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Rossi, Luciano. Per il testo delle poesie di Guillem de Cabestany: "Anc mais no·m fo semblan". "Studi portoghesi e catalani", 83. L'Aquila: Japadre, 1984, pp. 91-106.

213,002- Guillem de Cabestaing

 

Per il testo delle poesie di Guillem de Cabestany: «Anc mais no·m fo semblan».
 
1. Le ragioni dell’inserimento d’una poesia d’amore di Guillem de Cabestany in un fascicolo di Studi Portoghesi e Catalani risiedono nel fatto che, insieme a Guillem de Berguedà e a Cerverí de Girona, il rossiglionese è uno dei masssimi trovatori catalani d’espressione occitanica. Mentre, però, i canzonieri degli altri due poeti sono stati oggetto di numerosi studi critici (1), l’opera di Guillem de Cabestany non ha goduto finora dell’interesse che avrebbe meritato, e la fama del poeta è legata alla leggenda del cuore mangiato, piuttosto che al fascino dei suoi componimenti lirici (2).
Eppure, sembra indubbio che gli schemi metrici e melodici escogitati da Guillem abbiano esercitato una notevole influenza, non solo sui poeti provenzali e francesi che in larga misura li hanno imitati o contraffatti (3), ma anche su quelli iberici (non esclusi, anche se per via indiretta, alcuni trovatori d’espressione galego-portoghese (4)).
C’è inoltre da osservare che, per quanto l’opera del trovatore sia apparsa avulsa da ogni connessione con la realtà del tempo, essa è invece a suo modo saldamente collegata con la sua patria rossiglionese e con le figure storiche di Raimon de Castel Rosselló e della seconda moglie di lui, Soremonda (tanto che la stessa leggenda del cuore mangiato, come ho tentato di dimostrare, non è estranea alle vicende della cronaca catalana (5)).
Infine, il nome dell’uomo Guillem de Cabestany non appare implicato (come ad esempio quello di Guillem del Berguedà) in episodi oscuri e rocamboleschi (6), ma al contrario figura nel resoconto d’un avvenimento di grande rilevanza storica per l’intera penisola: egli combatté, infatti, nel 1212, in quella battaglia di Las Navas che doveva costituirei un importante capitolo della Reconquista (7).
Quanto al componimento che mi accingo a illustrare Anc mais no·m fo semblan, si ricordi che esso ci è pervenuto nella sua redazione più completa, proprio grazie all’opera di un copista catalano, che l’ha esemplato nel ms. oggi conservato presso la Biblioteca Marciana di Venezia, Fr. App. Cod. XI (8), il solo che fornisca la quarta e la quinta cobla della canzone.
Anc mais no·m fo semblan sembra uno dei componimenti della maturità del poeta. Arthur Langfors, nell’unica edizione in qualche modo critica delle poesie di Guillem che sia tuttora disponibile (9), pur avendo inteso la lettera del testo, mostra di non averne colto invece il senso: sia quando si rifiuta di ammettere che nei vv. 8, 11 e 12 il pronome leis non può che riferirsi ad Amors, femminile in provenzale (10); sia quando gli sfugge il significato dell’intera terza cobla (quella in cui risiede forse il maggior nodo problematico per l’interprete), e adotta al v. 24 un suggerimento poco felice di Leo Spitzer (11).
Ma l’ambiguo gioco di riferimenti ad Amors, signore volubile e ingrato che il poeta esalta e maledice nello stesso tempo, era già stato sperimentato in varie altre poesie da Guillem e, soprattutto, con espressioni molto simili, nella canzone Ogan res qu’ieu vis, che non a caso nel codice marciano (il solo che l’abbia esemplata) segue immediatamente Anc mais. Si confrontino, ad esempio, la seconda cobla della nostra canzone:
 
Qu’eu·m vau soven claman
de leis don faz lausor,
e vau leis merceian
don degra far clamor,
re non faz per engan ...
 
e la terza di Ogan res qu’ieu vis:
 
Qu’ieu am mais de re
leis don fatz clamors
e, can non pusc mais,
dic ne deslausors ...
        
