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De Bartholomaeis, Vincenzo. Poesie provenzali storiche relative all'Italia. Volume primo con ventiquattro silografie. Roma: Tipografia del Senato, 1931

[CdT en procés d'incorporació]

392,007- Raimbaut de Vaqueiras

 

VI.

RAMBALDO DI VAQUEIRAS

Testo secondo V. Crescini, Man.3, p. 245 sgg.

Non si conosce con precisione l’anno in cui R. di V. passò in Italia per la prima volta. Avanti il 1194 (questo solo sappiamo di sicuro), partecipò a imprese cavalleresche a fianco di Bonifazio I di Monferrato, secondo che si apprende da lui stesso nella lettera al marchese (v. più oltre). Ma i suoi rapporti con costui, divenuti quasi ininterrotti dopo il detto anno, avevan dovuto essere saltuari dapprima; cf. n. IX. In questa poesia lo troviamo in relazione co’marchesi Malaspina, precisamente con Obizo II (v. 94). Costui, qui chiamato «Opizino», fu figliuolo di Obizo I e fratello di Alberto e Moroello. Nel Codex documentorum illustrium ad historicam veritatem Lunexanae provinciae ab EMANUELLE GERINIO elaboratum (ms. nell’arch. di Stato di Firenze, n. 714), Obizo I, col fratello Guglielmo, figura in documenti del 1141, del 1164, del 1183, e nell’atto preliminare di pace tra le città della lega Lombarda e lui, da una parte, e i messi imperiali di Federico I, dall’altra, stipulato in Piacenza il 30 aprile di questo stesso anno 1183 (Mon. Germ. Hist., Leg. II, Constit. et Acta, I, 175). Circa le controversie sue e de’suoi col comune di Piacenza, v. più oltre; e assai di più in LITTA, Malaspina, tav. I. Morì negli ultimi di dicembre del 1186 («in eodem anno [1186] circa festum sancti Thome marchio obiit» [Ann. Placent. Guelfi, p. 416]). Obizo II appare per la prima volta allato a suo padre in una convenzione stipulata co’ Piacentini, relativa a’ paesi di Dunisone, Oramala, Carpinetto e Bismantova, il 18 marzo 1183 (GERINI, docum. XXVIII); poi, co’ fratelli Alberto e Moroello, in altri del 1187 (docum. XXXIII; CIPOLLA-BUZZI, Cod. diplom. di San Colombano di Bobbio, II, 214), del 1188 e del 1189 (GERINI, documenti XXXIV, XXXV). Era già morto il 20 aprile del 1194; infatti egli non è ricordato accanto a’suoi fratelli fra coloro che rifiutarono di aderire alla tregua di Vercelli, giurata nel detto giorno, e che furon messi perciò al bando dell’Impero da Truscardo, delegato dell’imperatore; v. TOECHE, Kaiser Heinrich VI, p. 571. Nell’atto di vendita del Poggio di Grondola a’ Piacentini, del 19 dicembre 1195, figura, allato ad Alberto Malaspina, il nipote Corrado, figlio del fu Obizone II (GERINI, docum. XXXVIII). Quello del 1194, 20 aprile, sarebbe così il limite più basso a cui potrebbe riferirsi la poesia. Senonchè è da osservare che Obizo II è chiamato dal trovadore «Opizino», il qual diminutivo, nell’uso corrente, doveva servire a distinguere il figlio dal padre omonimo. Nelle scritture legali però Obizino è detto «Opiço» egli pure: così, per es., nell’istrumento testè ricordato del 18 marzo 1183. Dopo la morte del padre, la distinzione non aveva più ragione di essere: tutto al più si sarà continuato per qualche tempo nell’abitudine di dire «Obizino», ma poi si sarà smesso. Inferiremo da ciò che R. scrivesse avanti il 1186? La cosa è ben probabile, ma non certa.

Circa il carattere e il valore della poesia, si son date svariate interpretazioni (riassunte in V. CRESCINI, Per gli Studi romanzi, p. 55 sgg.), intese soprattutto a determinare la condizione sociale della interlocutrice. Cotale particolare però non ha che una scarsa importanza, trattandosi di un personaggio fittizio. Infatti la composizione a dialogo di R. non è nè una tenzone, nè un giuoco partito fra due trovadori, nè un contrasto fra terze persone, si bene una poesia soggettiva. L’autore per certo si è ispirato a qualcuno di que’ mimi in cui figuravano l’uomo che chiede e la donna che ricusa, mimi che egli deve aver visto recitare nelle pubbliche piazze d’Italia da istrioni italiani (l’esempio più cospicuo, benchè più tardo, è quello di Cielo; cf. le mie Orig. della Poesia drammat. Ital., p. 98). Questo esempio tuttavia non gli ha giovato che per dargli lo spunto, cioè per suggerirgli la forma drammatica. Ma egli, da vero uomo d’ingegno, la ha modificata, introducendo realisticamente nel dialogo la novità del parlar genovese della donna. R. è un giullare, e vuol destare l’ilarità. Di chi, lo dice egli stesso, o, meglio, se lo fa dire dalla donna nella tornada, là dove costei rinvia l’importuno a «ser Opizino», che gli farà il dono di un ronzino. Il ronzino: lo scopo della poesia è tutto qui! Il ronzino è l’aspirazione di ogni giullare girovago. Però nel sollecitare il dono, R. si comporta da par suo: egli non usa il modo banale della domanda diretta, come costumavano i più dei suai colleghi, ma ricorre a una trovata ingegnosa, per garantirsi dall’accusa di sfacciataggine. Come ogni altro giullare, egli avrà recitato la composizione davanti al marchese, e certamente davanti ad altri astanti, sostenendo da solo la parte sua e quella della interlocutrice. È una consuetudine ben nota. Dopo aver suscitato le risa dell’assemblea, con i su e giù di quella discussione, con la vicenda di quegli assalti e di quelle repulse, e dopo averla esilarata con qualche espressione salace (cfr. vv. 89-90), aiutandosi, perchè no?, con la mimica, ecco che, nella chiusa, viene al sodo, viene cioè a dare la stoccata finale al suo mecenate, facendogli comprendere il proprio umile desiderio: quello del dono di un cavallo!

 

 

 

 

 

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