Pietro Guglielmo di Luserna, trovatore italiano del sec. XIII (1)
Sulla sinistra del Pellice, allo sbocco di una valle amena, giace Luserna (2) ora capoluogo di mandamento nel circondario di Pinerolo, da cui dista quindici chilometri appena, nella provincia di Torino. È terra antica e la valle, che da lei prende il nome, aprendosi da una parte verso la pianura del Piemonte e dall'altra dando facile accesso al Delfinato, forma come un centro, a cui mettono capo le vallate minori; onde, fin dai tempi di mezzo, fu emporio fiorente a cagionedel transito delle merci da e pel Delfinato e il Viennese,e borgo popoloso e ricco, come ne fanno fede i trattati, che strinse per le gabelle coi Delfini di Vienna e col signore di Brianzone (3). E come le mercanzie, è ovvio che questa via tenessero pure i trovatori, che dalla vicina Provenzasi riversavano nelle nostre corti del Piemonte, della Lombardia, della Marca gioiosa, diffondendovi il gai saber. Luserna pertanto, posta su questa via, non rimase estranea al movimento trovadorico, ed ebbe anzi il suo trovatore, che può forse essere uscito da uno dei rami dei suoi conti; poichè da qui trasse certamente origine quel Pietro Guglielmo di Luserna, a cui i canzonieri provenzali attribuiscono cinque componimenti e il cui nome occorre in due poesie di altri trovatori.
Fu primo, per quanto mi consta, il Chabaneau (4) a mettere innanzi il pensiero che la patria di Pietro Guglielmo fosse Luserna in Piemonte ; e or non è molto, quasi contemporaneamente, rivendicarono l' italianità di lui il Torraca (5) e il De Lollis (6). Che il contenuto di alcune sue poesie non lascino dubbio ch'egli sia di Luserna piemontese, vedremo fra poco, facendone l'esame. Piuttosto gioverà find'ora considerare come si sia supposto ch' ei fosse d'origine tedesca. Ben è vero chein uno dei canzonieri più antichi e riputati, il Da, egli apparisce sotto il nome Peire Willems, per il che il Cavedoni (7) e più tardi sulle sue orme il Sartori Borotto (8) pensarono che fosse di Lucerna e che di là scendesse in Italia, nel primo trentennio del secolo XIII. Ma il loro giudizio è fallace, poggiando sulla forma Willems, che essi credettero attestasse, nel caso specifico, la teutonicità, mentre non ha nulla di straordinario, trattandosi appunto d'un nome d'importazione germanica. E di vero, nel canz. R ricorre la stessa gratta per l'autore della novella « Lai on cobra sos dregz estatz » (9) e Willelmus con le relative varianti è assai diffuso anche nelle carte latine medioevali (10); onde nulla se ne può argomentare circa la patria del nostro trovatore. Questa, come dicemmo, risulta dalle sue stesse poesie ; ma se le prove, ch'esse forniscono a tal fine, sono evidenti e indubitabili, non possiamo contrapporvene altrettali circa la famiglia, cui Pietro Guglielmo appartenne.
Della terra di Luserna erano signori alcuni conti, che dal loro feudo prendevano nome. Fin dal 1134 un Enrico di Lucerna sottoscrive alla donazione del castello di Mombasilio fatta alla chiesa d'Asti dai fratelli Marchesi di Ceva insieme con la loro madre Alasia. Due anni dopo, nel 1136, in una convenzione col castellano di Brianzone, intorno ai dazii da pagarsi in val di Bricherasio, compariscono tre Guglielmi di Luserna, dei quali il primo ha il soprannome di Berengario o Balangero, usato spesso dai signori di Rorengo, l'altro di Biliatore o Bigliore, il terzo di Manfredo (11). E questa divisione nei tre rami dei Rorenghi, Bigliori e Manfredi si perpetuò nei secoli posteriori, quantunque, come da uno stesso stipite usciti, continuassero a conservare la stessa insegna di conti di Luserna (12).
Successivamente, s'incontra parecchie volte il nome di Guglielmo in alcuni atti che sono giunti fino a noi. Così con due carte dell'aprile 1159 fatte in Luserna, un Guglielmo (Gulielmus de L.) vende e dona all'abbazia di Staffarda tutto ciò che possiede nella valle di Guicciardo (13), e più tardi nel febbraio 1173 lo stesso (Vilielmus de L.) viene ad una convenzione con sua sorella, abbadessa di Caramagna, intorno ad alcuni diritti feudali (14).
Avvicinandosi poi ai tempi, in cui deve esser vissuto il nostro trovatore, troviamo spesso un Guglielmo Bigliore o Bigliatore dei conti di Luserna. Per mezzo di un procuratore apparisce dapprima (dominus Guillelmus Biglior) in una sentenza del 10 novembre 1222 per sistemare le differenze in sorte tra i signori della Torre, del Villar e di Lucerna, che sono un Enrico e i fratelli Berengario e Riccardo (15). Pochi anni appresso, il 16 aprile 1232 egli ritorna fra i testi (dom. Vullielmus Billor), in una divisione del luogo di Angrogna tra i predetti fratelli Berengario e Riccardo (16). Infine in un atto del 31 agosto 1242 lo si vede (dom. Gulielmus Bigliator) confermare tutte le donazioni fatte dai signori di Ponte e di Lucerna al monastero di Staffarda (17). Egli deve essere lo stesso che quel Billator de Lucerna, il quale fin dal 28 aprile 1213 figura fra i testimoni dei patti stipulati tra il conte Tommaso di Morienna e il marchese di Saluzzo (18), per cui questi promette di dare sua sorella Agnese in isposa ad Amedeo, figlio di detto conte Tommaso, costituendole in dote metà dei suoi beni (19).
Oltre a questo Guglielmo Bigliore o Bigliatore, ad Enrico e ai fratelli Riccardo e Berengario o Belengerio, che abbiamo qui sopra ricordati (20), occorre in una carta del 22 novembre 1242 anche un Manfredi di Lucerna coi flgli Guglielmo e Alberto (21) ; ma di un Pietro Guglielmo mai nessuna traccia. Ben gli potrebbe corrispondere pel tempo in cui visse e per le relazioni che ebbe con la cortedi Saluzzo, il Guglielmo Bigliore o Bigliatore ; ma sarebbe veramente strano che, se egli fosse una persona sola col trovatore, non apparisse mai in nessuna carta con l'intera denominazione di Pietro Guglielmo.
Vani dunque finora i tentativi circa l'identiflcazione del trovatore, io sarei indotto a pensare che egli non sia della famiglia dei conti, parendomi poco probabile che non s'incontri mai il suo nome nel discreto numero di carte, che a loro si riferiscono in questo lasso di tempo. Sarei d'avviso che egli uscisse di piccola gente di Luserna, come lo farebbe credere il vederlo in un mazzo coi menestrelli di poco conto, dileggiati da Aimeric de Peguilhan.
***
Pietro Guglielmo ci comparisce appunto per la prima volta nel noto sirventese (22), che questo trovatore lanciò contro i giullaretti « croi e noios e mal parlan », che troppo facilmente erano accolti nelle corti del Piemonte.
Son ia li mordedor,
per un de nos, dos de lor,
ei diceva, temendo non avessero a riversarsi alla corte dei Malaspina, dove probabilmente si trovava allora. Lo Schultz (23) opina che questo sirventese cada tra il 1225 e il 1229, io lo porrei addirittura tra il 1228 e il 1229, e le ragioni son queste: Il Peguilhan vi nomina apertamente Sordello, dicendo in modo ironico, ch'egli non è del numero dei « ioglaret novel » e ben potrebbe essere ricevuto in corte,
qel non es d'aital semblan,
ni noisvai ges percassan,
si ceil cavallier doctor ( 24);
però, incallito giocatore, è spesso al verde, di modo chese gli vengono meno gli usurai,
non pot far cinc ni, si eis, terna (25).
Ora, è evidente che se Aimeric dice che possono accoglierlo, gli è perchè Sordello aveva già lasciato Treviso e aveva incominciata la sua peregrinazione, da oriente a ponente dell'alta Italia, da Treviso a Gap (26). E se la sua partenza da Treviso non può essere portata più in la dei primi mesi del 1229 e avvenne con tutta probabilità fin dal 1228 (27), la satira del Peguilhan non può essere anteriore a quest'ultimo anno. Ma v'ha di più. C'è una poesia di Aimeric, nella cui tornada egli esclama :
Messagier, porta mon fablel
en la Marca tost a 'N Sordel,
qem fassa iuiamens noel
leial, aissi, comes usaz,
q'eu sia desencolpatz ( 28).
