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De Bartholomaeis, Vincenzo. Poesie provenzali storiche relative all'Italia. Volume primo con ventiquattro silografie . Roma: Tipografia del Senato, 1931

[CdT en procés d'incorporació]

PREFAZIONE

CAPITOLO I.

I Trovadori e la Storia d’Italia.

 

Delle duemilaseicento composizioni che rimangono dell’antico Parnaso lirico trobadorico, quattrocento all’incirca rientrano nella Storia d’Italia: o perché, se bene scritte oltr’Alpe da poeti che non passarono mai nella Penisola, trattano tuttavia di argomenti italiani, o perché scritte in Italia da poeti occitanici che vi fecero dimore piú o meno prolungate, o perché di Italiani che rimarono in lingua provenzale.

Codesta suppellettile poetica ha per noi un doppio valore: per la nostra storia letteraria e per la nostra storia civile. Per la storia letteraria, perché la poesia provenzale è stata la sola poesia d’arte in volgare la quale abbia risonato nelle nostre aule feudali dallo scorcio del sec. XII a quello del XIII. Essa per la prima introdusse fra noi il gusto e il culto della forma; serví di modello alla nostra nascente lirica cortigiana, cui forní concetti, motivi e formule; provocò la reazione del «dolce stil novo», e preparò l’avvento di Francesco Petrarca. Per la storia civile, perché gran parte di quelle cornposizioni sono ispirate dagli eventi politici d’Italia e, anche quando non hanno scopo e carattere decisamente politico, abbondano in allusioni a vicende, cose e persone italiane, rispecchiano la vita e il costume italiano, ripercuotono l’eco de’ giudizi e riflettono i vari atteggiamenti dell’opinione pubblica italiana di fronte agli avvenimenti contemporanei.

Mettendo da parte le poesie puramente amorose, le rimanenti che chiameremo senz’altro storiche, oltrepassano il numero di duecento. La presente raccolta ne comprende centonovanta, essendomi sembrato non mettesse conto, per i motivi che adduco piú in là, al capitolo IV, riprodurne alcune chè nulla avrebbero aggiunto alle nostre conoscenze e sarebbero riescite anzi che no ingombranti.

Nelle centonovanta son rappresentati tutti i principali generi lirici inventati da’ trovadori: canzoni amorose, sirventesi politici, morali, satirici, di crociata, di compianto e di consiglio, canzoni-sirventesi, tenzoni, diverbi e giuochi partiti, poesie descrittive, danze e cobbole sparse, nella multiforme svariatezza di figure metriche, della quale, sola in tutte le letterature antiche e moderne, era capace la raffinata tecnica trobadorica.

Trattandosi, nella massima parte de’ casi, di componimenti di attualità, la data di essi è facile a precisare, racchiudendola spesso entro limiti assai ristretti, persino di qualche settimana. Disposti per ordine cronologico, essi vengono ad assumere, malgrado la pluralità degli autori, l’aspetto di una composizione unitaria. È cosí una nuova cronaca rimata quella che viene a formarsi, avente una continuità che non tutte hanno le cronache ordinarie.

Una cronaca sui generis però. Dato, infatti, il carattere lirico delle composizioni, il lettore non vi apprende gli avvenimenti come cosa del passato: egli vien trasportato nel bel mezzo degli avvenimenti stessi, ne respira l’ambiente, vede agire e ode parlare i personaggi talora con vivezza drammatica. E sono assai spesso personaggi sopra i quali soglion tacere tanto le fonti narrative quanto i documenti diplomatici: segnatamente delle donne. Non esagerò forse di molto chi comparò la funzione della poesia trobadorica a quella del giornalismo moderno.

Gli è che la poesia de’ trovadori fu sempre, sin dalla sua origine, legata alla vita reale. Fiorita, dopo un periodo per noi oscuro, nelle corti feudali dell’Aquitania e del Limosino, sulla fine dell’XI e il principio del XII secolo, essa rispecchiò le due principali tendenze della vita aulica: la galanteria, secondo l’ideale della società cavalleresca, e la politica, nel tempo in cui il far della politica era cosa riserbata unicamente alla classe aristocratica. Anche quando si diffuse al di là dei Pirenei e al di qua delle Alpi, serbò immutato tale suo doppio carattere.

Ora è notevole corne nulla di simile si scorga nella produzione lirica italiana della prima metà del XIII secolo. Ivi non un’allusione a un fatto o a una persona del tempo, non una indicazione topografica, ancorché quella poesia sia stata elaborazione proprio degli uomini che avevano il maneggio della cosa pubblica e, in tutti i casi, di gente di grado infinitamente piú elevato di quello degli umili maestri provenzali. Per trovare nel Parnaso lirico italiano del Duecento qualche eco degli eventi politici contemporanei, bisogna scendere alla seconda metà del secolo, quando la lirica da aulica andò facendosi borghese in Toscana, al tempo cioè di Guittone d’Arezzo, di Ruggeri Apuliese e di Provenzan Salvani da Siena, di Chiaro Davanzati e degli altri Fiorentini che tenzonarono intorno a Carlo d’Angiò e alla discesa di Corradino. Gli scialbi poeti preguittoniani non sentirono quanto realismo fosse nel programma artistico de’ loro modelli: essi si limitarono ad ammirarne le virtuosità formali e la maniera di trattare a freddo l’amore.

Con ciò non si vuole affermare che poesia storica, di ispirazione immediata, sia mancata totalmente fra noi. Chi ripensi al fervore della vita pubblica italiana, massime nelle città comunali, in un tempo di lotte senza tregua, sempre ispiratrici di canti di incitamento e di satire, troverebbe assurda una simile asserzione. Giullari c’erano dappertutto e avevano anch’essi una tecnica loro propria. Senonché accadeva che quei canti, divulgati a voce o su fogli volanti, erano presto sorpassati dagli avvenimenti: caduti nell’oblío, nessuno pensò di raccoglierli e di serbarli, anche perché non composti secondo gli schemi dell’arte aulica. Ciò dimostrano i rari saggi che il puro caso ce ne volle conservare, quali la  cantilena  bellunese del 1196 e il  ritmo  lucchese del 1213. Un’eccezione fortunata è quella delle rime storiche contenute nella nota collezione genovese. Questa poesia storica popolare d’Italia troverà solo piú tardi, sul cadere del XIII secolo, il modo di fissarsi in una forma definitiva, caratteristicamente nostra, derivata dall’arte giullaresca nazionale, e sarà quella del  lamento, il cui piú antico esempio è posteriore al 1280.

Fuori del mondo borghese e popolare, la lirica provenzale ci conduce nell’ambiente feudale. Ciò che essa racchiude di politico è riflesso del pensiero aristocratico. Se aristocratici non erano gli autori, aristocratica era l’arte loro; del ceto aristocratico gli interessi che essa propugnava. Anche quando coloro scendono a delle platealità, son quasi sempre i loro rapporti co’ signori quelli che li muovono.

Della propensione de’ trovadori per l’Italia e di quella degli Italiani per i trovadori furon date varie spiegazioni: conformità del sistema politico, attività di scambi commerciali, affinità di linguaggio, persino simiglianza di climi. Senza escludere l’efficacia di nessuno di questi fattori, la spiegazione andrà ricercata, a mio avviso, in due coefficienti di ordine piú semplice e piú pratico. Il primo, il benessere e il fasto delle corti italiane: in massimo grado, sino al principio del sec. XIII, di quella del Monferrato; benessere e fasto che consentivano il largo esercizio delle due principali virtu cavalleresche care a’ trovadori: «pregio» e «dono». Il secondo, il fatto della musica onde la poesia era rivestita: linguaggio intelligibile anche da coloro che non comprendevano le parole straniere. Ed è questo quel che varrà a renderci ragione del perché il provenzale sia stato oggetto di studio da parte degli Italiani. Quanti stranieri, in età di poco precedente alla nostra, non furono indotti a studiare la nostra lingua dal successo della melodia italiana?

Perché, a proposito del propagarsi della poesia de’ trovadori al di là dei Pirenei e al di qua delle Alpi e dell’essere stata coltivata da poeti nativi de’ due paesi, non c’era identità di condizioni tra la Spagna e l’Italia. In Catalogna e in Aragona, la lingua de’ trovadori era intesa da tutti, essendo, in sostanza, la stessa lingua del luogo. In Italia, invece, per comprenderla e, meglio ancora, per scriverla, era d’uopo averla studiata di proposito, tantoppiú trattandosi non del linguaggio dell’uso corrente, sí bene di un linguaggio letterario, disciplinato da norme grammaticali inderogabili, ricco di un suo proprio lessico e di un suo proprio frasario. C’era poi la tecnica poetica e c’era tutto un convenzionalismo, formale e sostanziale, da osservarsi da parte degli stranieri. Se i nostri si mostrano, sin da’ primi tempi, già pienamente padroni di tutto ciò, questo significa che essi seguivano una tradizione assai piú antica di quel che farebbero credere i documenti.

Sopra tale questione assai poco dice il fatto di Cossezen. Questo misterioso trovadore «Lombardo», che appare in Guascogna tra il sesto e il settimo decennio del sec. XII, non sappiamo se avesse appreso l’arte sua in patria o fuori. Parimenti ignoriamo quando sia incominciata in Bologna la consuetudine, di cui parla il giureconsulto Odofredo, di mandare a bella posta in Provenza ad acquistar canzonieri. In ogni modo, che nella città degli studi, dove molti erano i Provenzali, la nuova poesia dovesse essere conosciuta, è cosa da ammettersi anche soltanto in via logica. Si sarà trattato di diffusione per mezzo di scrittura, visto che l’ambiente studentesco non era atto ad attirar coloro che unicamente dall’esercizio della propria arte traevano i mezzi di sussistenza. Questi non potevano esser forniti se non dal mecenatismo cortigiano. Comunque, è assai significativo il fatto che dall’ambiente scolaresco di Bologna sia uscito poeta provenzale, sul cadere del XII secolo, Lambertino Buvalelli.

Le corti primamente battute da’ poeti provenzali furon quelle della Marca Obertenga e della Aleramica.

Gli Obertenghi, de’ quali il ramo piú potente era quello de’ Malaspina, possedevano, com’è noto, tutto il vasto territorio dell’Appennino Ligure-emiliano, compreso, all’ingrosso, tra i Giovi e la Macra, e parte della Lunigiana. Nell’ultimo quarto del XII secolo, ne era a capo Obizzo I, a cui successero, nel 1186, Obizzo II, Alberto e Moroello, poi Corrado l’«antico», figlio di Obizzo II, e Guglielmo, figlio di Moroello. La musa occitanica rese celebri questi nomi, prima ancora che alla famiglia ospitale erigesse Dante un monumento imperituro nell’VIII del Purgatorio. Alberto fu trovadore egli stesso, e certo la sua produzione non si limitò alle poche cobbole di cui diremo più avanti. E, inoltre assai dubbio se sia lui e non altri quel tale «da Pontremoli» menzionato da Arnaldo Daniello, il quale non venne mai in Italia, in una poesia anteriore al 1180. I tempi non erano molto propizi per la gloriosa stirpe, causa le diuturne lotte con le baldanzose borghesie comunali, tendenti a roderne a poco a poco i dominî confinanti. Ciò nondimeno co’ trovadori e co’ giullari i Malaspina scioglievano volentieri i cordoni della borsa.

Gli Aleramici, nelle loro diramazioni principali di marchesi del Monferrato, del Vasto e di Busca, e nelle numerose diramazioni secondarie, possedevano presso che tutta quanta la regione subalpina e si affacciavano sulla Riviera di Ponente. De’ marchesi del Vasto il rama piú importante era quello di Saluzzo. Sullo scorcio del sec. XII, era marchese di Saluzzo Manfredi II, marito di Adelasia, figlia di Guglielmo il Vecchio di Monferrato e perciò cognato di Alberto Malaspina. Quanto a que’ di Busca, il personaggio più famoso per i suoi rapporti co’ trovadori e per i casi stessi della sua vita, fu Manfredi I Lancia. Appartenevano allo stesso ramo i marchesi Del Carretto, essi pure ospitali co’ trovadori.

Ma era nella casa del Monferrato che risiedeva la maggior potenza aleramica. Di essa casa purtroppo andarono dispersi gli archivi, e narratori delle sue vicende non ce ne furono che piú tardi. Sí che della parte cosí grande e gloriosa da essa avuta negli eventi d’Italia e d’Oriente non si hanno notizie se non precipua­ mente da fonti straniere. Tutti gli scrittori la esaltano. Ma colora che ne fanno la celebrazione piú entusiastica sono i trovadori.

La serie delle poesie relative alla casa del Monferrato si inizia con l’invio di una canzone da parte di un oscuro trovadore del Viennese, Peire Bremon lo Tort, a Guglielmo Lungaspada, durante i pochi mesi che questi passò in Palestina nel 1167–7, chiamatovi quale erede presuntivo di Baldovino IV il Lebbroso. È il solo documento letterario che ricordi l’infelice giovane, primogenito di Guglielmo il Vecchio e fratello di Corrado e del gran Bonifazio. Ignoriamo se l’autore abbia conosciuto il principe soltanto di fama ovvero nel Monferrato. In questo secondo caso, egli sarebbe il piú antico trovadore che si ricordi aver passato le Alpi.

L’affiuenza de’ trovadori in Italia incomincia a essere documentata qualche anno dopo. I piú antichi di essi sono Rambaldo di Vaqueiras, Peire Vidal e Gaucelm Faidit. Circa la condizione loro e quella di tutti gli altri che vennera fra noi piú tardi, questo è certo: che, se al di là del Varo l’arte fu coltivata anche da personaggi degli ordini più elevati, coloro che passarano al di qua appartenevano, senza alcuna eccezione, alle classi più umili. I trovadori di cui furon serbati i nomi, le rime e qualche notizia biografica non sono, a dir vero, numerosi, ma essi rappresentavano, nel ceto, le personalità piú notevoli. Intorno a loro si addensava tutta una folla di gente minore: giullari a cui bastava di saper suonare uno strumento (la viola, il liuto, il salterio), avere una buona voce e possedere un piú o meno ben fornito repertorio di canzoni altrui da cantare davanti a’ cavalieri e alle dame. Furon costoro i veri divulgatori della poesia provenzale in Italia e altrove: ad essi affidavano i compositori le poesie loro, testo e musica, inserendovi spesso tanto il nome del destinatario quanto quello della stesso latore.

Rambaldo di Vaqueiras è una delle figure piú notevoli del Parnaso provenzale. Spinto in Italia dalle necessità della vita entro l’ottavo decennio del sec. XII, sembra vi sia passato e ripassato piú volte, da giullare. Anteriore al 1186 è certamente il suo dialogo bilingue con una donna genovese. Egli lo produsse alla corte di Obizzo II Malaspina, e, a parte quel che esso lascia intravvedere delle consuetudini della vita giullaresca, è storicamente interessante per quel che rispecchia di certe consuetudini della vita italiana.

Ma Rambaldo, misero ed errabondo attraverso le strade della Liguria, della Lombardia e del Piemonte, non trovò quiete se non dopo che si fu stabilito alla corte del Monferrato.

 

[imatge RAMBALDO DI VAQUEIRAS.]

 

Sulla corte del Monferrato convergevano allora gli sguardi di tutto il mondo, a cagione de’ dolorosi avvenimenti d’Oriente: la prigionia di Guglielmo il Vecchio e l’assedio di Tiro, eroicamente sostenuto contro il Saladino dal secondogenito di lui Corrado. Questi casi, che commossero tutta la Cristianità e fecero dappertutto deplorare gl’indugi di Filippo Augusto e di Riccardo Cuor di Leone a portare il soccorso da tempo invocato, riecheggiano nelle poesie di Peirol e di Bertran dé Born. Il primo, vivente presso il Delfino d’Alvernia, ha riprodotto gustosamente, in una tenzone immaginaria con Amore, lo stato d’animo di molti, posti, alla vigilia della crociata, di fronte al dilemma se partire o restare. Il secondo, che pur non pare assai disposto a partire, come di fatto non partí, eleva, nella primavera del 1190, un lungo canto di protesta contro gl’irresoluti, in forma di apostrofe a «messer» Corrado, il quale non può sperare aiuto che da Dio, una volta che i re, sebbene crociati, non si muovono.

A reggere gli stati d’Italia era rimasto il terzogenito di Guglielmo, Bonifazio. Fu presso di lui che Rambaldo trovò la propria fortuna. A lui resterà legato per tutta la vita; di lui tramanderà la fama a’ posteri, in versi in cui la devozione al signore è infiammata dall’affetto per l’amico. Grazie alle poesie di Rambaldo, Bonifazio appare quale l’incarnazione del tipo ideale del perfetto gentiluomo medievale. Alcune nobili imprese giovanili di Bonifazio, alle quali il poeta partecipò, cadono in questo periodo di tempo.

Subentrato ne’ diritti paterni in seguito alla morte di Corrado, ucciso dagli Assassini nel 1192 (28 aprile), il marchese Bonifazio, o semplicemente «il Marchese», come da allora antonomasticamente lo si designò da tutti, non è a dire che trovasse perfetta tranquillità ne’ suoi stati d’Italia, e ciò particolarmente a cagione della lotta col comune di Asti. Questa lotta, lunga, incessante, durerà sino al tempo del suo successore, passando attraverso una continua alternativa di guerre e di tregue, giurate e spergiurate. Nel 1191 (19 giugno), al combattimento in cui il Marchese sconfisse gli Astigiani, facendo ben duemila prigionieri, che poi tenne per tre anni, partecipò certamente anche il trovadore. Malgrado tali difficoltà politiche, la vita della corte Monferrina, qual apparisce dalle parole di Rambaldo, non cessò mai di esser gaia. Egli la descrive con vivacità ed evidenza. Regnano colà ogni benessere, ogni larghezza, ogni galanteria: colà il bel vestire e il bello armarsi, colà trombe, giuochi, viole e canti: porte spalancate all’ora del desinare, giacché colà non c’è bisogno di portiere, come nelle case de’ ricchi avari. Il poeta parla di piú che cento fanciulle maritate a conti, marchesi, baroni d’alto affare con dote elargita dal Marchese, senza che la giovinezza lo facesse mai peccare con alcuna di esse; di cento cavalieri corredati da lui; di cento altri abbattuti od esiliati. Ché Bonifazio soleva elevare i buoni ed abbassare i pravi, né mai dava ascolto ad adulatori. Vedove ed orfani assisté e soccorse, e non deluse mai la speranza di chi, essendone degno, fosse ricorso alla sua protezione.

 

[imatge GAUCELM FAIDIT.]

 

Frattanto la turba giullaresca straniera ingrossa per nuovi elementi che giungono, non solo omai dalla Provenza, ma anche da altri paesi: dalla Francia, dalla Brettagna e dalla Normandia. Talché, poco dopo, Peire Vidal troverà che i giullari avevano ormai detto tanto bene del Marchese, che a lui non restava piú nulla da aggiungere. Ignoriamo quando precisamente sia giunto per la prima volta in Italia Gaucelm Faidit, il quale, oltre che dell’ospitalità di Bonifazio, godé di quella di qualche altro signore italiano. Non risiedé a lungo fra noi, ma vi tornò più tardi.

Verso il 1194, l’arte trobadorica ha guadagnato assai terreno nella Penisola. Si ode adesso, nella primavera di quest’anno, per la prima volta, la voce di un trovadore italiano, ed è uno squillo di tromba antitedesco: il primo di una serie che si continuerà per de’ secoli.

Siamo alla vigilia della calata di Arrigo VI, desideroso di ritentare, rimpinguatosi com’è dell’oro testè sborsatogli pel riscatto da Riccardo Cuor di Leone, l’impresa della conquista della Sicilia, fallitagli tre anni avanti. Già un’avanguardia di agenti imperiali percorre in lungo e in largo l’Alta Italia, ordendo intrighi, stringendo accordi, rinnovando alleanze, rinfocolando odî, profondendo il danaro corruttore. E intanto l’Imperatore, in Germania, va adunando gran gente. L’autore, che è un misterioso Peire de la Caravana o de la Cavarana, incita alla resistenza gli Italiani, specialmente quelli delle città collegate, cioè di Bologna, Milano, Brescia, Mantova e della Marca Trivigiana. Ricorda le crudeltà commesse da Arrigo, tre anni avanti, nell’Italia meridionale. Esorta a diffidare de’ lenocini dei Tedeschi e di costoro beffeggia persino il linguaggio. Il ritornello ammonisce i Lombardi a stare in guardia e a mantenersi concordi se non vorranno divenire peggio che schiavi. Qui si respira l’aria del libero Comune, ancorché il poeta si mostri in relazione con qualche signore aderente alla Lega; qui, a differenza che presso i Provenzali, cio che parla è l’interesse collettivo e, per la prima volta, il sentimento nazionale!

