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Capusso, Maria Grazia. L' "exposition" di Guiraut Riquier sulla canzone di Guiraut de Calanson "Celeis cui am de cor e de saber" . Pisa: Pacini, 1989.

INDICE
 
 
 
 
 
 
L'EXPOSITION DI GIRAUT RIQUIER SULLA CANZONE DI GIRAUT DE CALANSON
CELEIS CUI AM DE COR E DE SABER
 
1. INTRODUZIONE
 
Fra le esperienze marginali del tardo trobadorismo in lingua d'oc, un posto particolare va riservato alla Exposition di Guiraut Riquier (il cosiddetto ultimo dei trovatori, appunto) sulla canzone allegorica del più antico poeta Guiraut de Calanson, tradizionalmente inglobata nella sezione « epistolare » del corpus del narbonese (1). I limiti di questa etichettatura sono evidenti anche ad un primo assaggio visivo del nostro testo, che di contro al regolare fluire del discorso riquieriano nelle altre opere del gruppo si distingue proprio per la rottura di tale univoca staticità di emissione: non una, ma due risultano qui le voci poetiche singolarmente dialoganti, data la graduale e completa immissione, all'interno della Exposition medesima, del testo oggetto di commento. Una situazione del genere (sia a livello di struttura compositiva che, soprattutto, di scelta poetica) risulta assai rara e anzi quasi isolata nel panorama letterario medievale di Provenza: unico punto di riferimento veramente significativo, la posteriore Gloza di Raimon de Cornet sul vers di Bernart de Panassac, malauguratamente giunta incompleta nell'unico manoscritto tolosano che ce la tramanda, tuttavia in porzione più che sufficiente a garantire l'estrema opportunità dei raffronti (la stessa diversità d'intitolazione, imputabile del resto in ambo i casi alle didascalie liminari dei codici, si rivela anzi un ulteriore elemento di conguaglio data la normale equipollenza dei termini Exposition e Gloza nell'uso del tempo) (2).
E' comunque un dato di fatto (negativo) la totale mancanza di riferimenti o anche di allusioni ad un siffatto « genere » nella trattatistica provenzale coeva, per quanto l'ammissione teorica della liceità di oltrepassare il canone dei modelli disponibili dovesse presumibilmente risolversi, presso i più informati e raffinati artefici, in un incentivo a creazioni ex novo di cui quella qui presa in esame potrebbe costituire un esempio (3).
L'estrema scarsità dei reperti attualmente in nostro possesso si accompagna ad un interesse critico veramente troppo esiguo, cui solo negli ultimissimi tempi si è cominciato a reagire: non sarà inutile, crediamo, una breve rassegna dei principali interventi. La prima citazione compete, se non altro cronologicamente, a F. Raynouard che nel secondo volume degli Choix prendeva in congiunto esame quelle che egli stesso definiva due ben distinte operazioni letterarie: l'una, sul modello del famoso non sai que s'es di Raimbaut d'Aurenga, paragonata ad « une espèce de commentaire », « ordinairement en prose », intercalata da un medesimo poeta ai propri couplets versificati « à en développer le sujet, et à fixer l'attention des auditeurs »; l'altra, esemplificata appunto con l'Exposition riquieriana, consistente piuttosto in « gloses » ad altrui componimenti, questa volta « ordinairement en vers ». Dell'uno e dell'altro tipo di operazione scarseggiano peraltro i desiderati esempi (anche se suscita interesse il richiamo a una non meglio definita tradizione orale del commentaire « giullaresco »); invano potremmo attendere integrazioni al riguardo dalla di poco posteriore opera del Galvani, ricalcante coscientemente (e quasi letteralmente) le pagine del Raynouard di cui effettua quindi una fedele divulgazione in lingua italiana (4). L'obiettiva penuria di documentazione superstite, allora come ora, ha certo costituito un forte incentivo all'isolamento e all'oblio di questi «casi atipici» nelle successive sintesi di storia letteraria provenzale, procedenti di norma per raggruppamenti grosso modo « generici », e che concedono in ogni modo spazio ben maggiore alla più fortunata produzione lirica. Destino comune all'esperimento di Raimbaut e a quello di Riquier, quindi, o la non menzione (implicante la potenziale ignoranza del testo medesimo) o l'incasellamento approssimativo in margine a fasce di opere ritenute più significative (che è il caso più comune).
L'etichetta prevalente per l'Exposition di Riquier rimane comunque quella epistolare, come già detto, accompagnata peraltro con buona frequenza dalla più appropriata definizione di « commento » (5). Quest'ultimo poi riceve il suo tratto pertinente dalla costante intrusione in esso del testo chiosato (6) che, qui come in altre specifiche situazioni (7), rende passibile di immediata e concreta verifica quel movimento intertestuale ormai ampiamente individuato all'interno della letteratura medievale romanza (8). Tale processo appropriativo dell'« altrui » testo non dipende però in questo caso, come di frequente all'epoca, dalle garanzie « autorizzative » offribili dal citato al citante, dato che il fenomeno è se mai di segno opposto: l'interprete (attendibile al massimo, come dimostrano vari segnali interni ed esterni all'opera) è piuttosto delegato ad enucleare, egli stesso, il profondo senso dell'opera che viene minutamente esponendo, secondo un tipo di analisi ben noto alla cultura accademica del Medioevo. Già lo stesso titolo latineggiante suggerisce infatti l'aggancio a quella imponente e multiforme attività esegetica sorta al servizio della divina pagina fin dai primi secoli dell'organizzazione cristiana del sapere, la cui estensione a tutti i campi dello scibile allora ufficialmente riconosciuti è all'epoca di cui ci occupiamo un fatto compiuto (9). La colta squisitezza di questa tradizione rende ragione delle proprie ben difese peculiarità di realizzazione espressiva: e, quindi, del livello rigidamente subordinato e ritardatario in cui si collocano (con poche luminose eccezioni) (10) i quasi sperimentali tentativi di sostituire il volgare al latino, lingua autorizzata per eccellenza, oltre che dell'assiomatica preferenzialità accordata, per tale ambito di operazioni, all'oratio soluta di fronte al verso (11).
L'attrazione esercitata da matrici culturali di tale prestigio è ben evidente nella Exposition di Riquier, coinvolgendo in pratica tutti i livelli della resa formale (dall'impianto strutturale del componimento, ricalcante in certo modo le lectiones e relative expositiones, a precise scelte terminologiche e retoricostilistiche che verremo enucleando nel nostro commento al testo); ciò può giovare inoltre ad arricchire i già rilevati indizi circa la probabile formazione accademica del nostro autore (ma su questo aspetto ci soffermeremo nel successivo capitolo dedicato appunto alla Exposition). In ogni caso, è proprio la riconoscibilissima paternità riquieriana a garantire in primis la intrinseca letterarietà di quest'opera, posta a coronare degnamente il côté didattico-narrativo già ben sperimentato dal maturo poeta (v. la nutrita serie di epistole in versi che precedono l'Exposition, nell'ordine di successione del codice R riprodotto dall'edizione Pfaff, e che risultano tutte ad essa anteriori cronologicamente). Sia, dunque, il « libro » riquieriano, che, in direzione più ampia, la fioritura « non lirica » coeva, e in particolare la poesia dotta e ' sottile ' che oltre al narbonese annovera altri illustri cultori in questo scorcio del Duecento occitano, costituiscono altrettanti punti di riferimento obbligati per la nostra indagine: le coincidenze sono evidenti soprattutto in sede formale (metrica, stile, vocabolario). Non è facile, in conclusione, escogitare una pertinente formula definitoria per la Exposition di Guiraut Riquier (12): forse, in direzione con quanto affermato per il ben più famoso Breviari d'Amor di Matfre Ermengaud, opera sotto vari aspetti vicina alla nostra fatte le debite proporzioni (ci si riferisce in particolare alla sezione finale del Perilhos Tractat d'Amor, dalle numerose e pertinentemente commentate inserzioni trobadoriche che costituiscono il più appariscente elemento di conguaglio) (13), il fulcro dell'inventio riquieriana consiste proprio nella congiunzione di didatticità e ars poetica, nella sapiente messa in versi di una lezione di « critica letteraria » medievalmente intesa, com'è naturale, e costruita quindi sulla particellare lettura del testo oggetto di commento (14).
Elemento non trascurabile di questa insolita commistione, l'identità socio-culturale di quello che risulta insieme pubblico discente del magister e ideale narratario dell'auctor. E' fuor di dubbio che la sua traslocazione dalle pur prestigiose aule accademiche a quella che risulta una delle corti più vive culturalmente sullo scorcio del secolo XIII in Provenza (Rodez, appunto, in specie sotto il patronato illuminato di Enrico II) (15) contribuisca ad una spiccata caratterizzazione laica e ludica dell'esperimento riquieriano, che certo non poteva trovare ambiente più propizio alla sua recezione e insieme ad un attivo coinvolgimento nel « débat » o concorso promosso da Enrico medesimo (16), se vogliamo prestar fede alle dichiarazioni offerte dalla Exposition (e dal susseguente Testimoni). In effetti, la mancanza di ulteriori riscontri specifici appare compensata dalle numerose e concordi testimonianze (riunite nel recente volume di Saverio Guida) relative alla produzione poetica (in particolare « disputativa ») dell'entourage di Enrico II di Rodez, le quali confermano in pieno il gusto e la competenza per tali iniziative. Se mai, può apparire strano che di questo unico « concorso » ci sia rimasta una traccia scritta, in verità assai dettagliata, e suffragata oltre che dalla Exposition medesima dal già citato Testimoni: il quale si autodichiara copia dell'originale dettato e fatto suggellare da Enrico in persona nel 1285, vale a dire cinque anni dopo l'indizione di quella gara poetico-ermeneutica che solo Riquier avrebbe meritatamente condotto a termine fra le successive defezioni degli altri compartecipanti (su questo singolare documento ci soffermeremo più avanti).
Lasciando aperto il campo alle ipotesi sui possibilissimi infortuni della tradizione manoscritta (e augurandoci, se del caso, che i documenti di analoghe iniziative possano tornare alla luce per arricchire le nostre conoscenze del clima culturale dell'epoca), l'opera di Riquier costituisce ad ogni modo una spia assai ragguardevole dell'interesse suscitato dalla canzone di Calanson, datata agli inizi del sec. XIII, presso i più scaltriti entendedors di poesia cortese ancora sullo scorcio del medesimo secolo: fatto certo relazionabile, come è stato proposto, con l'accattivante preziosismo dell'integumentum allegorico, per sua natura stimolatore di esegesi o « commento » (17) e per di più di assai raro impiego nell'Occitania dell'epoca, sia pure all'interno dell'attestata tipologia amorosa (18). ()
 
2. LA CANZONE
 
1.1.1. Riteniamo utile anzitutto richiamare gli scarsi dati relativi alla biografia calansoniana (19) e in particolare al reticolo spazio-temporale in cui va inserita, all'interno della produzione del nostro trovatore, la canzone allegorica qui oggetto di esame. In questa specifica direzione, i segnali informativi sono abbastanza consistenti. Celeis cui am è databile infatti entro i primissimi anni del secolo XIII, grazie al termine ante quem fornito dalla seconda tornada del testo medesimo (e cioè l'invio, v. 52, « A Monpeslier, a ·N Guillem lo marques », personaggio certo identificabile nel Guglielmo VIII di Montpellier morto attorno al gennaio 1202), ed è anzi ritenuto che l'arco temporale possa circoscriversi agli ultimi anni di vita del marques (20).
Quanto al luogo di composizione (o almeno di prima esecuzione), interviene ad informarci in merito la Exposition di Guiraut Riquier dove (vv. 187 e 190-92 della qui presente edizione) Calanson viene nominato in atto di far retraire (e cioè « eseguire »: cf. la nota al testo) la propria canzone « lai en la cort gentil / del Puey, qu'esser solia / honrada [...] ». La notifica non va sopravvalutata data la scarsa specificità del vocabolo Puey (che poco aggiunge alle altre labili indicazioni in nostro possesso circa gli itinerari e i soggiorni del poeta nella geografia « cortese » della sua epoca), anche se continua a riscuotere credito l'equazione a suo tempo posta da Ernst, sulla scia di una già consolidata tradizione critica, tra Puey calansoniano e la famosa corte del Puy-en-Velay (Haute-Loire) (21).
 
1.1.2. All'interno della restante produzione allegorica occitana, l'originalità dell'operazione compiuta da Calanson risulta già evidente dall'accertamento cronologico ad essa relativo, che la colloca al secondo posto dopo la ' tenzone ' di Guillem de Saint-Didier (22). Questo primo esempio di poesia allegorica coerente in area provenzale si configura in particolare come «énigme expliquée» (per usare la definizione di Jung): in esso lo schema fittizio della tenso risulta difatti funzionalizzato alla bipolare alternanza di allegoria (sogno descritto dal poeta) e relativa puntuale allegoresi (a ciò provvede la dona interlocutrice di Guillem), secondo un principio strutturale di diffusa applicazione successiva; mentre la simbolica onirica del verger amoroso troverà altre ben famose vie di utilizzo (basta pensare, raffronto avanzato dal Batany, al Roman de la Rose).
La totale mancanza di decodifica degli esponenti allegorici è dunque il primo e fondamentale punto di scarto della nostra canzone rispetto alla tenzone di Saint-Didier, vicina piuttosto, sotto questo aspetto, a pièces posteriori come il Chastel d'Amors (23) e, soprattutto, la « novella » di Peire Guillem, solo di recente imposta all'attenzione degli studiosi (e a giustissimo titolo, anche a nostro parere: il rimpianto espresso da altri per l'incompleta trasmissione dell'opera da parte del codice R è qui pienamente condiviso, anche per ragioni squisitamente attinenti al nostro campo d'indagine). I guasti materiali dell'ultimo foglio del codice R (parzialmente amputato, con abrasioni relative allo scritto della prima colonna, sulla destra) ci hanno infatti privato del finale dell'operetta, e in particolare della « esposizione » del dio d'Amore sui tre dardi che avrebbe potuto costituire un utile parametro di raffronto con quella riquieriana sul testo di Calanson (data la peregrinità del motivo, sui cui torneremo, si può arrivare a supporre « ce cas unique, l'interprétation d'une chanson allégorique par deux contemporains », malauguratamente inverificabile per « faute » dell'autore o del copista): tutt'altro che chiarita, del resto, la questione attributiva (24).
In questo reticolo di potenziali interdipendenze bisogna poi collocare la Cort d'Amor, le cui affermate « numerous and explicit » consonanze con Celeis cui am risultano senza dubbio degne di attenzione, anche se non decisive (in ragione del loro situarsi al livello tematico più che formale) per procedere all'identificazione di quest'ultima in fonte diretta della Cort (25). A questo ridotto ma ben assortito gruppo (26) andrà poi aggiunto, dietro suggerimento del moderno suo scopritore, il testo contenuto nelle ultime due carte del ms. 1720 della Biblioteca de Catalunya di Barcellona (27), la cui perifericità geo-cronologica rispetto all'insieme di opere qui preso in esame rende ancora più interessante la proficuità dei contatti istituibili.
Limitandoci alla canzone di Calanson, spicca la netta identità tematica (partizione ternaria d'Amore, con esplicito trattamento del menor terç), accompagnata, tratto assai pertinente nel negativo, da uguale assenza di allegoresi (di cui l'anonimo esprime aperto compiacimento nella finida, con sfida provocatoria alle altrui intelligenze del testo che può ricordare la chiusa della nostra Exposition, vv. 936 ss.). Più a Riquier che a Calanson, del resto, appare vicino ideologicamente l'anonimo, poiché il tratteggio nebulosamente conturbante dell'amor profano conferma la lontananza dalla solare raffigurazione del primo Guiraut (ecco perché a nostro parere conviene ridimensionare l'« aria di famiglia » che pur giustamente Sansone riconosce tra Celeis cui am e Del primer nom d'Amor).
L'individua originalità della più antica canzone è del resto saldamente garantita a livello formale: solo qui, infatti, il perfetto « circolarismo » (28) della canzone trobadorica è delegato a contenere equilibratamente la cumulatio di esponenti altrove enunciati con assai minore rilevante compattezza (o perché all'interno di contesti più distesamente narrativi, o dove prevale la cura didattico-allegoretica che a ciascun emblema fa seguire la relativa proposta di esplicazione) (29).
 