È fuor di dubbio che in entrambi i casi l’autore si riferisca ad Amore, e stupisce che un’analogia così stringente sia potuta sfuggire al Langfors. C’è da dire però che l’editore considerava dubbia l’attribuzione a Guillem di Ogan res qu’ieu vis, per un errore nella valutazione della testimonianza del codice marciano. E a questo punto, prima che ci cimentiamo nell’interpretazione di Anc mais no·m fo semblan, mi sarà consentita una breve digressione, che servirà a demolire il fragile castello di ipotesi del Langfors, e a restituite al rossiglionese la sua ottava canzone.
La sezione che nel codice marciano è dedicata a Guillem de Cabestany s’inizia, nel f. 98r, con il verso 28 di Lo dous cossire, e s’interrompe, nel f. 99v, con il verso 31 di Aisi com cel qui baissa·l fuelh: sia la metà inferiore del f. 97v che la metà del f. 99v e tutto il successivo foglio 100r sono stati però lasciati bianchi dal copista. Segno che egli doveva aver avuto per le mani un lacerto del canzoniere di Guillem, ma, accortosi delle lacune del modello, si riprometteva di colmarle con l’aiuto di un altro testimone, e aveva a questo scopo lasciato in bianco un paio di fogli (12). I componimenti appaiono dunque in questa successione: f. 98r, Lo dous cossire; ff. 98r-98v, Anc mais no·m fo semblan; ff. 98v-99r, Ogan res qu’ieu vis; ff. 99r-99v, Aisi com cel qui baissa·l fuelh.
Scrive invece Arthur Langfors: « Quant à la chanson VIII Ogan res qu’ieu vis, elle pourrait à la rigueur être considérée comme anonyme. Dans V, qui est le seul à la donner, le nom de l’auteur n’est inscrit qu’en tête de la première chanson de chaque poète; dans ce manuscrit figurent sous le nom de notre troubadour les chansons Lo dous cossire et Anc mais no·m fo semblan, dont l’authenticité n’est pas douteuse, et enfin Ogan res qu’ieu vis. Or, cette dernière chanson contieni certaines subtilités qui ne sont guère dans la manière de G. de C. (mieg ausis De mieg desirier — estau aclis Al pejor guerrier, etc). Il est à noter que dans le ms. le verso du f. 99, où elle finit, est en partie blanc, de même que tout le recto du f. 100; au verso du f. 100 commence, sans nom d’auteur, une chanson de Pons de la Garda (Grundr., 377, 3). Il se pourrait qu’après les chansons authentiques de G. de C. se fût glissée une chanson anonyme » (p. IV).
Come si vede, Langfors è incorso in un vero e proprio errore meccanico, dal momento che Ogan res qu’ieu vis non chiude la sezione dedicata a Guillem, ma appare inserita fra Anc mais no·m fo semblan e Aisi com cel qui baissa·l fuelh (13), due canzoni delle quali non può esser messa in dubbio l’autenticità. Quanto al nome del nostro trovatore, esso non compare nel f. 97v, dove con ogni probabilità il copista si riservava di inserire i primi ventisette versi di Lo dous cossire, ma è stato aggiunto, da una mano italiana del XVI secolo, sul margine superiore del f. 98r. Infine, per quel che concerne le « subtilités » che sarebbero estranee allo stile di Guillem, quando il poeta, per definire il proprio servizio ad Amors, dice estau aclis / Al pejor guerrier ... non fa che riprendere un concetto che gli è caro: «Non truep contenda / Contra vostra valors ...» (Li dous cossire, vv. 76 sg.); « Qu’ Amors m’es cara et ye·l suy vils ...» (Ar vei qu’em vengut als jorns loncs, v. 30), ecc.
 
2. Verificato che non sussistono ragionevoli dubbi sulla paternità di Ogan res qu’ieu vis, una canzone che, come abbiamo visto, è strettamente collegata con quella cui è dedicato il presente contributo, passiamo ad analizzareAnc mais no·m fo semblan.
Ancora una volta, Guillem professa una maniera « lieve » che direttamente s’ispira all’insegnamento di Bernart de Ventadorn:
 
Be·m ten en so coman
Amors, qu’en mi comensa
E mainz dolz plazers, e cre
c’ad obs de leis me fe
Deus e per sa valenssa.
 
I versi che chiudono la prima cobla rinviano chiaramente all’esordio di Non es meravelha s’eu chan (14) (una sorta di riferimento costante, per il rossiglionese):
 
... que plus me tra·l cors vas Amor
e melhs sui faihz a so coman.
 
Ma è sopratutto la quarta cobla della canzone di Bernart che sembra aver suggestionato il rossiglionese:
 
Aqest’amors me fer tan gen
al cor d’una dousa sabor;
cen vetz mor lo jorn de dolor
e reviu de joi autras cen.
Ben es mos mais de bel semblan,
que mais vai mos mais qu’autre bes;
e pois mos mais aitan bos m’es,
bos er lo ben apres l’afan.
 
