de Grave. Importanti osservazioni si trovano anche nell’eccellente premessa alla selezione di testi giraldiani dell’antologia di Martín de Riquer (Los trovadores. Historia literaria y textos, Barcelona 1975, I, pp. 463-73). (↑)
(5) Bruno Panvini, Giraldo di Bornelh, trovatore del sec. XII, Catania 1949. (↑)
(6) J. J. Salverda de Grave, Observations sur l’art lyrique de Giraut de Borneil, in «Medeelingen der Koninklijke Nederlandsche Akademie van Wetenschappen, afd. Letterkunde », N.R., 1, Amsterdam 1938, pp. 71-72. (↑)
(7) Giraut de Borneil ecc. cit., p. 305, (↑)
(8) Op. e l. cit. Tale ipotesi consentirebbe di cogliere, nei versi 76 e 77 di Si·m sentis, una implicita perplessità di Giraut circa l’effettivo valore poetico delle sue prove di stile difficile. (↑)
(9) Op. cit., p. 301. (↑)
(10) Assai opportunamente il Riquer osserva che « a menudo son muy discutibles y contradictorios los matices de oscuridad o claridad en una composición de Giraut de Bornelh» (op. cit., p. 472). (↑)
(11) Sull’argomento, oltre al noto sempre valido studio di Cesare De Lollis (Quel di Lemosi, in Scritti di varia filologia (A Ernesto Monaci), Roma 1901, pp. 353-75; rist. in Cesare De Lollis, Scrittori di Francia, a cura di Gianfranco Contini e Vittorio Santoli, Milano-Napoli 1971, pp. 29-75), si segnala un interessante articolo di Michelangelo Picone, Giraut de Bornelh nella prospettiva di Dante (in corso di stampa). (↑)
(12) «Dante cercava un verso in cui apparisse la parola amor: La cosa più naturale era ch’egli cominciasse la ricerca dalla prima carta del suo canzoniere, e si arrestasse al secondo verso — ma sempre primo rigo — della prima poesia. È questo un indizio che fa cominciare con Giraldo de Bornelh la raccolta dantesca, e proprio con la canzone Simsentis» (Salvatore Santangelo, Dante e i trovatori provenzali, Catania 19592, p. 61). Tale situazione si riscontra in c (Laurenziano XC 26, quattrocentesco), mentre Si·m sentis apre la sezione giraldiana in Q (Riccardiano 2909, trecentesco): il Santangelo ne deduce che il canzoniere utilizzato da Dante dovette essere il loro ascendente comune, « il quale quasi certamente aveva a capo le poesie di Giraldo de Bornelh, ed era sfornito di biografie » (op. cit., p. 73). Questa tesi — e non soltanto perché ormai più non si dubita che Dante conoscesse quanto meno alcune delle vidas — incontra attualmente assai minor credito di quella precedente del Bartsch (Die von Dante benutzen provenzalischen Quellen, in «Jahrbuch der Deutschen Dantegesellschaft », II, [1869], pp. 377-89), che ravvisava la fonte dantesca in un codice di tipo D. Recentemente M. Perugi (Arnaut Daniel in Dante, in « Studi Danteschi », LI, 1978, pp. 59-152) ha raccolto elementi significativi per la localizzazione di detta fonte nella costellazione ε. (↑)
(13) Op. cit, p. 64. (↑)
(14) M. Picone osserva che, citandolo «come prototipo occitanico della cantio avente per motivo ispiratore la parola amor», Dante «in un certo senso rileva la precedenza assoluta di questo componimento su ogni altro per quella che è la problematica fondamentale della lirica romanza: lo svelamento del senso profondo dell’ipostasi amorosa» (« Vita nuova » e tradizione romanza cit. pp. 114). (↑)