È risaputo che le cose volsero ben altrimenti di quel che sperarono gli antiimperiali. La seconda metà di quel 1194 e il 1195 videro infatti la calata germanica, l’invasione del Reame, i combattimenti della Sicilia orientale, il sacco di Palermo, la dispersione degli ultimi principi Normanni e l’eccidio de’ baroni di Puglia e di Sicilia!

A una parte di questi avvenimenti, lo ricorderà piú tardi, fu presente Rambaldo di Vaqueiras. Intruppato fra le genti di Bonifazio di Monferrato, egli seguí il suo signore alla guerra di Sicilia, alla quale questi partecipò, com’era suo dovere, in servizio dell’Imperatore. Imbarcatosi a Genova alla metà dell’agosto del 1194, egli assiste alla resa di Gaeta e a quella di Napoli. In un conflitto tra Genovesi e Pisani, nel porto di Messina, copre col proprio scudo il Marchese. Combatte al fianco di lui a Randazzo, a Paternò, a Lentini, a Caltagirone, ad Aidone, a Piazza Armerina e alla Roccella. Presenzia la coronazione dello Svevo nella cattedrale di Palermo, il dí del Natale. Licenziate dal sovrano, pochi giorni dopo, le truppe del Marchese, fa ritorno con lui in Piemonte. Premio del suo valore e della sua devozione al signore è il cingolo cavalleresco che questi gli conferisce.

La conquista del reame di Sicilia poneva l’Italia tutta nelle mani di Arrigo VI, il quale ormai dominava incontrastato dal Baltico al Mar d’Africa. Tale grandioso avvenimento, sia per le conseguenze che ne seguivano nell’ordine della politica internazionale, sia per le circostanze in cui si era compiuto, commossero profondamente l’opinione pubblica nella Penisola e fuori. Un’eco se ne raccoglie tra le rime di Bertran de Born. Ma l’interprete piú genuino di una almeno delle correnti di tale opinione, di quella di qualcuna delle corti aleramiche, è Peire Vidal.

Questo trovadore tolosano, meno simpatico di Rambaldo di Vaqueiras, perché meno sincero, girovago irrequieto, attaccabrighe, vanitoso, fumoso e millantatore, un po’ miles gloriosus, un po’ dongiovanni, giunse in Piemonte sui principio del 1195, quasi contemporaneamente al ritorno di Rambaldo dalla Sicilia. Era stato in Italia altra volta? Lo si è affermato, ma pare a torto. Ospite, in Saluzzo, del marchese Manfredi II, ivi sembra abbia spinto gli sguardi cupidi sino alla contessa Adelasia: non invano, a sentir lui; il quale però non sappiamo quanta fede meriti nelle sue affermazioni. Egli si mostra entusiasta degli Italiani e cosí pure del soggiorno nel Monferrato e nel Canavese.

 

[imatge PEIRE VIDAL]

 

Nel Monferrato o nel Canavese compose una delle piú notevoli poesie del suo non esiguo canzoniere: una di quelle canzoni-sirventesi nelle quali le stanze amorose si avvicendano con le stanze politiche e satiriche. Nei pochi mesi che ha trascorsi in Italia, questo straniero si è già messo alla portata delle cose italiane e degli umori degli uomini. Infatti, lasciando da parte le stanze amorose, i sentimenti politici ch’egli manifesta nella canzone-sirventese sono gli stessi di coloro tra’ quali viveva. Dopo avere esultato per la recente vittoria de’ Pisani sopra i Genovesi nelle acque di Bonifacio, in Corsica, egli propugna l’idea della unione di tutte le città Lombarde contro l’Imperatore. Vorrebbe perciò veder pacificati tra loro Milanesi e Pavesi, cioè i capi delle due leghe contrapposte: quello per l’appunto a cui mirava l’azione politica di Milano, desiderosa di ricostruire la lega antica. Quanto al regno di Sicilia, ci apprende una cosa taciuta dalle altre fonti allorché invoca l’intervento di Riccardo Cuor di Leone; egli fa, insomma, una proposta che non può esser venuta in mente a lui per il primo. La conquista dello Svevo non era stata fatta forse col danaro estorto al Re d’Inghilterra? Ed era difficile ritorla all’usurpatore? Tra’ seguaci di parte imperiale non c’è, secondo lui, che uno solo che valga qualcosa, e costui è il Marchese di Monferrato: gli altri valgono meno di cinque marchi, il prezzo di una camicia rotta. Non manca poi di ammonire i Lombardi circa gli obliqui disegni dei Tedeschi, vili ribaldi e mali scherani, e di rammentar loro, come l’anno avanti Peire de la Caravana, lo scempio de’ baroni Pugliesi e Siciliani fatto da Arrigo in Palermo.

La canzone-sirventese è dell’estate del 1195. Non siamo sicurissimi se cada in questo stesso anno o se sia piú tardo uno scambio virulento di improperi tra il Vidal e il marchese Manfredi I Lancia, questo signore che, costretto dal bisogno, vendeva l’un dopo l’altro i suoi castelli, come una trecca i suoi capponi.

Poco dopo il trovadore lasciò l’Italia, dove, come si vede, non dimorò che un anno. Si recò alla corte di Ungheria, e vi dimorò un altro anno; poi ne perdiamo le tracce per qualche tempo.

Che Rambaldo, tornato in Piemonte, una volta elevato al grado militare, non abbia smesso le sue abitudini giullaresche, lo dice la sua produzione posteriore. Ma che l’intrusione di un giullare nel ceto cavalleresco non sia andata a sangue a qualcuno, e che la sua mutata condizione sociale sia sembrata altrui essergli piú di imbarazzo che di onore, glie lo spiattellò in faccia Alberto Malaspina. Ruggine fra’ due ce ne doveva essere da tempo. Comunque, è nello stesso anno 1195 che assistiamo a una vera zuffa poetica tra il Marchese e il neo-cavaliere. Lasciando da parte le insolenze volgari che ciascuno di essi scaglia contro il proprio avversario, ci sono, tra le accuse di Rambaldo ad Alberto, di quelle, che costui non smentisce, relative alla vita pubblica del Marchese: i suoi rapporti poco leali con Genova a cui aveva mancato di fede, impegnando ad altri i pedaggi che i Malaspina riscuotevano ne’ valichi degli Appennini ed erano spesso di intralcio al commercio della Repubblica; la graduale espropriazione de’ dominî malaspiniani da parte de’ Piacentini, i quali adesso si sono impadroniti della Val di Taro e della forte posizione di Pietracorva; la mancata parola a Niccolò e a Lanfranco de Mari in una faccenda che ci sfugge. Come ho accennato dianzi, di tutto il bagaglio poetico di Alberto Malaspina non rimangono che le sue cobbole in questa tenzone.

Il marchese Lancia e Peire Vidal, il marchese Malaspina e Rambaldo di Vaqueiras, persone di così diversa condizione sociale, tenzonano fra di loro da pari a pari. L’arte li pone sullo stesso piano.  E queste non erano tenzoni da burla, di quelle a volte sapientemente combinate in antecedenza per divertire un uditorio, ma veri sfoghi di livore personale. È una degenerazione della tenzone aulica, vertente d’ordinario sopra una qualche questione di amor cortese e cortesemente dibattuta, e noi non ne troviamo gli esempi che in Italia.

Non devo qui intrattenermi a lungo sopra il valore poetico dell’opera di Rambaldo.  Dirò solo che tra i poeti provenzali egli è uno de’ piú originali: il piú originale certo tra quelli che vissero in Italia. Il suo canzoniere, accanto a liriche d’amore che forse non lo distanzierebbero gran che da tanti suoi colleghi, offre varietà di tipi, con composizioni di genere popolaresco da lui artisticamente rielaborato, e con altre di ispirazione realistica, piene di brio e di efficacia descrittiva. Nelle une e nelle altre spicca la gagliarda tempra dell’autore.

Gli antichi biografi hanno fabbricato un vero romanzo intorno alle relazioni di Rambaldo con Beatrice del Monferrato, figliuola di Bonifazio. Roba da relegare nel mondo delle favole! Sta di fatto che il trovadore dedicò a Beatrice parecchie canzoni d’amore, dedicandole simultaneamente a una dama ch’egli occulta trobadorescamente sotto il nomignolo poetico di «Bel cavaliere». Ciò che basterebbe di per sé solo a escludere l’identità delle due persone. A Beatrice egli non dedica che l’opera d’arte: cosa pienamente conforme alle consuetudini di quello e di altri tempi. La osserveremo anche piú in là, per altre fanciulle e dame italiane. Ché l’avere i trovadori cantato unicamente delle donne maritate e l’essere stati amanti di tutte quelle che ricordano nelle loro poesie, è una leggenda letteraria. Nel caso dell’Italia, la leggenda è smentita da tante prove. C’erano fra noi delle grandi dame aristocratiche, dilettanti dell’arte trobadorica; che avranno ben ricompensato i sonatori, i declamatori e i poeti, ma nulla piú.  Ho già detto che poca fede sia da prestare a Peire Vidal in ordine a’ suoi rapporti con Adelasia di Saluzzo, rapporti che qualche interprete delle poesie del poeta tolosano piú tardi esagerò. Del resto, a proposito del Monferrato, chi mai riescirebbe a immaginare un Bonifacio complice di una tresca della propria giovane figliuola con un giullare, sia pure un giullare d’ingegno?

Tra le poesie composte da Rambaldo alla corte Monferrina, un vero gioiello è il Carroccio. Questa singolare composizione era destinata ad esaltare la bellezza, la grazia e la venustà di Beatrice, ed insieme ad allietare lo sciame leggiadro delle altre dame e damigelle di quella e delle altre corti piemontesi. Nelle quali, a dispetto delle vicende belliche che tenevano spesso occupato il Marchese, i suoi parenti e i suoi alleati, segnatamente la eterna guerra contro il comune di Asti, regnà sempre la giocondità.

Tra il 1200 e il 1201, il riaprirsi delle ostilità contro Asti ha novellamente richiamato al campo il Marchese. Ma frattanto un’altra guerra vien dichiarata: questa non a lui, sí bene a sua figlia. Le donne, che ella ha superato in beltà e pregio, e si vedono perciò lese nei loro diritti, e che, sebbene ancor giovani, son relegate a cagion di lei tra le vecchie, si organizzano e bandiscono la guerra alla usurpatrice. Chi sono esse? Sono il fiore dell’eterno femminino aristocratico italiano: le dame piú celebrate del tempo, e il poeta prende l’occasione per sciorinarne tutto un catalogo. A capo di esse egli pone la contessa Margherita di Savoia. Quella che le donne bandiscono e combattono è una guerra all’italiana, una bonaria caricatura del battagliarsi fra loro che facevano le nostre città. Le donne fondano una città nuova, che chiamano Troia, si ordinano a comune, eleggono il podestà, si adunano in arringo, votano, col tradizionale «Fiat!», la guerra, muovono col carroccio. Il «comune delle vecchie», manco a dirlo, è sconfitto da Beatrice, cui basta per sbaragliarlo la sola arma del «pregio».

Furono questi i migliori tempi della vita trobadorica in Italia. Circa venti anni appresso, Falchetto di Romans avrà parole di rimpianto per quest’epoca felice.

Essa cessò col bando della quarta Crociata.

Questa che potrebbe a buon diritto chiamarsi la  Crociata latina, come quella cui non parteciparono che genti di Francia, d’Italia e di Fiandra, e dalla quale uscí la costruzione grandiosa del nuovo Impero di Costantinopoli, è noto dovesse avere per capo Teobaldo di Sciampagna. Venuto costui a morte improvvisamente, i baroni crociati elessero il Marchese di Monferrato come «il miglior di tutti». La notizia dell’elezione, avvenuta nel duomo di Soissons l’8 agosto 1201, rapidamente divulgata, riscosse l’approvazione universale; ne’ trovadori destò entusiasmo: in Peire Vidal allora tornato in Guascogna, in Gaucelm Faidit tornato nel Limosino, ma soprattutto in Rambaldo di Vaqueiras. Che Rambaldo abbia presenziato la cerimonia della consacrazione del Marchese a Soissons, è cosa piú che mai verisimile. Certo, il grido di giubilo ch’egli levà nella solenne occasione ha intonazione profondamente sincera, e cade nei primi giorni dopo l’avvenimento, sia che il poeta abbia composto il suo sirventese nella città francese, sia a Lanzo, dove allora dimorava la corte Monferrina.

Come Gaucelm Faidit e altri suoi colleghi, Rambaldo partí crociato. Malgrado qualche dubbio affacciato da un critico autorevole, tutto porta a credere si sia imbarcato a Venezia in quel memorabile mattino del 4 ottobre 1202. Assisté alla deviazione della spedizione verso Costantinopoli, combatté e fu ferito nell’assalto alle mura, si trovò al sacco della opulenta metropoli, e preseziò l’elezione di Baldovino di Fiandra a imperatore. Del Marchese, del quale stette sempre con intrepidità al fianco, condivise l’amarezza per la mancata elezione di lui alla suprema ambita dignità.

Ma non per questa soltanto. A un guerriero cosí prode, a un uomo sempre vissuto ne’ margini della politica, a un osservatore cosí acuto, non poteva non riuscire impari alle contingenze la figura del nuovo Cesare latino di Bisanzio, il quale nella guerra non aveva davvero dato prove di grande eroismo. L’uomo non si lasciava ingannare dalle apparenze. Egli vide che, trascorso il breve periodo di calma succeduto alla elezione, le cose non avrebbero tardato a cangiare. L’orizzonte, infatti, si veniva abbuiando da ogni parte, e la tempesta avanzava minaccevole sopra il nuovo ordine di cose stabilito sulle rive del Bosforo. Tra il giugno e il luglio del 1204, la situazione si fa assai delicata. E Rambaldo sente venuta l’occasione di far giungere la propria voce al sovrano.

Voce veramente sua? Certo, ma anche un po’ del Marchese di Monferrato. Nel  consiglio  che allora compose e che mandò a Baldovino, il nome di Bonifazio, si noti, non è nemmen profferito. Ma, quando egli invita il monarca novello a poggiare la propria potenza sopra l’amicizia de’ suoi compagni d’arme e a non scarseggiare ne’ compensi dovuti a costoro, ben si sente il portavoce del Marchese; il quale a’ compensi aveva piú di ogni altro il diritto, come capo della impresa prodigiosa, e a cui nondimeno si lesinava quella sovranità di Salonicco che gli era stata promessa nel caso della mancata elezione all’Impero.

Se il poeta manda un consiglio all’Imperatore, gli è perché questi non suol far nulla di propria iniziativa. Egli vuole sui trono un uomo di azione, non un abulico che si impigrisca in palazzo, mentre tutt’all’intorno è un addensarsi di nemici: Valacchi, Cumani, Russi, Turchi, Persiani e «Griffoni» (Greci). Son da emendare le empietà commesse nel saccheggio di Costantinopoli: templi e i palagi incendiati ad opera non de’ laici soltanto, sí anche de’ chierici. E tuttavia il Sepolcro non è ancora liberato! L’impresa è, dunque, ben lungi dall’esser condotta a termine; e, se l’Imperatore non porterà tosto la guerra contro gl’infedeli, ne riceveranno onta i suoi elettori, e il doge Enrico Dandolo sarà chiamato bugiardo!

Il monito doveva rimanere, ahimé, inascoltato!

Il ricordo de’ portentosi avvenimenti d’Oriente è racchiuso in una triplice epistola poetica di Rambaldo al Marchese, scritta nella primavera del 1205, quando questi ebbe ottenuta, dopo tanti contrasti, la sovranità del regno di Tessaglia (ottobre 1204). L’epistola, per la quale il trovadore prescelse la forma della lassa monorima di decasillabi, ha l’andatura epica, ed è un monumento prezioso per i particolari che narra della vita di Bonifazio in Italia e della sua azione nella Crociata.

In quella lettera Rambaldo non fa, in sostanza, che chiedere: chiedere bensí alla maniera giullaresca, ma chiedere nel momento che tutti chiedevano i commilitoni del Marchese. Egli parla nel tono ossequioso dell’amico e servitore devoto, ma enumera le proprie benemerenze verso il signore senza nulla omettere de’ propri meriti, e col vigore di un combattente valoroso. Richiama alla mente di lui le nobili azioni giovanili nelle quali gli era stato al fianco: cavalcate rischiose lungo la Riviera ligure e fra i greppi dell’Appennino, liberazioni di fanciulle insidiate ne’ loro beni e nelle loro persone, atti di giustizia compiuti, assalti, fughe e ritorni offensivi contro i nemici, ferite e prigionie. E poi la campagna di Sicilia e la gesta di Costantinopoli. Esalta le virtu cavalleresche del Marchese e chiude dichiarandosi di lui testimone, cavaliere e giullare.

È un peccato che fra i nomi a noi pervenuti dei beneficati da Bonifazio di Monferrato in Tessaglia, non figuri quello del trovadore. Ma chi potrebbe immaginare la sua richiesta esser caduta a vuoto? Del resto, che abbia avuto egli pure la sua parte nel bottino, lo fa comprendere egli stesso in un’altra notevole poesia scritta poco dopo. Quest’altra poesia è dell’estate della stesso anno 1205.

Quante novità nell’Impero entra que’ pochi mesi, e come diverso il tono della seconda poesia da quello della prima! L’Impero, minacciato da Bulgari e da Cumani, insidiato dalla graeca fides de’ Griffoni, logoro dalle discordie intestine e dalle gelosie de’ grandi, sembra sui punto di sfasciarsi.  Baldovino caduto prigioniero de’ Bulgari sotto le mura di Adrianopoli; buona parte de’ pellegrini stanca, delusa e irritata per avere la spedizione mancato al proprio scopo, rósa dal rimorso del voto non adempiuto. Dappertutto malcontento e timore. Ad accrescere il danno, ecco un bel giorno settemila pellegrini salire sopra navigli veneziani e far rotta verso le proprie case, abbandonando il campo.

Nel frangente, non mancavano uomini di forte tempra, atti a fronteggiare la situazione. O non era viltà il lasciare una conquista ottenuta con uno sforzo parso a molti sovrumano? Eppoi era proprio da disperare delle forze ancora disponibili? La situazione stessa non veniva a poco a poco migliorando, grazie all’energia dei capi? Siffatti sentimenti, comuni senza dubbio a’ dirigenti, in Costantinopoli e in Salonicco, Rambaldo li traduce in cobbole limpide ed appassionate. Per piú facilmente divulgarle e per incitare gli animi alla resistenza le frammischia a cobbole amorose. E a coloro che avevan compiuto imprese piú eroiche di quelle di Alessandro, di Carlomagno, di Americo di Narbona e di Orlando, che avevano aperto le vie e i porti da Brindisi sino al Braccio di San Giorgio, preannuncia prossimo il proseguimento della spedizione verso Damasco e Gerusalemme.

Con questa canzone-sirventese si chiude, a’ nostri occhi, la carriera del poeta- cavaliere. Pochi mesi dopo (1207), il gran Bonifazio, combattendo contro i Bulgari su’ monti di Rodope, cade colpito a morte. Da quel momento scompare anche Rambaldo.

Malgrado la precaria situazione dell’Impero Latino d’Oriente, quella di Venezia si viene afforzando sempre piú con l’occupazione delle isole dell’Egeo, ad essa ricadute dopo lo smembramento del territorio bizantino, e di Candia, cedutale da Bonifazio di Monferrato.

Frattanto, tra il 1204 e il 1205, Pisani e Genovesi si combattono nel Jonio. Salda base di Pisa è Siracusa, di Genova Malta.

Malta, venuta da alcuni anni in possesso del conte Enrico Pescatore, genovese, è, grazie a lui, divenuta genovese di fatto. Essa è tutta risonante di armi. Vi capita, non sappiamo di dove piovutovi, Peire Vidal, e vi resterà per circa due anni. Le poesie ch’egli compose durante questo periodo si risentono dell’ambiente maltese, dominato dalla politica bellicosa di Genova.

Ed ecco colui che, nel 1195, aveva esultato per la vittoria pisana nelle Bocche di Bonifacio, offrircisi tutto pervaso da entusiasmo genovese. Oltre all’amicizia del conte Enrico, suo ospite, egli si gloria di quella dell’ammiraglio genovese Armanno da Costa. Enrico è, secondo lui, la stella de’ Genovesi e fa tremare tutti i suoi nemici, per terra e per mare. I Genovesi non sono piú i «borbogliosi» di una volta: sono gai e cortesi, amorevoli co’ loro amici, severi co’ nemici; ed egli, col frasario che gli è abituale, si proclama loro signore, anzi addirittura imperatore.

Peire Vidal assisté, non sappiamo quanto da lontano, all’assedio e alla espugnazione di Siracusa da parte di Armanno da Costa (6-29 agosto 1204), alla reazione dei Pisani e alla sconfitta definitiva di costoro, battuti dal conte Enrico davanti a quella città il 19 dicembre del 1205. La vittoria genovese sgombrava le vie del mare da ogni insidia; onde, dopo di essa, il trovadore poteva cantare avere omai il conte Enrico distrutto tutti i suoi nemici, ed a Malta potersi andare e potersene venire senza inciampare nelle crociere pisane.