Sordello dunque in quel tempo era ancora a Treviso, dove pare che Ezzelino gli facesse onore assai ; eravamo intorno al 1226 e al 1227, e forse dalla corte d'Este (29) potè capitare nella Marca gioiosa il Peguilhan, che rivolse a Sordello, non dopo questi anni, il succitato fablel. Qui vi sono espressioni di stima e simpatia, e ciò significa che i loro rapporti erano buoni e non si devono esser guastati che più tardi ; e più tardi quindi deve essere stato composto il sirventese contro i giullari, di cui è quistione (30). Arriviamo così al 1228 o 1229 ed è lecito il supporre che, quando Aimeric lo scriveva, Sordello non solo avesse lasciato Treviso, ma avesse anche bazzicato alla corte di Manfredi III di Saluzzo, perchè quel dire in una strofa che i signori piemontesi lo possono ben accogliere e poi nella successiva ricordare
lo marques part Pinarol
que ten Salus e Revel,
mi ha tutta l'aria di un'esplicita allusione alle accoglienze avute da Sordello nella corte di lui (31).
In quello stesso tempo, tra il 1228 e il 1229, a quella stessa corte, al dire del Peguilhan, eranvi pure, senza che il marchese ve li potesse schiodare e allontanare, un Persaval maestro ed ajo di fanciulli e un seccatore, che non vuol nominare, di Luserna:
Persaval que sap d'enfan
esser maestre e tutor,
ni un autre tirador,
qu'eu no vuoil dir, de Luserna ( 32).
Senza soffermarmi su questo Persaval, che ad alcuni parve possibile, ad altri no, di identificare col trovatore genovese Percivalle Doria (33), noterò solo di sfuggita che Percivale de Auria era podestà in Asti proprio nel 1228 (34), e non v'è nulla di straordinario ch'ei fosse della società assidua alla corte di Manfredi III (35).
Quanto poi all'altro noioso seccatore, che il Peguilhan non menziona col suo nome, ma ci indica come di Luserna,chi potrebbe essere se non il nostro Pietro Guglielmo, che è appunto di Luserna ? E se, come si sa, il Peguilhan oltre che presso Azzo VI, di cui deplorò la morte in due compianti (36), fu poi anche presso Azzo Novello VII, la cui moglie Giovanna d'Este, invoca come giudice in una canzone sui beni e i mali d'amore (37), non v'è nulla di più probabile che egli si sia incontrato in quella corte con Pietro Guglielmo, il quale ricorda pure Giovanna d'Este, in una poesia che or ora vedremo.
Che Pietro Guglielmo sia di Luserna lo si rileva anche da una cobla o esparsa o frammentaria (n.º I), in cui dice che: « chi va a Luserna si mette a un brutto rischio, perchè vi si trova colei che trae il cuore da dentro il corpo ; però egli vi andrà, che ora non ha più di cuore, poichè colei, in cui ogni buon pregio risiede, glielo involò ; ne egli cerca ricuperarlo, non avendone più desiderio ». Da questi versi si vede che egli aveva allora la donna del cuore a Luserna, e l'interesse ch'egli qui palesa per questo paese, interesse che ancor più vivo dimostra in un'altra poesia (n.º III), in cui vorrebbe tenerne lontano un malevolo, non potrebbe spiegarsi senza riconoscere che sia la sua patria, come del resto gli è attribuita dal Peguilhan e più esplicitamente da Uc de S. Circ, che lo chiama Peire Guillem de Luserna (38).
Sulla sua patria dunque nessun dubbio ; però dai succitati suoi versi nessun argomento si può trarre circa il tempo in cui furono scritti. V'è all'incontro una sua canzone (n.º II), che con alcuni accenni storici ci permette di fermare qualche punto della cronologia relativa al nostro trovatore. Essa, sulla fede di alcuni canzonieri, era stata attribuita a Bernard de Ventadorn e riferita ai tempi di Federico I (39) ; ma dopo le indagini fatte dal Cavedoni, non può più dubitarsi che spetti al secolo XIII e quindi a Pietro Guglielmo (40).
Il poeta comincia a dire che si vuol rallegrare con un canto gaio e leggiero, perchè
hom qe nos don' alegrer
no sai que puosca esdevenir;
e vuol seguire l'esempio dei valenti di Provenza
que regnan ab conoissenza
et a bella captenenza,
sicchè nessuno li puo schernire. Ma il nostro Pietro Guglielmo non ha la borsa guari fornita e teme di non avere mezzi sufficienti per arrivare alla meta agognata. « Io avrei desiderio, egli dice, di acquistare fino pregio perfetto, se non mi mancassero denari e rendite, per poter compire le imprese che avrei in mente di fare ; ma poichè a Dio non piace ch'io possa far mostra di gran valentia, mi devo guardare almeno da peccato ». Si rassegna pertanto al suo destino, confidando in Dio ; e vedremo, anche fra poco, che quest'aria umile, remissiva, di fondo ascetico, insieme con la tendenza al moraleggiare, costituisce uno dei caratteri peculiari del nostro trovatore. E di vero, egli nella stanza seguente non si trattiene dal sentenziare, che « Dio non domanda nè esige pregio, da coloro che lo vogliono obbedire, maggiore di quello a cui si può arrivare, ma bensì chiede che l'uomo si guardi dal peccare ; perchè colui che vuol troppo possedere, ha ben poco senno, perocchè l'avere non ha valore, se non in quanto se ne trae il proprio vantaggio e se ne può far render grazie ».
Poi, rivolgendosi al giusto imperatore Federico, lo ammonisce che se meglio non cura l'impero, Milano
lo cuida conquerir
ab grans faiz e fai s'en auzir;
« onde vi giuro, esclama, che poco apprezzo il suo sapere, il suo senno e la sua prudenza, se in breve non la sa far pentire ». Chiude il canto, ricordando una donna, dal cuore gentile, « di cui nessuno può dir male, che non teme accusa di calunniatore, esa trattenere i migliori con accoglierli e onorarli ». Tutto è in lei gentile, perfino il nome ha caro per riuscir grata e conclude: « Giovanna d'Este piace ai valenti, ed io mi voglio stare coi valenti ».
Questa non può essere che la prima moglie di Azzo VII, vissuta con lui dal 1221 al 19 novembre 1233, in cui essa mori (41) ; onde è necessario ritenere che Pietro Guglielmo, entro questo lasso di tempo, sia stato ospite della corte estense. Se non che vediamo se l'altra allusione storica, quella all'imperatore Federico, ci può portare a qualche determinazione cronologica di maggior precisione.
Anzi tutto è da osservare che la frase « Milan lo cuida conquerir ab grans faiz » è generica e non va intesa alla lettera (42), come se si riferisse a fatti determinati, coi quali Milano avesse già ridotto alle strette l'imperatore. Anzi non bisogna dimenticare che il poeta dice « cuida », il che accenna agli intendimenti della città ribelle, che si preparava a sostenere validamente la propria libertà, come già contro l'avo di lui. Se poi, scendendo ai particolari, esaminiamo la storia dei rapporti passati tra Federico II e Milano, nel periodo di tempo che corre tra il 1221 e il 1233 (gli anni in cui Giovanna visse alla corte d'Este), vediamo che la maggior tensione si ebbe tra il 1225 e il 1227 e di nuovo, dopo il ritorno da Terra Santa, dal 1230 al 1233. La data della poesia di Pietro Guglielmo a dunque deve cadere necessariamente in uno di questi due periodi, il che concorderebbe bene col dato cronologico, desunto dalla testimonianza del Peguilhan, che tra il 1228 e il 1229 Pietro Guglielmo fosse alla corte del Marchese di Saluzzo.