1.2.1. Il clima di attesa è comunque smorzato, nella nostra canzone, dal precoce svelamento del descriptus che Calanson effettua già in apertura, sia pure in termini bisognosi di chiosa essi stessi (per noi moderni, almeno): si dichiara infatti di voler parlare del gran poder « del menor tertz d'Amor » (v. 4), cui solo in sede di conclusio verranno allineati, oggetto di fuggevole menzione, gli altri due componenti della terna.
Siamo dunque in presenza di uno dei tanti riflessi letterari di quella formula tripartita di lontana ascendenza che, grazie ai soliti tramiti mediolatini, attecchì solidamente in ambito romanzo (con specifica fortuna presso i trovatori di Provenza) (30). La sua varietà di applicazioni, com'è stato giustamente osservato, coinvolge peraltro anche il nostro testo sia nella propria intrinseca ambiguità che, soprattutto, in relazione al commento di Riquier (posteriore, è bene avvertire, di quasi un secolo: tale sfasatura cronologica è solo la spia più evidente di una complessa dialettica ideologico-culturale meritevole di attenzione) (31).
Nello specifico: mentre l'identificazione del « primo » e del « minor » terzo non provoca dilemmi di particolare gravità (32), questi sussistono invece per il centrale «secondo» terzo al quale, secondo Calanson, si addirebbero Franquez'e Merces (vv. 48-9). La spiegazione proposta da Guiraut Riquier (amor naturalis: in particolare, come si viene chiaramente esemplificando nella Exposition, vv. 136 ss., quello dei genitori per i propri figli) risulta tutto sommato la più accreditata presso la moderna critica (con qualche perplessità residua) (33); non mancano del resto, giustificate esse stesse dalle riconosciute polivalenze significative spesso implicite nell'integumentum, chiavi di lettura prudenzialmente eclettiche come quella presentata da Jung (34).
 
1.2.2. La centralità dell'attenzione poetica (e interpretativa, come potremo facilmente constatare) viene comunque riservata al già citato menor tertz. Il serrato elenco di attributa e proprietates, succedentisi in aderenza al canone retorico della descriptio, contribuisce così ad una raffigurazione sorprendentemente plastica (35) (soprattutto in rapporto al campo lirico in cui va comunque inserita, per ovvi motivi formali, la nostra canzone); mitigata peraltro, e del resto, con felici risultati espressivi, da quell'alone di indefinitezza notato da vari estimatori che va rapportato senz'altro alla « questione del genere » strettamente propria a questo tipo di metafora (36).
Relativamente alla nostra canzone, essa merita a nostro parere una decisa presa di coscienza: la spiegazione « grammaticale » comunemente addotta dai suoi esegeti moderni per lo statuto tendenzialmente ermafrodito del menor tertz (essendo amors ant. prov. un sostantivo femminile, tale risulta la sua rappresentazione all'interno del testo) (37) rimane certo valida, ma appunto a livello di strutture morfo-grammaticali e non semantiche, in quanto la non univoca identificabilità sessuale dell'essere rappresentato va ricondotta a più profonde radici interessanti da indagare (e valide, beninteso, anche per le altre realizzazioni della figura d'Amore nell'oc e nell'oïl in genere). Tutte queste testimonianze letterarie (unitamente alle più studiate iconografiche) possono aiutare a ricostruire le tappe di quella progressiva e complessa morfosi (o pseudomorfosi, per usare il termine di E. Panofski, dai cui pregevoli studi di iconologia abbiamo tratto utili suggerimenti) attraversata dalla personificazione d'Amore nel suo passaggio dall'era classica a quella volgare e cristiana (38). L'acerbità «sperimentale» dell'allegoria occitana rispetto ai più scaltriti procedimenti oitanici permette inoltre una più agevole lettura in filigrana dei vari strati componenziali, dal nucleo originario (presto sdoppiato per le reciproche interferenze di Venere e Cupido, senza contare i tagli dicotomici operati dai primi mitografi cristiani, che moralisticamente distinguono una Venus bona ed una mala, ecc.) ai più moderni apporti propri della civiltà cortese e feudale: a questa fase diacronica va probabilmente assegnata l'intrusione di quella diffusissima prosopopea della Fortuna che può aver arricchito la già composita figurazione del dio con attributi che originariamente gli erano estranei (in primo luogo, la discussa cecità che però risulta comune, almeno da una certa altezza cronologica, al puer Cupido) (39).
 
1.3.1. L'insolita oggettività del ben tornito risultato di questo sfoggio di erudizione mitografica (ammannito in parallelo, e con tono ben più scopertamente didattico, nel Fadet joglar del medesimo Calanson, cui più volte avremo occasione di rimandare nel corso del presente contributo) ci ha invogliato ad allargare la rete dei collegamenti intertestuali evadendo il territorio di più stretta competenza del nostro testo (la Provenza medievale, appunto, a questo riguardo abbastanza avara di precisi riscontri) (40).
Mentre fra la canzone di Guiraut e la susseguente produzione in lingua d'oc di tipo allegorico l'unico comune denominatore ravvisabile consiste infatti, assai latamente, nella scelta di tale modalità di rappresentazione dell'eros cortese (sia pure effettuata per tramiti espressivi alquanto svariati, come abbiamo già avuto modo di osservare: la funzione di « avanguardia generica » esercitata dal nostro testo risulta quindi, tutto sommato, di portata relativa), in Italia, fra Due e Trecento, troviamo corrispettivi assai più puntuali (e più famosi, per lo meno nella persona dei rispettivi autori) della pittorica descrizione calansoniana dell'Amor profano. Ci riferiamo, in ordine cronologico, al « Trattato d'Amore » composto, a cavallo tra i due secoli (quindi all'incirca in contemporanea con l'Exposition riquieriana) da Guittone d'Arezzo (41) e, unica delle due opere che ci risulta aver provocato rimandi sia pur dubbiosi al modello provenzale, al trecentesco Tractatus Amoris et operum eius che Francesco da Barberino appose in chiusa ai suoi già copiosissimi Documenti d'Amore (42). A parte l'originale simbiosi propria di entrambe le opere (circa quella di Guittone, come noto, è presumibile che solo un accidente codicologico ci abbia privato del corrispettivo figurale dei versi) (43), a noi qui interessa rilevare come tutti i principali elementi della combinatoria descrittiva utilizzata dai due italiani (il cui sostanziale accordo già prova la tradizionalità del mosaico di dati) (44) siano gli stessi che già comparivano in Celeis cui am, agli inizi del sec. XIII in Provenza: ovvio il rimpianto, in base a tali premesse, per la mancanza di analoghe rappresentazioni miniaturali nei manoscritti calansoniani a noi oggi disponibili (45).
 
1.3.2. Di tali elementi potrà interessare una rapida menzione preliminare (fermo restando che la canzone, di cui continueremo ad occuparci unitamente all'Exposition nei paragrafi successivi, costituisce il nostro punto essenziale di riferimento). Tutti gli attributi comuni al dio di Guittone ed a quello del Barberino, con una sola eccezione, risultano già presenti in Celeis cui am: il saettamento (anche se gli italiani non preciseranno, come Calanson, il numero delle frecce: su ciò v. il cap. relativo all'Exposition), la velocità (la cui metaforica materializzazione tramite le ali manca viceversa in Guiraut di contro agli altri due più tardi poeti); il capo cinto (« corona » in Calanson, ghirlanda floreale altrove: v. anche per questo particolare al cap. successivo), la nudità (appena velata, per dichiarata pruderie, nel testo di Barberino; circa il pauc d'orfres del dio provenzale, cf. la qui seguente Postilla alla traduzione l).
Un ulteriore accordo binario (Calanson e Guittone) si estende all'elemento fuoco, menzionato appunto da ambedue sia pure in diverso contesto (di contro alla torcia ardente di Guittone, rientrante nell'iconografia tradizionale del dio, l'accenno calansoniano potrebbe sottintendere un più profondo significato emblematico: cf. le nostre Postille alla traduzione m, n). In conclusione, l'unico tratto di patente disaccordo riguarda « in negativo » il nostro testo occitano: la mancanza, cioè, di quell'attributo demoniaco (« granfe de aostore » in Guittone, « piè [...] di falcone » in Francesco) che in effetti risulta poco richiesto dalla connotazione eminentemente « femminea » del menor tertz (e, più in profondo, dalla sua ancora intatta reputazione, secondo i dettami dell'etica trobadorica classica).
I nostri riscontri hanno infatti deliberatamente eluso il profondo iato ideologico che, al di là delle immediate coincidenze producibili, separa nettamente la raffigurazione del provenzale da quelle dei due autori italiani, presso i quali l'intento cortese e mondano (in ogni caso, non certo reprobatorio) di Guiraut de Calanson risulta totalmente capovolto, sia pure in modi diversi (46). Altro livello di appariscente dissonanza (per quanto non incida sul contenuto, ma rimanga confinato a livello di tecnica compositiva) è la progressiva dilatazione degli organismi formali rispettivi, che dal circolo ben conchiuso della canzone (Calanson), passando attraverso la armonica « corona » di sonetti di Guittone, arriva all'esuberanza ridondante tipica del Barberino (cobbole volgari, autodefinitesi cantione, e glosse prosastiche in latino; nonché, uniche come già detto ad esserci giunte, iterate raffigurazioni pittoriche in stretta connessione alla parola scritta, certo almeno in parte curate dallo stesso poeta) (47).
I punti di conguaglio risultano comunque sufficienti, per qualità e quantità, a dimostrare la diffusa ricettività della formula presso i colti lettori-uditori (e spettatori) di lingua e cultura romanza (a quest'epoca, come noto, permeata di sensibile interesse per la problematica psicologico-morale suscitata dalla passio amorosa). Può risultare quindi già indicativo, a nostro avviso, che proprio per le raffigurazioni dei manoscritti barberiniani sia stato ipotizzato (in parallelo ad altre consimili rappresentazioni pittoriche) un comune prototipo di età duecentesca (48), per il quale è poi da dimostrare la esclusiva afferenza alle arti visive, data la provata vitalità delle espressioni letterarie di analoga ispirazione. A questo punto, il cospicuo ispessirsi delle vie di ricerca consiglia di rimandarne ad altra sede un eventuale proseguimento: in via provvisoria, si dimostra già appagante questa ulteriore constatazione dell'estrema proficuità di indagini comparate testo-immagini all'interno dei nostri codici romanzi (49).
 
2. Della canzone allegorica di Guiraut de Calanson, Celeis cui am de cor e de saber (P.-C, 243, 2), possediamo attualmente undici attestazioni manoscritte, compresa quella versione inserita all'interno della Exposition riquieriana che sarà più avanti oggetto di specifica analisi (50). Per quanto riguarda l'attuale assetto critico del testo (a cui hanno atteso principalmente O. Dammann e W. Ernst), esso risulta nel suo complesso accettabile (né questa appare la sede adatta per un riesame approfondito in proposito, anche se nella già citata Appendice provvederemo a qualche puntualizzazione integrativa nei riguardi, soprattutto, della versione R utilizzata da Riquier) (51).
Ci sembra opportuno riproporre qui il testo critico della canzone calansoniana procurato da Ernst (52), seguito da una nostra traduzione (53) « servile », quale strumento alla comprensione del non facile testo; alle scelte interpretative che si sono imposte sono dedicate le Postille ad essa relative. ()
 
3. L'EXPOSITION
 
1.1. La porzione centrale, e notevolmente più ampia, del dialogo letterario avviato in modo clus e cobert dal trovatore Guiraut de Calanson con la sua canzone allegorica è ora affidata ad un distanziato (nel tempo) ma attentissimo interlocutore: il doctor de trobar Guiraut Riquier da Narbona, a cui si deve quella prova di complementare e altrettanto ragguardevole subtilitas che va sotto il nome di Exposition. Anche tenuto conto dello scarso potenziale informativo «generico» assegnabile al titolo della sua opera (per ragioni sia specifiche, anzi squisitamente contestuali, che più generali, queste ultime ormai sufficientemente indagate) (54), un vocabolo densamente specialistico come il suddetto (55) non può che riferirsi ad un prodotto di ambizioso impegno, teso a emulare modelli e tecniche propri di una zona «alta» e accademica della cultura, di cui forse il nostro autore, Guiraut Riquier da Narbona, ebbe esperienza diretta (ma su questo argomento non si è progredito molto, almeno documentariamente, dai tempi della monografia di J. Anglade) (56).
Proprio l'Exposition, del resto, potrebbe costituire una prova della fama acquisita da Riquier presso i contemporanei (almeno nell'ultimo periodo della sua vita) e l'immediata posterità, se fosse dimostrabile il suo diretto influsso sull'unico altro esperimento poetico-didattico che presenta con essa interessanti consonanze, e cioè la Gloza sul vers di Bernart de Panassac del più tardo trovatore Raimon de Cornet (57).
I punti di contatto fra le due opere, per quanto perspicui come cercheremo di mostrare, e già evidenziati dalla loro esclusiva referenzialità reciproca (il che colpisce abbastanza in un'area poetica così sensibile al modello «esemplare», anche se contemporaneamente aperta alla sperimentazione soprattutto formale e compositiva), non bastano di per sé a provare nessun rapporto di fruizione diretta (naturalmente della più recente Gloza nei confronti della Exposition riquieriana), anche se invitano a un riesame approfondito i già lumeggiati agganci biografico-culturali di Raimon de Cornet con la corte di Rodez, luogo in cui, almeno idealmente, potè avvenire l'incontro dei due poeti (58). Ancora più dubbia la riconducibilità di Exposition e Gloza ad un medesimo ceppo arcitestuale che a noi permane del tutto incognito: in questa situazione, è solo lecito (e liberatorio da troppo gravi dilemmi) l'augurio che qualche fortunata trouvaille permetta di delineare con un margine di credibilità un po' meno esiguo i contorni di una tradizione che risulterebbe assai congruente ai gusti (sottilmente e insieme un po' grevemente eruditi) di questa fase occidua della civiltà trobadorica.
Passando, in concreto, ai reperti in nostro possesso, la loro interrelazione non è in effetti suffragata da alcun segnale esplicito: esiziali soprattutto i silenzi di Cornet circa la messa a testo della sua Gloza, argomento sul quale Riquier non smentisce, invece, le sue doti di scrupoloso diaristico informatore (per tutto ciò, cf. il qui successivo § 2).
Le premesse ideologico-poetiche avanzate dai due autori sono tuttavia sostanzialmente identiche: anche a inizio di Gloza viene infatti esplicitato l'intento scontatamente edificante del décodage a cui Cornet si accinge nei confronti del vers mot cortes di Panassac (59), il quale, stando alla pur laudatoria perifrasi giustificativa del suo severo esegeta, «per gran maestria, / lo fetz esperital / semlan al temporal, / escuramen parlan» (vv. 8-11). La dichiarazione (poi corroborata dalle puntuali escogitazioni ermeneutiche relative ad ogni luogo del vers) risulta già fortemente allusiva di tutto un clima storico e letterario, le cui costanti (dalla protestata ortodossia religiosa alla compiaciuta, se non stravagante, perizia versificatoria) sono state da tempo poste in luce (60). Forse meriterebbe maggiore attenzione, sulla scorta degli scandagli già effettuati da René Nelli, quella sotterranea dialettica tra fermenti innovatori e sussulti antieretici in cui ben si colloca la produzione tutta di Raimon de Cornet (61) e che più in generale aiuta a farsi un'idea meno monolitica di questo momento carico di tensioni (62).
Il fatto che anche l'opera di Riquier vada inserita in un quadro analogo — determinato, al di là della ormai lontana Albi e dei furori dell'immediata repressione, da quella sorta di terrorismo culturale e psicologico esercitato dalla solidamente impiantata inquisizione, nonché dagli echi, certo vivi anche nel Midi, della famigerata condanna parigina del 1277, coinvolgente in pratica tutta l'ideologia cortese e trobadorica — costituisce il primo innegabile isomorfismo di sfondo fra Exposition e Gloza, sia pure a livello di ispirazione e non ancora di concreta realizzazione poetica. Il décalage cronologico comunque istituibile (e, senz'altro, i distinti temperamenti umani e poetici) possono poi adeguatamente motivare il diverso livello di coinvolgimento dei due autori nelle rispettive demistificatorie della fin'amors: ancora moderatamente sensibile ai stigmatizzati suoi trascorsi mondani risulta l'anziano Guiraut, mentre tale dialettica, se pure è esistita, ha ormai superato ogni decantamento nell'opera di Raimon de Cornet, esercitazione di quasi snobistica «sottigliezza» che sa ben destreggiarsi tra vuota pedanteria ed equivoca dissacrazione (63).
 