In questo giro di tempo, Vidal deve aver goduta anche l’ospitalità del marchese Guglielmo di Massa, giudice di Cagliari dal 1193; ma ignoriamo dove. A lui e al conte Enrico egli inviava, l’anno dopo, una sua canzone-sirventese, non piú da Malta, sí bene dal Piemonte.

Nel 1206, egli era, infatti, tornato in Piemonte. Vi aveva ritrovato vecchie amicizie e vecchie inimicizie: l’amicizia di Adelasia di Saluzzo e l’inimicizia del marchese Lancia, fra le altre. È ancora Adelasia la donna che Vidal celebra nella canzone-sirventese testè ricordata? Può darsi, per le considerazioni che espongo a suo luogo. Ma che sia il marchese Lancia l’uomo sul capo del quale, ivi stesso, rovescia una vera cataratta di vituperî, non credo possa dubitarsi. Sicché, dato che lo scambio di cobbole ingiuriose fra’ due di cui si toccò dianzi, sia proprio del 1195, bisognerà argomentarne che gli undici anni trascorsi da quel tempo non ne avessero estinto l’odio, il quale esplode novellamente, e con veemenza maggiore, ora, nell’estate del 1206.

Livore personale senza dubbio, però non disgiunto da avversione politica, e questa, probabilmente, di ispirazione altrui. Il vero è che, durante la guerra testè combattuta tra la feudalità piemontese e il comune di Asti, il contegno del Marchese non era riescito soddisfacente agli alleati; e quando, il 4 giugno, in Asti, egli sottoscrisse la pace, cedendo al vincitore le ultime terre rimastegli dopo una lunga successione di vendite e di pignorazioni, era parso aver Manfredi tradita la causa de’ signori. Ecco perché il trovadore vorrebbe vederlo legato alla coda di un toro e trascinato per la pubblica piazza di Asti, colà per l’appunto dove il tradimento era stato consumato.

Dopo quelle cessioni, Manfredi I Lancia, ridotto povero in canna, dispare dalla scena politica. Della sua famiglia si tornerà a parlare a’ tempi di Federico II e della madre del re Manfredi, Bianca.

Dispare anche Peire Vidal, dopa questo 1206.

Nella guerra contra Asti non il solo Manfredi Lancia aveva dovuto piegare il collo al volere della giovane Repubblica. La stessa sorte toccò, quasi simultaneamente, a Guglielmo IV, che governava il Monferrato nell’assenza del padre. Le condizioni economiche delle corti aleramiche, già scosse dopo la partenza de’ molti signori al seguito di Bonifazio, andarono pertanto peggiorando ogni dí piú a cagione della perpetua guerra astigiana. A torto o a ragione, il figliuolo di Bonifazio finí per sembrare degenere.

Tale sembrò, dopo la morte del Marchese, soprattutto a’ commilitoni di questo insediatisi nel regno di Tessaglia, allorquando si trovarono di fronte alla nuova politica dell’imperatore Enrico di Hainaut, il quale, col pretesto di sostenere i diritti del bambino Demetrio, erede del trono, mirò invece, a detta loro, a scacciarli da’ loro possedimenti. I loro sguardi conversero allora, naturalmente, sopra Guglielmo, che però, quantunque solletitato con numerosi messaggi, non die’ segni di volersi muovere. A capo degli Italiani c’erano Goffredo conte di Biandrate, Ravano dalle Carceri di Verona, Rolandino e Albertino di Canossa, Guido Pelavicini ed altri. Costoro trovarono il loro piú schietto portavoce in Elia Cairel.

Questo trovadore perigordino che, secondo le vecchie biografie provenzali, percorse la maggior parte della terra abitata e dimorò a lungo in Romania, appare per la prima volta nella storia nel 1207, fra gl’Italiani di Salonicco, al tempo del loro dissidio co’ Francesi di Costantinopoli. Fra gl’Italiani aveva trovato un’amica illustre, dilettante ella stessa di poesia: Isabella Pelavicini. Or insieme a’ messaggi di sollecitazione da parte di quelli, giungevano a Guglielmo anche le poesie del Cairel. Già piú volte egli aveva ammonito il Marchese, con cupo linguaggio, circa un certo giuoco che stava per giocarsi nel Regno, nel qual giuoco egli avrebbe dovuto dare scacco matto alla regina. Ma, allorché la tempesta scoppiò con la marcia di Enrico di Hainaut attraverso la Tracia e con la reazione degli Italiani, e a costoro sembrò piú che mai strano il contegno del Monferrato, ecco che la sua lingua si scioglie, ed egli parla alto e chiaro, senza ritegno, all’imbelle il linguaggio che ai commilitoni del gran Bonifazio non era lecito usare nella corrispondenza ufficiale. Ah, questo figliuolo del condottiero della quarta Crociata non è degno di portare il nome glorioso di Monferrato! Egli, che potrebbe ottenere un impero in Romania, se ne sta invece a fare il bifolco nel suo paese! Un impero: il sirventese del Cairel è l’unica fonte di parte italiana che rimanga per quegli avvenimenti: da essa aprendiamo quali fossero in realtà i disegni e le ambizioni de’ compagni di Bonifazio, cui ancora scottavano le ingiustizie patite dal loro capo testè scomparso. Guglielmo apparve a’ loro occhi uomo più adatto a fare il monaco che non il guerriero.

Queste ed altre accuse sanguinose, concentrate in uno de’ piú violenti sirventesi che ci abbia legato la musa occitanica, furon ricapitate a Guglielmo presso Mombello sulla fine del 1207. Purtroppo esse caddero a vuoto. Tredici anni ancora dovran passare avanti che il Marchese riesca a provvedersi in prestito il danaro necessario alla spedizione e si decida a passare in Oriente in soccorso del giovane suo fratello Demetrio: spedizione che gli costerà la vita. Elia Cairel, qualche anno dopo il 1207, se ne venne in Italia.

Se la corte del Monferrato decadeva, un’altra ne fioriva: la Estense.

Dell’ospitalità accordata da Azzo VI d’Este a’ trovadori avanti il 1212 non si hanno disgraziatamente che scarse testimonianze. Ma che tale ospitalità sia stata da gran signore non è da dubitarne.

I trovadori di maggior fama i quali varcarono le Alpi entro il primo ventennio del sec. XIII, furono Aimeric de Peguilhan, Albertet de Sisteron, Falchetto di Romans, Guglielmo de la Tor, Augier Novella: gente, come tutti gli altri, di umile condizione, né grandi poeti. Le loro poesie tuttavia ispirate dalle cose italiane son numerose: per esse si esce dall’ambito ristretto della regione subalpina e si spazia per la Marca Trivigiana, per la Lombardia e la Romagna.

Fiorisce, nello stesso periodo di tempo, il nostro Lambertino Buvalelli da Bologna. Giureconsulto, diplomatico, podestà in varie città importanti, per esempio in Verona e in Genova, egli apre la serie, non esigua, degli uomini di toga italiani, ne’ quali la gravità delle cariche pubbliche e l’abito alla cultura giuridica e letteraria non attenuarono l’amore della poesia volgare, sia in provenzale sia in italiano.

Di Azzo VI d’Este Falchetto di Romans ricorderà, nel 1220, aver veduto co’ propri occhi il gran servigio reso da lui e dal conte Bonifazio di San Bonifazio di Verona, come capi del partito guelfo nell’Alta Italia, al giovane Federico II nel 1212. Lo vide pure, e lo ricorderà anch’ egli piú tardi, Augier Novella. Il servigio consisté nell’assistenza prestata al monarca allorché attraversò, il miraggio dell’lmpero davanti agli occhi, la valle Padana, tra le insidie della parte avversa, e nell’averlo scortato e condotto sano e salvo, nell’agosto del detto anno, per l’impervio cammino dello Stelvio, a Coira.

 

[imatge AIMERIC DE PEGUILHAN]

 

Aimeric de Peguilhan trovavasi allora alla corte Estense. Da quanto tempo fosse passato in Italia, dopo aver gironzato per le corti di Spagna, non conosciamo. In Italia restò poi a lungo e forse fu quiche chiuse i suoigiorni.

Della liberalità del marchese d’Este egli serbò imperituro ricordo, ponendolo, nelle sue lodi, accanto ad Alfonso VIII e all’ infante don Ferdinando (o don Enrico) di Castiglia, a Pietro III d’Aragona e all’elettissimo cavaliere di Biscaglia don Diego López de Haro: a’ piú celebrati, insomma, fra’ mecenati dell’arte trobadorica del suo tempo.

Le sue prime tracce in Italia si scorgono in due sirventesi composti da lui per la morte di Azzo VI e del conte di Verona. La perdita inopinata de’ due signori, legati da diuturna amicizia e solidarietà politica, per cui avevan combattuto tante volte insieme nelle guerre della Marca Trivigiana, seguí, nel novembre del 1212, a breve distanza l’una dall’altra. Parve destino che coloro i quali si eran trovati quasi sempre uniti invita dovessero trovarsi uniti anche in morte! Il poeta ne esalta le virtú, segnatamente quella, piú cara al ceto cortigiano, della larghezza nel donare, e si chiede cosa resti omai da fare a’ giullari privati di tanta munificenza se non raggiungere gli scomparsi in Paradiso. Ciascuna stanza di una delle due composizioni si chiude con la parola «ensems», come a sugellare l’indissolubilità dell’amicizia de’ due, anche nell’oltre tomba.

La corte Estense, risiedente allora in Calaone, non chiuse però, dopo la morte di Azzo VI, le sue porte ai trovadori. Aldrovando, succeduto ad Azzo, sarà ricordato anche lui onorevolmente da essi; talché, quando, dopo il suo breve regno, gli successe fanciullo Azzo VII (1214), sotto la tutela della madre Ailisia, essi si augurarono che assomigliasse non solo al padre, ma eziandio al fratello. Ciò è detto in una sorta di dialogo poetico tra Aimeric de Peguilhan e Guglielmo Raimon: un suo collega chiamato in Italia «re de’ giullari», non sappiamo se grazie a’ suoi meriti o per canzonatura. Il dialogo fu scambiato certamente alla corte Estense, poco dopo l’ascensione di Azzo VII al trono (1216). Il giudizio che vi vediamo data intorno alla tutrice, non sembra molto favorevole a costei.

Ma la persona che, tra il 1212 e il ’20, maggiormente rifulgeva in quella corte, era Beatrice. Figliuola della prima moglie di Azzo VI, Sofia di Savoia, ella trovavasi, in quegli anni, nel fiore della giovinezza. Si compiaceva dell’arte trobadorica e delle altre mondanità consentite al suo grado. Presto però prese a fastidirle, ed ecco che un bel giorno (1220) abbandona inopinatamente il fasto del castello avito e si fa monaca. Morta nel 1226, è venerata come beata.

Lambertino Buvalelli, che deve averla conosciuta di persona per la prima volta in una sua ambasceria presso Azzo VI, la esalta con parole che tradiscono un’ammirarazione la quale non ha nulla di convenzionale. Delle poesie a lei dedicate dal trovadore bolognese noi non ne abbiamo riferito che una sola, quella in cui la fanciulla è comparata al fiore piú bello di ogni altro fiore. La celebrano altresí Guglielmo de la Tor, Aimeric de Peguilhan e Peire Raimon. Le canzoni di Aimeric, dedicate a Beatrice d’Este, son dedicate simultaneamente a Guglielmo Malaspina, e ciò basta a provare corme si tratti semplicemente della dedica dell’ opera d’arte; giacché comporre una canzone d’amore è divenuto ormai piú che altro un esercizio di stile. Un’altra canzone dello stesso trovadore, composta pure, in questi tempi, alla corte Estense, rispecchia un lato della vita elegante nel castello di Calaone, ove si discutevano anche questioni di tecnica letteraria.

Fuori delle piccole corti, avvenimenti di ordine generale e di portata grandiosa si vanno frattanto svolgendo: la lotta gigantesca che si combatte in Germania per la conquista della corona imperiale, e il movimento per la crociata. Or è notevole che l’atteggiamento dell’opinione pubblica di fronte all’uno e all’altro, rispecchiato dalle poesie trobadoriche, mostri come la gente si appassioni piú alla crociata che alle sorti della guerra. E sarà cosí ancora per lungo tempo; perché questa crociata, bandita da Innocenzo III nel 1213, sarà, sino al 1229, il sospiro della gente di buona fede, continuamente delusa dagli indugi de’ potentati.

È quasi un ritornello nelle poesie de’ trovadori, e non era, naturalmente, in queste soltanto, il rimprovero a’ sovrani di perdersi in guerre tra Cristiani, mentre gli infedeli occupano i Luoghi santi. Poco dopo la pubblicazione della bolla papale, il Peguilhan lancia l’appello a’ fedeli a prender la croce e a passare colà dove li condurrà «il buon papa Innocenzo». Lamenta la guerra imperiale, esorta a un accordo Federico II, Filippo Augusto, Giovanni d’Inghilterra e Ottone IV, perché depongano le armi e le portino contro i Turchi, i quali detengono il Regno di Cristo da tanto tempo che è vergogna soltanto l’udirlo. Nel momento in cui Aimeric scrive, Guglielmo Malaspina si è già crociato; altrettanto non ha ancora fatto Guglielmo di Monferrato. È probabile che il trovadore risiedesse allora in Malaspina.

Pons de Capdoil, in Provenza, dice le stesse cose; e cosí pure un anonimo che manda il suo sirventese direttamente a Federico II, in Germania, per mezzo di un giullare. Quando poi, finalmente, Federico II, ricevendo in Aquisgrana la corona di Re de’ Romani, prese anche lui la croce, ne esultò, in Tolosa, un trovadore celebre, che poi passerà in Italia e dirà di gran male e di gran bene del sovrano. Federico II è stato invitato ora da Dio a mangiare il frutto imperituro della sua grazia: tutti coloro che vorranno morire e vivere nello stesso tempo, vadano a mangiarne con lui. Morire materialmente, alla crociata, è infatti vivere spiritualmente: questo il popolo udiva ripetere dal clero nelle predicazioni, e formerà un motivo che i trovadori ripeteranno sino alla sazietà.

Per tornare in Italia, gli asili piú ospitali per i trovadori, erano, a quest’epoca, oltre alla corte Estense, quelle di Guglielmo e di Corrado Malaspina. «Malaspina, io vi assicuro che voi avete molti amici e pochi nemici, perché presso di voi regna la cortesia». Cosí cantava Falchetto di Romans nella prima poesia in cui ci si presenta in Italia, ma non certo la prima che compose nel nostro paese: la stessa in cui rimpiange nostalgicamente i bei tempi di Bonifazio di Monferrato.

I Malaspina, corne parecchi de’ grandi feudatari e degli stessi sovrani, non avevano una sede stabile. La denominazione «Malaspina» designava, nel linguaggio trobadorico, tutta la distesa de’ loro dominî, entro i quali le necessità dell’amministrazione e della politica li obbligavano a spostarsi incessantemente. Di Corrado «l’antico» apprendiamo nondimeno da’ trovadori stessi che risiedeva di preferenza in Oramala, se non lui propriamente, certo la sua famiglia.

Oramala (Auramala), nella Val Staffora a sud di Voghera, era un castello costruito sopra un colle eminente, con alle spalle l’Appennino e di fronte la pianura Padana. Se ne scorgono ancora le rovine: due torri cilindriche e un pezzo di cortina. La ripida mulattiera, che vi sale tra rocce boscose, è forse ancora quella che percorsero un giorno i trovadori, i quali erano accolti in quel nido di gentilezza con la liberalità tradizionale della famiglia. Al tempo a cui siamo giunti con la nostra esposizione, tre donne allietavano la solitudine di quel luogo: Selvaggia, Beatrice e Maria, figliuole di Corrado, certo, le due prime, non sappiamo se anche la terza. Dalle rime composte colassú si indovina quanta grazia, quanta gentilezza e quanta buon umore vi regnasse.

È sommamente increscioso per noi che sia andata perduta una composizione di un Aimeric, il quale non può essere stato, a mio avviso, altri che il Peguilhan, intitolata probabilmente Mesclansa e Battalha. Il trovadore, per decantare le virtú di Selvaggia e di Beatrice di Oramala, aveva immaginato, con manifesta reminiscenza del Carroccio, nientemeno che una guerra tra le due sorelle, disputantisi il primato in «pregio» e «valore». È facile immaginare come alla mischia non dovessero partecipare soltanto le due sorelle, ma come, dietro a ciascuna di esse, dovesse snodarsi tutta una serqua di alleate, ricordate co’ loro nomi: un nuovo catalogo di bellezze femminili. La questione era rimasta indecisa. Narrare la decisione fu la fatica di un altro trovadore, Guglielmo de la Tor, il quale inventò la Tregua. La Treva, per fortuna, ci fu conservata.

Senza essere letterariamente un capolavoro, questa composizione è una cosa assai graziosa: oggi la si direbbe uno squarcio di vita. Tale perché descrive, nella guerra immaginaria, quel che in realtà soleva avvenire nelle guerre fra le nostre città, quando queste erano stanche di battagliare. Sopraggiungevano allora i pacieri, parlamentavano, persuadevano, e tutto finiva per accomodarsi. A far deporre le armi incruente delle due sorelle di Oramala intervengono oltre a una ventina di dame: dame di alto pregio, di gran bellezza, di gran valore, conoscenza e grazia: Beatrice d'Este, Emilia Traversari di Ravenna, Beatrice e Adelaide di Magona, Sofia di Casalodi, Alessandra Lupi di Soragna, Caracosa Malaspina di Cantacapra &c. Le armi si fermano e l’accordo si stipula.

Recitate dapprima nelle aule di Oramala, la Mesclansa e la Treva non possono non avervi destata grande ilarità. Ed è piú che mai verisimile che il successo delle due spiritose composizioni non si sia arrestato lí e che esse siano state recitate anche altrove, almeno nelle case delle signore comprese nell’elenco. Perché il genere introdotto da Rambaldo di Vaqueiras col Carroccio si prestava mirabilmente a dar materia ai sommessi ragionari femminili de’ salotti aristocratici. Cià avvenne circa il 1216, di sicuro avanti il 1220.

Tempi di gaiezza. Ma, nella primavera del 1220, un grave lutta funesta la casa Malaspina. Guglielmo, reduce dalla Sardegna, sbarcato infermo a Sarzana, muore, alcuni giorni dopo, in Genova. Fu questo un grave colpo per la giulleria. Aimeric de Peguilhan, che trovavasi in Malaspina, piange amaramente la morte del mecenate in un sirventese che, per quanto non scevro delle formule tradizionali, esprime tuttavia con sincerità l’accoramento della classe giullaresca e di tutti coloro i quali, per un motivo o per un altro, trovavano aiuto e protezione presso il potente scomparso.

Per la morte di Guglielmo Malaspina e per il ritiro dal mondo di Beatrice d’Este, quel primo semestre del 1220 fu fatale a’ poeti.

Nella classe de’ poeti quelli di cui abbiam fatto i nomi rappresentavano una sorta di aristocrazia. Emergeva in essa il Peguilhan. Ma la classe era numerosa, come dicemmo, e ingrossava sempre piú.

Una turba anonima di gente minuta famelica e mordace, specialmente con i signori che sembravan loro poco liberali, incomincia a riescire insopportabile a molti, massimamente a que’ trovadori a’ quali essa fa concorrenza. Nelle poesie provenzali di questi anni, intorno al 1220, e in molte degli anni successivi, si raccoglie spesso l’eco delle dispute da taverna di coloro, e delle proteste levate contro di essi da’ trovadori di grado superiore. Della mordacità di tali mestieranti non son vittime soltanto i loro compagni: si legga ciò che dicevano di Guglielmo di Monferrato quelle due lingue d’inferno che si chiamavano Taurel e Falconet!

Ma la protesta più energica contro codesto volgo di poeti venne dal Peguilhan, poco dopo la sparizione di Guglielmo Malaspina. La torma aveva invaso la corte di Saluzzo nel tempo in cui questa era governata da una cricca di cortigiani attorniante la contessa Adelasia, la Adelasia di Peire Vidal, tutrice del minorenne Manfredi III. Né la corte di Saluzzo soltanto, ché già, nella Marca Trivigiana, incominciava a far parlare o sparlare di sé Sordello. Immune ne era rimasta soltanto Malaspina. Ma che ne sarà ora che Guglielmo non c’è piú? «Fra poco», grida il Peguilhan, «vedremo lo stuolo piombare anche sopra di questa. Essi sono il quadruplo di noi: ma noi sapremo resistere!»

Monferrato, Este, Malaspina, Saluzzo decadevano. I tempi mutavano: «Pregio» e «Dono» sparivano.

Nell’autunno del 1220, l’orizzonte parve, a un tratto, rischiararsi, «Pregio» e «Dono» tornare in onore.