Nel 1225 Milano ed altre città di Lombardia cominciarono ad accordarsi per rinnovare la lega, e l'imperatore, impensieritosene, ottenne che il pontefice Onorio III s'interponesse per ridurre al dovere i Milanesi, i quali si mostravano sempre più insofferenti di freno e gli negavano obbedienza, e per antico odio contro la casa sveva e per timore che Federico II li riducesse in servitù. I tentativi del papa riuscirono infruttuosi e i Milanesi continuarono nei preparativi, tanto che il 2 marzo 1226, nella chiesa di S. Zenone, rinnovarono per 25 anni i patti della lega difensiva e offensiva con le città alleate. Federico allora, dopo diverse intimazioni emanate da Pescara, da Spoleto, da Parma, viene infine a Cremona, e vi tiene la dieta, senza che vi intervenga alcun rappresentante della lega. Se non che, pressato dalla quistione della Terra Santa, in principio dell'anno appresso, rimette nella sua grazia le città ribelli e con loro il Marchese di Monferrato e il conte di Biandrate.
Segue un periodo di sosta per la lontananza dell'imperatore ; ma già il 2 dicembre 1229, all'annunzio del suo ritorno, si riconferma in Milano la lega delle città lombarde e scoppiati nel 1230 gravi disordini a Verona, pei quali il conte di S. Bonifazio è fatto prigioniero, la lega si schiera in favore di lui, e l'anno dopo ne ottiene la liberazione. In questo stesso anno i collegati si radunano a parlamento in Bologna, per avvisare al modo di governarsi con Federico II e giudicano esser miglior partito per la loro sicurezza l'opporglisi, che il fidarsi delle sue parole. Egli intanto, consiglieri Ezzelino e Salinguerra, tiene a Ravenna nel gennaio 1232 segreti maneggi per domare le città nemiche, e quando stanno per arrivare i legati del papa, per trattare la pace coi Lombardi, li lascia in asso, andandosene ad Aquileja. Si rileva l'affronto e Milano nello stesso anno crea sette capitani con mille soldati ciascuno, i quali giurano di sostenere la libertà contro l'imperatore (43).
Come si vede, si ha qui, sia nel primo che nel secondo periodo, una catena di fatti, ciascuno dei quali può giustificare l'espressione di Pietro Guglielmo, nel senso che le abbiamo attribuito, e può trovarsi, per così dire, riflesso nelle parole « ab grans faiz e fai s'en auzir ». Come già il Levy, nel pubblicare le poesie di Guillem Figueira, non seppe risolversi a quali degli undici anni, che corrono tra il 1226 e il 1237, dovesse ascrivere i versi di quel poeta intorno a Federico II (44) ; così, lo confesso, io pure sono molto perplesso, e se mi decido pel primo periodo, di cui toccammo, gli è per una ragione estrinseca ai fatti stessi. Abbiamo veduto che Aimeric de Peguilhan ricorda come presente alla corte del Marchese di Saluzzo, intorno al 1229, un seccatore di Luserna, in cui bisogna riconoscere il nostro Pietro Guglielmo. Questo qualificarlo con una parola sola mi pare l'effetto del giudizio di chi doveva averlo conosciuto e praticato, e ben poteva appiccicargli un soprannome, che ne mettesse in rilievo il carattere, come aveva fatto con Persaval. Ora, siccome entrambi ricordano in una loro poesia Giovanna d'Este e il Peguilhan dovette soggiornare alla corte estense tra il 1226 e il 1227, nel qual tempo indirizzava a Sordello il ricordato fablel, così allora egli potè avervi incontrato Pietro Guglielmo. Questi vi aveva con ogni probabilità già composta la sua poesia, la quale in tal modo viene giustamente a cadere tra gli anni 1225 e 1227, ossia nel primo periodo delle ostilità tra Milano e Federico II (45).
Dalla corte di Azzo VII d'Este Pietro Guglielmo ritorna in Piemonte, e che tra il 1228 e il 1229 egli fosse presso Manfredo III di Saluzzo, ci è confermato dai versi (n.º III), nei quali cavallerescamente si fa paladino della bellezza di Cunizza da Romano, contro gli attacchi orgogliosi e invidiosidi un malevolo, che sta per andare in Provenza.
« Chi madonna Cunizza osteggia, per orgoglio e per invidia, egli dice, fa una gran follia, perchè la sua bellezza risplende e il suo ricco pregio domina. E non potrà fare per molto il suo costume, perchè d'ora innanzi ella mi avrà suo servo e se alcuno la offende e le fa fellonia, saprà se il mio brando taglia e ferisce ». E nel timore che il maligno possa fermarsi nella sua Luserna, lo consiglia a prender altra strada e non andare in Provenza a donneare, che ben vi potrà sembrare folle e portar penitenza della sua malignità, della quale si difende ; « e però si guardi di Luserna, chè orgoglio e ingratitudine non vi trova nei signori nè protezione, poichè non vi ha cosa se non gentile ».
Qui non è detto chi sia il maledico, ma forse non parrà ardito il credere che vi si additi precisamente Sordello, quando si consideri, che in questi versi risuona di certo un'eco dello scandalo sollevato dalla fuga di Cunizza con Bonio, e che quindi la partenza di Sordello da Treviso era già avvenuta. E come non sospettare in questo malevolo, che
Na Cuniça guerreia
per orgoill ni per enveia
l'amante abbandonato, quando il consiglio di non andare in Provenza, indica che egli vi si era incamminato, ed il timore che si fermasse in Luserna accenna che vi poteva passare ? E così era di fatto ; perchè quella era la via che dal Piemonte metteva alla Provenza, e Sordello dovette percorrerla, se intorno al 1229 passò dalla corte di Manfredi III di Saluzzo, e se sua prima tappa nel Delfinato, fu Gap, che fronteggia appunto Luserna al di là delle Alpi.
La poesia di Pietro Guglielmo dunque, con ogni probabilità, prende di mira Sordello (46) ; che si riferisca poi precisamente alla tresca di Cunizza con Bonio e al rumore sollevatosi per essa in quel torno di tempo, è confermato dalla risposta che Uc de S. Circ fece a Pietro Guglielmo (47), dove dice : « Io so che madonna Cunizza fece in quest'anno tal colpo (48) da perderne la vita eterna ; sicchè mai non potrà vivere senza rimorsi, e poichè donna discende così basso e fa tal fallo da rendersi spregevole, non v'è più per lei medico di Salerno ». Ben sa che la spada di P. G. taglia, ma ei si mette ad impresa impossibile, se vuol assalire tutti quelli che ne diranno male o che non l'assolveranno del gran fallo commesso (49), onde finisce: « d'ora innanzi non voglio più avere dispute per lei ; la giusta misura non vuole che si salga tanto in alto da trasalire della propria ombra:
Mesura vol c'om no salla
tant enan - per c'om sa umbra trasalla ».
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Dopo questi dati cronologici, nessun altro lume ci viene dalle altre due poesie che ci restano di Pietro Guglielmo ; esse però, per la gravità delle idee e la compostezza dello stile, ben possono appartenere ad un'età più matura, e posteriore certo al tempo, in cui si era lasciato rubare il cuore a Luserna e difendeva le avventure di Cunizza.
La prima (n.º IV) è una canzone didattico-morale, che ci completa il carattere, di cui ci fornirono un primo abbozzo gli altri componimenti. Sulla fede dei canzonieri CER il Bartsch la pubblicava tra le poesie di Peire Vidal (50), e acutamente ne rilevava la rara calma e pacatezza, onde la ascriveva alla tarda età del trovatore ; perchè « il suo sentimento amoroso, egli osserva, è ormai declinato ed il poeta è venuto nel convincimento che una vecchiezza innamorata fa una parte lagrimevole ».
Questo giudizio facciam nostro e ben si attaglia a Pietro Guglielmo, che, come vedemmo, si impanca spesso e volentieria precettor morale e si mostra tanto remissivo. Egli qui incomincia dal dire che non lo invitano a cantare « nè amore e galanteria, nè fiori e foglie e gorgheggio di uccelli », che sono due dei precipui motivi della poesia trovadorica. Ciò non pertanto non sé ne starà muto, anzi cauterà quando è venuto l'inverno, come già faceva nell'estate e nella primavera fiorita, « canto quando mi piacee me lo detta il cuore » (51). E dopo questa introduzione, in cui afferma di sottrarsi all'ispirazione artificiosa della poesia erotica, ricade subito in altri luoghi comuni a quella poesia didattico-morale, che piacque tanto ai trovatori dell'ultima età. Parla dapprima delle accoglienze che si devono fare nelle corti e dice che molto lo rallegra chi ben lo accoglie, quando viene in parte ove non è conosciuto e gli chiede secondo ragione di cortesia da qual luogo mosse ed è venuto ; poichè l'uomo si riconosce dalle domande e dalle risposte. E generalizzando i precetti circa il modo di diportarsi nel conversare, osserva : « È bello quando si sa gentilmente rispondere a tutti, secondo la condizione di ciascuno, perchè il savio avrà desiderio di onorarvi, se vi trova ben istruito ; e se all'ignorante, che sarà stolido e mal educato, non rispondete, difficile sarà che non vi disonori con parole e con fatti, se ne è il caso ».