1.2. Entrando nel vivo dei raffronti, a livello compositivo colpisce l'identità di strutturazione, immediatamente verificabile — sia Exposition che Gloza prevedono infatti regolari farciture «per coblas» dei rispettivi testi chiosati, con riprese variabili per entità e modalità d'inserzione nelle singole porzioni di commento — e annunciata del resto in maniera analoga nei due già citati attacchi pre-testuali; circa questi ultimi, si è già rilevata la pregnanza informativa decisamente maggiore della Exposition nei confronti della Gloza, per la quale è del resto impossibile, allo stato del tràdito, verificare l'esistenza di quella sorta di complemento simmetrico in sede di conclusio fornito invece dalla Exposition (vv. 936 ss.).
Per quanto attiene in specifico all'assetto metrico, se la coincidenza di schema (versi di sei sillabe a rima baciata) è ovviamente poco illuminante data la sua normalità d'uso in area narrativa e didattica, possono destare un moderato interesse alcune equivalenze di rima (64) e ancor più la comune ricerca di artifici di raccordo metrico-rimico fra le due eterogenee unità testuali poste a contatto nell'opera farcita. Sotto questo aspetto, l'indubbia perizia di Cornet aveva un precedente illustre nei giochi concatenatori ancora più serrati istituiti da Riquier (65): nell'Exposition infatti l'accordo fra coblas via via inserite e testo glossante può dirsi perfetto (66), ed anzi è esteso sistematicamente a tutte le ricitazioni calansoniane (versi isolati o in gruppo) che di regola precedono la rispettiva chiosa (67).
Ancora più indicativi i dati ricavabili dall'analisi linguistico-stilistica, in quanto è possibile estrapolare da Exposition e Gloza quella che vorremmo definire una sia pur embrionale terminologia del commento, caratterizzata dalla precisa qualifica tecnica che vocaboli di per sé di ampio consumo vengono ad assumere nel contesto glossatorio. Tra essi, citiamo almeno comparar (68), entendemen nella precisa accezione di 'significato' (69), e in stretta connessione sintagmatica con il nucleo di termini facenti capo a clar, declarar, a questi si contrappongono, a distanza calcolatamente ravvicinata, gli associati antinomicamente clus od escurs, delegati a connotare il «chiosato» che si offre al «chiosante» (70). La pertinenza di tali scelte, di per sé solo genericamente indicative come dimostra la quantità di raffronti puntualmente istituibili all'interno del comune terreno didattico (e non solo d'oc) (71), è poi enfatizzata dall'avveduta dislocazione (quasi sempre il secondo emistichio, e la sede rimica) e dal loro reciproco coagulo in sequenze sintagmatiche di fissità quasi formulare.
Si giunge così all'estrema sublimazione stilistico-retorica e insieme metrico-ritmica di tali espressioni, che a norma di transitiones vengono scaglionate con simmetrica strategia lungo le linee di confine intertestuale (72): la regolarità di scansione di questi supporti insieme ricapitolatori ed anticipativi (sia rispetto al chiosante che al chiosato) risalta in base alla proporzionalità del taglio (73) e grazie all'adozione di ulteriori contrassegni retorico-sintattici  (in  primis, la già rilevata combinatoria iperbato-enjambement) (74). Quanto all'addensarsi, in queste «zone franche», di quella fraseologia cautelativa («segon lo meu semblan», «al meu albir», «a mi par» e poche altre variabili) che può invitare a supporre, con eccessivo affidamento nel significato letterale dei termini, periodiche confessioni di imbarazzo ermeneutico da parte di Riquier (e di Cornet, dati gli elementi di riscontro, sia pure meno vistosi, offerti dalla Gloza in proposito) (75), a noi le suddette dichiarazioni appaiono anzitutto quali ulteriori raccordi stilemici propri del «genere» o almeno della tipologia commentaristica che qui abbiamo tentato di abbozzare. Se una certa dose di biografismo va forse ragionevolmente ammessa, si tratterà non tanto di pavida ammissione dei propri limiti quanto di deferenziale cortesia verso il chiosato Calanson (una specie di omaggio all'indubbia acutezza del poeta, ormai non più in grado di replicare) e anche di cautela pragmatica nei riguardi di un pubblico scaltrito: gli entendedors di Enrico II, a loro volta ben disposti a intervenire nel dibattito. La collocazione strategica di tali enunciati (in zona di transitio o comunque in corrispondenza degli apici di difficoltà esegetica della canzone) assicura in ogni caso circa la loro non casuale, ma ben oculata messa a testo (76).
Considerazioni analoghe vengono suggerite da quelle locuzioni di semantismo nettamente opposto che, pure, caratterizzano in parallelo Exposition (77) e Gloza: proprio in quest'ultima si addensano le proteste di estrema chiaribilità del vers di Panassac (vv. 16-19, 56-7, 120-21 e, a coronamento del testo a noi pervenuto, la sentenza emblematica di vv. 152-3: «Car tot so qu'om ditz clar / declaracïos es»), ed è tipica la ricorrenza di avverbi asseverativi quali certamen, per cert (vv. 4, 32, 55, 136), segur (v. 130), veramen (v. 145), soprattutto in adiacenza di verbi appartenenti all'area di «significare», «voler dire» e affini (78). In questa secca giustapposizione di «lettera» poetica e «senso» nascosto, Cornet ottiene risultati assai meno godibili letterariamente di quelli del suo predecessore: mentre nell'Exposition, infatti, la pur pesante didatticità degli asserti risulta come sfumata dall'accorto utilizzo di vari connettivi retorici (iperboli, apostrofi, digressioni, ecc.: rimandiamo per tutto ciò alle note puntuali al testo), la cui accessorietà non implica quindi la semplice ridondanza, la secca fisionomia didattica della Gloza già fa intravedere quale dovesse essere la propria presumibile destinazione (amici e discepoli del neoconvertito). Tale diffusione rigidamente elitaria pare comprovata, del resto, dalla assoluta mancanza di tracce o riflessi postumi all'interno della successiva produzione 'tolosana', almeno per quanto ci è dato di conoscere (79).
 
2.1. Sebbene indirizzata, in immediata apertura, als subtils aprimatz (v. 1), quindi a un pubblico altrettanto raffinato e competente di quello di Cornet (sono gli entendedors ai quali Riquier si appella anche più volte all'interno dell'opera) (80), l'Exposition risulta inquadrabile in una cornice storica assai meno rarefatta di quella ipotizzabile per la Gloza, e ciò grazie soprattutto alle informazioni di cui essa stessa è prodiga nel settore esordiale relativamente al milieu compositivo, vale a dire alla committenza e alle ragioni immediate della sua produzione.
Tutto insomma concorre a rendere agevole l'identificazione del non esplicitato destinatario nell'insolito collegio giudicante presieduto dal diretto promotore dell'opera, il conte Enrico II di Rodez, al quale Guiraut si rivolge fin dai primi versi nei soliti moduli laudativi senza subito svelarne l'identità (il nome sarà infatti pronunciato solo al v. 30: «N'Enric, creissen d'onor, / per gracïa de Dieu / comte de Rodes»). Ancora dalla zona proemiale si ricava l'informazione che più trovatori erano stati prescelti dal conte per la poetica gara, a suo insindacabile giudizio (vv. 46 ss.): la nomina di Guiraut Riquier all'interno del ristretto gruppo (sulla cui composizione sono lecite solo le ipotesi di cui ci occupiamo più avanti, nel capitolo relativo al Testimoni) risulta indicativa di una fama poetica già consolidata, soprattutto se teniamo conto che alla data fornita dalla stessa Exposition (vv. 20-25), e cioè nel gennaio 1280, il nostro autore era appena approdato alla corte del mecenate di Rodez (81).
È dunque a questo ben prefigurato destinatario (82) che sta per essere trasmesso (siamo tentati di dire: recitato) (83) l'atteso messaggio poetico di codice binario (testo lirico e glossa). L'ampiezza e la profondità del compito inducono Riquier ad attardarsi in ulteriori preliminari, del resto quasi d'obbligo, prima di entrare decisamente in re: e anzitutto, come già detto, a precisare (con puntiglio quasi cancelleresco) i termini cronologici e spaziali in cui si situa la laboriosa gestazione dell'Exposition (vv. 20 ss.). Questi dati, sia pure sfumati dall'indubbia letterarietà del contesto (84), hanno un interesse storico abbastanza evidente in quanto concorrono a precisare quella fisionomia della corte di Rodez (sotto Enrico II in particolare) che ci è già nota da altre fonti e per la quale disponiamo ora dell'ottimo inquadramento di Saverio Guida: l'Exposition conferma anzitutto il ruolo decisivo del conte nella promozione di tutte quelle iniziative cultural-mondane analoghe alla nostra e per le quali giungeva immediata e competente risposta da parte dei suoi scelti coadiuvatori e amici (84 bis).
Sarà quindi opportuno ripercorrere in breve le tappe progressive di questa esemplare gestazione, rifacendosi a quanto limpidamente narrato dal medesimo Riquier. Si dichiara intanto circostanza abituale (v. 28: «com soven s'endeve») il formar circolo dei trovatori attorno al conte: questo clima certo denso di scambi e sollecitazioni letterarie costituì esca al suo desiderio (voler, v. 29) di ascoltare da parte dei più esperti del gruppo (vv. 37-8: «[...] per alcus / trobadors clar e clus») «l'entendemen tot clar» (v. 39) della famosa canzone che Guiraut de Calanson, dalla corte del Puy (v. 191) (85), aveva dedicato al «menor ters d'Amor» (vv. 44-45). La rosa degli eletti, personalmente selezionati dal conte fra i presenti, comprende anche Guiraut Riquier (vv. 46-52), nelle cui mani viene così a trovarsi un testo conforme all'originale della canzone, quale ora egli mette a disposizione del proprio pubblico (vv. 54-55: «que motz camjatz no·y fo, / aisi com l'auziretz»). Su questa trama poetica di ardua decifrabilità il nostro autore viene quindi ad esercitare, previo l'indispensabile affinamento («vuelh mon engenh des brui / ar assubtilïar», vv. 60-1) (86), le proprie risorse mentali e poetiche, distinguendosi addirittura nella relativa speditezza dell'operazione (se si vuole, ancora, prestar fede al susseguente Testimoni, vv. 10-13).
In questo preludio trovano inoltre adeguato inserimento le scontate lodi del poeta chiosato e della sua canzone (vv. 189 e 206-7), poi iterate dopo l'inserzione della prima cobla nel corpo della relativa esposizione (vv. 214 ss.) e che anzitutto magnificano la «bella oscurità» del dettato calansoniano (87). Conforme a tale lusinghiero giudizio è l'altra programmatica dichiarazione di voler rifuggire da una reprehensio indiscriminata, bensì di limitarsi agli specifici chiarimenti imposti dal testo, oltre che, dove se ne presenti l'occasione, a puntuali correzioni e rettifiche (vv. 66-69: «[...] non reprenden / luy, mas dizen vertat / del menor ters nomnat / o pogra dir estiers») (88).
 
2.2. Il modesto proposito iniziale troverà poi implicita smentita nella sostanza e nella frequenza degli interventi glossatori, sia pure accortamente mimetizzati: e in effetti viene spesso qualificato come mera esplicitazione del senso originario calansoniano quanto con ogni evidenza spetta ad una posteriore e interessata lettura (89). Una tale energia di risposta (che con perifrasi abbastanza infelice Dammann definì «Riquier's ehrbare philiströse Gesinnung») si concretizza, a livello di espressione poetica, in quella ridondanza verbale e insieme concettuale (bastano due cifre eloquenti: 949 versi per spiegare una canzone di 54) circa la quale lo stesso Riquier sentì forse l'opportunità di addurre le proprie scuse (in  conclusione, e in modo alquanto stereotipo: vv. 922-27) (90). Se è peraltro assai facile riconoscere nell'uso e abuso di amplificatio (91) la caratteristica retorica preminente dell'Exposition (con i corollari inevitabili, e spiacevoli soprattutto a noi moderni: contraddizioni, mancanza di perspicuità, eccesso di digressioni) (92), la dissezione del testo finisce per confermare, abbastanza imprevedibilmente, quelle doti di perizia letteraria e quindi anche di equilibrio compositivo altrove dimostrate con maggior limpidezza dal nostro autore, in opere di dimensioni e struttura affatto diverse. Anche qui può giovare un dato numerico: il taglio dei versi attinenti a ciascuna porzione di glossa (per ogni singola cobla) si attesta su una media di 115-120 unità (93), con le eccezioni (forse volutamente simmetriche) delle zone di cornice (52 vv. per la prima cobla; 91, cioè 73 e 18, per le due tornadas) (94).
All'armonia del quadro complessivo che ne risulta tende a sottrarsi il lungo attacco esordiale (213 vv.), zeppo di notazioni svariate che solo in parte possono ricondursi alla topica dell'inizio d'opera: ad essa, per esempio, compete la segnalazione delle circostanze concomitanti alla mise en oeuvre dell'Exposition, mentre il discorso relativo alla identificazione dei «terzi» funziona da ghiotto anticipo della susseguente puntuale esplicazione fornita ai vv. 110-173. Anche questo primo saggio della perizia glossatoria di Guiraut viene però ulteriormente complicato da una preliminare disquisizione (95) relativa all'improprietà dell'espressione «minor terzo» (vv. 70-101), troncata con apparente noncuranza solo dopo che di essa è stato detto tutto il dicibile (e con perfetta logica consequenzialità). Dei «terzi» d'amore viene intanto protestata l'univoca via di lettura, secondo quella che risulta la sicura competenza di Riquier (vv. 116-118: «[...] car uzadas / son en nom egalmen / al mieu entendemen»); tra definitio e relativa expositio, infine, una ben calcolata inserzione dell'immancabile invocatio Dei, che qui quasi sorprende per l'insolita sobrietà (vv. 122-123). L'accurata messa in rilievo dell'argomento cardine dell'opera (i terzi d'amore, appunto) troverà il suo raccordo perfettamente simmetrico verso il termine dell'opera, nella zona di competenza della prima tornada di Celeis cui am (e con esplicito riallacciamento: «Si tot m'ay declarat / aiso al comensar [...]», vv. 857 ss.). Tale salda incorniciatura viene poi rinforzata da una ulteriore rete di rimandi interni, tutti o quasi positivamente verificabili (e di cui si darà atto nell'annotazione puntuale al testo), che confermano quindi capillarmente la sottomissione di questo prodotto apparentemente touffu alle regole di un piano organizzativo studiato nei minimi particolari.
 