Reduce vittorioso dalla lotta combattuta in Germania per la conquista dell’Impero, ecco riapparire, dopo otto anni di assenza dalla Penisola, Federico II. Il giovane re di Sicilia, venticinquenne, viene a cingere in Roma il diadema imperiale. Tutto è quiete intorno a lui. Sopite le aspirazioni delle città lombarde, tolta di mezzo ogni divergenza col Papato, l’Italia toma ad essere la sede dell’Impero. La corte piú splendida del mondo viene a stabilirsi fra noi. Qual movimento allora nel mondo politico: quante speranze in quello cortigiano!

Il corteo imperiale, giunto a Bolzano il 3 di settembre, prende per la via Postumia e la via Emilia. Esso arriverà a Sant’Arcangelo di Romagna il 1° novembre, donde, per la via Flaminia, perverrà a Roma il 21. L’indomani Federico II riceverà il serto imperiale in San Pietro.

Lungo lo stradale lombardo ed emiliano è un accorrer di gente: feudatari e delegati di Repubbliche, uomini d’affari e semplici curiosi. Guglielmo IV di Monferrato, Azzo VII d’Este, pur testè divenuto maggiorenne, Corrado Malaspina, Ottone del Carretto, Uberto e Gottifredo di Biandrate si recano a inchinare il sovrano e si uniscono al corteo. Piú in là si intrupperà con loro Enrico di Malta. Essi proseguiranno sino a Roma, dove frattanto si vanno raccogliendo i baroni del Reame. Fra’ delegati delle Repubbliche si trova Lambertino Buvalelli, podestà di Genova, che scorta il monarca, trattando degli affari della Riviera, da Spilamberto a Castel San Pietro.

Potevan mancare trovadori e giullari? Alcuni vengono al codazzo de’ loro protettori, altri da sé, liberamente. Ci sono Aimeric de Peguilhan, Elia Cairel e Falchetto di Romans, e c’è lo sciame clamoroso dei minori.

Lo stato d’animo del mondo trobadorico e del mondo feudale italiano, nel momento solenne, è riflesso nel sirventese composto per la circostanza dal Peguilhan. Questo sirventese, intitolato dall’autore stesso La Metgia e destinato a esser rimesso personalmente al sovrano, fu anche divulgato in quel rimescolio di gente, varia di gradi e di linguaggi, che faceva ressa intorno al padiglione reale, prima dell’Ognissanti, cioè tra la Lombardia, l’Emilia e la Romagna. Esso è tutto vibrante di entusiasmo per Federico II. Ecco scomparsa ogni causa di preoccupazione in colora che lamentavano la decadenza delle corti: le infiacchite virtú cavalleresche, quelle che si riassumevano nelle parole «Pregio» e «Dono», eccole restaurate.

Aimeric ha immaginato la metafora di un medico di Salerno che viene a risanar le piaghe d’Italia, e la ha stemperata per tutte le sei stanze e le tornade del sirventese. Colui si chiama il «medico Federico» e i suoi amici saranno ben medicati da lui.

Entusiasmo un po’ retorico, senza dubbio: tantoppiú che il Peguilhan non aveva mai veduto il monarca prima di allora. Egli chiede, certo, per sé, e sarebbe strano che cosí non fosse per un professionista come lui; ma chiede anche per gli amici di Federico, e costoro non possono essere che degli amici politici. A ripensare alle vicende precedenti, sarà ovvio di ravvisare in costoro quelli che lungamente e duramente avevan sostenuta la causa della Svevo in Italia, e che adesso gli si affollano intorno, pieni i cuori di lieta speranza.

La Metgia avrà sortito ne’ rapporti del poeta l’effetto da lui desiderata? Non lo sappiamo. Sappiamo bensí che essa suscitò addirittura un vespaio tra la piccola giulleria ronzante intorno alla carte: ironie e malignazioni sul canto dell’autore, palleggiamenti di accuse, contumelie. A detta di colora, la corte si sarebbe mo­ strata avara; ma quanta fede meritano quegli invidi postulanti? E, d’altra parte, se vero, la corte aveva ben altro da fare che stare ad ascoltare i poeti!

Alla cerimonia dell’incoronazione assisté (non sappiamo se anche il Peguilhan) Falchetto di Romans. Già da qualche tempo in Italia, egli trovavasi al seguito del marchese Ottone del Carretto.

Come, quindici anni prima, Rambaldo di Vaqueiras a Baldovino di Fiandra, cosí adesso Falchetto manda egli pure il suo  consiglio a Federico II, nel momento della sua sagra imperiale. Il consiglio insiste, al solito, sul dovere di ogni signore di coltivare il «Pregio». Federico era già largo dapprima: ora che Iddio gli ha dato la corona, tenga la borsa aperta; pensi a’ rivolgimenti della ruota di Fortuna; ami Iddio; sia benefico verso suo cugino il Marchese del Monferrato e ricordi il bene che gli fecero, nel 1212 s’intende, il Marchese d’Este e il Conte di Verona. Questo è un parlare piú esplicito di quello del Peguilhan: Falchetto tradisce il luogo donde gli viene l’ispirazione. Ciò che gli sta a cuore è l’interesse particolare de’ suoi protettori. Ed è notevole ch’egli non faccia nessun accenno a un fatto di interesse generale, che in quell’ora appassionava un po’ tutti e di cui tutti parlavano: la crociata, dal nuovo Cesare riconfermata prossima con giuramento durante la cerimonia stessa della consacrazione.

Elia Cairel, solitario e scontroso, trovavasi egli pure in Roma. Era tornato dall’Oriente alcuni anni avanti ed aveva avuto occasione di dir male del Marchese di Massa, verso il 1215. Bussò forse alle porte della corte imperiale, ma ne ebbe repulse. Onde trovò da esprimere tutto il suo disappunto contro la gente ignorante che suol disconoscere il vero valore e tener caro ciò che non val nulla. Per cui, deluso e conturbato, tornava indietro. «Il valente Re che ora è signore d’Impero», scriveva in un sirventese che è una delle piú cesellate composizioni di questo vecchio orafo, «io non posso più seguirlo, giacché egli mi tiene sí magro che nemmanco la lima potrebbe addentarmi».

Di qui si vede che il Cairel seguí, co’ signori dell’Alta Italia, l’Imperatore nel breve giro che questi fece, nei giorni successivi all’incoronazione, attraverso la Tuscia e la Sabina, donde, accomiatati quelli e i Tedeschi, prese per il Subappennino Laziale e passò il ponte di Ceprano, accompagnato dai soli baroni meridionali.

 

[imatge ELIA CAIREL.]

 

Durante i primi cinque anni seguenti, Federico II non varcò mai i confini del Regno. Trovadori presso di lui non ce ne furono. Ché lo stabilirsi di una grande corte nell’Italia meridionale non ebbe per essi le conseguenze che se ne erano ripromesse nel primo tempo. Delle poesie trobadoriche a noi pervenute nessuna, all’infuori di quelle testè ricordate, fu scritta al contatto della corte imperiale e ispirata dalla persona del sovrano.  Furono composte a distanza, ispirate dagli atti della sua politica, dappertutto sottoposti al controllo dell’opinione pubblica; la quale era, in definitiva, quella del mondo feudale. Ciò non toglie che delle poesie gli siano state recapitate a mezzo di giullari o altrimenti e che egli non sia rimasto digiuno della poesia provenzale.

Il centro della vita trobadorica in Italia non si spostò pertanto dalla valle Padana. Vi era capitato, qualche anno prima, Albertet de Sisteron, un giullare sollazzevole, secondo la breve notizia biografica che ne abbiamo, ben gradito nelle corti per le buone melodie che componeva. Aveva frequentato Guglielmo di Monferrato e Guglielmo Malaspina, e tenzonato con Aimeric de Peguilhan sopra un punto di casistica amorosa, rimettendo il giudizio sulla questione, egli, a donna Emilia Traversari di Ravenna, il suo contradittore, a Beatrice d’Este. Corteggiò, non corrisposto, una donna di Genova, cui finí per augurare ogni sorta di malanni.

 

[imatge ALBERTET DE SISTERON.]

 

Dopo il 1220, ma non molto, probabilmente, ascese anch’egli il colle di Oramala, e colà, in un finto accesso di misoginia, per trovar la maniera di sciorinare un nuovo catalogo muliebre, compose un sirventese niente meno che in biasimo di Amore. Di Amore egli non vuol piú saperne, quand’anche ne fosse richiesto dalle più famose dame del tempo, non esclusa Selvaggia «la bella di Oramala» e Beatrice sua sorella, «figlie», egli dice, «di Corrado mio signore».

Chi non avrebbe compreso un simile parlare da burla? Eppure lo prese, o fe’ mostra di prenderlo, alla lettera, in Provenza, Aimeric de Belenuey. Ed ecco divulgarsi la sua risposta per le rime, nella quale costui capovolge tutte le frasi del suo predecessore, serbando lo stesso catalogo di donne. Quanto a Selvaggia e a Beatrice, egli augura al collega che lo facciano capitombolare giú per le scale del castello di Oramala, «altrimenti», egli dice, «non son figlie di Corrado suo signore».

Nel terzo decennio del sec. XIII cadono parecchie composizioni di cui non è possibile precisare la data, tutte composte nell’Alta Italia, manifestamente nella Marca Trivigiana e nella Lombardia. Sono canzoni di Aimeric de Peguilhan, di Guglielmo Auger Novella, di Ugo di San Cir, nelle quali figurano i nomi di Emilia li Traversari, di Adelasia di Viadana, di Donella, di Sellivaggia di Oramala, di Maria di Monza. Falchetto di Romans tenzona giullarescamente con Nicoletta di Torino avanti il 1226, anno in cui egli era già tornato in Provenza. In tutto un gruppo di rime giullaresche («coblas esparsas», cioè rottami di sirventesi) riecheggia la vita della piccola giullaria, quale si trascinava nelle piazze e negli angiporti d’Italia: risse, giuochi, invidie, maldicenze. A Treviso o ne’ dintorni, nel 1226, si discute tra Peire Guilhem de Luserna e Ugo di San Cir, intorno al bel colpo fatto testè da Cunizza da Romano con la fuga dal tetto maritale: da quella Cunizza intorno alla quale sono discordanti non soltanto le opinioni dei due trovadori, ma anche quelle de’ commentatori di Dante. Ed è in questo ambiente basso e pettegolo che appare, per la prima volta, con contorni ben delineati, la figura di Sordello: figura di perfetto giullare, con tutti i caratteri della classe, e già cosí in vista presso gli altri che lui di preferenza è preso di mira da’ suoi compagni di arte. Da questo ambiente Sordello si allontanerà nel 1228, per cercare arie migliori oltr’Alpe, e la «danza» satirica che in quell’occasione scriverà Ugo di San Cir sarà il suo viatico. Pure in questo giro di anni, vien celebrata da parecchi Giovanna d’Este: fra essi Guglielmo de la Tor e Ugo di San Cir. Aimeric de Peguilhan rimise a lei il giudizio sopra una questione d’amore. Giovanna, sposatasi ad Azzo VII nel 1221, visse sino al 1233. È intorno a quest’epoca che di Aimeric perdiamo le tracce. In quanto a Guglielmo de la Tor, che già conosciamo, un sirventese notevole gli è conteso, ne’ mss., dal giullare Palais. È una satira acerba contro Ponzio Amato da Cremona, che fu podestà in vari luoghi e appartenne alla parte Guelfa. La satira però non ha nulla di politico, essendo uno sfogo del tutto personale. Ugo di San Cir, già destinato al sacerdozio e poscia datosi alla gaia scienza, è il trovadore piú importante che sia passato in Italia in questi anni. Egli si stabilí nella Marca Trivigiana, presso Alberigo da Romano; vi prenderà moglie e vi finirà la vita. Lo ritroveremo fra poco.

Ma torniamo a Federico II.

Non appena rientrato nel Regno, l’opera di Federico II fu tutta intesa al riordinamento dell’amministrazione dello Stato, allo schiacciamento di alcuni baroni ribelli e alla dispersione degli ultimi Saraceni di Sicilia. Frattanto l’idea che principalmente tormentava la mente e crucciava il cuore di tanta parte della Cristianità, e per cui tutto l’Occidente teneva gli occhi sopra di lui, era quella della crociata. Giurata due volte solennemente dal sovrano, veniva di continuo differita da lui; senza plausibili motivi, a giudizio di molti. La caduta di Damiata, avvenuta il 30 agosto 1221, esacerbò gli animi. E il Papa, fra la costernazione generale, minacciò di anatema l’Imperatore, se avesse ancora indugiato.

Esprime tali sentimenti un sirventese di Peirol: un sirventese non di crociata, ma di ritorno. Peirol ha compiuto il pellegrinaggio in Terrasanta: sul punto di imbarcarsi per Marsiglia, apostrofando Federico II, lo ammonisce che Damiata lo attende: notte e giorno piange la bianca torre perché l’aquila imperiale ne fu scacciata da un avvoltoio, cioè dal sultano.

Alcuni mesi dopo, tra il 1222 e il 1224, Elia Cairel, dall’Alta Italia, sollecita l’Imperatore, per mezzo del giullare Rossignol, a tornare nel continente dalla Sicilia, dove gli pare abbia dimorato troppo a lungo (in realtà non vi era stato che pochi mesi); e lo ammonisce, in un’altra poesia, del danno che reca a se stesso un vassallo il quale, avendo fatta promessa al proprio signore, gli è poi bugiardo nel momento del bisogno.

Son queste le ultime poesie che conosciamo di Elia Cairel; il quale trovavasi verisimilmente nel Monferrato, dove insieme esortava ancora una volta Guglielmo IV a prendere le armi a favore del fratello Demetrio, deposto dal trono di Tessaglia nel 1222, e profugo in Italia.

Falchetto di Romans scambia, entra gli stessi anni, delle cobbole col Conte di Biandrate a proposito di un personaggio in cui non siam sicuri se abbia realmente a ravvisarsi Federico II. Egli dimora presso Ottone del Carretto, del quale piú d’una volta fa gli elogi. Manda a dire all’Imperatore, per mezzo del giullare Ugonetto, di muoversi con grande sforzo d’armati contra gli scellerati Saraceni e Mori, da troppo tempo detentori del Monumento. E lo loda per la sua prodezza di cui parlano coloro che vengono da lui.

Esortazioni simili alla crociata non mancavano inoltre di giungere a Federico II anche dal di là delle Alpi, per bocca di trovadori. Ne restano due: di Elia de Barjols e di Gausbert de Puycibot, i quali non vennero mai in Italia.

Senonché, qualora non ci fossero già stati i motivi dall’lmperatore sempre addotti a scusare i suoi indugi, ecco sopraggiungere altri avvenimenti per far rimandare a tempo indeterminato la spedizione ne’ Luoghi santi. Il 2 marzo del 1226 si rinnova la lega Lombarda, e Milano assume per la prima volta un atteggiamento apertamente ostile a Federico II. Questi trovasi in viaggio verso la Lombardia, lungo il litorale Adriatico, allorché le non piú segrete macchinazioni de’ Milanesi gli son denunciate. Chi le denuncia è, fra gli altri, un trovadore, Peire Guilhem de Luserna. Il quale scrive: «All’Imperatore voglio mandare a dire che, se egli non mantiene meglio l’Impero, Milano medita di conquistarlo». E prosegue giurando che nell’avvenire pregierà poco l’intelletto, il senno e la sapienza del sovrano, ove questi non si affretti a trarne vendetta. Peire Guilhem de Luserna, italiano, risiedeva allora, secondo ogni probabilità, alla corte Estense, da che dedica la sua canzone-sirventese in questione a Giovanna d’Este.

Ma non da Milano soltanto l’integrità dell’Impero era minacciata. Nel giugno dello stesso 1226, Luigi VIII muove in quella che gli avversari de’ Francesi in Provenza chiamarono la falsa crociata, e pone l’assedio ad Avignone. Gli sguardi dei difensori si protendono allora verso l’Imperatore. Lo si biasima perché il re di Francia spezzi il suo Impero, e si deplora che si faccia questa guerra mentre si trascura la Terrasanta. Il clero non si dà pensiero di Damiata e il cardinal legato vive vita mondana in belle case. Tutto questo, contenuto in una poesia ritornellata, composta in collaborazione da due autori,  Tomier e Palazi,  si cantava dal popolo lungo le rive del Rodano: non sappiamo se ne sia giunto l’eco in Italia.

È notevole come, dopo avvenuta la rottura del 1226 con la Chiesa, nelle deplorazioni del ritardo della crociata, si associi all’Imperatore, senza riguardo ormai, il clero. Falchetto di Romans dice i chierici esser la causa del decadimento del mondo: essi, che dovrebbero esser solleciti del bene degli uomini, sono invece i peggiori di tutti; amano piú la guerra che la pace, tanto si sono ingolfati nella malizia e nel peccato. L’Imperatore, che si è crociato per servire Iddio, muova con forza e con vigore verso la terra ove Iddio volle morire. Il sirventese di Falchetto è mandato a Ottone del  Carretto, al di qua del Cenisio, affinché partecipi alla spedizione. Lo stesso Falchetto torna poi ad esortare alla crociata in un altro sirventese, scritto pure durante le ostilità tra Papa e Imperatore, e fa altrettanto in una tenzone con Blacatz, signore di Aups.

L’invettiva di Falchetto contro il clero è ispirata, oltre che dalla lotta di questo contro l’Imperatore, dai casi della guerra Albigese. Or quella e questi han suscitato uno de’ piú veementi, il piú veemente forse, dei sirventesi anticlericali che siano stati mai scritti. Ne è autore Guglielmo Figueira che lo compose in Tolosa, tra l’ottobre del 1227 e l’11 aprile del 1229, nel qual giorno Raimondo VII aperse le porte della città a Luigi VIII e il poeta abbandonò la patria. Federico II è stato colpito dalla scomunica, e la poesia ricorda, nel tono e nella enumerazione delle colpe di Roma, la celebre requisitoria che, dopo la seconda scomunica del novembre, l’Imperatore lanciò contro il Papato in forma di circolare ai sovrani d’Europa, e fu letta dappertutto. È una composizione di insolita lunghezza: ciascuna stanza si apre col vocativo «Roma», al quale si fa seguire una serie di accuse: Roma, cagione di decadimento, Roma ingannatrice, Roma avara, Roma folle &c.; «Roma, mala opera fa il Papa quando cozza con l’Imperatore pel diritto della corona, lo scomunica e non perdona ai nemici». Non è questo un trafiggere l’avversario con l’arma sottile dell’ironia: è un abbatterlo a colpi di fendenti. L’autore rompe l’ossequio verso la Chiesa e prelude alla contumelia di Lutero. Una donna di Montpellier, una Gormonda, tentò una risposta per le rime. La risposta fu fiacca.

La mancata spedizione Oltremare, le ostilità dei Lombardi all’Imperatore, la guerra della Francia contro Raimondo VII, gl’intrighi del clero son riprovati tutti insieme da Peire Cardinal, in Tolosa. Il gran trovadore non venne in Italia, ma nessun dubbio che la sua poesia rifletta uno stato d’animo comune anche fra gli Italiani.

Alla crociata finalmente Federico andò. Ma, ahimé, in quali condizioni! Costretto, perché scomunicato, prima, a incoronarsi da se stesso in Gerusalemme, prendendo con le proprie mani la corona di su l’altare; poscia, ad abbandonare in fretta e furia la Terrasanta, e, infine, a dover riconquistare palmo a palmo il territorio del Reame fatto invadere dalla Chiesa durante la sua assenza, da’ Clavesignati comandati dallo stesso suo suocero Giovanni di Brienne! Nessun trovadore, che si sappia, lo seguí: ben altrimenti che alla quarta Crociata! Qualcuno di essi ricorderà piú tardi qualche aneddoto della spedizione, come Guglielmo Montanhagol e Guglielmo Figueira, ma per inteso dire.

Nel 1231, siamo alla guerra contro i Comuni lombardi. Federico II, mosso dall’Italia meridionale, marcia verso la Lombardia ribelle lungo l’Adriatico, e sta per giungere a Ravenna. Un esercito raccolto in Germania è sul punto di calare in Italia al comando del re Enrico, suo figlio. Bonifazio II di Monferrato si è schierato contro l’Imperatore. Nell’imminenza di gravi avvenimenti, Giovanni d’Albusson narra a Nicoletto di Torino un suo sogno allegorico, la cui spiegazione, data da Nicoletto, è, in sostanza, che Federico abbatterà tutti i suoi avversari, compreso il Marchese, e che poscia tutto il mondo sarà in sua balía.

Intanto, profugo da Tolosa, è passato in Italia Guglielmo Figueira. Nemico del clero, egli lo è anche della lega Lombarda. Conosce qual «malvagio lavorio» van facendo i Lombardi contro Federico II ed ammonisce questo del male che ne risentirà l’Impero, se egli non prende prontamente vendetta de’ suoi nemici. Se, per contro, piomberà loro addosso con tutte le sue forze, nessuno oserà poi sottrarsi al suo volere.