Anticipando un’intuizione che, con maggiore felicità espressiva, egli elaborerà nella sua canzone più bella, Ar vei qu’em vengut als jorns loncs (15), Guillem si autodefinisce il « plus fins amans et ... miels sofridors ».
Amore, per il poeta, è dunque soprattutto sofferenza. Sia che egli la consideri come una necessaria premessa al joi:
 
Que·l mais m’es douz a sufertar
per que·l bes m’er a merceiar
qu’ieu n’aten; mas no m’o tardes!
(Al plus leu, vv. 34-36).
 
Sia che, invece, essa si trasformi in condizione permanente:
 
Lo mais m’es dous e saborius
e·l pauc ben mana don me pais
(Ar vei, v. 53 sg.).
 
Anche nella nostra canzone il poeta insiste sulle pene che comporta il servizio ad un signore tanto « difficile »: l’innamoramento coincide, per lui, con la fine del solaz (inteso quale frivolo divertissement) e, per l’estasi del perfetto joi, egli deve abbandonare lo stesso canto, senza prospettive di gratificazione:
 
Mas cel cui Amor gensa
deu soffrir mainta re,
car en mainz luocs s’ave
que mal taing que·l bes venssa.
 
« Se talora vado lamentandomi di quel signore di cui ora tesso le lodi, oppure lo ringrazio, proprio quando dovrei lamentarmene — osserva Guillem nella seconda cobla —, non lo faccio per ipocrisia: è una condizione dell’amante ingentilito da Amore, quella di sopportare molte prove: perché in molte occasioni accade che mal si conviene che il bene abbia la meglio ».
L’accenno alle querele sollevate dal poeta nei confronti di Amore, troppo altero, trova, come abbiamo visto, numerosi riscontri nel canzoniere di Guillem (16). Ma è soprattutto il motivo dell’apparente incoerenza dell’amante che si rivela come un passo obbligato, quasi un’idea fissa che ossessiona il poeta.
Esso ricorre nella seconda cobla di Lo dous cossire:
 
Quar vos qu’ieu plus envey
d’autra qu’el mon estey
desautorc e mescrey
e dezam en parvensa.
 
(dichiarazione, quest’ultima, che fu interpretata dai redattori delle vidas come una sorta di smascheramento del marchingegno adoperato dal poeta per non fare ingelosire il marito (17)).
Si presenta, con la variante del ricorso alla donna-schermo, anche in Lo jorn qu’ie·us vi, vv. 15-21:
 
E car vos am, dompna, tan finamen
que d’autr’amar no·m don’Amors poder,
mas aize·m da c’ab autra cortey gen,
don cug de me la greu dolor mover;
pueis quan cossir de vos cuy jois sopleya,
tot autr’amor oblit e dezampar:
ab vos remane cuy tenc’al cor pus car.
 
Giunge, infine, ad adombrare una minaccia di change, peraltro prontamente ritrattata, in Mout m’alegra douza vos per boscaje, canzone che, com’è noto, provocò una sorta di reprimenda da parte di Bertran de Born lo filh (18). Costui, in un sirventese, rispose per le rime (19), accusando implicitamente Guillem d’avere un cuore trop volatge, e proclamò la necessità dell’assoluta dedizione in amore (in un débat a distanza, cui forse non fu estraneo il Castelain de Couci (20), che richiama alla mente quello più illustre fra Bernart de Ventadorn, Chrétien e Raimbaut d’Aurenga).
Ebbene, proprio al figlio di Bertran de Born sembra rispondere Guillem, nella terza cobla di Anc mais no·m fo semblan: l’avere individuato questo possibile riscontro serve a risolvere un problema ecdotico legato alla restituzione dei versi 23 e 24.
Bertran aveva osservato:
 
Mas cel qi trop si chamja, zo m’es vis,
non pot aver dels fagz de paradis
ni dels plazers q’Amors fai noig e dia
als fis verais qu’amon senz tricharia.
 
E Guillem ribatte:
 
No·s deu plaigner d’affan,
ni dire sa dolor,
ni conoisser son dan,
ni del ben far lausor
amics que va camjan
soven sa captenensa?
Maint ne parlon dese
qui non sabon de que
mou jois ni malsabenssa.
 