A questo punto passa ad un altro degli argomenti consacrati dalla tradizione, quello dei ricchi malvagi (52), con queste parole : « mi piace un misero cortese che del suo poco sa servire ed invitare, là dove si conviene e come può, più di un ricco malvagio, che manca di cortesia, in modo che del suo si può buscare ben poco ; di un tal ricco mai non fui soddisfatto giorno nè mese ». Ma se non ottiene doni e favori, non si appaga d'amore, che alla fine fa tutti suoi servi ; lamentarsi di sè è di cattivo genere, perciò egli non vuole i mali e i dolori d'amore e, certo con allusione mistica, esclama : « Mi lasci Iddio trovare il mio meglio altrove ; io mi do tal gioia che torna in beatitudine, mentre il piacere d'amore torna in pianti e lagrime ». E finisce nella tornada: « Se tutto non mi piace nè mi rallegra amore, gioia e sollazzo piacciono nel mio cuore e mi piacciono tutti coloro a cui piace onore ».
Dalla poesia didattico-morale a quella mistica è breve il passo, e il piccolo patrimonio poetico di Pietro Guglielmo si chiude con una canzone alla Vergine (n.º V), che parmi il miglior frutto del suo ingegno (53).
Il fondo della poesia non è fornito che dai concetti e dalle immagini della sacra scrittura e della tradizione religiosa ; ma tuttavia da questo fondo egli seppe trarre una lirica che ha una certa movenza di stile, come uscita di getto dall'animo del poeta, onde, a mio avviso, può stare a pari con la canzone « Gloriosa Sainta Maria » di Lanfranco Cigala (54). Dà principio al canto dicendo alla Vergine, in cui ripone ogni suo affetto, che se vorrà udire le sue preghiere, egli non temerà di perdere gaudio perfetto, « perchè vivo e morto, esclama, avrò gioia senza peccato da voi, Donna, che date beatitudine per sempre, la quale vi viene da colui che tiene in suo potere i beni e i mali, le gioje e gli affanni »; onde sarà sua unica cura servir lei e non altri. E qui paragonandola, con le note immagini, a un fiore di bellezza e di grazia, loda la Vergine, che ben si può lodare senza mentire e che rimase tale anche dopo la nascita del Redentore.
Meglio delle altre per spontaneità di svolgimento, è la strofa che segue, in cui celebra il frutto che la Vergine ebbe senza semenza », il quale tutti i buoni frutti fa frondeggiare e fiorire, e li fa produrre e a loro tempo venire, frutto che si acquista con vera penitenza, con digiunare e con pregare assai, con carità che ben conviensi all'uomo, perchè carità evia e sentiero, che conduce a l'uomo Dio chesi è frutto maturo e non si acquista senza ferma fede ».
Ma col servire di buon cuore la Vergine si fa il proprio bene e lo si raccoglierà « là dove ciascuno avrà paura dise, così il giusto come il ladro da strada, quando si farà il giudizio finale, dove nessun lamento troverà ascolto ».Pero è tanto grande il timore ch'egli prova, quando pensa come lo han fatto peccare i suoi vani voleri, che a mala pena osa invocar grazia da Lei, e solo il ricordo che Cristo perdonò a Longino, può vincere ogni suo timore ; per il che nel commiato, invoca la Vergine che preghi per lui il suo caro figlio, « onde gli alleggerisca i mali e gli affanni ch'ei soffrirà nel mondo, tanto gravi e grandi, che, rispetto al corpo, la morte non gli fa paura » ; concetto questo che col desiderio della mortificazione del corpo e del suo annientamento, ci porta in pieno ascetismo.
Nessun'altra poesia è attribuita al nostro Pietro Guglielmo dai canzonieri provenzali, nè alcun altro ricordo si ha di lui nei trovatori. Veramente a un Peire Guillem rivolge biasimo Sordello, in una sua breve poesia (n.º XIV), per le lodi esagerate che quegli dava alla signora di Foy. Sordello era allora in Provenza e questa non può essere che Ermengarda di Narbonne, sposatasi a Roger-Bernard II il 25 gennaio 1232 ; ma siccome non ci consta che il nostro poeta sia mai passato in Provenza, così è lecito credere che quisi tratti di Peire Guillem di Tolosa, col quale Sordello ebbe a tenzonare altra volta, come poco fa abbiamo notato (55).
Di un altro Peire Guillem si ha pure menzione in tre poesie di Bertran Carbonel di Marsiglia, nella prima delle quali (Bartsch, Grund. 82,9) lo loda, nella seconda (ib. 82,15) lo deplora e nell'ultima (ib. 82, 18) lo insulta violentemente (56) ; ma Bertran Carbone l fiorì tra il 1270 e il 1300, troppo tardi perchè sia possibile riferire i suoi versi a Pietro Guglielmo di Luserna. Ben gli potrebbe spettare, tanto pel tempo quanto pel carattere dottrinale e allegorico, la novella « Lai on cobra sos dregz estatz », la quale dall'unico canzoniere R che la contiene, è attribuita a un Peire Willems, come già ricordammo. Vi si parla di un re Alfonso di Castiglia, che è senza dubbio Alfonso X (1252-1284) e di un re di Navarra, che un tempo era allegro cantore, ma ora « canta di peccati ». Questi è certo Tebaldo IV, le cui ultime poesie, composte dopo il ritorno dalla crociata, hanno un carattere religioso quasi tutte. Egli passò in Navarra gli ultimi mesi di vita (1253) ; fu allora che Peire Guillem si recò alla corte di lui e il piccolo poema dovette essere composto avanti quell' anno. Siffatti indizii però non sono finora sufficienti per decidere, se tal nome si riferisca piuttosto a quello di Luserna, che all'altro di Tolosa o ad un terzo.(57)
Queste le notizie e questo il bagaglio poetico di Pietro Guglielmo di Luserna, scarse le prime come il secondo. Dalle prime risulta assodato ch'egli appartiene alla schierade i trovatori fioriti nella prima metà del sec. XIII, che fuo spite della corte d'Azzo VII d'Este intorno al 1226 e in quella di Manfredi III di Saluzzo intorno 1229. Dal secondo si rileva, rispetto all'esser suo, ch'egli non doveva essere gran che signore, se temeva che gli rnancassero le rendite e idenari (n.º II, 12-13) per compiere nobili imprese, il che confermerebbe la supposizione già fatta ch'egli esca di piccola gente. Anzi, appare piuttosto povero in canna, e però sollecitatore di doni e mancie dai signori, alle cui corti si presentava ; tanto è vero che lascia intendere debba inghiottire i bocconi amari dell'umiliazione e poi raccogliere ben scarsa messe di beneficii (n.º IV, 27-28). In somma, mi fa la figura del giullare bisognoso, e sarei per dire che non aveva forse tutti i torti il Peguilhan, di metterlo nella compagnia che vedemmo a suo luogo.
Anche nelle sue poesie, se ne togli la spacconata, alquanto iperbolica (58), di mettere la sua spada in difesa di Cunizza (n.º III, 8-12), non v'è nulla che dia al suo carattere quelle note o di sdegnosa fierezza, oppure di spensierata giocondità, che pur contraddistinguono parecchi suoi contemporanei in quegli ultimi guizzi dell'arte trovadorica. Anzi, tranne in quella breve variazione sul comunissimo bisticcio del cuore rubato da dentro il corpo (n.º 1), sia nella poesia per Cunizza, come in quella a Giovanna d'Este, appare manifesto il suo fare sentenzioso ; perocchè chiude l'una (n. III, 25-28) con l'epifonema
Mesura e conoissenza
deu retener par semenza,
qi regnar
vol ab balla captenenza.
che ripete con le medesime parole nell'altra (n.º II, 7-8), e in questa stessa, che pure ha l'andamento di « gai sonet leuger », non può astenersi dall'introdurre qualche massima morale, come là dove dice (vv. 23-27) :
qu'acel que trop vol tenir,
a molt petit de scienza,
car l'avers non a valenza
mas q'om en trai sa guirenza,
e qar hom s'en pot far grazir.