Senonché, nell’impresa, Federico doveva trovare un ostacolo formidabile nella solidarietà delle città collegate e nella condotta traditrice dello stesso suo figliuolo Enrico. Il quale, dopo avere impedito al padre di spiegare un’azione vigorosa contro Milano, finirà, tre anni dopo, per stringere alleanza con la Lega. Pagherà bensí caro il suo tradimento, ma frattanto l’Imperatore è obbligato all’inerzia.

Tale inerzia gli fa rimproverata da Sordello. Dalla Marca Trivigiana il trovadore mantovano aveva dovuto riparare oltr’Alpe e oltre Pirenei. Tornato in Provenza, godé, fra quelle di altri potenti, l’amicizia di Blacatz, signore di Aups, e per la morte di lui (tra il 1236 e il ’37) dettò quel planh che è una delle piú note composizioni della Letteratura Provenzale. Sordello distribuisce a ciascuno de’ potenti della terra una particella del cuore di Blacatz, affinché, mangiandone, acquistino le virtú necessarie al governo de’ popoli. Chi dovrebbe mangiarne per il primo è Federico II, se volesse per davvero conquistare i Milanesi, i quali hanno invece conquistato lui e lo fanno vivere spossessato, non ostante l’aiuto de’ suoi soldati tedeschi.

 

[imatge: SORDELLO.]

 

Contrario a Federico II Sordello? No certo. Nutriti nelle corti signorili, i trovadori sono, in generale, avversi alle democrazie comunali. Ciò che essi esigono da’ signori, e lo dicono senza reticenze e con piena libertà di linguaggio, è anzi l’uso della forza: la «prodezza». La irresolutezza, anche quando è semplicemente prudenza, è per essi pusillanimità, e li irrita.

La trovata sordelliana del cuore spezzettato e mangiato ebbe fortuna. La imitarono Bertran d’Alamannon e Ricas Novas. Quest’ultimo ha un programma piú vasto del suo predecessore. Egli vorrebbe che un brano del cuore di Blacatz mangiassero Lombardi, Pugliesi, Alemanni, Frisoni, Brabansoni e altri, e che poscia tutti insieme si recassero in Roma ad adorarvi i corpi santi. Colà l’Imperatore valoroso dovrebbe costruire un tempio ove fossero adorati Pregio, Gioia, Sollazzo e Canto.

L’Alamannon, non molto dopo, fu in Italia. Non vi dimorò a lungo, essendo venuto, come pare, con le truppe del Conte di Provenza, alleato di Federico II. Con il Conte per l’appunto lo troviamo, nel settembre del 1238, davanti alle mura di Brescia, a ironizzare sulla possibilità di sfondare gli apprestamenti difensivi dell’eroica città assediata.

Nel marzo susseguente, Federico II va allestendo una nuova spedizione contro Milano, che vuole, una buona volta, sottomessa. Ma frattanto, in Padova, si va attardando in giuochi, feste e cacce. Ha recato seco dalla Puglia cani e leopardi, e anche un elefante, dono del Sultano. Il trovadore Figueira trova intollerabile tale indugio, che stima dovuto a fiacchezza, e sgrana contro l’Imperatore un tal rosario di ingiurie che appena potrebbe giustificarsi col suo odio antiguelfo. La poesia è mandata a Manfredi II Lancia, il quale, a detta dell’autore, conosce e sa qualcosa delle faccende dell’lmperatore. Manfredi Lancia, che forse giudicava in maniera analoga la condotta di Federico, era stato poc’anzi nominato vicario generale dell’Impero «a Papia superius», cioè anche del Milanese, dove anelava di entrare. In questo momento trovavasi in Piemonte, in attesa degli eventi.

Chi volesse avere un saggio della mutabilità dell’opinione politica de’ trovadori non avrebbe che da mettere a confronto il tono di questo sirventese con quello di un altro sirventese dello stesso autore composto non piú di un anno dopo. Federico, rientrato nel Regno dopo un’assenza di cinque anni, ha convocato un parlamento generale a Foggia per l’8 di aprile, giorno delle Palme. Ne’ giorni precedenti percorre il Tavoliere e dirama disposizioni perché siano inviati a lui i Lombardi fatti prigionieri a Cortenuova, che egli aveva sparpagliati nel Regno, dandoli in custodia a vari baroni. De’ messi lombardi son venuti a trattare secolui per la restituzione di essi.

Figueira si trova anche lui nel Tavoliere. Egli è il solo trovadore che risulti abbia visitato il Mezzogiorno. Vi è venuto, con tutta probabilità, insieme a un messer Torello. Il trovadore vuol porsi adesso al servigio dell’Imperatore «dalla gentil persona», poiché niuno sa ricompensare piú largamente di lui. E qui tutta una enumerazione delle virtú private e delle benemerenze pubbliche del monarca, al quale persino i Lombardi son venuti a rendere, a Barletta, i diritti della corona.

È un altro Federico II questo. Donde un cosí profondo cangiamento di metro nello stesso poeta? Figueira batte sopra il solito chiodo del «pregio», e il «pregio» ha per conseguenza, si sa, il «dono». Figueira lo sollecita esplicitamente, e ciò è prettamente giullaresco.

Senonché altro che pace circondava l’Imperatore! Questo stesso 1240 vide l’assemblea guelfa di Bologna, le macchinazioni del legato pontificio Gregorio di Montelongo, l’assedio di Ferrara da parte de’ Guelfi, quello di Benevento da parte degli imperiali, e quello di Faenza posta dall’Imperatore in persona.

Il memorabile assedio di Faenza durò dalla fine dell’agosto sino al 14 aprile dell’anno seguente. Entro la città investita si tenevano un messer Guglielmino, il conte Guido Guerra, Michele Morosini, Bernardo Fosco ed un messer Ugolino. A costoro ed a’ loro consorti manda Ugo di San Cir un sirventese di incoraggiamento. È lecito pensare che, se esso fu mai ricapitato ai destinatari e letto o cantato al popolo affamato nella piazza di Faenza, ciò avvenne col solito mezzo del foglio infilzato alla freccia: forse nel novembre, quando i difensori parevano inchinare alla resa.

Ugo di San Cir dimorava presso Alberico da Romano nella Marca Trivigiana. Alberico era passato alla parte Guelfa sin dal maggio del 1239, onde è verisimile che il sirventese sia di sua ispirazione. Son parole d’incitamento alla resistenza contro colui che non ha fede in Dio, che non crede nella vita futura, nel quale la crudeltà ha spento ogni senso di pietà, &c. È anche un appello alla Francia ad aiutare la parte Guelfa e il signor Alberico. L’autore conchiude enunciando il proposito di andare a portare la guerra nella casa stessa del nemico, cioè in Puglia. E tal proposito non può essere stato il suo soltanto.

Tra le vicende della lotta titanica di Innocenzo IV e di Federico II e tra le reiterate invocazioni alla crociata, risuona la voce di un nuovo trovadore italiano: di Lanfranco Cigala da Genova.

Questo trovadore, a cui spetta un posto onorevole nel Parnaso italo-provenzale, fu, come il Buvalelli, giureconsulto e diplomatico. Nella storia politica egli appare per la prima volta nel 1241, quale ambasciatore della sua città nativa a Raimondo V di Tolosa. La sua vita ci è disgraziatamente presso che ignota: si conosce solo che il 15 dicembre del 1278 era già morto, essendo stato assassinato presso Monaco. Dall’antico biografo provenzale è detto «grande amatore». Si conservano delle sue poesie una trentina, di cui qualcuna potrebbe farsi risalire, il piú addietro, al 1231. Omaggi poetici rivolse a Berlenda, moglie di Moroello Malaspina, e ne pianse la morte. Fu in relazione poetica con Tommaso III di Savoia. Un gruppo di sue poesie ha carattere religioso.

Tra il 1244 e il ’45, Lanfranco esortava alla crociata: la crociata di san Luigi. Lamentava che la guerra dei due «grandi coronati» avesse distrutta la pace in Italia e altrove, e moveva un fervido appello ai re di Francia e d’Inghilterra, ai Tedeschi, agli Spagnoli, al conte di Provenza ed a Federico II.

Di poco anteriore al concilio di Lione è un altro sirventese del Cigala. È una delle più violente diatribe che siano state scritte da’ trovadori. Destinatario ne è Bonifazio II di Monferrato; il quale, ora favorevole, ora contrario alla lega Lombarda, al Papa e all’Imperatore, aveva tradito due volte per danaro, disonorando il suo grado, e aveva, ora agli uni ora agli altri, compresi i Genovesi, venduta «la fede che non aveva».

È verisimile che Guglielmo Figueira si trovasse ancora nella Penisola tra il 1245 e il 1248, e non abbia seguito il suo signore, il conte di Tolosa, quando, dopo aver dimorato per due anni o poco meno presso Federico II, passò in Francia e poscia tornò a Tolosa. È a lui, in ogni modo, che il trovadore invia un altro sirventese di crociata: ancora un lamento circa i dissensi tra Papato e Impero, per cui viene ostacolata la liberazione de’ Luoghi santi.

Dopo questo sirventese non si hanno piú notizie del Figueira.

Verso la metà del secolo, allorché, con la scomparsa di Federico II, muto improvvisamente e profondamente tutta la situazione generale, la vita trobadorica in Italia si andava lentamente esaurendo. Venutole a mancare da parte della corte Sveva quell’alimento che alcuni ne avevano sperato al suo primo stabilirsi nella Penisola, decadute, politicamente ed economicamente, le minori corti della valle Padana, illanguidito l’ideale della vita cavalleresca, cessato l’afflusso di poeti dall’oltr’Alpe occitanico, omai soverchiato dalla dominazione francese e dalla pressione morale della Chiesa, se qualche trovadore passò ancora fra noi, fu costretto a trascinare una vita stentata fra la borghesia comunale, non certo emula in mecenatismo della antica aristocrazia feudale, e presso qualche signore minore.

Aumenta frattanto fra gl’Italiani il numero dei dilettanti di poesia provenzale. Sono, in generale, uomini di toga e borghesi: personaggi di secondo piano, ma piú liberi de’ loro predecessori nel manifestare l’opinione politica. Abbiamo già detto, e diremo ancora, di Lanfranco Cigala. Altri Genovesi, trovadori a tempo perso, sono: Percivalle Doria, giureconsulto, guerriero, diplomatico e rimatore anche in lingua italiana, Luchetto Gattilusi, egli pure giureconsulto, Simon Doria, Giacomo Grillo, Calega Panzano e qualche altro, intorno a’ quali poco o nulla si ha di informazioni sicure, e di cui pochi versi si serbano. Di questo gruppo di Genovesi colui del quale si hanno notizie meno incerte e, dopo quello di Lanfranco Cigala, un piú copioso canzoniere, è Bonifacio Calvo. Egli menò vera vita trobadoresca, visitò le corti di Spagna e compose canzoni non prive di merito. Venezia ha, in questi stessi tempi, il suo poeta provenzale in Bartolomeo Zorzi; Ferrara lo avrà, più tardi, in Ferrarino.

Il provenzale è divenuto la lingua ufficiale della lirica, anche presso la classe borghese, cosí come il francese è divenuto la lingua ufficiale dell’epica. Con questo però: che, mentre il provenzale, sotto la penna degli Italiani, si serbò sempre il provenzale letterario, non comportante violazioni grammaticali e inquinamenti lessicali, il francese, storpiato in mille guise dagl’indotti, finí per dar luogo al bastardume de’ cosí detti poemi franco-veneti o franco-italiani. Di piú, l’adozione de’ generi di componimento inventati da’ trovadori, le virtuosità di costoro in fatto di forma, la consuetudine di cantare a freddo di amore e di sottilizzare intorno a quesiti eleganti, comunicatesi ad altri desiosi di esprimersi nella lingua propria, furon cagione delle note fortunate conseguenze. Ho già detto che le piú antiche liriche storiche italiane furono composte in Toscana durante il periodo nel quale adesso entriamo con la nostra esposizione.

E, per tornare a Ugo di San Cir, ormai stabilitosi, come dissi, nella Marca Trivigiana, i riflessi di vita trobadorica che sorprendiamo nelle sue tenzoni, cui accennai di sopra, hanno per noi minor valore che le sue rime politiche. Un sirventese contro Manfredi II Lancia, eletto, nel 1253, podestà di Milano, rispecchiante i sentimenti guelfi, copre di contumelie il Marchese; nel pensiero del quale già incominciavano a farsi strada le ambizioni verso un dominio piú duraturo della effimera podesteria. In un altro sirventese, Ugo schizza la figura di Ezelino da Romano con parole che trovano esatto riscontro in quelle che del truculento tiranno scrivono i cronisti e attestano i documenti. Arder donne, rapire bambini, passare a fil di spada fanciulle, incendiare chiese ed altari: come Dio potrà ristare dalla vendetta?

Non sarà un fuor di luogo ricordare come nella Marca Trivigiana Ugo abbia compilato la piú antica silloge di rime provenzali, il Liber Alberici, e là pure qualcuna di quelle brevi biografie di trovadori le quali, nonostanti le molte inesattezze che contengono, sono pur sempre una fonte di prim’ordine per la storia letteraria della Provenza.

Nel formidabile duello tra la Chiesa e Manfredi, i trovadori di oltr’Alpe prendono spesso posizione contro la prima. Non già che essi siano favorevoli a Manfredi per pura simpatia personale. L’odio contro il clero si risente della memoria delle persecuzioni degli Albigesi e del favore da esso accordato in Provenza alla dominazione Angioina. Il motiva dominante nelle rampogne anticlericali è sempre lo stesso: la Chiesa si va smarrendo nelle sterili lotte contra i principi, dimenticando i Luoghi santi.

Poeti certamente frequentarono la corte del Re, il quale passò la maggior parte della sua esistenza tra Puglia e Basilicata, ne’ castelli di Lucera, di Trani, di Barletta e di Lagopesole, suo preferito maniero da caccia. Vi si trovò anche qualche  minnesinger. Mi ha l’aria di uno che vivesse a quella corte o che avesse con essa stretti legami l’anonimo autore di un sirventese in cui, dopo le solite imprecazioni contro la falsità del clero, e dopo essersi dichiarato credente, se la prende con Alfonso X di Castiglia, perché inferiore alla sua dignità imperiale, e non risparmia i re di Francia e d’Inghilterra. Solo Manfredi, secondo lui, sa abbattere i nemici, onorare e avanzare gli amici, difendere il proprio e l’altrui, tener vinti i chierici che vogliono abbassarlo. Ciò sanno bene i Toscani e fra poco lo sapranno i Greci e altri ancora. L’autore invia il sirventese a un «conte Bartolomeo», in cui sarà bene da ravvisare Bartolomeo d’Anglano, congiunto di Manfredi.

L’allusione ai Greci si riferisce al tempo in cui Manfredi, avendo estesa la propria influenza all’altra sponda dell’Adriatico, in seguito alle sue nozze con Elena d’Epiro (2 giugno 1259), la quale gli aveva recato in dote qualche distretto dell’Albania, vi fece presidiare alcune fortezze ed appoggiare suo suocero nella guerra contro il Paleologo.

Pure del 1259 è un sirventese di poco posteriore alla cattura di Ezelino da Romano da parte del Marchese d’Este, di Boso di Dovera e di Uberto Pelavicini, alla battaglia di Cassano d’Adda. Il sirventese testimonia della mutabilità degli uomini, in quel tempo in cui l’opportunità determinava i signori a passare dall’ una all’altra parte nel giro di poco tempo, a ridersi delle scomuniche e a chiederne la remissione.

Siamo tra il 1259 e il 1260, e già spunta al nostro orizzonte la figura di Carlo d’Angià.

Di Carlo d’Angià, conte di Provenza, non puà davvero affermarsi che, una volta asceso al trono di Raimondo Berengario IV, abbia incontrato di gran simpatie presso i feudatari del paese, e, presso i trovadori, ciò che oggi suol dirsi una buona stampa. In un paese abituato alla magnificenza della corte del suo predecessore e alle mitezze fiscali, era inevitabile che le durezze imposte dalla nuova amministrazione a cagione dei grandiosi progetti vagheggiati dal Conte, con le conseguenti restrizioni alla munificenza tradizionale, dovessero procurargli tutt’altro che delle esaltazioni.

Il malgoverno di Carlo, con le prepotenze de’ suoi baili verso i baroni, incapaci di querelarsene davanti a lui, è denunciato dal trovadore Granet. Bertran d’Alamannon, dopo avere sperato invano la protezione del Conte a’ feudatari minori contro i soprusi de’ maggiori, finisce per rimpiangere accoratamente i bei tempi della gaia vita cavalleresca di Provenza ed esprime il fastidio della sua vita presente, trascinantesi tra le miserie dei piati giudiziari.

Ma colui che piú vivacemente rappresenta l’avversione della feudalità provenzale al nuovo despota francese è Bonifazio di Castellana. Già al tempo di Corrado IV, questo fiero e combattive barone, avversario dell’Angioino e del clero, aveva fulminate i falsi chierici rinnegati che si adoperano a diseredare Corrado per arricchire i propri bastardi, e tengono vacante l’Impero per poter dominare sopra i signori di Provenza. Nel 1257, dopo una seconda infruttuosa rivolta del comune di Marsiglia, bolla i fiacchi e i codardi suoi conterranei, ai quali i Francesci non lasciano nemmeno i calzoni. Qualche anno dopo (1260), in un altro sirventese che ricorda, per la violenza del tono, quelli di Bertran de Born, sfoga la propria amarezza per i successi di Carlo sopra le città piernontesi di Cuneo, Alba, Cherasco e parecchie aitre, e nella guerra contro Asti che aveva perduta tutta la terra al di là di Staffarda. Egli vorrebbe che gl’Italiani rintuzzassero la baldanza del conquistatore. Purtroppo però le milizie astigiane indietreggiavano davanti alle angioine, e nello stesso tempo Genova perdeva il contado di Ventimiglia!

Senonché, dicano quel che vogliono i poeti, l’astro d’Angiò si vien levando sempre piú in alto. Già, attraverso i maneggi e le ambagi della diplomazia pontificia, si apparecchia la sua fortuna in Italia.

In Italia era stato, qualche tempo prima, Raimon de Tors di Marsiglia. Aveva visitato Firenze. Tomato in patria, decanta la gentilezza, la nobiltà e tante aitre belle cose di questa città a un suo amico Gaucelm. Raimon de Tors era certamente un giullare, visto che gli preme di assicurare al suo interlocutore, se si recherà egli pure a Firenze, il solito donativo del ronzino da parte di un signor Barnabà, del quale egli aveva goduta la liberalità.

In patria era rientrato prima del 1257. Allorché la nuova si diffuse aver la Chiesa offerto la corona di Puglia e Sicilia a Edmondo d’Inghilterra, le faccende d’Italia attirarono l’attenzione di tutto il mondo. A queste il trovadore allude in un sirventese ispiratogli principalmente dall’atteggiamento del Papato di fronte alla duplice candidatura all’Impero di Riccardo di Cornovaglia e di Alfonso X di Castiglia. L’autore è favorevole ad Alfonso, sia stato o no alla sua corte. Di Riccardo dice che vorrebbe bensí signoreggiare i Lombardi, ma i Lombardi, dal canto loro, conoscono a memoria tutto il salterio meglio ancora che le sette arti liberali, e sanno recitare tutte le parti. I chierici egli Inglesi verranno bensí, quelli con la frode, questi con la forza, in cerca della Corona ferrea; ma a’ chierici, che adesso favoriscono gl’Inglesi, importerà poco se poi vinceranno gli altri: essi leveranno laudi al Signore e si abbiglieranno a festa, vincano gli uni, vincano gli altri.

Nella scena del gran dramma italiano Carlo d’Angio non è ancora entrato, e non vi è entrato nemmeno don Arrigo di Castiglia, l’avventuroso poeta, fratello dissidente di Alfonso X, il quale era chiamato a sostenervi una parte non insignificante. A lui, profugo dalla Spagna a Tunisi, Raimon de Tors manda un sirventese pieno di elogi.

Volentieri si ascolta, in queste medesime circostanze, una voce che viene di fra gl’Italiani amici di Manfredi. È di Percivalle Doria, dal 1252 vicario generale della Marca d’Ancona, del ducato di Spoleto e della Romagna. Al servizio di Manfredi egli lascerà la vita, nel 1264, nel guadare la Nera alla testa delle truppe ghibelline. Una delle due composizioni provenzali che rimangono di lui è un sirventese composto mentre in Italia già si prospettava un intervento dell’Inghilterra e si rendeva sempre piú problematico quello della Spagna, impigliata nella guerra di Granata. Il sirventese ricorda nello stile i canti di guerra di Bertran de Born. Il poeta ama la guerra e tutto ciò che le si accompagna: lo sperpero del danaro, l’ardore del combattimento, lo spiegamento degli stendardi, gli squilli, i rulli, i clangori, gli assalti alle mura e alle porte &c. Ci sarà guerra in Italia tra Inglesi e Spagnoli? Ciò non sembra probabile a cagione delle brighe della Spagna. Tuttavia re Manfredi, che è luce di fin pregio, continua a compiere opere di valore. Per guerra ch’egli abbia, non cessa dal donare; ha vinto e abbattuto i suoi nemici ed elevato i suoi amici. E il poeta lo apostrofa nella tornada: «Re Manfredi, il pregio vi tien saldo e Iddio ne ha dato conforma».