«Non ha il diritto di lamentarsi, né di esprimere il proprio dolore o di far conoscere il proprio danno, né di rallegrarsi del bene ricevuto un amante che muta troppo spesso il suo comportamento? Molti si affrettano a parlarne e non sanno da che cosa muova joi o infelicità ». Contro i fedeli ciechi, che non si rendon conto del reale valore di joi e di malsabensa; contro coloro che mostrano sentimenti solo in apparenza ortodossi, in realtà poco sinceri, Guillem esalta l’autenticità delle proprie incertezze e delle proprie sofferenze e rivendica il diritto di elogiare o maledire Amore.
Esaminando il testo dei tre manoscritti che ci hanno trasmesso il componimento, D, H e V, notiamo che nei vv. 23 e 24 si registra un significativo accordo fra H e V (tanto più notevole, in quanto H di regola è accomunato a D):
 
V: Amics que si camjan
 
e uai sa captenensa;
H: Amics qe si camian
 
ne ua sa captenensa;
 
contro D:
 
V:
Amics qe va camian
 
souen sa captenensa.
 
Langfors, accogliendo un suggerimento di Spitzer (21), adottò la soluzione di V e H, con una correzione congetturale:
 
Amics qe van camjan
E va sa captenensa,
 
intendendo E va < IN VANUM, ‘sans raison’.
Ma, a ben vedere, priva di valide ragioni è proprio questo tipo di scelta, perché, se si comparano i versi in questione con l’accusa di Bertran de Bornlo filh, « cel qi trop·s chamja », si vede che il testo più corretto è proprio quello fornito da D: « amics que va camjan / soven sa captenensa » (laddove soven corrisponde quasi letteralmente al trop di Bertran) (22). È anzi probabile che questo sia un caso di diffrazione in absentiam, e che il modello recitasse «amics que·s va camjan soven sa captenensa».
Ma, rinviando al successivo paragrafo l’esame dei problemi relativi alla constitutio textus, osserviamo che, nella quarta cobla, Guillem precisa ulteriormente la propria linea di difesa, contro i suoi detrattori, e passa al contrattacco, rimproverando ai fedeli troppo « ortodossi » di essere degli ipocriti:
 
Nuls no sai d’Amor tan
que·n parie ses temor,
mas vist’ai c’ab joi gran
trop ris non an sabor,
e mans sospirs que fan
de feigner gran parvenssa ...
 
Le due strofe conclusive sono dedicate all’amata e si completa, in tal modo, l’illustrazione del binomio più caro all’autore: Amors e Don’, ai cui membri sono dedicate rispettivamente le coblas 1-4 e 5-6.
Don’e Amors, come ho indicato altrove (23), è in effetti un complesso e polivalente anagramma, che in Lo dous cossire (la canzone più famosa del rossiglionese) equivale al senhal di « Soremonda », la donna che le vidas dicono amata dal poeta e che realmente dovette ispirarlo (24).
Se rileggiamo il v. 16 di Lo jorn qu’ieu vis, citato qui sopra (a p. 97), scorgiamo, una sorta di allusione al senhal Don’e Amors. Il fatto che il poeta consideri legittimo ricorrere alla donna-schermo, quasi per allentare la tensione amorosa che lo opprime, conferma inoltre la nostra ipotesi interpretativa. Guillem, infatti, non dà alcuna importanza all’atteggiamento esteriore dell’amante, nei confronti dell’autenticità del sentimento (anche se le sue continue fughe e i ritorni pieni di pentimento determinarono i sospetti dei fizels amans).
Ritroviamo nella sesta strofa stilemi ed espressioni care a Guillem:
 
Que la fresca color
e·l gen cors benestan
tenc en tal sovinensa,
de re als no’m sove ...
 
Per cui si ricordi Lo dous cossire, vv. 32 sgg.:
 
En sovinensa
tenc la car’e·l dous ris,
vostra valensa
E·l belh cors blanc e lis ...
 
O anche Ar vei, v. 18:
 
Bel cors benestan, car e just ...
 
Per concludere con un cenno sulla fortuna del componimento ricorderò, col Langfors, che i vv. 8 e 9 furono imitati dal Minnesänger Heinrich von Morungen (25), il quale aveva tradotto pressoché letteralmente anche i vv. 35-38 di Lo dous cossire (26). Ma è ovvio che il capitolo dei rapporti fra l’opera di Guillem de Cabestany e quella dei Minnesänger meriterebbe di essere ben altrimenti sviluppato.
 