La tendenza alla poesia didattico-morale è assai spiccata negli ultimi momenti della poesia occitanica, ma in Pietro Guglielmo costituisce una caratteristica personale, che si vede corrispondeva agli impulsi del suo animo, tanto che nella penultima poesia ( n.° IV) la materia dottrinale non entra più di straforo come nel sirventese, ma forma l'argomento proprio di tutta la canzone, e l'ispirazione religiosa, qua e là accennata nelle altre (n.º II, 15 e IV, 33) diventa poi schiettamente ascetica e gli detta il miglior canto, che di lui ci resta.
Riguardo allo stile, infine, da quel poco arrivato a noi, bisogna argomentare che egli starebbe piuttosto con la scuola di Sordello e Lanfranco Cigala, seguaci della buona tradizione antica, di contro a Bartolomeo Zorzi ammiratore e imitatore dell'arte arnaldesca. Se ne togli qualche inutile tautologia o qualche stiracchiatura, in lui c'è semplicità distile e di verso, c'è chiarezza di frase e di periodo ; insomma nessuna di quelle artifiziosità, anzi preziosità di forma e dimetro, per cui andò celebrata la maniera di Arnaldo Daniello e degli ultimi trovatori.
***
Non molti sono i manoscritti che ci conservano le poesie di Pietro Guglielmo ; vediamoli brevemente prima di rilevarne i rapporti e di indicare i criterii seguiti nella costituzione del testo. ·
Nella parte più antica di D (59), sotto l'unica intestazione: Peire Willems e contraddistinte in margine dai numeri j. ij. iij., si seguono l'una all'altra tre poesie del nostro autore in quest'ordine :
j. Ai vergena en cui mentendenza.
ij. Nom fai chantar amors ni drudaria.
Iij. En aquest gai sonet leuger.
Anche in I sono le stesse poesie, nello stesso ordine, sotto il nome: Peire guillems. In c invece si trovano solo due poesie, il n.º IV, cui tien dietro il n.º II, con l'attribuzione a Peire guillielm (60). In G sono ancora le stesse due poesie, nello stesso ordine, ma senza alcuna indicazione di autore ; l'ultima canzone precedente, sopra la quale sia scritto il nome del trovatore, è quella che comincia « Bes cuidet veniar amors », sopra di cui è scritto in rosso Moge de pocibot, d'onde il fatto che altri credette fosse attribuita a lui (61), e la canzone che immediatamente precede alla prima di Pietro Guglielmo, è quella che comincia « Car nom abelissolaz » pure di Guasbert de Poicibot (62). Queste due poesiesi trovano pure in CE, ma non seguono l'una all'altra, e iln.ºII è assegnato a Bernart de Ventadorn e il n.ºIV aPeïre Vidal, appunto come fa R che contiene questa sola. Euna sola è anche in K, ma è invece il n.° V, sotto il nome:Peire guillem; mentre in H sono due poesie, i n. I e III, attribuite a Peire guielm. Rimangono i due florilegi Da e F; in quello di Ferrarino si incontrano due strofe della poesia n.º IV e due del n.º II, preceduto ciascun estratto, come di solito, dal primo verso della canzone scritto in rosso, a cui sta sopra, pure in rosso, il nome dell'autore Peire guillem. Con lo stesso sistema nel florilegio della Chigiana si hanno due estratti, dapprima una strofa del n.º II e poi una del n.º IV, e al nome dell'autore Peire guillem si aggiunge de luzerna. Per ultimo, anche in P, ricorre, come anonima, una stanza del n.º IV.
Questi i manoscritti ; eccone ora i rapporti.
Le due poesie Ie III sono contenute soltanto in H, onde ne abbiamo seguito la lezione, fin nell'ortografia, correggendo solo dove il senso e la metrica lo richiedevano in modo manifesto, tenendo presenti le diverse edizioni fattene, a suo luogo indicate, non meno che la collazione condotta sul codice.
Tre manoscritti DaIK contengono la poesia V, e i rapporti di speciale affinità, già altrimenti desunti e constatati, hanno qui una conferma nella lacuna del v. 15 e negli errori dei vv. 9, 14, 32 e 45 ecc., comuni a tutti e tre. Qualche divergenza non manca, prescindendo, s'intende, dalle mere varietà grafiche ; infatti le lezioni acuil (v. 16), qes es (v. 26), quius (v. 28) di Da di fronte ad acul, ques, quis di IK, obbligano a presuporre una fonte intermedia, come del resto è ammessa dal Gröber (63), per la quale IK potessero differenziare da Da. Però le lezioni nos (v. 19), iauzer (v. 30) evidentemente errate e le omissioni di ai (v. 1) e de semenza (v. 19) in Da, fanno apparire più accurati IK, del primo dei quali seguo l'ortografia, perchè esso contiene maggior numero di poesie del nostro trovatore che non K, dove ve n'è una sola.
La poesia II si trova in otto manoscritti (64). Dall'esame delle varianti, escluse, come di solito, quelle grafiche, si vede subito che per le lezioni aquo (v.15), al (v. 37), dont hom no pot nul mal dir (v. 38), mal (v. 39), cel (v. 42) e la lacuna di e (v. 18), DaI si contrappongono a CEGc, e, quando ci sia, anche a Dc, che tutti dànno deu, ab, don negus hom no pot mal dir, gap, tan ; però anche tra Da e I occorrono alcune diversità, che ci confermano quanto dicemmo dianzi circa la loro fonte; infatti nous (v. 3), mantener (v. 14), traia (v. 26), servir (v. 41), engrazir (v. 45) spettano solo a I, di contro a nos, mantenir, trai, acoillir, encarzir di Dae di tutti gli altri. Parimente i rapporti di affinità fra gli altri mss. non sono tali che non vi si debbano fare dei sotto gruppi : così CE e, quando ci sia, Dc stanno da loro con lezioni caratteristiche, a tacer di cors (v. 37), quali: dei (v. 17), qu'en re non hi (v. 44), ab lor tenir (v. 48), di fronte a deu, que ren non i, ab los pros di Gc d'accordo per queste con DaI ; e viceversa Gc con pogues devenir (v. 4), il pl. fan o fau (v. 32) e la lacuna di en (v. 12) e di tant (v. 21) si accordano fra loro di contro a CE, che insieme con DaI, hanno puesc esdevenir e fai. Ciò non di meno, anche nella loro uniformità questi sottogruppi ci offrono curiose divergenze ; così E fuorvia da C in quell'alterazione curiosa del v. 30, que si negus no mante l'emper, che non ha riscontro in nessun altro mss., e Gc non sono così uniti da non aspirare ciascuno a un'origine propria, per quanto affine ; sta da se G con le sue varianti no sai qes pogues (v. 4), aveis (v. 25), son e no l'in (v. 36), invece di no sai que pogues, avers, si en, no l'en di c d'accordo con gli altri, e alla sua volta spetta una spiccata individualità a c per son (v. 1), qar (v. 26), vos mir (v. 33) in luogo di sonet, que, vos jur di tutti gli altri, per l'incongruenza valent (v. 20), la lacuna di sa (v. 26) e per quella lezione esguaçir (v. 2), invece del più oscuro esbaudir degli altri, la quale ha tutta l'aria di una glossa, entrata poi nel testo a sostituire la parola di uso più raro. Taccio di minori concordanze e differenze, da cui sarebbe illusorio trarre conseguenze ; come p. es., la lezione mandar dir (v. 29) che hanno insieme GI, invece di mandar e dir propria degli altri, e similmente l'aggiunta del pronome l (v. 20) che è in Dc e F, di fronte al semplice que comune a tutti gli altri. Infine, rispetto alla preferenza da darsi per l'ortografia, noteremo che CE, per quanto così accurati, sbagliando nell'attribuzione, perdono il diritto al primato, e così lo perdono Gc per le ricordate lacune e incongruenze, senza dire che G non da nome d'autore. Rimangono DaI, i quali quantunque divariino dalla comun lezione degli altri, come vedemmo, e talora anche in modo evidentemente errato, pure mi sembrano i più degni di considerazione ; e dei due poi scelgo, per seguirne l'ortografia, Da, che al di fuori delle poche varianti indicate, si accorda sempre con la lezione comune di tutti gli altri.