3.1.1. Non meno serrata l'articolazione tematica, ruotante tutta attorno a quel «menor ters d'Amor» già identificato in zona rubricale come leit-motif della canzone oggetto di chiosa e destinato a subire la serrata requisitoria di Riquier, solo venata di qualche riaffiorante (ma subito condannata) nostalgia. Nella parte propriamente esordiale trovano intanto evidenziata collocazione alcuni dei motivi basilari di tale reprobatio, innescati su quella complessiva risemantizzazione dell'idea di amore che informa tutto o quasi il sopravvivente trobadorismo della sua epoca: ecco quindi che enunciati non nuovi, ma propri dell'erotica «classica» occitana (l'ineluttabilità del giogo d'amore, l'opposizione amore-ragione, ecc.) acquistano una connotazione totalmente negativa, come richiesto dall'attuale contesto politico e religioso.
È ben probabile, tuttavia, che tali categoriche direttive non avessero permeato totalmente, almeno nel profondo, l'aristocrazia intellettuale del tempo: proprio a un arroccamento su posizioni bollate come moralmente inaccettabili (e anche, forse, poeticamente arretrate) potrebbero alludere i reiterati cenni inclusi nell'Exposition circa la pur sbiadita e anonima schiera dei detrattori del doctor, sconfitta in partenza perché contraria a razo ed entendemen (vv. 174-185, e passim). Al di là dell'indubbia crosta formulare, riconoscibile con discreta evidenza (lo schema della disputa, sia pure giocosa e fittizia, che informa scopertamente il Breviari d'Amor, costituisce pure qui almeno un elemento di sfondo), dichiarazioni del genere possono dunque interessare come echi per quanto rarefatti di una ben storicizzabile visione del mondo e della cultura. Va tenuto in conto, per di più, che proprio attorno agli anni di Riquier (seconda metà del XIII secolo) acquista deciso spicco, a livello accademico in primo luogo, la corrente speculativa razionalista che elegge la propria figura-chiave nel «filosofo», vale a dire l'intellettuale padrone di sé e dominatore delle insane passioni a cui era invece destinata a soccombere (vittima felice almeno in parte, data la pur perversa godibilità riconosciuta a tali tormenti) la controimmagine elaborata dalla civiltà «cortese» e trobadorica (96).
La perfetta conciliabilità tra ragione e fede è del resto uno dei miraggi ideologici più duri a morire all'epoca (97), dando per scontata la posizione ancillare nella prima nei confronti della seconda, posizione questa ribadita con peculiare energia nel clima apertamente «controriformista» in cui è da collocare l'opera di Riquier (e per questo si rimanda alle già effettuate considerazioni storiche). Tutto ciò trova il suo slogan coagulatore, all'interno dell'Exposition, in quella ripetuta appropriazione dell'antitesi calansoniana — «non sec razo, mas plana voluntat», v. 7 — che, qui come altrove nell'universo poetico coevo (98), costituisce un approccio definitorio all'amore-passio destinato ad accontentare sia i cultori di filosofia teorica (definitio per contraria, come predicato dai neoaristotelici dell'epoca) (99) che, soprattutto, i moralisti e i teologi. La passione amorosa rappresenta infatti un aspetto metodologicamente esemplare di quel conflitto permanente fra intelletto illuminato dalla fede e capacità «sensitive» risolvibile, secondo l'etica cristiana, solo tramite il saldo predominio della recta ratio (100). Modello paradigmatico dell'inordinata concupiscentia (con tutte le rovinose conseguenze di tale squilibrato appetitus), e insieme argomento di bruciante, ben sperimentata attualità, l'amor carnalis monopolizzava da tempo l'interesse degli addottrinati scrittori romanzi: il retroterra delle stesse rarefatte elucubrazioni poetiche è già additato dalla ricorrenza dell'equazione amore = voluntas, diffusa dall'ambito speculativo (101) a quello propriamente letterario (102).
L'impianto programmatico è ormai chiaro nelle sue linee di fondo: ad esso risponderà coerentemente ogni segmento della realizzazione poetico-dottrinaria, snodantesi in regolare contrappunto all'inserzione delle coblas calansoniane il cui vaglio è scrupolosamente integrale (dato che quasi ogni parola della canzone riceve la propria adeguata chiosa). La subtilitas del doctor de trobar, applicata a tale materia di grande e fortunato utilizzo, e in aderenza alla prospettiva «scolastico-cortese» allora trionfante, aveva insomma dalla sua ottime garanzie di successo (103).
 
3.1.2. Merita quindi attenzione quello che possiamo definire lo spessore interdiscorsivo dell'Exposition (104), per quanto l'estrema distillazione propria comunque del filtro poetico (sia pure, come qui, non lirico), e la circolarità degli assunti (scontata per un'epoca di massiccio riutilizzo come quella della pur gloriosa decadenza trobadorica) renda illusoria ogni specificità di riscontri. A maggior ragione, sarebbe altamente illecito tentare di ricavare da così implicite «fonti» (esattamente antitetiche alle tanto ostentateauctoritates di Matfre Ermengaud) elementi atti a precisare la griglia di rapporti culturali e anche propriamente biografici intrattenuti dal nostro poeta nello spazio e nel tempo e che purtroppo rimane in buona parte affidata ad alquanto ipotetiche ricostruzioni. Tutto ciò non può certo inficiare l'utilità dell'ampia serie di riscontri proposta nel volume di Dammann, che se non altro conferma l'usuale, intensa compenetrazione fra apporti in linea «orizzontale» (trobadorismo lirico e soprattutto produzione narrativo-didattica, quest'ultima assai sensibile, in area d'oc, alle potenti irradiazioni dal contiguo oïl) e «verticale» (ci riferiamo con ciò anzitutto alla fascia mediolatina che di questa come di altre esperienze costituisce il normale antecedente, in senso sia cronologico sia, più latamente, di modello culturale) (105). In questo momento (rimandando per ulteriori arricchimenti analitici alle note all'edizione) può essere utile soltanto uno sguardo d'insieme a tutto questo svariato materiale non in quanto tale, ma nel suo specifico rendimento funzionale all'interno della Exposition: solo un'indagine orientata in tale direzione permette di risalire alle scelte d'autore che determinano l'organizzazione tematica dell'opera. Quest'ultima risente notevolmente del suo peculiare statuto di «glossa» che, proprio in quanto commento ad altro testo, non può che vedere drasticamente ridotta la libertà d'inventio e di dispositio del commentatore. Sono infatti i nuclei tematici della canzone medesima a determinare sia il ritaglio che la distribuzione (entro certi limiti) dei rispettivi enunciati «espositivi»: e la circolarità della canzone, fondamentalmente riconoscibile almeno a livello di struttura «profonda», e cioè sotto al suo superficiale svolgimento sintagmatico, può già spiegare in parte quei numerosi rimandi al «già detto» o al «più avanti», espedienti del resto sfruttati da Riquier in moderata dose rispetto ad altri più accaniti sperimentatori del metatesto.
Al di là dell'organizzazione tematica, gli intimi legami testo-glossa permettono di essere constatati anche al livello propriamente formale: in particolare, per quanto attiene all'uso dei mezzi retorico-espressivi all'interno dell'Exposition, regolato almeno in linea orientativa da quello che a noi risulta il peculiare bifrontismo raffigurativo della canzone. Pur saldamente monolitica nella sua facies formale (la descriptio del menor ters procede per costante accumulo di determinazioni, come già si è notato a suo luogo), l'ipostasi dell'amore terreno qui fornita risulta cioè prospetticamente duplice, a seconda se facente riferimento agli attributi 'astratti' della personificazione (di più o meno remota origine) o piuttosto allo svolgersi 'concreto' dell'esperienza, sia pure in base a canoni di scontata letterarietà.
Possiamo geometrizzare la nostra acquisizione, sul corpo della canso medesima, per mezzo di due cerchi concentrici di diverso diametro: nella fascia periferica (coblas I, III, e VI, nonché i vv. 9-10 della II) trovano posto i cosiddetti attributi statici dell'allegoria d'amore, elementi di svariata origine combacianti almeno su un punto (in negativo), la loro totale estraneità all'ambito poetico occitano prima di Calanson (106); mentre il nucleo centrale (coblas IV e V, con preannuncio ai vv. 11-16 della II) allude piuttosto, con gusto accentuato per il linguaggio clus e cobert (che qui si avvale di precisi quanto enigmatici supporti numerologici) (107), a quell'eterna eppure sempre individualmente rinnovantesi dinamica psicologico-sentimentale che aveva sollecitato ben più in profondo la civiltà trobadorica (108).
 
3.2.1. Con ciò non si vuol certo negare il responsabile impegno posto nella delucidazione della parte 'esterna': proprio qui trova anzi solido impianto il revisionismo anticortese dell'interprete. Così, la glossa relativa alla I cobla (Exp., vv. 214-265), oltre a costituire una summa dei motivi afferenti al primo insieme tematico (di cui si erano concesse solo sparse anticipazioni in sede propriamente esordiale), offre subito l'appiglio per una lettura «di parte» (interessata o convinta, questo è difficile da stabilire), vale a dire totalmente permeata del credo politico-religioso allora imperante in Provenza. Ecco come procede il serrato dipanamento della pur attraente concisio calansoniana: dalla facile ratifica del potere indiscriminato di Amore (vv. 223-230 = canz., vv. 6-8) e da una prima appropriazione dell'usatissima equazione amore = voluntat, subito connotata negativamente dal suo porsi in antitesi a razos (vv. 234 ss. = canz., vv. 6-8), l'analisi si sposta sugli effetti consequenziali (ovviamente perniciosi) di tale fondamentale acquisizione. L'essenza dezordenada del menor ters non può infatti che riflettersi nella generale e recriminata sua ingiustizia, aspetto che giova al ribadimento accentuato della già introdotta (v. 173) polarità dreitz-volers, a sua volta suggerita dal v. 8 di Celeis cui am.
Questa e altre approssimazioni dialettiche alla sfuggente definizione del menor ters (emanante per ciò stesso una certa aura di fascino malefico che a tratti pare avere blando effetto sul pur disincantato interprete) trovano poi felice coagulo nell'immagine bifronte del fals semblans (qui introdotta a vv. 237, 250) (109), sullo sfondo tra apocalittico e pietoso di una universale querelle mossa ad Amore dai traditi suoi seguaci (vv. 251-253).
Tale motivo di scontato utilizzo, trobadorico e non, troverà un complemento di antinomica efficacia nei frequenti rimandi agli amadors ancora irretiti dai vani miraggi del fals semblans i quali, lungi dal «far causa» ad Amore, fungono da suoi accaniti quanto sragionevoli difensori contro l'avversato demistificatore Riquier (cf. in particolare vv. 174-181 e in finale, vv. 936 ss.). Un clima di così cupa reprobatio rende perfettamente comprensibile l'esiguo spazio qui dedicato all'aurorale plazers (vv. 246-7), che sarà poi trattato con maggiore ampiezza, sia pure evitando ogni illusorio cedimento, in una sezione successiva dell'Exposition (cf. al punto seguente).
 