3. Per comodità del lettore, fornisco, qui di seguito, un nuovo testo critico della canzone, corredato, secondo le norme di « Romanica Vulgaria », della traduzione, dell’apparato e della scheda metrico-ritmica.
Per quanto concerne la ricostruzione del testo, tre sono, come ho detto, i codici che ci hanno trasmesso Anc mais: D, f. 102r; H, ff. 2v-3r e V, ff. 98r-98v.
Non si giustifica in alcun modo l’affermazione del Langfors, secondo il quale i tre testimoni apparterrebbero alla medesima famiglia (cf. p. 55): non esiste infatti un solo errore comune che possa servire a suffragare tale ipotesi. Vero è, invece, che siamo ancora una volta di fronte a una tradizione irrimediabilmente binaria, con D e V che si contrappongono sempre, e H che concorda di volta in volta con l’uno o con l’altro esemplare, in modo piuttosto sospetto.
D e H sono, ad esempio, accomunati da una lacuna molto estesa, che comprende la quarta e la quinta cobla e si rivela dunque di grande importanza. Anche al v. 11, De son / De so, contro De leis di V, si registra un errore significativo.
Per contro H e V concordano contro D, come abbiamo visto, al v. 24, ne va / ne vai, contro soven.
Quanto al v. 18, sembra che siamo di fronte a un altro caso di diffrazione. D ha infatti « Qe ·l mal taing qe ·l bes venssa », H « Qe ·l mal taing qe ·l ben venza » e V « Que mal tajn c’ab bel venza ». Apparentemente, il testo di D sembrerebbe corretto, anche se la costruzione appare piuttosto complicata: il senso della frase sarebbe però eccessivamente banale e, oltretutto, in contraddizione con le precedenti affermazioni del poeta:
 
Mas cel cui Amor gensa
deu soffrir mainta re,
car en mainz luocs s’ave
qe ·l mal taing qe ·l bes venssa.
 
Langfors, che ha adottato la soluzione di D, traduce: « mais celui qu’Amour ennoblit doit souffrir maintes choses; car en maintes occasions il arrive qu’il convient que le bien vainque le mal ». Io credo, invece, che la soluzione da adottare risulti dalla combinazione delle lezioni di D e di V:
 
Que mal taing que·l bes vensa ...
 
«Ma l’amante ingentilito da Amore deve sopportare molte pene, perché in varie occasioni accade che mal si conviene che il bene prevalga ... ».
 
 
 
SCHEDA METRICO RITMICA
 
Sei cobbole unissonanti di nove esasillabi maschili e femminili (in sesta e nona sede), che rimano secondo lo schema a b a b a c’ d d c’. Si tratta d’un modulo unico nella poesia trobadorica (Frank 290 : 1) che non trova riscontri né in area d’oïl né in ambito galego-portoghese. È un modulo caratterizzato da una forte asimmetria all’interno delle varie strofe, le quali si dividono in agglomerati metrico-sintattici di varia misura. Mentre sembra destinata a svilupparsi, dilatandosi quasi per l’intera cobla, la proposizione iniziale, secondo una tendenza che, come notò a suo tempo Auerbach (27), anticipa le soluzioni stilnovistiche (occupa quattro versi nella prima strofa, cinque nella seconda, sei nella terza, ecc.).
 
 
Note:
 
(1). Per le relative indicazioni bibliografiche, si vedano soprattutto M. DE RIQUER, Guillem de Berguedà. I, Estudio histórico, literario y lingüístico; II, Edición crítica, traducción, notas y glosario, Abadia de Poblet 1971 (« Scriptorium Populeti », 5); K. LEWENT. The Catalan Troubadour Cerveri and bis Contemporary, the Joglar Guillem de Cervera, in «Speculum», 38, 1963, pp. 461-72. Sulla nostra canzone: L. SPITZER, «Zu Guilhem de Cabestanh's Gedicht Anc mais no.m fo semblan», Neuphilologische Mitteilungen, 1913, p. 179-181; O. J. TALLGREN, «A propos d'une poésie rééditée par M. Långfors», ibidem , p. 181-s.; C. APPEL, «Zum Guilhem de Cabestanh, 213, 2, und Ozil de Cadars, 314, 1», Neuphilologische Mitteilungen, 1913, p. 184. ()
 
(2). Per un nuovo tentativo d’interpretazione dell’intero canzoniere di Guillem e per i necessari additamenti bibliografici, cf. L. ROSSI, Il cuore, mistico pasto d’amore: dal «lai Guirun» al Decameron, in Studi Provenzali e Francesi 82, «Romanica Vulgaria », Quaderni, 6, L’Aquila 1983, pp. 28-129 [51-111]. ()
 