Che, una volta fallite le trattative con la corte d’Inghilterra, la Chiesa avesse fatto l’offerta del Reame a Carlo d’Angiò, che questi avesse accettato e che la spedizione si andasse frettolosamente apparecchiando (1265), era un fatto visibile omai. Un sí grandioso avvenimento non poteva non appassionare gli eterni zelatori della crociata. Nel prossimo aprirsi di una nuova guerra, vedevan costoro rimandare a tempo indeterminato la spedizione in Terrasanta. Nelle predicazioni ordinate dalla Chiesa contro Manfredi, non si promettevan forse delle indulgenze a que’ di Arles e di Francia? Non si largheggiava in perdoni, e non si accordava a’ crociati la facoltà di convertire i voti per la Terrasanta in voti per l’italia? L’eco de’ sentimenti comuni, in quel momento, a tanta parte della Cristianità, lo ha serbato un Templare trovadore, Ricaut Bonomel. Pieno d’ira e di dolore, egli leva, laggiú, in Palestina, un angosciato lamento per le recenti vittorie del Sultano d’Egitto e per le occupazioni da lui fatte di Cesarea e di Arsûf.

Contro un’ impresa come quella cui Carlo si accingeva, dalla quale non poteva derivare altro che del danno, protesta anche Raimon de Tors, ancorché non si mostri avversario personale del Conte di Provenza. Egli fa gli elogi di Manfredi, sovrano elevato sopra tutti gli altri, uomo senza pari e grazie al quale Puglia e Sicilia sono alte e possenti, Calabria e Principato senza alcun difetto. Lo esorta a guardarsi da’ perversi. Gli ricorda come il clero abbia ingannato Riccardo di Cornovaglia e Alfonso di Castiglia. Ora è la volta del terzo. Si mostri dunque, se mai si mostrò, forte e fiera la possanza del Re di Sicilia. Questo il momento «o», aggiunge il poeta, «io son cieco»!

Decisamente ostile a Carlo d’Angiò è un altro marsigliese, Paulet, il quale fu in relazione con Barral del Balzo. Egli comprese in un sol biasimo tanto l’acquisto della Provenza da parte di lui quanta l’imminente impresa contro il reame di Sicilia. L’autore diede al suo componimento la forma di  pastorella, cioè quella di un dialogo tra una pastorella e un cavaliere. Che male han mai fatto al Conte i Provenzali perché egli voglia distruggerli? Perché vuole spossessare il re Manfredi? È quanto domanda l’ingenua fanciulla del popolo e quanta si domandavano i più fra’ Provenzali. A’ quali altri concittadini rispondevano, per bocca del cavaliere di Paulet, essere per il suo grande orgoglio che il Conte si mostrava spietato verso i Provenzali, ed essere per la grande fiducia ne’ chierici che reputava cosa facile diseredare il valoroso e patente re Manfredi. Ma i Francesi non riesciranno nella loro impresa! Il cavaliere fa poi, con procedimento stilistico non insolito allora fra i trovadori, una rassegna delle maggiori corti di Europa: loda il Re e l’infante Pietro di Aragona, ed Edoardo d’lnghilterra. Egli traccia in tal modo un quadro delle condizioni politiche generali e, con gli elogi prodigati agli altri principi, dà un risalto ancor piú grave alle accuse contro Carlo d’Angiò.

In un’altra composizione, lo stesso trovadore, interrogato da Giraut Riquier sopra la questione di qual de’ due, il re Alfonso e il re di Puglia, accetterebbe l’invito, dato che glie lo rivolgessero simultaneamente, risponde ch’egli preferirebbe andare dal Re di Puglia, perché questi «mette in basso» il falso chiericato. Da ciò appare che Paulet non era stato in Italia: di Manfredi parlava per fama, e la propensione per lui era dovuta piuttosto alla sua avversione a’ preti.

Quale l’opinione degli Italiani alla vigilia della discesa Angioina? Assai significativo, a questo riguardo, un sirventese di Luchetto Gattilusi, composto in tale occasione, non si sa dove: forse in Genova, sua patria, forse in qualche altra città ove copriva l’ufficio podestarile.

Tre sovrani, dice il Gattilusi, si disputano il Regno: Carlo d’Angiò, Corradino e Manfredi. Carlo vuol conquistare Lombardia, Toscana e Puglia, ma, mentre dappertutto si parla dell’impresa, egli è esitante nel condurre a capo ciò che ha iniziato. Dovrebbe specchiarsi nel re Alfonso di Castiglia, ma soprattutto dovrebbe rammentare, egli che di Carlo ha il nome, come Carlomagno conquistò la Puglia coi suoi baroni e ne ebbe la signoria.  Corradino, se lascia ciò che dovrebbe esser suo, darà prova di non saper tenere l’altrui. Se non vien tosto a recuperarlo, darà credito alla voce, messa in circolazione da Manfredi, che sia morto. Quanto a Manfredi, coraggioso da principe, se, ora che è re, perdesse quel che conquistò col proprio valore, ne riporterebbe un doppio biasimo. I suai baroni, a’ quali ha dato tanto del suo, ripensino a quel che erano ieri e a quel che sono oggi. Ciascuno di essi procuri, dunque, di conservare ciò che da altro signore non potrebbe aver giammai. Il poeta, incaricando il giullare Bernardo di diffondere il suo sirventese, lo chiude dichiarandosi talmente bramoso di vedere aprirsi le ostilità da non ardire di sperare che l’evento si compia.

Neutrale, dunque, Luchetto di fronte a’ contendenti: di una insensibilità che rasenta il cinismo. Egli li stimola tutti e tre alla guerra, perché la guerra egli vuole, quale debba esserne l’esito. Era questo il sentimento prevalente fra’ suoi concittadini? Certo, il comune di Genova osservava, nella delicata situazione, un atteggiamento di attenta prudenza. Ma il fare del Gattilusi, allora molto giovane, ricorda troppo da vicino quello di Bertran de Born perché la sua ispirazione non appaia di origine puramente letteraria.

Finalmente, ecco Carlo d’Angiò in Roma, investito della dignità senatoriale in Campidoglio, coronato re di Sicilia (21 giugno 1265), in attesa del momento opportuno per varcare la frontiera del Regno. Ed ecco nuovamente il Gattilusi mandare un suo consiglio a Carlo, sull’esempio di Rambaldo di Vaqueiras e di Elia Cairel. Questo però non è un consiglio da giullare, bensí da uomo politico. Il giureconsulto genovese consiglia il nuovo re di Puglia, ma non ancora in Puglia, a non lusingarsi sulla facilità dell’ impresa cui si accingeva; a non lasciarsi affascinare dal miraggio della vicaria o del baliatico dell’Impero, sí da trascurare, per questo miraggio, gli affari del Reame, ciò che triplicherebbe il numero de’ suoi avversari; a mostrare al mondo altezza di senno, perdonando le offese; a non mostrarsi troppo cupido di danaro; a badare in chi potrà fidarsi, e a non rivelare ad alcuno i propri disegni.

Contemporaneamente un ghibellino anonimo, che si direbbe un senese, incuora Manfredi, nell’imminenza dell’attacco angioino, alla resistenza. Gli ricorda la sconfitta data ai Fiorentini sull’Arbia da Giordano d’Anglano, in seguito alla quale quelli, sí orgogliosi un tempo, si son fatti adesso cortesi e accomodanti. È folle colui che prende a contendere con Manfredi. Se bastò uno solo de’ suoi baroni a distruggere i Fiorentini e a farli dolenti, non ci sarà in nessun luogo chi sia avversario del Re. Perciò «non consiglio», conchiudeva, «a quelli del Campidoglio di marciare tosto contro il Re nella Campania».

Ma venne Benevento.

È un vero peccato che si ignori chi sia stato l’autore del compianto per la morte di Manfredi! È una delle piú appassionate poesie del genere che ci siano pervenute, ancorché si rifoggi sopra poesie precedenti. Io la credo opera di un qualche giullare del suo seguito: di qualcuno di quei «cavalieri di corte», de’ quali l’autore fa ricordo, usando l’espressione comune fra noi per designare i giullari. Ma è un giullare di una certa cultura e di una certa immaginativa.

Invano si cercherebbe, in questo componimento, una allusione politica: del Re caduto, come in quasi tutte le poesie congeneri, non si celebrano che le qualità personali. L’accoramento che vi trabocca è nondimeno grande e, si direbbe, sincero. In un momento in cui, davanti al vincitore, tutti tradiscono la causa sveva, e dalla grave mora di Benevento muove verso la frontiera del Regno, a lumi spenti, il lugubre corteo del vescovo Pignatelli, questa umile voce anonima è la sola che si levi a rimpiangere il Re dal gentile aspetto.

Diverso il linguaggio de’ poeti transalpini. Peire de Chastelnau ironizza sopra la fiducia riposta dal Re in coloro che aveva beneficato, e soprattutto sopra i Tedeschi, i quali, nella battaglia, si erano comportati da mercanti, cedendo bagagli, bestie da soma e se stessi. Ma il Chastelnau è poco bene informato, giacché quel ch’egli dice de’ Tedeschi andava detto purtroppo degli Italiani che veramente tradirono, non de’ Tedeschi che si batterono lealmente.

L’impresa di Carlo d’Angiò ricondusse in Italia Sordello. Ospite delle corti di Spagna e di Portogallo, egli era vissuto piú a lungo in quella di Provenza, partecipando alla vita politica allato a’ signori ed acquistando fama e fors’anco averi. I suoi rapporti con Carlo d’Angià risalivano al tempo della entrata di questo in Provenza. Non lo aveva seguito in Terrasanta né nella impresa di Hainaut: lo seguí in quella d’Italia.

Non per l’istessa via; ché, mentre Carlo prese, com’è risaputo, la via del mare, Sordello prese, a quel che pare, col grosso dell’esercito, quella di terra, attraverso il Colle di Tenda, il Piemonte e la Lombardia. Non siamo sicuri che abbia combattuto a Benevento. In ogni modo, de’ meriti acquistatisi da Sordello verso Carlo d’Angiò si tratta in un breve di Clemente IV a lui, del 22 settembre 1266, donde apprendiamo trovarsi il cavalier Sordello prigioniero in Novara.

L’interessamento del Pontefice a pro di Sordello è la testimonianza piú alta della considerazione in che questi era tenuto. Un suo collega lo chiama «Senh’En Sordel», cosí come si solevan chiamare i grandi signori. La ricompensa non gli mancò. Lo stabilirsi del governo Angioino nel Mezzogiorno, con la pioggia di benefizî che fe’ cadere sopra i seguaci del vincitore, non dimenticò il trovadore. Gli furono concessi in feudo vari castelli d’Abruzzo, al di là e al di qua della Pescara: fra essi Palena, un borgo appoggiato alle spalle della Maiella, tutto risonante di mulini e di gualchiere. Ebbe i titoli di «miles» e di familiare del Re. Però di tali liberalità non sembra sia rimasto molto soddisfatto il poeta. In una cobbola, composta probabilmente dopo il marzo del 1269, egli si dice infermo e povero, maltrattato dal Re, privo di amorevolezza. La cobbola vien letta da Carlo, e il Re troviero, facendo questa volta da trovadore, gli risponde per le rime. Sordello non dovrebbe parlare a quel modo; il Re lo ha tenuto sempre caro; gli ha donato mulini, gualchiere ed altri beni; gli ha donato persino una moglie quale la desiderava. Ma egli è matto e noioso e non sarebbe grato nemmanco a chi gli regalasse una contea! Il trovadore mantovano omai era vecchio, e si comprende come non riescisse a guarirne le ubbie neppure la moglie largitagli dalla real munificenza. Non molto dopo, infatti, certo prima del 1273, morí.

Sordello non fu il solo poeta che seguí Carlo d’Angiò nell’impresa del Regno. Nell’esercito che passò il ponte di Ceprano tra suoni e canti c’erano anche de’ trovieri; il piú famoso tra questi ultimi Adam de la Halle.

Intanto le sempiterne ostilità tra Genova e Venezia hanno un riflesso anche nella poesia trobadorica italiana. Sono a fronte due poeti: Bonifazio Calvo, genovese, e Bartolomeo Zorzi, veneziano, in Genova. Il Calvo, a’ cui viaggi oltr’Alpe ho accennato di sopra, rientrato nella sua città, fu in relazione poetica con gli altri suoi concittadini dilettanti di rime provenzali. Ci restano di lui una ventina di poesie, non prive di valore letterario. Nel 1266 o giú di lí, il Calvo divulga in Genova alcuni suoi versi contro i propri concittadini: versi energici, anzi che no, deploranti le discordie intestine dalle quali traevan profitto gli avversari. Gli avversari: leggi i Veneziani. Ma, poco dopo, si divulga la risposta. Essa è uscita dal fondo della prigione nella quale gemono numerosi Veneziani, catturati non molto avanti. È di Bartolomeo Zorzi che, pure in quelle condizioni, trova l’animo di dire come non le discordie intestine nuocciano a’ Genovesi, sí bene il valore de’ Veneziani.

Chi sia stato Aicart del Fossat non sappiamo. Di lui non è rimasto che un solo componimento, il quale ci riconduce all’inizio della campagna di Corradino, senza farci comprendere in qual luogo egli si trovi, certo però in Italia, né verso qual partito propenda.

All’annuncio della partenza dell’esercito svevo dalla Germania, egli è indeciso tra l’aquila e il giglio. L’una e l’altro gli sono indifferenti; entrambi hanno pari diritti: né leggi né decretali valgono contro nessuno dei due. Per decidere la controversia non rimane pertanto che la forza. Quella sarà decisa in campo, e la ragione starà dalla parte di chi avrà meglio saputo combattere. È, al solito, la teoria da condottiere professata da Bertran de Born. Aicart ama anche lui la guerra per la guerra, e la descrive con una vivacità entusiasta degna del suo grande predecessore.

Invece, apertamente favorevole a Corradino è il genovese Calega Panzano. Corradino è già in Italia e fa sosta a Pavia, dove è entrato il 20 gennaio 1267. «Il re Corrado, la sua gran baronia, i Ghibellini, Verona e Pavia protegga Iddio!», egli canta. E il suo canto è soprattutto una requisitoria contro il clero, responsabile di ogni male. Ripete il vecchio ritornello della trascuranza di Soria da parte degli sleali che preferiscono qui, in Italia, far fare a pezzi Francesi e Tedeschi. Rammenta il fraudolento passaggio di Cremona alla lega Guelfa nel 1266; ha espressioni sarcastiche contro le promesse di indulgenze ad omicidi e ladroni. Carlo d’Angiò dovrebbe ricordare come fu preso con suo fratello da’ Saraceni e le crudeltà da lui stesso usate contro i cristiani di Sant’Ellero. Egli è avaro, e perciò nulla di bene ha da aspettarsi da lui don Enrico di Castiglia. Se costui si facesse a ripretendere da Carlo il danaro prestatogli, sarebbe pagato con un bel nulla. O non aveva Carlo fatto compensare il conte di Fiandra con l’arroganza e la menzogna? In conclusione, se don Enrico fu tradito da’ chierici e oltraggiato da’ Francesi, ben dovrebbe vendicarsi degli uni e degli altri e uscire d’incertezza.

Don Enrico di Castiglia si trovava in Roma. È noto che l’Infante, prossimo parente di Carlo, gli aveva prestato quanto possedeva, nella speranza di ottenere l’investitura della Sardegna. Divenuto senatore di Roma e vedute frustrate le proprie speranze, si schierò dalla parte Ghibellina. Ora è al prestito rimasto insoddisfatto che allude Calega Panzano. Vi alludeva lo stesso don Enrico nell’unica poesia italiana che resta di lui e che risale a questo stesso tempo. Per Calega Panzano, don Enrico non ancora ha cangiato partito. Questi però, nel momento in cui scrive, la decisione la ha già presa, tanto vero che preannuncia l’imminente arrivo di tale che chiede la sua gran corona.

Un’altra perdita importante faceva pure in questo tempo il partito Guelfo: quella di Gregorio da Montelongo, patriarca d’Aquileia, cardinale, generale di eserciti e vicario pontificio in Lombardia: uno de’ piú agguerriti maneggiatori di uomini e di cose che Federico II avesse trovato di contro a sé nell’Alta Italia. Rimane un compianto in provenzale per questa morte, composto da qualche persona della curia di Aquileia, nel quale ciò che l’autore si studia di mettere soprattutto in evidenza è l’opera prestata dal Montelongo contro i malfattori della regione Friulana.

La disfatta di Corradino, la sua cattura, la morte sua e quella del duca Federico d’Austria, ebbero sí larga risonanza nel mondo, sia a cagione della loro portata politica, sia a cagione della pietà de’ particolari, che sarebbe strano non se ne ritrovasse la ripercussione nella poesia trobadorica.

La prima protesta per la uccisione dell’infelice fanciullo si alza questa pure dal carcere genovese, ed è ancora di Bartolomeo Zorzi. Non ci voleva meno di un cittadino di una libera repubblica a esprimere l’orrore suscitato in chi ascoltò il racconto del triste evento, orrore comune a cosí gran parte degli Italiani, mentre tanti altri si piegavano al giogo del vincitore.

Nel compianto per la morte di Corradino, il Zorzi ricorda anche come don Enrico di Castiglia sia stato serbato in vita, avendo Carlo voluto cosí lanciare quasi una sfida al fratello di lui Alfonso X. Ma Alfonso, che è re d’onore, non dovrà lasciar vilipendere il fratello in tal condizione!

La cattura di don Enrico, infatti, non destò minore indignazione che quella della morte del giovane svevo. Un grido di protesta si levò da tutte le corti d’Europa. Fra’ trovadori protestò energicamente Paulet di Marsiglia. Sei o sette anni dopo, Folchetto di Lunel, dalla Provenza, domanderà ancora la liberazione del principe. Invano: ché l’Infante di Spagna, rinchiuso nel castello di Canosa, otterrà solo di esser trasferito in luogo non malsano: a Castel del Monte, sulle Murgie di Andria, divenuto adesso, da maniero di caccia, prigione politica, dove già languivano gli adolescenti orfani di Manfredi.

Ancora prigioniero alla vigilia della partenza della crociata di Luigi IX, lo Zorzi fe’ pervenire un commosso appello al santo re di Francia, allora piú che mai legato a’ Genovesi, che ne erano i vettori, perché intervenisse a pro de’ suoi compagni di sventura, i quali, sebbene patteggiati, continuavano, contro ogni principio di umanità e solo per la boria genovese, a esser trattenuti nella cattività. Altrimenti, diceva, l’impresa a cui il Re si accinge, andrà a male. E il trovadore non fu cattivo profeta.

L’ultima poesia che rimane di Lanfranco Cigala è ispirata dalla guerra di Carlo d’Angiò contro Genova, guerra che, avendo per teatro la Lunigiana, costringeva i Malaspina a una politica di neutralità e di destreggiamenti. Con questa poesia si chiude anche la serie delle liriche relative al primo Angioino e di quelle relative alla famiglia Malaspina.

Non ci è pervenuto il compianto per la morte di Carlo d’Angiò (7 gennaio 1285) che Raimon Feraut, un monaco di Lerins, volgarizzatore di vite di santi, dice di aver composto. Il Feraut fu in relazione poetica con Maria, moglie di Carlo II.

Nell’Italia settentrionale, la poesia di corte può dirsi omai spenta. L’ultimo provenzale passato in Italia, alla corte Estense, sembra sia stato un Ramon Guilhem, che, sul cadere del sec. XIII, tenzonò col Ferrarese Ferrarino intorno alla liberalità della corte stessa. Ferrarino fu, a quel che pare, maestro di grammatica e compilatore di un florilegio trobadorico che ci fu serbato. Fu ospite anche di Gherardo da Camino, in Treviso, e visse parte della sua vita in Padova.

Devo pur qui ricordare come a questa regione spetti probabilmente un componimento anonimo, di cui l’autore si tradisce per Italiano, il Chastel d’Amors, nel quale vien descritto, non senza certa vivacità di colori, un castello allegorico, abitato da dame e assalito da cavalieri. Simiglianti combattimenti sappiamo che solevano davvero inscenarsi nelle pubbliche feste della Marca gioiosa: Rolandino ha lasciato la descrizione della festa celebrata in Treviso nel 1214, la quale di sicuro non fu la sala del genere in quel secolo. Ne restano delle immagini incise negli avori.