3.2.2. Circa la realizzazione propriamente sintagmatica di questo primo nucleo tematico, essa è regolata come già detto dal progredire del texte-source, con le complicanze addizionali previste dalla struttura della glossa (vedi periodiche iterazioni di singoli versi già citati all'interno delle rispettive coblas, poi riproposti una seconda o addirittura una terza volta in corrispondenza del commento relativo). Queste ragioni strutturali, ed altre di natura piuttosto stilistica (il già citato uso e abuso di tecniche amplificatorie, del resto ben giustificate dalle estrinseche finalità didattico-esplicative) concorrono a creare quella che possiamo definire la monodia di questa sfera tematica, uniformità peraltro vivacizzata da un moderato ricorso a elementi di variatio destinati a garantire la godibilità anche letteraria della dotta dissertazione.
Il motivo del gran poder di Amore trova così dispiegamento nella parafrasi della III cobla, incentrata sulla corona d'aur (vv. 394-415), attributo la cui stratificazione polisemica meriterebbe un'indagine specifica, soprattutto tenendo conto della sua rarità di comparsa in area occitana (110). L'innegabile richiamo della civiltà feudale è suggerito anche dal primo immediato effetto delpoder, e cioè il timore (vv. 412-13, con esemplificazione spostata ai successivi vv. 437-446, chiosa del v. 20 della canzone), mentre più specifiche del registro lirico e cortese risultano le canoniche perifrasi sull'infallibilità del colpo d'amore (vv. 418-433) (111), già introdotte del resto a vv. 298 ss. (chiosa a canz. 11-12: cf. poi al § seguente).
Proprio in quel contesto (vv. 302-303) va rilevata la presenza di una specificazione inedita, non suggerita cioè in alcun modo dal testo di Calanson: si tratta della congiunzione di huelhs ed aurelhas quali organi deputati a produrre l'innamoramento, previo trasporto fino al cor delle immagini visive e delle impressioni auditive suscitate dall'altrui piacimento (per rimanere nella metafora di Amore-arciere, su cui torneremo in specifico in un successivo paragrafo, il dardo fatale può penetrare sia attraverso gli occhi che attraverso le orecchie, come esplicitamente dice Riquier). Con ciò, l'Exposition si allinea alle poche ma indubbie testimonianze coeve che dimostrano il perdurare, in ambito mediolatino e romanzo, di una tradizione nettamente minoritaria (112) rispetto a quella ben più consolidata che delega alla vista il monopolio di tale fondamentale funzione di innesco della passio amorosa (113).
Quanto alla identificazione amore = voluntat, essa procede in aderenza al medesimo dettato calansoniano, e cioè tramite analitica esposizione dei successivi attributi forniti dalla canzone: anzitutto «sottigliezza» e «velocità», ordinatamente spiegati dal glossatore quali logiche conseguenze dell'asserito postulato ontologico (Exp., vv. 272-288 e 289-295).
Per quanto attiene in particolare alla prima caratteristica, sia la canzone che la glossa manifestano la loro consonanza con quella che risulta la presa di posizione della scuola poetica italiana duecentesca (dove, come si sa, la quaestio definitoria di amore occupò un posto di rilievo) (114); un po' meno scontato il tratto della velocità, per il quale comunque non dovevano mancare, sia all'epoca di Calanson che a quella di Riquier, addentellati letterari e forse soprattutto iconografici (115).
Riguardo poi all'effimero plazer, destinato a presiedere alla nascita di Amore ed a costituire l'illusorio ma indispensabile nutrimento del cuore amante, per la sua trattazione Riquier aveva a disposizione un buon corredo di rimandi (116): essa si svolge sistematicamente ai vv. 395 ss. (commento alla III cobla calansoniana) e conosce brevi ma calcolati ritorni, localizzabili nelle adiacenze (vv. 447-8, risolventesi in asciutto rimando: «aiso desus dig es», e 464-476) e a dominata distanza (nel commento alla VI cobla, il paragone tra aurfres e speranza, vv. 806-9, è seguito da quello aurfres-plazer, vv. 810-15, che tramite lucida demistifica del primo elemento, solo apparentemente prezioso, getta un'ombra svalutativa anche sulla corona d'aur della III cobla).
Questi ed altri riagganci consequenziali fra zone anche assai distanziate dell'opera rappresentano la migliore verifica di quella che a noi risulta una ben meditata organizzazione strutturale: le sfasature e le incoerenze, di quantità minima, si localizzano comprensibilmente verso la fine del lungo lavoro (117), mentre, all'opposto, un confronto contestuale fra le varie ricorrenze di termini e moduli espressivi può giovare istruttivamente alla precisazione delle rispettive polarità semantiche. Citiamo soltanto un caso paradigmatico: l'antinomia razos-voluntatz, discussa nella sezione relativa alla I cobla (Exp., vv. 236-241), e che conosce un ribadimento di trasparente similarità nella parte di competenza della sesta ed ultima cobla (vv. 753-8, con pertinente rimando alla cobla premieira), si chiarirà meglio considerando anche le riprese variate di tale fondamentale opposizione, che si hanno per esempio a v. 173 (dove si osserva l'attuata commutazione di razos con dreitz) e a vv. 480-481 (come poi a v. 757, sostituzione di maneira a razos) (118).
Sul versante opposto (quello della voluntat) ha libero dispiegamento, con punte di stanca ripetitività, quella condanna inappellabile del fals semblans di Amore dove più si palesa il cedimento del chiosatore rispetto alla protestata imparzialità (del resto totalmente inaspettata, dati i presupposti storici e, anche, la risentita smania interventista dell'individuo Riquier). La tensione gradatamente accumulata riesce a decantarsi solo in parte nell'immagine pure emblematicamente bifida del fuecx (Exp., vv. 830-41), distruttore ma insieme procreatore: è questo simbolismo profondo che forse conviene anteporre al lirico utilizzo metaforico di tale elemento per indirizzarsi ad interpretare sia l'involuto passo della canzone a cui Riquier fa riferimento (vv. 47-48, su cui cf. anche Postille alla traduzione ed Appendice), che l'afflato vagamente cosmico e comunque denso di implicazioni da cui tali versi risultano investiti nel contesto dell'Exposition (119). Anche in questa occasione, insomma, le elucubrazioni poetiche non smentiscono l'ortodossia del chiosatore, in sintonia con quella che storicamente risulta la propaganda antilibertina e demografica degli altri intellettuali «integrati» del suo tempo (120).
 
3.3.1. In medio operis (vv. 488 ss.) trova adeguato risalto il commento alla parte centrale della canzone, che come già detto presuppone un discreto cambio di prospettiva e di realizzazione espressiva. Mantenendo la già introdotta metafora pittorica, potremmo dire che qui Calanson completa il tratteggiamento della sua immagine amorosa provvedendola dello sfondo paesaggistico e corale che le compete: un regnum amoris prevedibile poiché circoscritto in base a parametri geo-sociali tanto essenziali quanto allusivi per gli addottrinati lettori del suo tempo (palais oggetto di lenta e difficile conquista da parte del cortese amante, villani assiepati nel ghetto del barri, ecc.) (121). La metafora rischia però di essere fortemente limitativa rispetto a ciò che non risulta semplice perfezionamento addizionale del quadro (per di più periferico nei confronti della finora giganteggiante figura del menor ters), bensì apertura di una nuova dimensione poetica e, quindi, interpretativa.
È stato del resto già notato (122) che, di contro alla statica descrizione della prima parte, risultante dall'affastellamento puramente cumulativo dei vari tasselli di erudita origine, ad una assunzione propriamente dinamica dell'iter (sia pure sottoposto ad una sublimante, e per di più criptica, generalizzazione poetica) invitano gli enunciati centrali della canzone: la successione regolata di portals e gras nel palais (IV cobla) e il gioco multicombinatorio dei ponhs sul taulier (V cobla), con la significativa anticipazione del motivo del triplice lancio di frecce (II cobla) che movimenta quello che potrebbe risultare un rigido taglio dicotomico.
La combinatoria calansoniana dei dardi d'Amore, innovante per quantità (triplice) e qualità (acciaio, oltre ad oro e piombo) l'immagine vulgata del dio saettante (123), provvede, come già detto, all'apertura di quella prospettiva dinamica e 'immanente' in cui conviene leggere la parte centrale della canzone. Se la riformulazione dello scontatissimo motivo è dunque da ascrivere a merito esclusivo del primo Guiraut (per lo meno stando a quanto ci è noto), l'interpretabilità degli specifici suoi componenti a cui si accinge volonterosamente il secondo risulta ostacolata proprio dall'estrema scarsità dei parametri di raffronto. Nulli, come già detto, gli ascendenti in campo occitano, così poco propenso a questa e ad altre raffigurazioni estrinseche dell'amore (nemmeno il più volte citato Fadet joglar del medesimo Calanson fornisce a questo riguardo una conferma, di sia pure incerta collocazione cronologica) (124). Conviene se mai prestare attenzione alle risonanze posteriori, come la «novella» allegorica di Peire Guillem (che di non molto precede l'Exposition), nella quale Leutatz, scudiero di Amore, risulta munito proprio di tre frecce, forse di calansoniana memoria, alla cui interpretazione doveva provvedere il dio in persona nella parte didattico-esplicativa dell'opera, disgraziatamente a noi giunta incompleta (125).
Più difficile procedere all'individuazione degli ulteriori riflessi al di là dei confini d'oc, a parte, forse, la lirica italiana dello stesso Duecento, di cui sono noti i debiti verso l'illustre precedente transalpina. Un collegamento specifico è stato del resto autorevolmente ipotizzato, da parte di Gianfranco Contini, fra i tre dardi di Celeis cui am e le «tre saette» che compaiono in mano ad Amore nel sonetto di Guido Cavalcanti O tu che porti nelli occhi sovente (126), sulla cui precisa valenza semica si sono avvicendate proposte abbastanza dissimili (127); merita una pur rapidissima menzione, infine, il Trattato d'Amore barberiniano, testo e figure (128). In direzione opposta, lo scandaglio dei territori romanzi finitimi conduce alla Catalogna del sec. XV: nell'opera di Ausiàs March, così impregnata di echi trobadorici, è possibile rintracciare infatti tre flexes di diversi metalli che, sia pure con una variante sostanziale (argento al posto dell'acciaio), riproducono la combinatoria calansoniana, ma vengono dall'autore stesso chiosate assai originalmente (129); il rimando al nostro poeta è comunque agevolato dai numerosi ritorni in vari sonetti di quella divisione ternaria dell'amore che costituisce il nucleo tematico primario di Celeis cui am (130).
Ritorniamo all'unico intervento chiosatorio di sicura competenza, e cioè all'Exposition di Riquier: alla lunga e particolareggiata interpretazione proposta per ciascun dardo (vv. 298-380) va riconosciuta anzitutto una consequenzialità strutturale (in rapporto, cioè, alle successive coblas IV e V, sul palais e sul taulier, che svilupperanno l'aspetto dinamico-evolutivo introdotto appunto da tale elemento). Quanto alle specifiche definizioni proposte, abbastanza prevedibili le prime due relative all'acier ed all'aur: «colpo d'amore» iniziale e travolgente («car assier es / pus fortz metalh que sia», vv. 308-309), e illusorie speranze di godimento provocate dalle benevole «paraulas» dell'amata (vv. 330 ss.).
Il discreto spazio concesso al tratteggio di queste due fasi, solo apparentemente positive, è subito offuscato dall'impietosa squalifica dell'iter, previa identificazione della «terza» freccia nel «fatz que cor / massa entre las jens» (vv. 365-366), fine ultimo in tutti i sensi dell'amore (e cioè culmine fallacemente appagante e insieme sua inevitabile distruzione). L'ingegnoso bifrontismo della chiosa — che, facendo sfoggio di una almeno superficiale erudizione alchemica, definisce «vile» il piombo pur riconoscendone al contempo la necessità pratica (131) — si inserisce su quella linea compromissoria già rilevata all'interno dell'Exposition (manifesta, ad esempio, anche nella metafora del fuecx di cui s'è già fatto cenno). Che la lettura di Riquier risulti fortemente permeata dell'ideologia religiosa dominante nel suo milieu è constatazione, del resto, abbastanza ovvia e che storicamente non merita né lode né biasimo: le accuse di partigianeria clericale rivoltegli, proprio a questo preciso riguardo, da O. Dammann non bastano certo di per sé a squalificare la sua, pur opinabile, lettura del «terzo» dardo che come abbiamo visto ha provocato una vera diaspora esegetica (132).
 
3.3.2. Con l'introduzione del «palazzo di Amore», Calanson attuava un altro felice compromesso fra retaggio della tradizione (il palatium allegorico della letteratura latina, classica e medievale) (133) e libera ricreazione romanza (all'interno della quale, il nostro poeta è senz'altro tra i primi a trasferire verso significati chiaramente profani quanto era prima utilizzato a scopo eminentemente religioso (134).
Che questa risulti la zona su cui si concentra l'impegno sia propriamente decifratorio che edificante del chiosatore è quindi abbastanza ovvio: se la riproponibilità dell'iter è subito vanificata dalla cruda demistifica che di esso opera l'esperto moralista (i rovinosi inganni del fals semblans di Amore vengono ripetutamente additati proprio in questo settore), l'acutezza dell'esegeta ha qui modo di dare la miglior prova di sé, soprattutto nei proposti scioglimenti dei vari enigmi numerici che costellano l'arduo percorso del visitatore-amante nel suo progressivo accedere ai riposti penetrali del palais.
Si parte dalla circostanziata enumerazione dei portals (vv. 494 ss.) e dei gras (vv. 558-565), questi ultimi definiti più in sintesi e subito interdetti esplicitamente ai villani, «car de lor no·s cove» (v. 578): viene quindi introdotto il ghetto del barri, irriducibile eppure in adiacenza complementare al palais (la lunga digressione ad esso dedicata, vv. 589-608, può giovare fra l'altro all'esatta assunzione storica del termine, poiché Riquier opera qui da perfetto lessicografo). Di interesse analogo, per quanto non completamente limpida in ogni suo punto, la serrata discussione etimologizzante sul peiro (vv. 620-45, cf. anche Postilla alla traduzione) e ancora decisamente più infelice la susseguente circumlocutio sul taulier (vv. 651-656, con ripresa poco chiarificante ai successivi vv. 679-682), a sua volta inserita nell'ampia e analitica spiegazione dei ponhs (vv. 663 ss.), dove la pacatezza affabulatoria del tono complessivo non esclude punte di saccenteria didattica (dalla chiosa al «mille», vv. 683-686, all'approccio definitorio, per concatenanti perifrasi, circa la loro composizione materiale in veyre trasgitat).
In effetti, la erudita sottigliezza dell'interprete aveva assai meno agio di palesarsi nella prima sezione di Exposition, eco parafrasante (volta a volta diluita o intensificata) del dettato calansoniano (135), mentre è nella zona centrale della glossa, molto più sostenuta retoricamente (indicativa soprattutto la frequenza di figure etimologiche) (136), che trova compiaciuta esplicitazione l'acuirsi della tensione esegetica; la volontà, quindi, di penetrare dalle 'parole' alle 'cose' attraverso i singoli sondaggi interpretativi (137).
 
3.3.3. Il quoziente di verisimiglianza assegnabile alle specifiche equazioni allegoretiche poste da Riquier è un aspetto controverso di quella intertestualità conflittuale già segnalata più volte come elemento caratterizzante l'incontro Calanson-Riquier.
In effetti risulta abbastanza aleatorio formulare giudizi sulla correttezza dell'interprete dal momento che l'interpretato permane nella sua attraente vaghezza; né pare da escludere, in ultima analisi, che la stessa molteplicità di proposte avanzate in epoca moderna per i vari tasselli del mosaico (portals e gras in primo luogo) (138) rifletta, in modo sia pure incerto e contraddittorio, quanto nella primitiva intenzione del poeta Calanson non doveva costituire un messaggio di univoca decifrabilità, ma alludere piuttosto, con calcolata indeterminatezza, a un campo di densa e stratificata polisemia quale appunto l'erotica medievale nelle sue varie realizzazioni.
L'elemento che registra la più spiccata convergenza di annotazioni antiriquieriane è comunque rappresentato da quei gradini che, designati nell'Exp. (vv. 558-565) in termini di generica comportamentalità cortese (onrars, selars, servirs, sufrirs), tutti applicati sincronicamente al visitatore-amante, eludono in tal modo il simbolismo progressivo-ascensionale ad essi invece universalmente riconosciuto (139). Questa dimensione irrinunciabile per la stessa definibilità dell'iter viene recuperata nella interpretazione riquieriana dei portali (Exp., vv. 494-529), condotta in termini che hanno indotto a frequenti citazioni comparate del salut-domnejaire Dompna vos m'aves et amors (140), opera anonima e tuttora controversa (141) al cui interno (edizione Melli, vv. 98-118) è compresa una ordinata menzione di «catr'escalons [...] en amor». Le indubbie affinità riscontrabili fra «escalons» e «portals» (per cui v. in specifico le nostre note all'edizione) sono però turbate dalla mancata coincidenza numerica fra le due serie (quattro contro cinque elementi costitutivi), che ha indotto in area critica moderna a tentativi di compromesso non sempre felici (142).
In ogni caso, il prolungamento di itinerario ottenuto, nell'Exposition, tramite sdoppiamento del quarto «escalon» (drutz) nei «portali» del baizar e del fait (quest'ultimo enunciato quasi a forza, e con reiterata raccomandazione del suo estremo dilazionamento: «[...] si fos costumat / c'om remazes aqui, / l'amor non agra fi / ni morira tan lieu», vv. 520-23) si rivela un'innovazione perfettamente adeguata al clima complessivo dell'opera. Ancora una volta, insomma, se Riquier assai verisimilmente si rifà a tradizioni di provata ricettività in ambito cortese e poetico (143), non si tratta di mera assunzione di un motivo, ma del suo meditato inserimento all'interno di un'opera originale e autonoma.
Qui come altrove, del resto, il rigore dottrinario si stempera nel rievocare gli inganni ora condannati, ma un tempo appassionatamente vissuti in prima persona («tan co fuy en l'esperà / d'amor e·m tenc destreg», giungerà a dire Riquier verso il termine). Già allusivi in questa direzione i frequenti moniti relativi al «pericoloso» varco dei portals (vv. 504-505, 510-511, 517, 524, 541 ss.) a cui si giustappone, con variatio solo nella resa formale, questa volta affidata alla brevitas, il sibillino avvertimento circa il carattere infidamente lens e cioè scivoloso dei gras (vv. 563-5). Più esplicita nella sua puntuale didatticità la chiosa sulla fragilità dei ponhs (vv. 663 ss.), definiti in tono squisitamente «scolastico-cortese»: facili e numerosi i rimandi, soprattutto per il motivo della sempre insidiata resso, ad altri capitoli moralmente disquisitori del «libro» di Guiraut Riquier (144). Un moderato compiacimento nel ripetere qui ancora una volta quelle regole di socialità mondana già impartite nelle vere e proprie antecedenti «epistole» non inficia del resto quella che rimane la fondamentale matrice ispirativa dell'opera: l'additamento, tramite progressiva demistifica del suo fals semblans, o menor ters (e deciso ridimensionamento del segon), del primo e unico retto amore di ogni credente, quello «celestïal / del verai Dieu» (vv. 887-888).
La rarità di formule propriamente devozionali all'interno dell'Exposition (145) viene ora compensata dalla lunga preghiera finale a Dio (vv. 884 ss.), che permette, essa stessa, numerosi rimandi ad altri luoghi del «libro» (146) fino al duplice amen conclusivo del v. 921, immediatamente addossato ai moduli protocollari di conclusio. Fra questi (vv. 922 e 936 ss.) si inserisce ancora, in extremo limine, l'ultima farcitura calansoniana (seconda tornada), sganciata dalla necessità di uno specifico commento «car non es / del sen de la chanso» (vv. 934-5), come si premura in ogni caso di puntualizzare l'agguerritissimo interprete. ()
 