In dieci manoscritti (65) si trova la poesia IV, ecioè gli ottoprecedenti, cui s'aggiungono PR. Alle conclusioni, cui siamogiunti con l'esame dei mss. della precedente poesia, non contraddice,in generale, il raffronto delle varianti di questaaltra, se non che la mescolanza di alcune lezioni caratteristiche,vi fa apparire manifesta una maggior contaminazionedi fonti.
Ben s'accordano DaI con le lezioni fai (2), chans (v. 7), loc o no (v. 9), nondre (v. 17), nell'espressione en dreit (v. 10) e nella mancanza degli ultimi tre versi di tornada ; ma poi divariano fra loro, perchè I ha chantars (v. 1), ni seria (v. 3), e chan (v. 5), rasos quem sia (v. 13), qan (v. 17) respondre (v. 22), D'un pauc (v. 29) in luogo di chantar, no seria, chan, razos q'om sia, despondre, Nim pac di Da, e inoltre aggiunge senza motivo un et avanti mutz (v. 4), e un altro et av. ni razos (v. 7). Con DaI viene a collocarsi G, che ha pure fai, loc o no, nondre, en driz e la lacuna della tornada ; e parimente s'accorda con loro c per le lezioni chans, nondre, en dreit, e la solita lacuna, mentre sta con I per chantars, (v. 1), con G per nil bruz (v. 2),e forma gruppo con CER a cagione di fan (v. 2) e loc e no (v. 9). L'affinità d'origine di GER, confermata da varianti caratteristiche quali loc e no (v. 9), en digtz o dig (v. 10) que nous (v. 20), la lacuna di n avanti ondre (v. 17), non è tale per cui ER non si distacchino insieme da C da una parte per l'incongruenza D'un pac (29) comune con I, mentre C ha correttamente Nim pac, e dall'altra per le buone lezioni despondre (v. 22), comune con D'a in luogo dell'errato respondre di CIc, e mon plazer (v. 22) invece di mo saber di C. Alla lor volta ER divergono e stanno ciascuno da se, per speciali loro varianti ed errori : E con no cerai (v. 3), d'aital (v. 28), sa f. (v. 30), clamor (v. 31) per no seria, de tal. la f., clamar degli altri, e R con c'atressim (v. 5), fau (v. 6), del respost (v. 18), sin l. (v. 21) per fauc de' suoi affini CE, e c'atressi, de respondre e si l. degli al tri. Dei due florilegi, quello di Ferrarino per la frase en dreg (v. 10), s'accorda con Da, ma va con G per Ab tant (v. 22) e con I per qem (v. 13) ; e quello della Chigiana si avvicina a G per la stessa lezione ab tant e a C per saber (v. 22) ; ed è curioso che Dc combini insieme la lezione comune con questa sostituzione di C, leggendo, senza preoccuparsi della metrica, de mon plazer saber. Quanto a P per on non (v. 9), eisreiz (v. 10) evidente storpiatura di en dreiz, si collega alla famiglia DaI, ma oltre questo errore e l'altro teneguz (v. 12) ha speciali lezioni importanti : luec (v. 11), er (v. 12), qes taing (v. 13), pei comuni part, es, qes razos. Singole varianti o errori pei quali ciascun manoscritto mostra una propria individualità sono in Da : florida (v. 6), toutas (v. 16), fas (v. 32) e l'aggiunta d'amor a ioi (v. 34), anticipatovi probabilmente dal verso sottostante ; in G: fai (v. 6), respondere (v. 15), tuta (v. 16), qel (v. 17), vos deshondre (v. 20), seu (v. 29), sei (v. 30), la lacuna di es (v. 5) e di tutto il v. 19 e varie capestrerie grafiche come ai vv. 27, 28 e 29; in c: non sai (v. 1), fi (v. 31); in C: el h (v, 12), ecc.
Di mezzo a tanta varietà, maggiori relazioni d'affinità non si possono determinare, e siccome Da vi appare come il più conseguente, così ne seguiamo l'ortografia, quantunque manchi della tornada. Veduti così i rapporti fra i manoscritti, non mi resta che indicare i criterii seguiti nell'edizione dei testi. Quanto all'ordine ho creduto di conservare quello tenuto nell'esame storico e letterario delle poesie. Poste come caposaldi le due (n. i II e III), a cui si può attribuire con tutta probabilità una data, vi ho fatto precedere l'unica cobla strettamente amorosa (n.º I), e vi ho messo dopo la poesia didattico-morale (n.º IV); cui segue per ultima quella alla Vergine (n.º V), le quali possono ragionevolmente appartenere ai più tardi anni del poeta.
Nella notazione a piè di pagina, trattandosi di poche poesie, ho tenuto conto di tutte le varianti, e nel testo sono stato fedele, generalmente, alla lezione del ms. prescelto, tranne là dove il senso o la metrica o qualsivoglia altro motivo esigevano la correzione o l'adozione della migliore lezione di altri mss.; e di ciò rendo ragione nelle note che seguono alle poesie. Quanto alla rappresentazione grafica dell'enclisi pronominale, come degli altri fenomeni di inclinazione, mi attenni al metodo men recente, di rispettare nella scrittura la fusione, che è avvenuta nell'ordine fonetico e morfologico, metodo che ha difensori quali il Meyer, Romania. XX, 168 e il Crescini, Man. cit. XCIII.
NB. Mi consta che nell' Hist. litt., XXXII, 65, si parla di Luserna, ma nelle nostre biblioteche (Genova, Firenze, Roma) questo volume non è ancora stato acquistato !
PIER ENEA GUARNERIO.