(3). Cf. L. ROSSI, A. ZIINO, Mout m’alegra douza vos per boscajes, in « Cultura Neolatina », XXXIX, 1979, pp. 69-80. ()
 
(4). Cf. H. ANGLÈS, La música de las Cantigas de Santa Maria del rey Alfonso el Sabio, II, Barcelona 1943, p. 441. Importante anche l’influenza che Guillem esercitò sui conterranei Cerverí de Girona e Jordi de Sant Jordi. ()
 
(5). Cf. Il cuore... cit., pp. 68-74. ()
 
(6). Come ad esempio l’assassinio a tradimento, nel 1175, del visconte Ramon Folc de Cardona. ()
 
(7). Cf. M. COTS, Notas históricas sobre el trovador Gutllem de Cabestany, nel «Boletín de la Real Academia de Buenas Letras de Barcelona», XXXVI, 1977-1978, pp. 23-65. ()
 
(8). Cf. V. CRESCINI, Il Canzoniere provenzale della Marciana nel suo vol. Per gli studi romanzi, Padova 1892, pp. 129-38. ()
 
(9). A. LANGFORS, Le troubadour Guilhem de Cabestanh, nelle « Annales du Midi », XXVI, 1914, pp. 5-96; edizione apparsa poi con qualche leggera modifica nei CFMA, cf. Les Chansons de Guilhem de Cabestanh, éd. p. A. LANGFORS, Paris 1924. ()
 
(10). Cf. p. 56: «Leis pourrait se rapporter aussi à Amors (v. 6), qui est souvent féminin en ancien provençal. J’ai traduit par ”celle”, comme si leis était la dame pour laquelle la chanson a été faite ». ()
 
(11). Cf. « Neuphilologische Mitteilungen », 1913, pp. 181-84. ()
 
(12). Non appaiono infatti lacune di sorta in questa sezione del codice e si comprende che gli spazi bianchi sono stati lasciati a bella posta dal copista. ()
 
(13). Il fatto curioso è che lo stesso Langfors, nella scheda relativa a quest’ultima canzone, registra correttamente la testimonianza di V. ()
 
(14). Cf. C. APPEL, Bernart von Ventadorn, seine Lieder mit Einleitung und Glossar, Halle 1915, pp. 186 sgg. ()
 
(15). Cf. L. ROSSI, Ar vei qu’em vengut als jorns loncs. Nel modo più lieve, in Il Pomerio (« In forma di Parole, Libro Settimo », 1983), pp. 40-45 e 656-74. ()
 
(16). Cf., ad es., Ogan res qu’ieu vis, vv. 23-33; Ar vei, vv. 29-35, ecc. ()
 
(17). Cf. Il cuore, cit., pp. 78-93. ()
 
(18). Cf. A. KOLSEN, Die Sirventes-Canzone des Bertran de Born lo filh, in « Neuphilologische Mitteilungen », XXXVII, 1936, pp. 284-9. ()
 
(19). Per un’analisi del componimento, cf. Mout m’alegra, cit., pp. 73-75. ()
 
(20). Cf. Il cuore, cit., pp. 93-111. Vd. ora anche il vol. di J. GUNTER, Die Dialektik des Trobar. Untersuchungen zu Struktur und Entwicklung des occitanischen und französischen Minnesangs des 12. Jahrhunderts, Tübingen 1983. ()
 
(21). Cf., qui sopra, la n. 11. ()
 
(22). Quel che i due poeti vogliono sottolineare è infatti l’eccessiva incostanza dei sentimenti. ()
 
(23). Cf. Il cuore, cit., pp. 61-64. ()
 
(24). Con questo anagramma Guillem non si diverte a giocare solo in Lo dous cossire o in Anc mais, ma anche in Lo jorn qu’ie·us vi. ()
 
(25). « Wan ich wart durch sie / und durch anders niht geborn », cf. F. MICHEL, Heinrich von Morungen und die Troubadours, Strasbourg 1880, p. 253. ()
 
(26). «Hete ich nâch gote ie halp sô vil gerungen, / er naeme mich hin zim ê mîner tage », cf. F. MICHEL, op. cit., p. 253. ()
 
(27). Cf. E. AUERBACH, Dante, als Dichter der irdischen Welt, Berlin-Leipzig, 1929, trad. in italiano nel vol. Studi su Dante, Milano 1963, p. 36. ()

 

 

 

 

 

 

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