All’Italia centrale ci conducono Paolo Lanfranchi da Pistoia con un suo sonetto provenzale diretto al re di Aragona nel 1284, Dante da Maiano e un ignoto, il quale si professa giullare, ma che si dice nato in piú alta condizione sociale in una cobbola mandata al Giudice di Gallura, cioè il «Nin gentile» di Dante Alighieri. A proposito del quale Alighieri ricorderemo il sirventese di Giraut Riquier, tutto vibrante di gioia per la scelta di Americo di Narbona a capitano generale de’ Fiorentini, nel 1288, sotto le cui insegne combatterà l’anno seguente, a Campaldino, il giovane Poeta.

In Sicilia, in piena guerra del Vespro, nel 1296, c’è uno scambio di sirventesi tra Federico III e il conte d’Empurias, relativi alle vicende della guerra stessa. E io credo sia il medesimo conte d’Empurias colui che, l’anno avanti, aveva diretto all’Infante, in procinto di proclamarsi re, uno de’ soliti consigli d’occasione.

Possiam dire che la storia della poesia trobadorica in Italia finisca a questo punto. Infatti, solo quarantasei anni dopo, nel 1343, riudiremo una voce occitanica: essa uscirà da Napoli in occasione della morte di Roberto d’Angiò. Quel compianto, prolisso e pedestre, di un Provenzale, legato forse in qualche guisa alla corte, è però notevole per i particolari che narra. Con esso si chiude la storia della Letteratura Provenzale, in Italia e in Provenza (1).

 

CAPITOLO II.
Notizie sugli autori.


Darò qui appresso qualche notizia sugli autori, in maniera sommaria e limitatamente a quel che pare il meno incerto.
Le notizie provengono, per la maggior parte, dalle «razôs» che in alcuni manoscritti precedono le rime di ciascun poeta. È noto che queste «razôs» sono dei discorsetti che solevan pronunciarsi da’ giullari prima della recitazione delle poesie, e servivano a informare l’uditorio intorno all’autore. La loro attendibilità non è sempre sicura, giacché il redattore di quelle brevi prose talora si è valso delle allusioni contenute nelle poesie stesse, non sempre interpretandole esattamente, tal altra ha lavorato addirittura di fantasia e creato de’ piccoli romanzi. È il casa delle «razôs» piú sviluppate.
La critica ha sottoposto a diligenti analisi buon numero di tali biografie, giovandosi naturalmente, dov’era possibile, di fonti collaterali. E in conclusione si deve dire che assai scarse sono le notizie sicure che se ne ricavano. La raccolta completa delle «razôs» fu compilata da C. Chabaneau nel 1888 (v. gl’Indici); essa va integrata con gli studi posteriori fatti sopra ciascun trovadore.
Dall’esposizione che segue ho escluso parecchi autori. Innanzi tutto quelli che trovadori non furono se non per caso, e son noti altrimenti nella storia, data la loro condizione. Tali Carlo d’Angiò, Federico III di Sicilia, Raimondo Berengario IV di Provenza, Alberico da Romano, il conte di Biandrate, il conte d’Empurias, Blacatz signore di Aups, Bonifacio di Castellana. Per Manfredi I Lancia rinvio senz’altro al comento al n. XVI. Quanto ad alcuni altri, di cui tacciono cosí le vecchie biografie come le altre fonti, e che furono quasi tutti giullari, poco o nulla si trova da aggiungere a quel tanto che si ricava dalle stesse loro composizioni. Essi sono: Aicart del Fossat, Arnaldo, Arnaldone, Arnaut Peire de Agange, Cavaire, Falconet, Figera, Folcone, Giovanni, Giovanni d’Albusson, Gormonda di Montpellier, Guglielmo Raimon, Lambert, il Mola, Nicoletto di Torino, Palais, il Paves, Peire de la Caravana, Peire de Chastelnau, Raimon Guilhem, Raimon de Tors, Raimbaut de Beljoc, Taurel, il templare Ricaut Bonomel. Per Peire de la Mula rinvio al comento al n. CXIX.
Mi è poi sembrato senza utilità riferire il poco che si conosce intorno a trovadori che non passarono mai in Italia, quali: Aimeric de Belenuey, Arnaut de Mervelh, Bernart de Bondelhs, Bertran Carbonel, Elia de Barjols, Folquet de Lunel, Gasbert de Puycibot, Guglielmo Montanhagol, Guiraut Riquier, Guiraut d’Espanha, il Monaco di Montaudon, Palazi, Paulet di Marsiglia, Peire d’Alvernia, Peirol, Pons de Capdoil, Tomier. Intorno a due trovadori illustri, che parimenti non vennero mai nella Penisola, Arnaldo Daniello e Bertran de Born, basteranno a ogni lettore italiano le informazioni che potrà dargliene qualsivoglia comento dantesco.
AIMERIC DE PEGUILHAN. Nacque in Tolosa da un venditore di stoffe oriundo da Peguilhan, villaggio dell’Alta Garonna. Apprese per tempo a comporre canzoni e sirventesi, ma pare che cantasse molto male. Sua prima ispiratrice, e non soltanto ispiratrice, fu una borghese sua vicina (2). Celebrò Eleonora, moglie del conte Raimondo VI (3). Della donna borghese avendo ferito il marito con un colpo di spada alla testa, fu costretto ad uscire da Tolosa. Fu accolto e rivestito in Catalogna da Guglielmo di Berguedan e da costui presentato ad Alfonso VIII di Castiglia, che gli donò danari ed arnesi e gli fece onori. Alla corte di Castiglia godé pure della liberalità dell’infante don Ferdinando (4). Visitò la corte di Pietro III d’Aragona, e profittò del mecenatismo di don Diego López de Haro, gran signore di Biscaglia (5). In Spagna dimorò a lungo, poscia se ne venne in Italia. Prima passò da Tolosa, dove con uno stratagemma, che un biografo racconta con molti, forse con troppi particolari, rivide la sua prima amante. Quando sia passato in Italia precisarnente ignoriamo. Secondo una delle due biografie di lui, suo disegno era di visitare la corte di Guglielmo IV di Monferrato. E forse vi fu. Il fatto è però che la prima notizia certa lo presenta alla corte di Azzo VI d’Este. Vi si trovava di sicuro da qualche tempo, e ne aveva goduto il favore, nel novembre del 1212, allorché il marchese morí, seguito nella tomba, a pochi giorni di distanza, dal suo fedele amico e alleato il conte Bonifazio di San Bonifazio di Verona.
Pianse la morte di entrambi in due sirventesi accorati (6), e delle virtú cavalleresche di Azzo VI fece ricordo anche piú tardi. Alla corte Estense dimorò a lungo, durante il breve regno di Aldrovando e, in parte, durante quello di Azzo VII (7); e fu fra’ trovadori che celebrarono Beatrice. Frequentò la casa Malaspina, associando il nome di Guglielmo a quello della principessa Estense (8). Di Guglielmo, nella primavera del ’20, pianse la morte (9), e si preoccupò dell’avvenire della illustre famiglia, nei rapporti di essa co’ trovadori, adesso che una nuova e volgare giulleria incominciava ad invadere le corti italiane (10). Nell’ottobre dello stesso anno, canto il ritorno in Italia di Federico II (11). Però non pare abbia seguíto l’imperatore al di là del Garigliano, dopo la cerimonia dell’incoronazione in Roma, e sia stato accolto alla sua corte. Dopo il 1220, infatti, continuò a vivere nell’Alta Italia. In questo tempo lo troviamo in relazione con Guglielmo IV di Monferrato, con Emilia Traversari di Ravenna e con Giovanna d’Este (12). Si bisticciò con parecchi suoi compagni d’arte, tra la Lombardia e la Marca Trivigiana, fra i quali Sordello (13). Dopo il 1228, non si hanno piú notizie di lui. Una delle biografie afferma che sia morto in Italia e aggiunge esser corsa voce che abbia finito «in eresia».

ALBERTET DE SISTERON. «Albertet fu di Gapenses, figlio di un giullare di nome Asar, autore di belle canzonette. Albertet compose canzoni dalla bella melodia, ma di parole di poco valore . . . Visse a lungo in Orange, divenne ricco e poi andò a stabilirsi a Sisteron [Basse Alpi] e colà morí». Cosí la scarna sua biografia (14). Dalle sue poesie appare giovane maturo al principio del secolo XIII: in quest’epoca, infatti, tenzonava con Gaucelm Faidit e col Monaco di Montaudon. Circa la sua dimora in Italia, v. il capitolo precedente.
ALBERTO MALASPINA. Figlio di Obizzo I († 1186), il marchese Alberto Malaspina «non oltrepassò», secondo il Litta, «il 1210» (15). Da un documento del codice Pelavicino dell’Archivio vescovile di Sarzana (16) risulta che era morto prima del 22 luglio del 1206. Si tratta di un lodo arbitrale pronunciato da Tancredi Onesti, console di Lucca, ed altri suoi soci sopra una questione vertente tra Gualtieri, vescovo di Luni, e i Malaspina, circa la libertà della «strata francigena»: atto solenne al quale partecipò come testimone, fra gran moltitudine di popolo, anche Guglielmo IV di Monferrato. De’ Malaspina eran presenti Guglielmo e Corrado: quest’ultimo per sé e quale «procuratore nomine pro filiis et filiabus quondam Alberti Malaspina». Il Litta non si sa donde abbia desunto che Alberto avesse il nomignolo di «Moro»; per cui si è creduto identificarlo con il «Maur» ricordato da Peire Vidal in Pos ubert ai (n. XXXVIII, v. 61). Ma «Maur» è ivi nome di luogo, ed ora si vede che la poesia del Vidal è posteriore alla morte del Marchese. Alberto figura co’ suoi congiunti in numerosi atti pubblici e privati del tempo, ed è spesso ricordato nelle cronache. Acquisterebbe del merito chi ne compilasse un regesto. La biografia provenzale dice che «valenz hom fo e larcs, e cortes et enseignatz; e saub ben far coblas e sirventes e cansos». Purtroppo di sicuramente suo non ci son rimaste che le cobbole scambiate con Rambaldo di Vaqueiras, secondo abbiamo detto al capitolo precedente.
BARTOLOMEO ZORZI. Merita fede ciò che scrive di lui la biografia provenzale: «B. Zorzi fu un gentil uomo, mercante di Venezia, e fu buon trovadore. Avvenne che, andando con molti altri mercanti della sua città in Romania, egli e tutti gli altri ch’ erano con lui nella nave furono presi una notte da’ Genovesi. Perché allora c’ era gran guerra tra Veneziani e Genovesi. Tutti gli uomini di quella nave furon condotti prigionieri a Genova. Stando in prigione, compose molte belle canzoni, e molte tenzoni fece altresí con Bonifazio Calvo di Genova. Fatta la pace, B. Zorzi e tutti gli altri uscirono di prigione. Quando furono tornati a Venezia, B. Zorzi fu creato dal doge di Venezia castellano di Coron e di Modone, ricco paese di Romania, di dominio veneziano. Colà s’innamorò di una gentildonna di quelle parti, e colà finí». Una seconda biografia aggiunge a questi dati un particolare: «Lungo tempo stette B. Zorzi in prigione: circa sette anni» (17). Delle tenzoni scambiate in prigione tra B. Zorzi e Bonifazio Calvo non resta che una sola (cf. nn. CLXV–VI), delle altre poesie quelle pure da noi riferite a’nn. CLXXI, CLXXV, e una poesia amorosa. Intorno alle date e alle circostanze in cui le poesie furono composte, si vegga il comento alle poesie stesse.
BERTRAN d’ALAMANNON. Nato tra il 1200 e il 1210, prese parte attiva alle faccende politiche della Provenza, essendo legato alla corte di Raimondo Berengario, e poi a quella di Carlo d’Angiò, secondo che appare anche dalle sue poesie. Fu ivi in stretta relazione con Sordello. In Italia lo troviamo al seguito del Conte di Provenza, durante l’assedio di Brescia, nell’estate-autunno del 1238 (v. n. CXXXII). Ne’ registri Angioini di Napoli ricorrono, in mezzo a’ nomi de’ seguaci di Carlo I, alcuni d’Alamannon, uno de’ quali Bertrando. Il Salverda de Grave crede si tratti del trovadore; tale identità non trova conferma in nessuna delle poesie di lui (18).
BONIFAZIO CALVO. Genovese, visse vita veramente trobadorica, cioè da girovago, attraverso le corti. Nel 1253 e nel ’54 si trovava presso quella di Alfonso X di Castiglia, dove stimolava il re a conquistare la Navarra e poscia anche la Guascogna (19) Era già tornato a Genova al tempo della prigionia di Bartolomeo Zorzi in questa città (1265-72).
CALEGA PANZANO. Genovese, mercante di stoffe e capo, con suo fratello Corrado, di una società commerciale che operava in Oriente, in Francia, in Napoli e in Sicilia. Ebbe in moglie una certa Giovanna, dalla quale ebbe due figli, Giovanni e Giacomino. Compare per la prima volta in due atti del 6 luglio 1248. È ancora menzionato in un documento del 1313. All’epoca in cui compose il sirventese, l’unico che resti del suo bagaglio poetico (n. CLXIX), era uno de’ consiglieri del Comune (20).
ELIA CAIREL. Fu di Sarlat, borgata del Périgord. Una delle due biografie di lui dice che fu dapprima orafo ed armaiolo, e che poi si fece giullare. L’altra dice che «seppe di lettere». Tutt’e due s’accordano nell’affermare che percorse gran parte del mondo («la maggior parte della terra abitata»). S’accordano pure circa le sue qualità: «Mal cantava, mal poetava, mal sonava e peggio parlava», scrive una, ma aggiunge: «bene scriveva parole e melodie». Pel disdegno che aveva de’ baroni e del mondo, dice l’altra, «non fu gradito tanto quanto valeva l’opera sua». Seconda l’una, «en Romania estet lonc temps» (21). Ed è in Romania, a Salonicco, che lo troviamo per la prima volta, insieme con i vecchi compagni di Bonifazio di Monferrato, nel 1207, de’ quali condivise il duro travaglio (22). Ivi ebbe relazioni con la poetessa Isabella Pelavicini (23). La biografia non è esatta quando scrive che dalla Romania il trovadore se ne sia tornato a Sarlat, ove poi morí. Le sue poesie invece lo mostrano in Italia prima del 1215 (24). Nel 1220 assisté all’incoronazione di Federico II, e sembra abbia battuto invano alle porte della corte (25). Fu in relazione con Guglielmo IV di Monferrato (26). Le tracce di lui nella Penisola si perseguono sino al 1225 (27). Il giudizio che l’antico biografo dà del suo carattere e del valore dell’opera sua è giustificato dalle rime.
FALCHETTO DI ROMANS. Falquet o Folquet fu un giullare nativo di Romans, nel Viennese. Fu in relazione con Ugues conte di Berzé, il quale lo esortò a partire per la Crociata nel 1202; cosa che non fece. Non sappiamo se sin d’allora si trovasse alla corte di Monferrato, e se abbia fatto ritorno in patria tra il 1202 e il 1220, nel quale anno lo troviamo ancora in Italia. Frequentò Guglielmo IV di Monferrato e Ottone del Carretto. Dopo il marzo del 1226 era tornato in Provenza. Era ancora in vita nel 1233 (28).
FERRARINO DA FERRARA. Regna molta incertezza sopra questo trovadore, che G. Bertoni vorrebbe identificare con un Ferrarino Trogni, vivente ancora in Padova nel 1330 (29). Ma questi fu notaio, mentre del Ferrarino trovadore la biografia provenzale, che è assai attendibile nel caso di uno de’ poeti piú recenti, dice che fu giullare. Certo, il titolo di «maestro» datogli da questa lo distacca dalla bassa giulleria. Ecco le parole del vecchio biografo: «Maestro Ferrarino fu di Ferrara; fu giullare e s’intese del rimare provenzale meglio di qualsiasi altro che fosse in Lombardia». Dopo altre lodi alla sua conoscenza del provenzale, il biografo stesso aggiunge che «tostemps» dimorò presso la casa d’Este, e che, allorquando i marchesi solevano far festa e tener corte, i giullari gli si accalcavano intorno chiamandolo lor maestro. In gioventú amò una «madonna Turca». Da vecchio poco andava attorno, salvo che talora si recava a Treviso da Girardo da Camino e dai suoi figli, i quali lo onoravano e gli facevano doni per la bontà sua e per l’amore del marchese d’Este (30). Compilò un noto florilegio di rime provenzali; delle sue poesie non resta che quella che riferiamo al n. CLXXXIII.