4. IL TESTIMONI
 
1. La triplice architettura testuale che qui abbiamo ripercorso nelle sue linee portanti trova il proprio studiato coronamento nell'operetta che la rubrica introduttiva di R (trascritta in immediato seguito al finale dell'Exposition) intitola appunto, con insolita specificità, Testimoni, e attribuisce, almeno a quanto è dato di comprendere, all'ivi nominato «senher N'Enric, per la gracia de Dieu coms de Rodes» (147). Torna pertanto in scena, e in posizione ancora più rilevante data la diretta qualità di autore ad essa qui riconosciuta, la figura chiave di tutto l'insolito dialogo letterario, cominciato nel gennaio 1280 su un testo di molti decenni anteriore (la certo apprezzata e forse discussa canzone allegorica). Così come l'entrelacement canzone-Exposition si avvale di numerosi ed espliciti tasselli delucidatori, forniti in sede proemiale da Riquier (cf. al precedente capitolo), il collegamento gerarchico Exposition-Testimoni viene scrupolosamente puntualizzato, ed occupa anzi buona parte dell'ultima opera. L'incipit subito annuncia, a conferma della già ricordata rubrica, il personale coinvolgimento del conte (v.1: «E nos [...]»), con dichiarata cognizione di causa (v.5: «que·l ver sabem»), nell'ideazione e nella probabile realizzazione di questo originale contrappunto gratificatorio della Exposition di Riquier.
Anche tenuto conto, quindi, dell'atipica veste documentale, il Testimoni rientra a buon diritto nella rosa dei molteplici jocs letterari fioriti a Rodez sotto il competente beneplacito di Enrico II (148): la sua originalità risiede nella forma che, abbandonato l'usatissimo schema del certamen proprio dei generi «disputativi» più praticati dal gruppo di Rodez, adotta, al fine di garantirsi il massimo livello di credibilità da parte dello scaltrito pubblico, tutti quei contrassegni scrittori, lessicali e retorico-stilistici che appunto formalizzano il documento medievale.
Il primo indizio è già rappresentato dal termine intitolativo di Testimoni, in effetti assai più comune nelle carte notarili che nelle opere letterarie (149), con il corrispettivo terminale delle due studiate ricorrenze di auctoritat (sempre in composizione sintagmatica con prestar) (150); ma tutta l'articolazione compositiva delTestimoni risente dei consolidati modelli dell'ars dictaminis, certo rispettati anche nelle cancellerie nobiliari dell'Occitania medievale.
Le parti costitutive dell'atto sono dunque agevolmente riconoscibili: intitulatio protocollare (vv. 1-5), sfociante (151) nella circostanziata narratio (vv. 6-19, con precisazioni aggiuntive rispetto alla qui citata Exposition, in particolare circa il numero dei partecipanti alla gara poetica) (152); l'accenno alla petitio riquieriana (vv. 20-23), già giustificata dall'ivi dichiarato lungo lasso di tempo interposto (v. 14: «M ans e may [...]»), è poi immediatamente seguito dalla solenne dispositio (vv. 24-26: «E nos entendem pro que·l cors / del entendemen a tocat, / e prestam li auctoritat»), ulteriormente avallata, come di consueto, dall'apposizione del sigillo personale di Enrico II (vv. 27-30). Vengono infine fornite data e luogo di composizione o meglio stesura del Testimoni (vv. 31-36: luglio 1285, castello di Montrozier); nell'explicit del manoscritto, un'estrema protesta di rigorosa autenticità («aiso fon trag veramen de la carta sagelada») (153).
 
2. Tutta questa tensione verso il rigore documentario (risolventesi, per di più, in iterata e aperta enunciazione di chi viene riconosciuto auctor integrale del Testimoni, e cioè Enrico II di Rodez) vanificherebbe un riesame della questione attributiva se per essa non sussistesse (com'è stato suggerito da più parti) una ben diversa proposta di soluzione, dato che l'interessato destinatario dell'opera è poeta di ancora maggiore professionalità del conte, e in più risulta già indiziato di simili allegre mistificazioni letterarie (154). Ciò giustifica quindi la preferenza accordata da più di uno studioso alla paternità riquieriana del Testimoni, possibilissimo esempio in scala ridotta di quella fictio poetica che il narbonese avrebbe presumibilmente già sperimentato altrove (la Declaratio posta in bocca ad Alfonso X di Castiglia); il discorso si allarga se consideriamo altre «coppie» la cui duplicità d'autore è parimenti dubbia, anzitutto l'epistola di N'At de Mons sull'astrologia con replica del medesimo regale destinatario (155).
L'esiguità del nostro componimento, va subito detto, riduce in modo drastico la possibilità di compiere sondaggi isomorfici accurati nell'una e nell'altra direzione: per di più, di contro al solido corpus riquieriano, non molto è quello che rimane della produzione poetica di Enrico II, anche se la convergenza spiccata delle fonti permette di affermare la sua viva propensione a tale attività, e non solo quale mecenatesco organizzatore e stimolatore di svariate gare letterarie (delle quali quella che presiedette alla composizione dell'Exposition costituisce solo l'esempio più citato).
I contributi personali certi del conte Enrico hanno oggi una sede editoriale unica (e più che esaurientemente commentata, soprattutto sotto il profilo storico): alludiamo naturalmente al volume curato da Saverio Guida, che comprende quattro torneiamens (tra i partecipanti, lo stesso Guiraut Riquier), due tenzoni con Guilhem de Mur (156), più il breve esercizio in ottosillabi autointitolantesi Jutjamen, a corona della tenzone fra Riquier e Mur Guiraut Riquier, segon vostr'essïen (157).
Sia la relativa eccezionalità del reperto (158) che le ulteriori menzioni circa un'analoga funzione di jutje assunta dal medesimo in altre occasioni (di cui però ci è giunta solo l'eco indiretta) (159) costituiscono prove abbastanza evidenti del prestigio di degustatore letterario raggiunto dal conte e della sua stessa abilità di verseggiatore che, nel Jutjamen, si esplica quale suggello probatorio e insieme dirimente la controversia poetica da altri proposta: un atteggiamento, com'è facile notare, assai vicino a quello che presiede alla formulazione del Testimoni e che quindi può rappresentare un indizio a favore dell'ivi contenuta dichiarazione attributiva.
 
3. Ogni valutazione del jutjamen di Enrico non può comunque prescindere dal confronto con gli altri attuali superstiti di un campionario, come già detto, assai impoverito nel tempo: a questo scopo ci si può avvalere utilmente della sistematica analisi di S. Neumeister, provvedente ad enucleare, in base ai testi in nostro possesso e a tutte le informazioni ulteriormente producibili, i parametri strutturali e formali caratteristici della serie (160). Dei tre «giudizi» che, insieme al già ricordato esperimento comitale, compongono il ridottissimo gruppo, il primo risulta di statuto ancora fluido e paternità incerta (trattandosi del salomonico parere di certo Romieu, riferito in chiusa della tenzone fra Guillem Augier Novella e un suo non meglio identificato omonimo sulla superiorità di sapienza o ricchezza) (161); a una tappa cronologicamente intermedia si scagliona quello di Peire d'Estanh, prodotto di un milieu culturale a noi ormai ben noto (lo stesso Enrico II di Rodez figura tra i compartecipanti del relativo partimen) (162), mentre ad epoca decisamente tarda e «tolosana» va riportata l'insolita coppia di giudizi che corona la tenzone Raimon Cornet-W.Gras, pronunciati da due (forse imparentati) personaggi a nome Fontanas (163).
Denominatore comune di tutti questi esperimenti ludico-giudiziari (ma non del Testimoni, come a noi preme sottolineare) è lo scarsissimo quoziente di autonomia testuale nei confronti dei rispettivi dibattiti poetici, di cui il jutjamen costituisce un'appendice coordinata sotto ogni aspetto: ciò risalta anzitutto al livello metrico, poiché è il partimen antecedente a dettare schemi e formule ai quali il «giudizio» si adegua studiatamente (164).
Da tali vincoli in rapporto al proprio testo-source risulta invece completamente libero il Testimoni, e la verifica più immediata riguarda anzitutto la misura del verso prescelto (non più di sei sillabe come l'Exposition, ma di otto, sempre in distici a rima baciata come richiesto dal settore narrativo e didattico). Lo stacco ben deciso dall'una all'altra opera, nel codice R, è del resto evidenziato dall'ampio spazio bianco lasciato dal copista al rubricatore, il quale da parte sua provvede alla trascrizione liminare con la stessa particolareggiata cura già riservata alla rubrica intitolativa dell'Exposition (con analoga vistosa miniatura della lettera iniziale). Della originale veste strutturale e formale del componimento, che alla giocosa giudiziarietà del jutjamen preferisce la secchezza ancora più autorizzativa della charta, abbiamo già detto (e rimandiamo in nota per ulteriori indicazioni in merito); in questa sede introduttiva può essere ancora rilevato sinteticamente il gusto per il vocabolario tecnico del diritto (che, del resto, non menoma la tensione letteraria del verso in lingua d'oc, sempre retoricamente ben costruito) (165).
 
4. Inconclusione, l'aut-aut attributivo fra i due legittimi candidati (Guiraut ed Enrico) permane tuttora irrisolvibile con gli elementi a nostra disposizione, i quali piuttosto invitano ad affrontare in modo più sfumato e compromissorio la questione medesima. Certo, in base a tutte le considerazioni fatte, e anche prestando fede alla lettera del documento, riesce difficile ammettere la completa estraneità del narbonese alla formulazione di questo ambito riconoscimento della sua carriera di poeta, che funge da originale suggello probatorio di tutto il «libro» (166). È invece più probabile, a nostro avviso, che il Testimoni nel suo definitivo assetto (quello a noi pervenuto, copia fedele dell'originale carta sagelada) rappresenti il prodotto di una cooperazione difficile da precisare e che ci permettiamo di ipotizzare solo in via orientativa, basandoci sui pochi elementi di giudizio a nostra conoscenza.
Tenuto conto anzitutto del rapporto di familiarità certo esistente fra mecenate e poeta (sorto e consolidato proprio in nome dei comune interessi letterari), nella suddivisione delle competenze «d'autore» si sarebbe tentati di attribuire a Riquier la parte propriamente ultima e determinante dell'operazione: la messa in versi, cioè, di un vero e proprio documento fatto stilare da Enrico II presso la propria cancelleria comitale, oppure eseguito direttamente di sua mano per discreta pressione dell'interessato destinatario. Ammettendo che si debba ancora a Guiraut Riquier il travestimento poetico del singolare privilegio, a maggior diritto esso trova trionfale incastonamento nella parte terminale del «libro» così gelosamente costruito dall'autore medesimo: la creatività del narbonese veniva qui a fondersi, in un equilibrio permesso solo dall'irripetibile statuto genetico del Testimoni, con la sua pure indispensabile ratifica esterna, personale (l'alta approvazione di Enrico) e collettiva (il coro di entendedors raggruppati attorno al conte, che costituisce il sottofondo «anonimo» ma strettamente complementare di questa ben storicizzabile apoteosi poetica) (167). ()
 
5. NOTE
 
(1) Tale è l'incasellamento comune ai repertori di P.-C, 248 (p. 233 n. VI), BRUNEL, Bibliographie (p. 117: Table méthodique, IV b = Lettres diverses, n. 4) e FRANK (II, pp. 80 e 203, VI) che si basano del resto sulla sistemazione operata dall'ed. PFAFF (dove la nostra Exp. occupa appunto le pp. 210-32 della sezione Briefe, seguita dal gruppo delle tenzoni): cf. anche ANGLADE, GR, Table de concordance, e MÖLK, p. 13, infine il recente « Grundriss », VI/2, n. 3328, p. 169 (« lettre », ma anche « exposition allégorique »: cf. VI/1, pp. 118-19). A tale accreditata prassi potrebbe reagire l'auspicata riedizione collettiva del settore « non lirico » di Guiraut Riquier (cf. i moniti in proposito di AVALLE, pp. 85-6, e BERTOLUCCI, Il « Libro », p. 248 con le proposte suddivisioni interne di questa porzione del corpus). ()
 
(2) Anche se in origine denominavano due distinte forme di intervento esegetico (la « glossa » era infatti la nota marginale o interlineare; « si elle se construit, c'est l'expositio »: CHARLES, p. 133) almeno dal sec. XIIIº l'equivalenza semantica (e quindi la libera interscambiabilità) dei due vocaboli è un fatto compiuto: i trattatisti nominano indifferentemente « expositio que glosa dicitur » il tipo di prosa commentaristica che rientra nei generi codificati dalla retorica (epistola, historia, testamentum, invectiva risultano gli altri ammessi, secondo il De arte dictandi rethorice di Pietro di Blois: cf. citazione del passo in J.-J. MURPHY, La retorica nel Medioevo, Napoli, 1982, p. 263) e che tende fortemente a specializzarsi in direzione allegoretica ( « Gloser, espondre, c'est donc aussi indiquer la signification d'une allégorie réelle ou supposée »: PARÉ, pp. 19-22 con vari rimandi, e cf. qui avanti i nostri richiami alle opere di Badel ed Hilder). ()
 