Note
1. Nel licenziare alle stampe questo primo saggio intorno ai Trovatori italiani minori, mi corre obbligo di qui ricordare con grato animo il dott. Carlo Frati bibliotecario dell'Estense, il dott. Vincenzo Federici di Roma, i signori L. Auvray e J. Vaesen delle Biblioteca nazionale di Parigi, i signori E. W. B. Nicholson e Geo. Parker della Bodlejana di Oxford e i colleghi professori Leandro Biadene e Mario Pelaez, che mi furono cortesi della loro opera nel raccogliere le lezioni dei diversi manoscritti. Insieme con loro debbo vivi ringraziamenti al dott. Salomone Morpurgo bibliotecario della Riccardiana, al prof. E. G. Parodi, al prof. H. Suchier, che mi forní notizie e comunicò la sua copia di un testo inedito, e in particolare al prof. C. De Lollis, che mi agevolò in ogni modo il lavoro e al prof. R. Benzoni, che qui gli concede ospitalità.(↑)
2. È la forma originaria, con ü lombardo-piemontese e s sonoro, che sopravvive nel dialetto ; la forma dotta Lucerna non si scrive nè si conosce sul luogo.(↑)
3.Cfr. CASALIS, Dizionario geogr.-stor., IX, sotto Luserna.(↑)
4. Biographies des Troubadours, estr. dal vol. X dell'Histoire générale de Languedoc, Toulouse 1885, p. 165. Anche nell' Hist. litt. de la France, XIX, 611 si fa menzione di Pietro Guglielmo di Luserna ; ma soltanto come autore del componimento in difesa di Cunizza, dove, come si vedrà, appare evidente la sua patria.(↑)
5. Federico II e la poesia provenzale in Italia nella Nuova Antologia,15 gen. 1895, p. 246-47.(↑)
6. Prima nell’articolo : Sordello di Goito nella Nuova Antologia, 1 febbr. 1895, p. 419 e poi nell'opera : La vita e le poesie di Sordello di Goito, Halle 1896, p. 21-23.(↑)
7. Delle accoglienze e degli onori ch'ebbero i trovat. prov. alla corte dei Marchesi d' Este nel sec. XIII, Mem. della R. Acc. di Modena, II, p. 304 e 308.(↑)
8.Trovatori provenzali alla corte dei Marchesi in Este, Este, Stratico,1889, p. 54.(↑)
9. RAYNOUARD, Lexique Rom. I, 405-417, MAHN, Werke, I, 241-250 e un brano in BARTSCH, Chr. (4) 265.(↑)
10. Un Vilielmus de Lucerna, e un Vulliermus Biglior con altri Vulliermi sono in carte del sec. XIII, che or ora ricorderemo.(↑)
11. Cfr. CASALIS, Diz., loc. cit.(↑)
12. DELLA CHIESA, Corona reale di Savoja, Cuneo 1655, par. I, p. 150.(↑)
13. Mon. Hist. Patr. Chart. I, col. 820-821. Valle di Guicciardo (Vallis Guichiardi) o Valghizzarda è detta una valletta, che s'apre a mezzo giorno di Luserna e porge una naturale comunicazione alla terra di Crissolo ; v.CASALlS l. c.(↑)
14. ibid., col. 873.(↑)
15. ibid., col. 1274 ; e di Enrico v. un altro atto ibid., col. 1038.(↑)
16. ibid., col. 1323.(↑)
17. ibid., col. 1354.(↑)
18. ibid., II, col. 1279.(↑)
19. Il matrimonio di lei con Amedeo IV di Savoia non ebbe poi luogo, cfr. MULETTI Mem. stor. di Saluzzo, II, 286 e LITTA, Marchesi di Saluzzo, tav. III. Dopo il 1219 la storia la perde di vista ; però per probabili allusioni a lei, v. DE LOLLIS, Sord. cit. p. 23 n.(↑)
20. Cfr. anche Mon. Hist. Patr. Chart. I, coll. 1351, 1354, 1358.(↑)
21. ibid., col. 1356. I compilatori dell'indice del volume vorrebbero questo Manfredi, padre di Guglielmo Bigliatore, perchè qui è ricordato col figlio Guglielmo. Ciò non puo essere, perchè il soprannome di Bigliatore, chel'altro Guglielmo ha nella carta antecedente, lo distingue già dal ramo dei Manfredi ; e se egli figura per mezzo di un procuratore, senza che intervenga il padre in un atto del 1222, come può trovarsi ora dipendente dal padre ? Questo Manfredi è lo stesso probabilmente che si trova in un atto del 9 genn. 1224, con cui la contessa Alaxia de Luxerna acquista dei beni in favore del monastero di Riffredo, v. MULETTI, Mem. cit. II, 247-248.(↑)
22.« Li fol e il pute il filol » Canz. A. n. 618, di cui seguo la lezione, cfr. RAYNOUARD, Lex. Rom. I, 433-435, MAHN, Werke, II, 166 e MONACI, Testi antichi prov. 62-63.(↑)
23. Die Lebensverhältnisse der. ital. Trobadors, nella Zeitschr. f. rom. Phil. VII, 204.(↑)
24. Il TORRACA, Sul Sordello di C. De Lollis, nel Giom. Dant. an. IV, quad. 1-2, p. 7, traduce: « che egli non è di cotal risma e non va attorno per buscar da vivere, a guisa di podestà », e annota che l'ultimo verso è di significato oscuro, e per recarvi un po' di luce si rifà da un passo del Sacchetti. A mio avviso, il verso non è oscuro per sè ; bisogna tener presente che a « cavallier doctor » precede l'articolo determinativo, onde qui non è detto in modo generico « a guisa di podestà », ma vi si allude specificatamente ad un determinato personaggio « a guisa del cavaliere dottore ». Chi esso sia, ecco la difficoltà.(↑)
25. Il TORRACA, ibid., così propone di leggere e traduce: « non può fare cinque nè, se esce, terno », spiegando che non avendo denari, se gli mancano gli usurai, non può fare nè cinque nè terno, anche se esce, perchè non può giuocare. E mi pare che colga nel segno, perchè qui « terna » deve essere usato nel suo significato proprio e non in uno figurato, come p. es. nella poesia di Uc de S. Circ, che vedremo più innanzi.(↑)
26. Come dice Bremon Ricas Novas nel verso « Els Baros conois totz da Trevis tro a Cap », Canz. A, n. 607.(↑)
27. Così penserai io, se già nel 1230 lo incontriamo presso Alfonso IX di Leon, v. DE LOLLIS, Sord. cit. p. 17 e 26.(↑)
28. MAHN, Gedichte, 1189.(↑)
29. A questo riguardo è bene ricordarsi ciòche dice il CAVEDONI, Mem.cit., p. 295: che « dopo che AzzoVII nel 1220 fu dall'imperatore investitodi nuovo d'Este e d'altri suoi domini ivi intorno, si trattenne quasi costantemente in quelle contrade fino al 1240 e dovette abitare in Este oppure in Calaone ». Cfr. anche SARTORI BOROTTO, Trov. prov. cit., p. 42.(↑)
30. A queste mie deduzioni parrebbero contraddire le note cobbole ingiuriose scambiatesi tra Aimeric e Sordello, che il De Lollis, p. 5-6, colloca intorno al 1220 riferendole alla rissa di Firenze. Veramente, per riunire queste cobbole a tutte le altre e portarle a quest'anno, bisogna ammettere che Sordello e il Peguilhan, dopo essersi azzuffati nella bettola di Firenze, si siano rappattumati, tanto che il Peguilhan potè dirigergli il ricordato fablel ; e che di poi si siano di nuovo guastati, sicchè questi potesse ironicamente escluderlo dal novero dei giullaretti. Però questa difficoltà è più apparente che reale, poichè data l'ora del tempo e i costumi di quei nomadi cantori, si comprende come facilmente potessero passare dai rapporti intimi, fors'anche cordiali, a quelli aspri ed offensivi. Piuttosto, come altrove accennai (Giorn. stor. d. lett. it., XXVIII, fasc. 3), a me pare più grave la difficoltà che nella sua cobbola Sordello chiami l'avversario « vecchio », mentre tale non si poteva dire, nemmeno nell'ira, il Peguilhan ; poichè, se gli fu fatta l'accusa di vecchio, della quale si discolpa graziosamente nel flabel, ciò avveniva per opera di una donna, il che è ben di verso, e inogni modo qualche anno dopo la baruffa di Firenze. A togliere pertanto ogni difficoltà, io, pur ammettendo che le due cobbole si riferiscano a quell'unico fatto, penserei che siano state composte più tardi, intorno al 1229, quando i due trovatori, per qualsivoglia motivo, si erano di nuovo inimicati. Nè il contenuto delle strofe è tale che osteggi la mia supposizione, perchè il colpo di fiasco toccato in testa a Sordello è ricordato si con vivezza, ma come cosa passata, che può anche essere remota ; e ben si sa che nelle rappresaglie si vanno a rivangare anche le cose più lontane, per rinfacciarle a chi una volta ci era amico.(↑)