GASBERT DE PUYCIBOT. Tutto ciò che può dirsi di sicuro intorno a G. de Puycibot è che, destinato alla vita claustrale in un monastero del Limosino, si smonacò e godé della generosità di Savaric di Mauléon. Visitò la Spagna, ove celebrò Giacomo I d’Aragona e sua moglie Eleonora di Castiglia. La sua attività poetica si colloca tra il 1210 e il 1230 (31).
GAUCELM FAIDIT. Nativo di Uzerche, nel Limosino, figliuolo di un borghese, girò per il mondo piú di venti anni, conducendo seco sua moglie Guglielma Monja, assai bella e istruita. Celebrò la viscontessa Maria di Ventadorn († 1219), moglie di Eble V, poetessa anch’ella; poi una Audiart di Malamort, la viscontessa Margherita d’Aubusson e Giordana d’Embrun. Passato in Italia, «messier lo marques Bonifacis de Monferrat lo mes en aver et en raubas et en arnes et en gran pretz, lui e sas cansos». In Italia frequentò anche un altro signore che non si riesce a identificare. Nella primavera del 1202 era tornato nel Limosino. Partí per la crociata col Marchese di Monferrato e col Conte di Blois. Se ne perdono le tracce verso il 1206 (32). Il suo canzoniere è ricco di oltre sessantacinque poesie. Ricordiamo fra queste il compianto celebre per la morte di Riccardo Cuor di Leone.
GUGLIELMO AUGIER NOVELLA. Giullare di Saint¬Donat nel Viennese, nato, a quel che pare, verso il 1185. Nel 1212 era in Italia; poco prima del 1225 era tornato in patria (33).
GUGLIELMO FIGUEIRA. Tolosano, figliuolo di un sarto e sarto da principio egli stesso, secondo la breve e poco benevola notizia biografica provenzale (34), nacque probabilmente nell’ultimo decennio del secolo XII, se nel 1215 componeva il canto di esortazione alla crociata mandato a Federico II (35). Era ancora in Tolosa nel 1229, dove componeva il sirventese famoso contro Roma (n. CXV). Ma, caduta la città in potere de’ Francesi, espatriò e se ne venne in Italia. Qui non appare se non nel 1231. Circa la sua dimora nella Penisola, si vegga al capitolo precedente e a’ comenti a’ nn. CXVIII, CXXXIII, CXXXIV.
GUGLIELMO DE LA TOR. Originario della Tour-Blanche presso Ribérac (Dordogna), nulla si conosce della sua vita anteriore al suo passaggio in Italia. La sua biografia provenzale è affatto romanzesca, narrando come abbia rapita in Milano la moglie di un barbiere e l’abbia condotta a Como, e come per la morte di lei si sia abbandonato a una serie di stranezze. Per le sue relazioni italiane vedi il comento a’ nn. LIV, XCVII, CXXVII, CXXXI.
LAMBERTINO o RAMBERTINO BUVALELLI. Bolognese, uomo di toga, nato sulla fine del secolo XII. Notizie sicure intorno a lui non si hanno prima del 1208, nel quale anno fu podestà di Milano. Nell’anno seguente fu console della giustizia in Bologna. Andò a Modena nell’inverno del 1212 quale ambasciatore del cardinal Sessa, legato pontificio. Fu podestà di Parma nel 1213, di Mantova nel 1215-16, di Modena nel 1217. Chiamato alla podesteria di Genova nel 1218, vi restò per i tre anni successivi. Nel 1221, avendo dovuto rinuciare all’offerta della podesteria di Modena, per ingiunzione di Onorio III, andò podestà a Verona, dove morí nel settembre dello stesso anno (36).
LANFRANCO CIGALA. La biografia provenzale scrive: «Messer L. Cigala fu della città di Genova; fu uomo gentile e sapiente, giudice, cavaliere, e menava vita da giudice. Era grande amatore, gli piaceva di poetare e fu buon trovadore. Fece molte belle canzoni e cantò volentieri di Dio» (37). In Genova c’erano altri suoi omonimi; pare tuttavia che il poeta sia stato figlio di un Guglielmo, persona cospicua, morto avanti il 7 ottobre 1248. Figura in diversi atti pubblici. Nel 1241 andò ambasciatore a Raimondo Berengario IV di Provenza. Nel 1251 partecipò a un giudicato della curia. Fu marito di una Soffiria Pignattaro e padre di sette figliuoli. Il 15 dicembre del 1278 non era piú tra’ vivi, essendo stato assassinato, nell’anno medesimo, come ho detto al capitolo precedente, nelle vicinanze di Monaco (38).
LUCHETTO GATTILUSI. Genovese, nato nel primo quarto del secolo XIII. Da documenti studiati da T. Belgrano, risulta che esercitò la mercatura, ma fu insieme uomo di legge e politico. Partecipò infatti a parecchi atti della Repubblica, della quale fu piú volte ambasciatore: nel 1266 a Clemente IV, nel 1284 a Firenze, nel 1295 a Venezia. Podestà di Bologna nel 1272, testimoniò al testamento di re Enzo. Capitano del popolo in Lucca nell’anno seguente, vi tornò con la stessa carica nel 1277. Podestà di Milano (secondo semestre) nel 1282, di Cremona nel 1301, non se ne hanno piú notizie dopo quest’anno (39).
PEIRE BREMON LO TORT. Restano di lui soltanto due poesie, delle quali una è riprodotta da noi (40). La breve «razôs» che precede questa in alcuni canzonieri ci apprende che egli fu un povero cavaliere del Viennese, che poetava bene e gradevolmente, che sapeva comportarsi ugualmente bene co’ gentiluomini e che fu molto onorato da’ baroni della sua regione nativa. Dalla canzone da noi riferita si ricava che fece il viaggio in Terrasanta tra la seconda e la terza Crociata, che vi dimorò qualche tempo e vi amò una gentildonna. Prima del 1176 era tornato in Occidente. Fu in relazione con Guglielmo Lungaspada del Monferrato, al quale mandò la canzone predetta nel 1177. Non sappiamo se sia stato mai in Italia, ché l’aver dedicato la canzone al figliuolo di Guglielmo il Vecchio non prova che lo abbia conosciuto alla corte Monferrina. Le sue poesie ebbero un qualche successo presso i contemporanei; e forse alcuna di esse andò confusa tra quelle del suo omonimo, piú noto e piú recente, Peire Bremon Ricas Novas (41).
PEIRE GUILHEM DE LUSERNA. Luserna è un villaggio sulla sinistra del Pellice, ed è generalmente ritenuto il luogo d’origine del trovadore. Solo A. Jeanroy ha avanzata l’ipotesi di una Luserne di Provenza, oggi semplice «mas», in una valle del Leberon (Basse Alpi). I motivi da lui addotti sono poco persuasivi, ma quelli degli altri non sono dirimenti; tanto piú che il nome di Luserna, là dove è ricordato (v. n. XCIV), sembra adoperato per un puro giuoco di parole. Solo questo è sicuro: che Peire Guilhem visse nella Marca Trivigiana durante il terzo decennio del sec. XIII.
PEIRE VIDAL. Figlio di un pellicciaio di Tolosa, si diede alla poesia, al vagabondaggio e alla vita di avventuriero. Alla corte di Barral del Balzo, signore di Marsiglia, si accese, ma non ne fu corrisposto, della moglie del suo protettore, Adelaide di Roccamartina. Obbligato ad abbandonare la corte, in conseguenza della sua audacia verso di lei, s’imbarcò per l’Oriente, non è sicuro se a Genova e se al seguito di Riccardo Cuor di Leone. Durante questo viaggio sposò una greca di Cipro, sedicente nipote dell’imperatore Emanuele Commeno; ciò che gli fece credere aver de’ diritti al trono bizantino, dirsi addirittura imperatore e dir sua moglie imperatrice, e ostentare magnificenza. Nel Carcassese corteggiò la moglie di un signore di Penautier: la «Loba» per la quale fece parecchie stranezze. Nel 1194 era ancora dalle sue parti; ivi pianse la morte del conte Raimondo V, contro il quale si era precedentemente schierato durante la guerra di lui con Alfonso d’Aragona. Sul principio del 1195 capitò in Italia, alla corte di Saluzzo ed a quella del Monferrato, ove compose Bon’aventura (n. XIII), celebrò Adelaide di Saluzzo ed ebbe, pare, il diverbio col marchese Manfredi I Lancia. Verso la fine del 1195 passò in Ungheria; nella seconda metà dell’anno seguente ne era già partito. Lo ritroviamo in Malta tra il 1204 e il 1205; in Piemonte novellamente nel 1206. Poi se ne perdono le tracce. P. Vidal si dipinge da se stesso come uno de’ tipi piú originali del mondo trobadorico, mentre il fatto medesimo di parlare volentieri e spesso delle proprie qualità e condizioni e di vantarsi, lo distacca dagli altri suoi compagni d’arte e ne fa risaltare la figura. Per le sue spacconate in fatto di armi e di amori, lo si disse un matto. Ma egli mostra anche grande conoscenza della vita sociale e politica del suo tempo, appresa nelle sue lunghe peregrinazioni. E forse era nel vero il nostro Bartolomeo Zorzi allorché proclamava esser supremamente folle colui che giudicava folle Peire Vidal, perché versi come i suoi non si scrivono senza «gran sen natural» (42).
PERCIVALLE DORIA. C’era in Genova piú di un Percivalle Doria. Il nostro, che poetò anche in italiano, sembra quello che nel 1228 fu podestà di Asti, nel 1231 di Arles, nel 1233 e nel 1237 di Avignone; poi, nel 1244, di Parma. Passato al servigio di Manfredi nel 1252, fu nominato vicario generale della Marca d’Ancona, del ducato di Spoleto e della Romagna, e fu compreso nella scomunica del 1255. Nel 1264, guadando la Nera alla testa delle truppe ghibelline, affondò e morí (43).
RAMBALDO DI VAQUEIRAS. Figlio di un cavaliere del castello di Vaqueiras, nel dipartimento della Valchiusa, povero e reputato matto, Rambaldo si fece giullare, e dimorò qualche tempo presso Guglielmo del Balzo (1182-1219), cui il castello allora apparteneva (44). In Italia sembra sia passato e ripassato piú volte, avanti il 1185; poscia vi si stabilí definitivamente. Per il suo periodo italiano veggasi al capitolo precedente.
SORDELLO. Dopo tutto quello che si è detto e contradetto intorno a Sordello, dai biografi antichi e dai critici moderni, a me pare non sia il caso di entrare in discussione sopra i punti ancora oscuri della sua vita. Mi limiterò a ciò che solo è documentato intorno all’esser suo, sopra tutto per quel che riguarda la sua partecipazione alle vicende italiane. Il celebre trovadore nacque a Goito presso Mantova, non si sa in quale anno. Nel 1220 già era divenuto noto nel mondo giullaresco come soggetto da bettole (cf. n. LXVIII). Sino al 1228 lo troviamo nella Marca Trivigiana, presso gli Estensi e i da Romano, alle prese co’ suoi compagni d’arte, che lo attaccano in mille guise, e da’ quali si difende. Nel 1226, per istigazione di Ezelino, divenuto nemico del cognato Rizzardo di San Bonifazio, aiutò Cunizza, moglie di costui, a fuggire dal tetto maritale. Nel 1228 si partí dalla Marca per recarsi in Provenza. Qui fu ospitato da Raimondo Berengario IV. Passò poscia in Spagna. Tornato in Provenza e nuovamente ospitato a corte, acquistà amicizie illustri, come quella di Blacatz, di cui pianse la morte nel planh famoso, e fu in relazione co’ piú importanti poeti del tempo. Figura come testimone in diversi atti pubblici. Godé dell’amicizia di Carlo d’Angiò, che non seguí alla crociata né alla guerra del Hainaut, ma che seguí in quella d’Italia (45). Per le notizie relative a quest’ultimo periodo della sua vita, rinvio al capitolo precedente e ai comenti a’ nn. XCVI, XCVII, XCIX, C, CI, CII, CIII, CV, CVIII, CIX, CXXX, CLXVII, CLXXII.
UGO DI SAN CIRC. Originario di Thégra (circondario di Gourdon, nel Lot). Destinato al sacerdozio, fu mandato a studiare a Montpellier; ma preferí dedicarsi alla poesia e si fece giullare. Tra il 1211 e il 1220, visse nel Languedoc. Godé la protezione dei vari signori, specialmente quella di Savaric de Mauléon. Non è sicuro che sia stato in Ispagna. In Provenza tenzonò col conte Guglielmo del Balzo e cantò la contessa. Non si conosce in quale anno sia passato in Italia: in ogni modo, non avanti il 1220. Si stabilí in Treviso, vi si ammogliò e vi finí i suoi giorni. Per il periodo italiano della sua vita rinvio al capitolo precedente (46).
CAPITOLO III.
I manoscritti.
Non devo dare qui la descrizione particolareggiata di tutti i canzonieri provenzali. Chi desideri averne nozione potrà ricorrere alla bibliografia, assai precisa, compilatane da A. Jeanroy (47). Mi limito alle indicazioni che suppongo le piú necessarie a’ miei lettori. Le sigle son quelle proposte da K. Bartsch (48) e adottate da tutti i provenzalisti. Il lettore osserverà che in gran maggioranza i manoscritti provengono dall’Alta Italia, e vanno dal secolo XIII al XVI: la miglior prova questa del favore che la poesia de’ trovadori godé nel nostro paese, prima presso i signori, committenti delle raccolte, poscia presso a gli eruditi.
A) Roma, biblioteca Vaticana, Latino 5232. Grande e autorevole raccolta, del secolo XIII, fatta a Venezia o nel Veneto. Appartenne ad Alvise Mocenigo, ad Aldo Manuzio il giovane ed a Fulvio Orsini. Le poesie son distribuite per generi (canzoni, tenzoni, sirventesi). Contiene anche delle biografie di trovadori e qualche loro immagine ne’ capolettera. Edizione diplomatica in Studj di Filologia romanza, III, pp. 1-670 (Pakscher e De Lollis).
B) Parigi, biblioteca Nazionale, Franc. 1592. Secolo XIII, fine; mano italiana, la stessa probabilmente di A); meno ricco di questo, ma le lezioni de’ due sono quasi tutte identiche. Tavola nel Catalogue des manuscrits français de la bibliothèque Impériale, I, pp. 264-6. Collazione con A) in Studj di Filologia romanza cit., III, pp. 671-720 (De Lollis).
C) Parigi, biblioteca Nazionale, Franc. 856. Una delle maggiori collezioni trobadoriche, compilata nel sud-ovest della Francia, nel sec. XIV. Appartenne ai conti di Foix e a’ visconti di Béarn. Le poesie sono ordinate per nome di autore, senza distinzione di genere. Precede le poesie un repertorio alfabetico le cui attribuzioni non corrispondono sempre a quelle delle rubriche del testo.
D) Modena, biblioteca Estense, R, L, 4. Compilazione di diverse epoche (sec. XIII e XIV). Una prima parte, D), contiene una serie di canzoni, sirventesi e tenzoni distribuite per autori. Una seconda, Da), un’altra serie di sirventesi e tenzoni distribuite per autori. Queste provengono dal canzoniere compilato dal trovadore Ugo di San Circ per ordine di Alberigo da Romano. D) e Da) sono anteriori al 1254, data della tavola. La compilazione contiene inoltre, del sec. XIV, poesie di Peire Cardinal, il Florilegio di Ferrarino da Ferrara (cf. p. LXXIX), il Thesaur di Peire de Corbiac e una serie di canzoni francesi. Rilegata nello stesso volume è una raccolta del sec. XVI, d), di rime derivate da K) (v. oltre) o da D). Nel sec. XIV, D) appartenne a un Pietro da Ceneda; nel XV, a Giovanni Malipiero da Venezia. Descrizione, tavola ed estratti, ne’ Sitzungsberichte dell’Accademia di Vienna, Classe Filologica-Storica, LV (1867), pp. 339-450 (Mussafia).
E) Parigi, biblioteca Nazionale, Franc. 1749. Secolo XIV. Provenienza italiana. Canzoni, biografie, tenzoni e ancora canzoni. Già degli Estensi (sec. XV), fu studiato da Pietro Bembo e da Ludovico Beccadelli. Tavola nel Catalogue des Manuscrits français cit., I, p. 304-9.
F) Roma, biblioteca Vaticana, Chigi L, IV, 106. Secolo XIV; mano italiana. Tenzoni, un florilegio, una biografia e delle poesie di Bertran de Born. Nel sec. XVI appartenne a Marcello Adriani di Firenze, poi a suo figlio Giovanni Battista. Edizione diplomatica: E. Stengel, Die provenzalische Blumenlese der Biblioteca Chigiana, Marburg, s. d.
G) Milano, biblioteca Ambrosiana, R, 71 sup. Secolo XIV, di mano italiana, con notazioni musicali in ottantuno composizioni; nelle altre sono segnate le righe senza neumi. Ordinamento per nome d’autore, sino alla c. 90; poi una serie di tenzoni; poi nuovamente delle rime ordinate per nome di autore; segue una serie di saluti, insegnamenti e cobbole sparse. Le ultime carte, contenenti l’Ensenhamen d’onor di Sordello, sono di mano posteriore. Edizione diplomatica: G. Bertoni, Il Canzoniere provenzale della biblioteca Ambrosiana R. 71 sup. (Gesellschaft für roman. Literatur, XXVIII, 1912).
H) Roma, biblioteca Vaticana, Lat. 3207. Secolo XIV; mano italiana. La prima parte contiene canzoni, sirventesi e tenzoni per nome d’autore; la seconda parte, di data posteriore e di più mani, tutte italiane, contiene una collezione di cobbole e di tenzoni, e una nuova serie di canzoni e sirventesi. Appartenne a Ludovico Castelvetro e a Fulvio Orsini. Edizione diplomatica in Studj di Filologia romanza cit. V., fasc. 14 (Gauchat e Kehrli).
I) Parigi, biblioteca Nazionale, Franc. 854; K) Parigi, biblioteca Nazionale Franc. 12473. Identici nel contenuto e nelle lezioni, salvo in qualche punto. Sec. XIII, fine; mano italiana. Divisione per generi. K), che sembra provenire dalla libreria di Francesco Petrarca, appartenne a Pietro Bembo, ad Alvise Mocenigo e a Fulvio Orsini, dal quale ultimo passò alla Vaticana. Trasportato a Parigi da Napoleone, non fu piú restituito.
L) Roma, biblioteca Vaticana, Lat. 3206. Secolo XIV, fine; sembra copia eseguita in Italia di una compilazione fatta in Provenza. Distribuzione per autori. Contiene anche il Chastel d’Amors, la novella En aquel temps qu’om era jais di Raimon Vidal de Bezalu, il romanzo Jaufre e il Thesaur di Peire de Corbiac. Edizione diplomatica in Studj Romanzi, XVI (Pelaez).
M) Parigi, biblioteca Nazionale, Franc. 12474. Secolo XIV; mano italiana. Divisione per generi. Appartenne al Cariteo, poi ad Angelo Colocci, e alla biblioteca Vaticana. Trasportato a Parigi da Napoleone, non fu piú restituito.
N) Cheltenham, biblioteca Fenwick, 8335. Secolo XIV; mano italiana. Distribuzione per generi. Oltre alle liriche contiene anche insegnamenti e poemi narrativi. Proviene dalla biblioteca Gonzaga di Mantova; lo utilizzarono Mario Equicola e Pietro Bembo. Tavola nella Rivista di Filologia romanza, II, 49-52, 144-72 (Suchier). Estratti in Suchier, Denkmäler der provenz. Literatur, Halle, 1883.
O) Roma, biblioteca Vaticana, Lat. 3208. Secolo XIV; mano italiana. Distribuzione per generi. Appartenne a Pietro Bembo, poi a Fulvio Orsini. Edizione diplomatica negli Atti della R. Accademia dei Lincei, ser. IV, to. II, 1885-6 (De Lollis).
P) Firenze, biblioteca Laurenziana, XLI, 42. Terminato di scrivere nel 1310 da mano italiana. Canzoni, biografie, cobbole sparse, sirventesi, seguite da testi grammaticali. Edizione diplomatica in Archiv für das Studium der Neueren Sprachen und Literaturen di Herrig, XLIX, 53-88, 283-324; L, 241-84 (Stengel).
Q) Firenze, biblioteca Riccardiana, 2909. Secolo XIV; mano italiana. Distribuzione per nomi d’autori. Edizione diplomatica di G. Bertoni, Il Canzoniere provenzale della Riccardiana n. 2909 (Gesellschaft für roman. Literatur, VIII, 1905).
R) Parigi, biblioteca Nazionale, Franc. 22543. Una delle maggiori raccolte trobadoriche, in gran formato, con notazioni musicali in centosessanta poesie: nelle altre non ci sono che le righe destinate ad accogliere i neumi. Appartenuto, nel sec. XVII, a Onorato d’Urfé, poi al duca de la Vallière, si suole citarlo anche co’ nomi di questi antichi possessori. Tavola: De Bure, Catalogue de la Bibliothèque du duc de la Vallière, parte I, to. II, pp. 152-8; P. Meyer, nella Bibliothèque de l’École des Chartes, XXXI, pp. 412-58.
S) Oxford, biblioteca Bodleiana, Douce 269. Secolo XIII, fine; mano italiana. Distribuzione per nomi d’autori. Appartenne probabilmente alla biblioteca Gonzaga di Mantova. Descrizione e tavola: P. Meyer, Documents manuscrits sur l’ancienne littérature de la France, in Archives des missions littéraires et scintifiques, serie II, tt. III, IV, V, 1871, pp. 160, 247.
Sg) Barcellona, biblioteca de Catalunya, 146. Secolo XIV; mano e ortografia catalana. Poesie anonime di autore o autori catalani, di Rambaldo di Vaqueiras, di Girardo di Bornelh e di altri del periodo classico, infine di autori della scuola di Tolosa. Lo si designa anche col titolo di «Canzoniere Gil y Gil», dal nome del suo antico proprietario. Edizione parziale nell’Annuari de l’Institut d’estudis catalans 1913-4, pp. 30-48 (Massó y Torrents).
T) Parigi, biblioteca Nazionale, Franc. 15211. Secolo XV; di tre mani che sembrano italiane. Distribuzione prima per generi, poi per autori. Tavola: Annales du Midi, XII, pp. 194-208 (Chabaneau).
U) Firenze, biblioteca Laurenziana, XLI, 43. Secolo XIV; mano italiana. Distribuzione per nomi di autori. Edizione diplomatica: Archiv cit., XXXV, pp. 363-463 (Grützmacher): e cf. Studj Romanzi·, III, pp. 53-74 (Santangelo).
a1) Firenze, biblioteca Riccardiana, 2814, a2) Modena, biblioteca Estense, App. 494, 426, 427 (Campori). Parti della copia, eseguita nel 1589, del Canzoniere compilato, alla fine del sec. XIII, da Bernardo Amoros. Classificazione per autori. Edizioni diplomatiche: di a1), in Revue des Langues romanes, XLI, 349-80; XLII, 5-43; 305-44; 500-8; XLIII, 195-214; XLIV, 213-44, 328-41, 423-42, 514-20; XLV, 44-64, 120-51, 211-75 (Stengel); di a2), G. Bertoni, Il Canzoniere provenzale di B. Amoros, Complemento Campori·, Friburgo, 1911 (v. inoltre Studj di Filologia romanza, VIII, pp. 421-84; Studj Romanzi·, II, 63-95; Giorn. Stor. della Letter. ital., XXXVIII, 285-91).
c) Firenze, biblioteca Laurenziana, XC, infra 26. Secolo XV; mano italiana. Distribuzione per autori. Appartenne a Benedetto Varchi, poi a Carlo Strozzi. Edizione diplomatica: Studj di Filologia romanza, VII, pp. 244-401 (Pelaez).
d) vedi D).
e) Roma, biblioteca Vaticana, Barb. Lat. 3965. Collezione di poesie liriche copiate dal canonico Plá, da vari canzonieri, alla fine del sec. XVIII o al principio del XIX. Tavola in Jahrbuch di Lemke, XI, pp. 37-42 (Bartsch.)
ga) Bologna, biblioteca Universitaria, 1290. Copia parziale di M) fatta nel secolo XVI. Notizia in Sitzungsberichte di Vienna, LV, p. 447 (Mussafia).
o) Parigi, biblioteca Nazionale, Franc. 1049. Secolo XIV; scritto in Aix-en-Provence. Contiene, con altre cose non provenzali, il compianto per la morte di Roberto d’Angiò (v. il n. CXC).
r) Firenze, biblioteca Riccardiana, 294. Secolo XIV; mano italiana. Frammento. Edizione diplomatica: Studj di Filologia romanza, V, 1-64 (Rajna).
z) Bologna, archivio Notarile, s. segnatura. Secolo XIII, prima metà (?). Edizione diplomatica mia in Studj Romanzi·, XI, 1914 (1-52).

 

 

1) In questo Capitolo è trasfuso, e, in parte, rifuso, lo studio da me inserito nel volume miscellaneo Provenza e Italia, pubblicato dal Comitato nazionale Italiano per le onoranze a Federico Mistral (Firenze, Bemporad, 1930). La diversità del pubblico che ciascuna delle due stesure presupponeva, ha fatto sí che parte della prima non si trovi piú nella seconda, mentre questa ha dovuto far posta a considerazioni e notizie che in quella erano state omesse. Aggiungo che nella seconda fu introdotto qualche emendamento e qualche spostamento di data imposto da un piú approfondito riesame delle materie.()

 

 

 

 

 

 

 

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