(3) « Autres dictatz pot hom far et ad aquels enpauzar nom segon la voluntat del dictayre e segon que·l dictatz de sa natura requier en tal maniera que·l noms sia be consonans et acordans a la cauza » (LEYS, ed. ANGLADE, II, p. 184). Sul versante opposto di tale conclamato polimorfismo, risiede la sperimentata difficoltà metodologica di assegnare, da parte di noi moderni, « limiti di genere » universalmente validi all'interno della produzione medievale romanza (v. gli avvertimenti in proposito di ZUMTHOR, p. 109: « ces ' genres ' son l'objet de coutumes non codifiées, échappant apparemment à la réflexion théorique »; MONSON, pp. 10-11, 834, ecc.); i contributi più validi, tra cui basti ricordare quelli di H.-R. Jauss, tendono a canalizzare opportunamente la ricerca verso «universali relativi, vale a dire storici» (R. D'ALFONSO, Fra retorica e teologia: il sistema dei generi letterari nel basso Medioevo, in « Lingua e Stile », a. XVII, n. 2, apr. giugno 1982, pp. 269-93, con esauriente messa a punto della bibliografia al riguardo). Nel caso specifico dell'Exp., inoltre, appare lecita la domanda esplicitata fra gli altri da CHARLES, p. 132: « C'est le point vif. Parler de genre implique que la lecture critique ait un statut rhétorique, en d'autres termes, que le commentaire de texte soit lui-même un texte » (circa i rapporti testo-metatesto e sull'arcitestualità in genere — per usare il termine inaugurato da G. Genette — v. il contributo recente di SCHAEFFER, oltre agli studi che citiamo nella successiva nota 6). ()
 
(4) RAYNOUARD, Choix, II (1817), pp. 248 ss., con richiamo (p. 252) alle frequenti improvvisazioni dei jongleurs in fatto di commentaires, «soit lorsqu'ils débitaient les pièces d'autres troubadours, soit lorsqu'ils chantaient ou déclamaient leurs propres ouvrages » e ricordando in termine (pp. 253-4 e nota) l'adozione da parte di trovatori quali Sordello e lo Zorzi di « cadres précédemment employés avec beaucoup de succès par d'autres troubadours » (cf. al riguardo le nostre successive note 7 e 12).
G. GALVANI, Osservazioni sulla poesia de' trovatori e sulle principali maniere e forme di essa, confrontate brevemente colle antiche italiane, Modena, 1829, pp. 179-87 (cap. XXVI: « Delle poesie coi commentari, o del Senza-Nome »). ()
 
(5) Il termine di « commentaire », d'altronde, prima che dal Raynouard era stato impiegato dal LA CURNE DE SAINTE-PALAYE, Histoire littéraire des troubadours, Paris, 1774, t. 3, pp. 372-3 (rist. Genève, 1967, 368; cf. E. VINCENTI, Bibliografia antica dei trovatori, Milano-Napoli, 1963, p. 88). Cf. poi i brevissimi cenni di BARTSCH, Grundriss, § 32, p. 49 (« eines Poetischen Commentars », di cui è rilevata al contempo l'originale formulazione) e F. DIEZ, Die Poesie der Troubadours, Leipzig, 1883 2 (rist. Hildesheim, 1966), p. 104 (dove si considera « merkwürdiger » la scelta dei versi invece della prosa e si situa, anche qui, l'Exposition in coppia col ben dissimile non sai que s'es di Raimbaut d'Aurenga, su cui converrà vedere l'aggiornata messa a punto di LIMENTANI, pp. 134-53).
Anche nella monografia di ANGLADE la definizione di « commento » è ricorrente per l'Exp. riquieriana (GR, pp. 101, 171 n. 2, 254; v. anche Hist. somm., p. 184 seg.). ()
 
(6) « On peut donc repérer une activité critique spécifique qui trouve son unité dans la relation particulièrement étroite qu'elle entretient avec le détail du texte »: essa trova il suo tratto di più decisa pertinenza nella « citation intégrale du texte étudié » (CHARLES, p. 130); cf. passim altre fini osservazioni sul fragile equilibrio istituitibile fra « citante » e « citato », ciascuno dei quali tende inevitabilmente alla prevaricazione (così nel Medioevo la sacralità « autorizzativa » conferita al testo produce la glossa, « trace la plus discrète, la plus tenue du commentaire », mentre in epoca moderna la lecture critique finisce per inglobare « irrispettosamente » il discorso citato). Non mancano poi i tipi intermedi, « a metà strada tra la generalità e il disegno unitario del ' commento ' e la singola, episodica ' annotatione ' » (D. PEROCCO DONADI, Retorica, sesso e confessionale nelle chiose inedite del Castelvetro al Decameron, in « Retorica e Politica », Padova, 1977, pp. 81-109, a p. 81 n. 2). I rischi inerenti comunque all'approccio metatestuale sono efficacemente riassunti dal già citato CHARLES (p. 135: « Interprétations, commentaires, gloses [...] se greffent les uns sur les autres selon les lois d'une monstrueuse botanique textuelle [...] Ce n'est plus l'épanouissement de l'arbre, mais l'embrouillure de ses ramifications», discorso che ben si attaglia al monumentale « commento del commento » di O. Dammann sulla Exposition di Riquier). Altre suggestive meditazioni offerte dall'« indefinito spumeggiare dei commenti » in P. FOUCAULT, L'ordine del discorso, Torino, 1975², pp. 118 ss., e dal recente C. GRIVEL, Strategies pour un lecteur, in « Romanistische Zeitschrift für Literaturgeschichte », IV, 1980, pp. 322-336 (dove la riconosciuta « provocation littéraire » texte-commentaire si riallaccia alle considerazioni sulla « circolarità » intertestuale riassunte ad es. da L. PERRONE-MOISÉS, L'intertextualité critique, in « Poétique », n. 27, 1976, pp. 372 ss.). Per l'opportuna storicizzazione del fenomeno cf. infine BADEL, p. 313 e ss. (nel Medioevo, la valutazione di un testo letterario appare commensurata « à la qualité et, plus encore, à la quantité des commentaires qu'il suscite ») e M. JEANNERET, Du mystère à la mystification: le sens caché à la Rénaissance et chez Rabelais, in « Versants », II, 1981-2, pp. 31-52.
Per informazioni e per bibliografia aggiornata sulla citazione e sul commento, v. anche G. REYES, Polifonía textual, Madrid, 1984; M. CHARLES, L'Arbre et la Source, Paris, 1985 (partic. Les paradoxes du commentaire, pp. 69 ss., e Les scolastiques, pp. 125 ss.); «Intertestualità. Materiali di lavoro del Centro di ricerche in scienza della letteratura», a cura di M. Bonafin, Genova, 1986 (Indicazioni bibliografiche ragionate a pp. 115 ss.). ()
 
(7) Lasciando da parte i prototipi più remoti e le realizzazioni laterali di tale dialettica testo narrativo-inserzione lirica (dalle tecniche farcitorie tardoclassiche e mediolatine, indagate da Zumthor, alla chanson glosée oitanica, ecc.), per quanto riguarda l'ambito provenzale le indicazioni di base sono reperibili in P.-C, pp. XXIX-XXXV; quanto alla meditazione critica al riguardo, tutta abbastanza recente, conviene partire da LIMENTANI, L'eccezione narrativa, cap. Generi in contatto, p. 57 e passim (dove la « struttura per citazioni » viene ben contestualizzata « in una zona riflessa, in un clima di saturazione letteraria » che coincide appunto, storicamente, con l'epoca di Riquier: seconda metà avanzata del sec. XIIIº). La fenomenologia di questo settore meriterebbe una rassegna specifica: autori rappresentativi risultano ad es. Raimon Vidal de Besalù (in primo luogo la farcitissima So fo el temps, con inserzioni da 19 trovatori secondo il computo di ANGLADE, Hist. somm., p. 156 n. 4), Cerverí de Girona (ed. RIQUER, nn. 115 — Maldit bendit — e 116 — la Fauladel Rosinyol) e altri che ricorrono alla citazione per fornire di un supporto colto e autorevole il loro discorso didattico o il récit narrativo (cf. LIMENTANI, pp. 53-60; MONSON, pp. 85-6 su RVidal, 139-40 su Cerverí). A uno spessore ideologico e un impianto formale ancora più sofisticati rispondono gli analoghi esperimenti attuati dall'autore di Flamenca (per cui si rimanda al già cit. volume del Limentani, pp. 157 ss.), mentre altri richiedono una specifica presa in esame: ricordiamo qui almeno il dimei chant di Bartolome Zorzi, Mout fai sobreira folia, con periodiche inserzioni di PVidal, Quant hom es en autrui poder (cf. RIQUER, Trovadores, III, 1524-5 per le prime indicazioni, oltre ad ANGLADE, Hist. somm., p. 103 e p. 185).
Un sottogruppo a sé (anche se spesso accostato ai testi suddetti, ad es. nei manuali di Anglade, in nome appunto della comune tecnica « farcitoria ») è poi costituito dai noti « trattati » grammaticali e retorici, del resto quasi tutti in prosa (con l'eccezione soprattutto del composito esperimento di Terramagnino, Doctrina d'Acort, e del più tardo Doctrinal di Raimon de Cornet, ora leggibile nella più recente ed., a cura di J. M. Casas Homs, unitamente al Glossari di Joan de Castellnou: J. de C. (segle XIV), Obres en prosa. I. Compendi, II. Glosari, Introducció, edició critica i índexs, Barcelona, 1969). La fittezza dei brani trobadorici inseriti risulta comunque assai variabile: frequenza zero, ad esempio, nella Doctrina de compondre dictats, bassa nelle Leys d'Amors, crescente nelle Razos de trobar di RVidal e nelle Regles de trobar di JFoixà, ancora maggiore nella Doctrina di Terramagnino e nel Mirall de trobar del catalano Berenguer de Noya (per cui sono state contate 32 citazioni da altrettanti componimenti lirici, più tre di presumibile attribuzione allo stesso Berenguer: cf. l'edizione PALUMBO, Palermo, 1955, pp. XXIII ss.). ()
 
(8) E' fuor di dubbio che il Medioevo fu particolarmente propizio al fenomeno: la « sfera di indifferenza » creata attorno all'emittente (spesso anonimo, del resto) « permette di plagiarlo, di proseguirne l'opera, di inserire brani in altra opera [...] ciò che veramente conta è solo un grande processo collettivo di comunicazione testuale» (CORTI, Principi, p. 55; e cf. della stessa Autrice Il viaggio testuale. Le ideologie e le strutture semiotiche, Torino, 1978, p. 12). Da cf. la recente messa a punto, sia teorica che storico-letteraria, offerta dal fasc. nº 41 di «Littérature» (febbr. 1981): Intertextualités médiévales, tra cui rilevanti per il nostro ambito d'indagine i contributi di P. ZUMTHOR, Intertextualité et mouvance, pp. 8-16 e N. FREEMAN REGALADO, «Des contraires choses». La fonction poétique de la citation et des exempladans le «Roman de la Rose» de Jean de Meun, pp. 62-81 (con interessanti notazioni, ib. pp. 63 ss., circa la «poétique des contrastes» già indagata da P. Zumthor, che caratterizza appunto la letteratura galloromanza del sec. XIII); di quest'ultimo è da vedere anche Le carrefour des rhétoriqueurs: Intertextualité et Rhétorique, in « Poétique », n. 27, 1976, pp. 317-337 (fasc. interamente dedicato alle Intertextualités) soprattutto per lo schizzo tipologico della citazione nei testi medievali romanzi (citation-thème, conclusion, amplificatrice, ecc.). La distinzione preliminare tra « diretta » e « indiretta » rimanda alle ‘ frontiere dell’intertesto ’ (L. JENNY, La strategie de la forme, ib., pp. 257 ss.) su cui si sofferma pure con fini osservazioni M. CHARLES, La lecture critique, soprattutto per i delicati rapporti citation-commentaire (« Le discours citant peut prendre le pas sur le discours cité, ou l'inverse [...] on oscille entre deux formes extrêmes: la réécriture et la transcription, la transformation e la répétition. La lecture critique se déploie dans cet espace finalement restreint »: p. 131). ()
 
(9) Per questo fondamentale aspetto della cultura medievale converrà partire dal capitolo introduttivo di JAUSS, Entstehung [...], in « Grundriss », VI/1, (Die Ablösung der volkssprachlichen Allegorie von der Bibelexegese, a pp. 152 ss.), con ampie indicazioni circa il « réveil scripturaire » dei secc. XII-XIII (e rimandi alle opere specialistiche più accreditate, da Chenu a Grabman, de Lubac, Spick ecc.); buone informazioni anche in J. DE GHELLINCK, L'essor de la littérature latine au XIIe siècle, Paris, 1946, t. I, pp. 93 ss. (attività delle scuole di Parigi), e II, pp. 49 ss. (sui libri: grammatiche, lessici, ecc. strumenti dell'insegnamento nelle scuole), nonché PARÉ, pp. 19-21 (che nota l'estensione a tutti i rami dell'insegnamento del metodo scritturale esegetico). Per un più aggiornato panorama della vita universitaria, e in particolare sugli sviluppi dell'esegesi medievale (dalla « servile » glosa o expositio all'autonomo commentum) v. inoltre B. SMALLEY, Lo studio della Bibbia nel Medioevo, con intr. di C. Leonardi, Bologna, 1972, partic. pp. 367 ss.; BRUNI, Modelli, pp. 2 ss. con note bibliografiche.
Sull'esegesi medievale di ascendenza biblica v. inoltre «Le Moyen Âge et la Bible», sous la direction de P. RICHÉ - G. LOBRICHON, Paris, 1984 (particolarmente J. VERGER, L'exégèse de l'Université, a pp. 199-232; bibliografia complessiva a pp. 622-630) e A.J. MINNIS, Medieval Theory of Authorship. Scholastic literary attitudes in the later Middle Ages, Aldershot, 1988².()
 
(10) Tra i pochi esempi di infedeltà linguistica spicca naturalmente il notissimo Convivio dantesco: « Dante acomete la gloriosa defensa del « volgare » [...] para sostener la empresa de comentar en esta lengua: no puede ocultar su orgullo de saberse el primero » (L. JENARO MC LENNAN, Autocomentario en Dante y comentarismo latino, in « Vox Romanica », XIX, 1960, f. 1, pp. 82-123, a p. 89; cf. ib. p. 94 e passim la documentata asserzione secondo cui « toda la tradición comentarística, sea bíblica o profana, es heredera de la tradición gramatical y retórica latina », con particolare attenzione alla sistemazione scolastica del sec. XIII). La novità del Convivio, al di là dell'ovvia importanza storica, è anche strutturale-compositiva, come rileva BRUNI, Semantica, p. 5: « all'intersezione tra i procedimenti propri della lirica amorosa, estesi a un diverso dominio (di tipo filosofico e morale [...]), e la tecnica del commento a un testo lirico, anch'essa frutto dell'estensione di metodi usati originariamente nella scuola universitaria ». Sotto questo profilo meriteranno quindi attenzione soluzioni compromissorie come quella escogitata dall'esuberante Barberino per il Tractatus Amoris et operum eius, dove il commento alla figura del dio viene fornito a più riprese in versi volgari e prosa latina (su esso v. più avanti al paragrafo 1.3). In ambito galloromanzo, risulta assai tarda la prima opera cui viene ufficialmente riconosciuto statuto di « commento » (ad un testo a.fr.): si tratta dei cosiddetti Echecs amoureux (cf. la più chiarificante definizione proposta da F. GUICHARD-TESSON, Evrart de Conty, auteur de la ' Glose des échecs amoureux ', in «Le Moyen Français», 8/9, giugno 1983, pp. 111-148), databile fra XIV e XV sec. (stando alle precisazioni apportate da Guichard-Tesson, tra 1380 e 1414: cf. BADEL, pp. 290-1 e nn., e Ch. KRAFT, Die Liebesgarten-Allegorie der «Echecs Amoureux», Kritische Ausgabe und Kommentar, Frankfurt-Bern-Las Vegas, 1977, p. 64). Essa rispetta, comunque, la tradizionale dicotomia poema in versi/commento in prosa (la Glossa, appunto): interessante l'analisi delle strutture compositive e stilistiche avviata da GUICHARD-TESSON ib., Introd., pp. 121 ss. (e cf. M.-R. JUNG, « Poetria », in « Vox Romanica », 30/1, 1971, pp. 44-64, a pp. 60-2). ()
 