31. Per le relazioni che Sordello potè aver avuto con questa corte, è bene ricordare che al giudizio di Agnesina sorella di Manfredi, egli si rimette in una tenzone con Guillem de la Tor, cfr. DE LOLLIS, Sord. cit., p. 23 e n. LO SCHULTZ, op. cit., 204, respingeva l'opinione che Sordello fosse stato alla corte di Saluzzo, perchè nella tornada della sopraricordata tenzone leggeva Na Cuniza; ma il De Lollis sul fondamento dei canz. A e D ha ristabilita la vera lezione N' Agneseta, la quale non può essere che donna Agnesina di Saluzzo.(↑)
32. Il MONACI, Testi prov. cit., p. 62, sull'orme del Raynouard, dà tuador in luogo di tirador, ma il senso non ne resta alterato ; cfr. Lez. Rom.(↑)
33. SCHULTZ, op. cit., 205 di contro a CAVEDONI, Mem. cit., p. 308.(↑)
34. Mon. Hist. Patr. Script. III, col. 898.(↑)
35. E chi sa che col cavallier doctor, menzionato poco fa, il poeta non alluda precisamente al podestà d'Asti, ammesso anche il significato, che vuol dare in generale all'espressione il Torraca? Del resto, se ripugnasse il vedere Percivalle Doria fatto ajo e tutore di fanciulli, ricordo che un Bonifacius de Plosascho qui dicitur Percivallus, si trova tra i testi della citata carta di Guglielmo Bigliatore del 31 agosto 1242.(↑)
36. « Ia non cuidei quem pogues oblidar » MAHN, Ged., 995 e « Si eu anc chantei alegres ni iauzens » ibid., 1164 b.(↑)
37. « De so dont hom a longuamen » MAHN, Ged., 1164.(↑)
38. Dei canzonieri che ci conservano le poesie di Pietro Guglielmo, uno solo, il florilegio della Chigiana, F, aggiunge al nome l'indicazione : de Luzerna ; per gli altri v. più avanti.(↑)
39. Senza dire del MILLOT, Hist. litt. des Troub., Paris 1774, I, 35, del TIRABOSCHI, Stor. d. lett. ital., III, lib. IV, c. 4, n. 5 e del FAURIEL, Hist. de la Poésie provenç., II, 34-35, v. il DIEZ, Leben und Werke, Leipzig 1882, p. 33; ma già il BARTSCH, curando questa seconda edizione, rilevava l'errore del Maestro, assegnando la poesia a Pietro Guglielmo di Luserna, sui fondamento dei canzonieri DaDcFIc, per cui cfr. anche Jahrbuch f. rom. u. engl lit., XIII, 35 e O. SCHULTZ, in Deutsche Litteraturzeitung, 1887,col. 1274.(↑)
40. Mem. cit., p. 305-306.(↑)
41. Di altre Giovanne non c'è traccia nella casa d'Este, cfr. CAVEDONI, Mem. cit., 301 e 305 e LITTA, Marchesi d'Este, tav. VIII. Anche Guillem de la Tor la ricorda nella tornada della sua poesia « Canson ab gais motz plazens » MAHN, Ged., 650.(↑)
42. Lo rilevò pure il DE LOLLIS, Sord. cit., p. 40 testo e note e p. 72. Solo osserverò che l'altro es da lui allegato della tenzone tra Falconet e Taurel èun po' diverso, perchè ivi la frase « miels conquis l'emperaire Milan » paredetta ironicamente. Cfr. TORRACA, Federico II, ecc. in Nuova Ant. cit., p. 245-46.(↑)
43. Cfr. MURATORI, Annali d'Italia sotto questi anni.(↑)
44. Guilhem Figueira, Berlin 1880, p. 43.(↑)
45. Anche il SARTORI BOROTTO, op. cit., p. 55, sulla scorta del CAVEDONI, Mem. cit., p. 306, la ascrive al 1226.(↑)
46. Cosìparve pure al DE LOLLIS nel cit. art. della Nuova Ant., p. 420, ma poi nel Sord. cit., p. 22, ne tace.(↑)
47. « Peire Guillem de Luserna, Nos dizats com sa luserna, ecc. » .Canz. H, n. 202. Il DE LOLLIS nel cit. art., p. 420 e op. cit., p. 22, per un lapsus calami la dice risposta per le rime, ma non è così ; ha lo stesso schema strofico, ma diverse rime.(↑)
48. « Qez ill fez ogan tal terna ». Il DE LOLLIS, Sord. cit., p. 22 n. dà a « terna » il significato metaforico di « cattivo punto » ; a me pare corrisponda bene al nostro volgare « far terno » per « fare un colpo », e così traduco.(↑)
49. Il seguito del testo è evidentemente guasto, nè riesce facile il rabberciarlo ; cfr. DE LOLLIS, art. cit., p. 420.(↑)
50. Vidals Lieder, Berlin 1857, n. 34 e v. pag. LXIII. Però nel Grund. 344, 4 la restituisce, come di dovere, a Pietro Guglielmo di Luserna.(↑)
51. Il DE LOLLIS, Sord. cit., p. 83 n., illustrando i versi « Atretan deuben chantar finamen D'invern com fatz d'estiu, segon rason, ecc. » XXI, 1-3, li mette opportunamente a raffronto con questi del nostro « Qu'atressi chan, qant l'ivers es venguz, Cum fas la stat ni la pasca floria ; qan chan mi plai, ni razos lo m' aduz » IV, 5-8 ; ma egli li dà erroneamente come di Peire Vidal.(↑)
52. Cfr. LEVY, Guilhem Figueira cit., p. 105, n. 22 e DE LOLLIS, Sord. cit. p. 75 testo e note e p. 273.(↑)
53. Il DAVID, Hist. litt. de la France, XIX, 542-543, parlando di Peire Guillem de Tolosa, secondo la biografia provenzale pervenutaci, gli atribuisce, oltre la tenzone con Sordello n.º XVIII, anche questa preghiera che giudica mediocre, e che avrebbe composta, entrato o stando per entrare, vecchio, nell'ordine della Spada. Però già il CAVEDONI, Mem. cit., 309 n. la rivendicava a quel di Luserna, seguito dal BARTSCH, Grund., 344, l e dal CHABANEAU. Biogr. cit., 165. Del resto, basta assicurarla a lui il fatto che due canzonieri antichi e autorevoli la danno per sua, insieme alle due altre poesie, che in F vengono sotto il nome di P. G. di Luserna.(↑)
54. In APPEL, Prov. Ined., p. 184, secondo IK.(↑)
55. V. n. XVIII in DE LOLLIS, Sord. cit. e cfr. p. 272 ; inoltre intorno a questo trovatore v. Hist. litt. de la France, XIX, 542, CAVEDONI, Mem., cit., p. 308 e CHABANEAU, Biogr., cit., p. 165.(↑)
56. Vedine due in APPEL, Prov. Ined., p. 76 e 80. È notevole che nella terza non lo indichi che per le iniziali, in questo modo curioso: « a Paris non a garso, A Gayeta ni a Pavia, Que sapcha un pauc de clersia, Que be no sapcha que ditz P. Ponchat, et en apres . I. G. ». Cfr. CHABANEAU, Biogr. cit., 164.(↑)
57. Cfr. BARTSCH, Grund., p. 22 e MEYER , Les dern. troubad. , in Bibl. d. l'École d. Chartes, XXX, 278-279, testo e note.(↑)
58. Anche l'Hist. litt. cit., XIX, 611, la qualifica addirittura per una « fanfaronata militare ».(↑)
59. Al codice estense si suole far corrispondere la segnatura IV, 163, p. es. in MONACI, Testi ant., XI, CRESCINI, Man., X, ecc. ; ma, come mi fa avvertito il dott. Carlo Frati, tale notazione si riferisce ad un'antica classificazione metodica che avevano i mss. nella prima metà del sec. XVIII, ma non è mai stata segnatura di collocazione ; questa nel fatto è XVII, F, 6.(↑)
60. In questo codice, in cui i versi sono scritti a mo' di prosa, separati fra di loro con un punto, l'iniziale di ogni cobla è scritta in carattere piccolissimo nel margine ed è lasciato accanto lo spazio per l'alluminatore ; però in tutto il codice non c'è un'iniziale alluminata e tutti gli spazi sono rimasti bianchi.(↑)
61. Per es. il BARTSCH, Vidals Lieder cit., p. 118.(↑)
62. Nel codice ambrosiano è degno di nota che nella prima strofa fra linea e linea è lasciato l'intervallo di quattro o cinque o più linee segnate in rosso, che dovevano servire per la notazione musicale.(↑)
63. Die Prov. Lieder sammlungen in Romanischen Studien, II, 479.(↑)
64. Errò il BARTSCH, Grund. 344, 3 nell'indicazione dei mss. di questa poesia. Bisogna cancellare dal suo elenco K che non la contiene, e così pure MNS, in cui è bensì una poesia con un capoverso consimile, ma è il descort registrato dallo stesso sotto 461, 104 tra le anonime, come appartenente a MS. La lezione di MS è stata pubblicata nella Zeitschr. f. rom. Phil., XI, 216 e quella di N finora inedita, posso aggiungere qui in appendice, per la squisita cortesia del prof. Suchier, che me la comunicò e me ne concede la pubblicazione. Anche lo STENGEL, Die provenz. Blumenlese der Chigiana, Marburg 1878, p. 79 tien conto erroneamente di S, come contenesse la poesia di cui si tratta.(↑)
65. Anche per questa dal repertorio del BARTSCH, Grund., 344, 4 va tolto K e aggiunto in quella vece P, come del resto aveva egli stesso rilevato nel pubblicarla fra le poesie del Vidal ; cfr. BARTSCH, Vidals Lied. nº 34.(↑) |