(11) Per la verifica in campo d'oc, basti citare le notissime razos, definite, sia pure con ingannevole semplicità, altrettante « spiegazioni » o « commenti » alle poesie trobadoriche (BOUTIÈRE-SCHUTZ, p. vii e RIQUER, Trovadores, I, p. 30: «aunque todos sus datos fueran mentira, constituirían el mejor comentario ambiental de la poesía de los trovadores»); cf. anche M. L. MENEGHETTI, «Enamoratz» e « Fenhedors ». Struttura ideologica e modelli narrativi nelle biografìe trobadoriche, in « Medioevo Romanzo », VI, 1979, 2-3, pp. 271-301 (con rimandi ai contributi di Jauss, Zumthor, ecc.). L'indagine sul complesso delle Vidas e Razos induce poi a interrogarsi più ampiamente sulle origini stesse (ritardate e in tono minore, rispetto alla copiosa produzione in versi) della prosa provenzale: fatto assiomatico eppure ben degno di spiegazione (Storie di dame e trovatori di Provenza, a cura di M. LIBORIO, Milano, 1982, p. 8 e ss.).
A un dominio prettamente specialistico appartengono invece le prose didattiche dei trattati retorico-grammaticali (per cui v. l'edizione MARSHALL, con utile glossario dei termini tecnici o comunque degni d'interesse); in questo gruppo va fatto rientrare anche il più tardo già citato Glossari di JCastellnou al Doctrinal di RCornet (opera essa stessa di realizzazione composita, in versi ma con calcolate inserzioni di paradigmi grammaticali). Nell'ed. NOULET-CHABANEAU, Deux mss., Appendice, non viene rispettata, come esplicitamente avvertito, l'originaria disposizione alternante di testo chiosato e chiosante, quindi versi/ prosa (cf. sul complesso JEANROY, HLF, pp. 99-110 e le altre indicazioni date al cap. seg.). ()
 
(12) I tentativi di approccio sono comunque indicativi della difficoltà di stabilire points de repère universalmente riconoscibili: ad es., il « caso » Exposition è stato avvicinato a « certains essais de satire ou de critique littéraires » in cui si sono esercitati alcuni trovatori (Peire d'Alvernha e il monaco di Montaudon: cf. ANGLADE, Hist. somm., pp. 184-5), ma al di là del comune uso del verso « non lirico » e quindi dell'intento latamente narrativo, spicca l'irriducibilità tematica dell'Exp. alla « galería caricaturesca de trovadores » prospettata dagli altri testi (RIQUER, Trovadores, I 332 e II 1039); ancora più evidenti le dissonanze a livello formale e strutturale, in quanto sia nell'opera di Peire che in quella del Montaudon mancano totalmente citazioni dirette dei trovatori ivi satireggiati. Questa importante isoglossa è invece compresente nel già citato dimei chant dello Zorzi con inserzioni di Peire Vidal (cf. qui indietro la nota n. 7), anche se la funzionalità dell'espediente procede da una ben specifica situazione extratestuale che forse meriterebbe una più attenta indagine (in rapporto, naturalmente, alla resa formale che appare assai equilibrata). Su questa linea di sostanziale incertezza si inserisce anche (con coscienza metodologica) MONSON, p. 127 (n. 42: l'Exp. di Riquier può qualificarsi latamente « oeuvre didactique », e definirsi « in negativo » per la netta irriducibilità all'ensenhamen). ()
 
(13) Per quanto a nostro parere il valore pertinente della citazione in Matfre risulti assai diverso, se non opposto (incastonamento dell'auctoritas a sostegno del proprio discorso dialettico, e quindi forte combaciamento ideologico e tematico fra citante e citato, mentre in Riquier il commento all'inserito dettato calansoniano si fa fortemente critico nei suoi stessi confronti), la stesura disputativa del poderoso Tractat risponde nondimeno agli stessi procedimenti didattici in uso nelle università del tempo (la disputatio, appunto, più che l'expositio: cf. le pertinenti osservazioni della Richter in Introd., pp. 50-1). In conclusione, « on a l'impression que le Perilhos tractat et les citations de troubadours qu'il entraîne est une leçon de « littérature », une leçon due peut-être à un cercle bien déterminé d'amateurs » (G. INEICHEN, Pour une édition critique du « Perilhos tractat d'amor », in « Actes du Ve Congrès International de Langue et Littérature d'oc et d'études franco-provençales » (Nice, 6-12 sept. 1967), publiés par G. MOIGNET et R. LASSALLE, Nice, 1974, pp. 40-6, a 44-5). Su questa summa della cultura scolastico-cortese di Provenza torneremo in più punti qui avanti: cf. intanto le indicazioni fondamentali raccolte in « Grundriss », VI/1, pp. 115-116 e VI/2, n. 3674. ()
 
(14) Sotto questo aspetto risulta istruttivamente vicino all'Exp. di Riquier il trattatello anonimo contenuto nel cod. H (Vaticano 3207, cc. 47vº-49vº: ed. a cura C. DE LOLLIS in « Revue des Langues Romanes », vol. XXXIII, 1889, pp. 187-92 e BARTSCH-KOSCHWITZ, cc. 325-8; diplomatica completa del codice a cura L. GAUCHAT-H. KEHRLI, Il Canzoniere provenzale H, in « Studi di Filologia Romanza », vol. V, 1891, pp. 341 ss., il nostro testo a pp. 508-14). Già citato da Gröber e poi da BRUNEL (Bibliographie, p. 93, nº 321) e P.-C. (p. XV) come un « petit traité de poétique d'après des exemples des troubadours », risulta scritto in Italia sullo scorcio del sec. XIII (e certo risente dell'influsso dell'ars dictandi: « Grundriss », VI/1, p. 118 n. 6 per i simultanei rimandi alla scuola dei dettatori e al Breviari d'Amor; VI/2, nº 3432). ()
 
(15) Le scarse cure finora dedicate dagli studiosi al periodo crepuscolare dell'attività trobadorica (seconda metà del sec. XIII, nonché inizi del XIV) e a quella che risulta storicamente la sede del maggior movimento culturale e letterario di quegli anni (la corte di Rodez nel Rouergue, in particolare sotto il patronato del conte Enrico II) sono ora compensate dall'accurata e documentatissima opera di S. GUIDA, Jocs, di cui segnaliamo qui la Introduzione (pp. 29 ss.) oltre che il ricco corredo bibliografico. Prima di essa, i soli lavori importanti al riguardo erano quelli di Anglade (soprattutto GR passim, e cf. Notes sur les derniers troubadours à la cour de Rodez, in « Annales du Midi », XXIII, 1911, pp. 338-40); altre indicazioni aggiunte assai più recentemente da PIROT, pp. 304 ss. (partic. 317-22), NEUMEISTER, 158-167 e passim. Cf. anche qui avanti il cap. relativo al Testimoni. ()
 
(16) La definizione di « concorso letterario », per quanto leggermente modernizzante (meglio forse il termine joc, che intitola il libro di Guida, o di certamen pure ricorrente ibidem, p. 65) è tradizionalmente ripetuta dalla critica che fa riferimento alla gara promossa attorno al testo calansoniano (da ANGLADE, Hist. somm., p. 109 n. 2: «un des premiers concours littéraires des temps modernes», e JEANROY, Poésie lyrique, I, p. 288, a SANSONE, Allegoria, p. 252 che ancora una volta constata il «gusto tutto provenzale per questo genere di operazioni culturali e di svaghi intellettuali»; C. SEGRE, Le forme e le tradizioni didattiche, in « Grundriss », VI/1, pp. 118-19 più prudentemente stampa fra cunei il termine ' concorsi '). Stante la verificata e multiforme opera di diffusione, appropriamento e rifacimento (nonché «commento») cui veniva sottoposto ogni prodotto della civiltà trobadorica degno di questo nome (e soprattutto in aree periferiche e in epoca tarda, quindi tendenzialmente «ripetitiva» e compilatoria), ci si potrebbe anche chiedere, con M. Liborio, se l'iniziativa di Enrico avesse uno scopo paragonabile a quello di « premiare la più bella razo » (Storie, cit., p. 17, n. 21). ()
 
(17) Cf. la recente sistemazione della sterminata bibliografia al riguardo curata da A. PEZZOLI, Per una definizione dell'allegoria. Rassegna di testi e studi, in « Lingua e stile », XVI, 1981, n. 4, pp. 585-611 (con rimandi, tra l'altro, alla poderosa opera di J. PÉPIN, Mythe et allégorie. Les origines grecques et les contestations judéo-chrétiennes, Paris, 1976², di cui conviene segnalare almeno il ricchissimo repertorio terminologico); fondamentali sono inoltre i noti contributi di Jauss (il cui capitolo nel « Grundriss », VI/1, pp. 146 ss., Entstehung und Strukturwandel der allegorischen Dichtung, ritorna nel volume che raccoglie vari scritti del medesimo autore, Alterität und Modernität der mittelalterlichen Literatur, Gesammelte Aufsätze 1956-76, München, 1977, a pp. 153 ss.: Zur allegorischen Dichtung, arricchito di un interessante paragrafo relativo ad Allegorese, Remythisierung und neuer Mythus, pp. 285 ss.), ricchi del resto di ottimi additamenti bibliografici relativi all'ambito medievale e romanzo. Sulla nozione di integumentum (o involucrum, più tipica quest'ultima dei testi sacri) cf. gli studi citati da BADEL, p. 16 n. 45 (tra cui HILDER, pp. 106-110) e inoltre M.-T. D'ALVERNY, Le cosmos symbolique du XIIe siècle, in « Archives d'histoire doctrinale et littéraire du Moyen âge », XX, 1953, pp. 38-81. La stretta intercomplementarità allegoria-allegoresi (e quindi « spiegazione », « commento ») viene ribadita, oltre che dai già citati Jung (cap. iniziale) e Badel (idem), nei contributi raccolti in « Poétique » n. 23, 1975 (« Rhétorique et herméneutique »: v. in partic. A. STRUBEL, « Allegoria in factis » et « Allegoria in verbis », pp. 342-357, con la replica di F. ZAMBON, Allegoria in verbis: per una distinzione tra simbolo e allegoria nell'ermeneutica medievale, in « Simbolo, metafora, allegoria », Padova, 1980, pp. 73-106). Cf. anche nota seg. ()
 
(18) La relativa eccezionalità del fenomeno merita certo considerazione, come invitano i più accorti estimatori, da JUNG (Les poèmes allégoriques occitans, pp. 122-69) a LIMENTANI (Lirica e non-lirica nella Provenza medievale, Storia della questione e panoramica introduttiva, pp. 3 ss., partic. 21 ss. e note). L'esiguo gruppetto di opere riconducibile sotto l'etichetta « allegoria d'amore » è stato comunque adeguatamente posto all'attenzione dai recenti studi di JUNG, MONSON (pp. 94-101 in partic), JONES (cf. l'ed. della Cort d'Amor, pp. 21-69, con allargati riferimenti al campo mediolatino e romanzo), infine TAYLOR, che giunge a sospettare « the unfortunate disappearance of many texts wich could have helped us to place the remaining fragments into their context for a better understanding and appreciation of their qualities » (p. 316). Per i rapporti eros-allegoria, oltre ai più volte ricordati lavori di Jauss (in partic. il paragrafo del « Grundriss » VI/1, Die Minneallegorie als esoterische Form einer neuen ars amandi, pp. 224-44), si può ricorrere a C. S. LEWIS, L'allegoria d'amore. Saggio sulla tradizione medievale, Torino, 1969, e al primo cap. del volume del Batany (Le ' Roman de la Rose ' dans la littérature érotique, pp. 13-27); per arricchimenti bibliografici, v. D. KELLY, Medieval Imagination. Rhetoric and the Poetry of Courtly Love, Madison, 1978 (pp. 13-25 e 299 ss.). 
Circa la produzione allegorizzante in territorio galloromanzo medievale v. anche A. STRUBEL, La littérature allégorique, in «Précis de littérature française du Moyen Âge» sous la direction de D. POIRION, Paris, 1983, app. 236-271, con additamenti relativi soprattutto all'oïl (bibliografia a pp. 376-378); inoltre J. WHITMAN, Allegory, the dynamics of art ancient and medieval technique, Oxford, 1987 (definizione ravvicinata di 'allegoria' e 'personificazione' a pp. 263 ss.). In specifico per le composizioni in lingua d'oc, cf. l'ultimo contributo di L.E. JONES, Lo Saber dans les quatre allégories occitanes du XIIIe siècle, in «Studia Occitanica in memoriam Paul Rémy», vol. II, Kalamazoo (Michigan), 1986, pp. 81-92. ()
 
(19) Anche per questo aspetto si può partire da P.-C., 243, pp. 215 ss. (e, per il periodo pre-scientifico, E. VINCENTI, Bibliografìa antica cit., pp. 85-6: per Celeis cui am risulta corrente la falsa attribuzione a GFaidit), integrando con quanto reperibile in PIROT, pp. 221 ss. (e bibliografia a pp. 629-30). Gli appigli biografici certi risultano tutt'oggi ben scarsi: ignoto il luogo d'origine del nostro poeta (« très problématique » come nota Pirot, p. 250, la guasconità asserita tra gli altri da Jeanroy, e comunque difficoltoso procedere all'identificazione toponimica di Calanson; cf. W. M. WIACEK, Lexique des noms géographiques et ethniques dans les poésies des troubadours des XIIe et XIIIe siècles, Paris, 1968, p. 91 s.v., con rimando alla sola Exposition, vv. 42 e 113) così come l'arco cronologico entro cui collocarne la vita (solo due degli undici componimenti pervenutici possono datarsi approssimativamente: la nostra canzone, ante 1202: cf. nota seguente, e il planh in morte dell'infante Don Fernando di Castiglia, post 1212: ERNST, p. 284, RIQUER, Trovadores, II, p. 1085). Quanto alla « breve y hostil Vida » (RIQUER, Trov., II, p. 1079), apparentemente contraddittoria in ciò che attiene al giudizio poetico sul nostro, oltre che poco lusinghiera circa la sua fama in vita presso le corti di Provenza (« Ben saup letras, e suptils fo de trobar; e fez cansos maestradas desplazens e descortz d'aquella saison. Mal abellivols fo en Proenssa e sos ditz, e petit ac d'onor entra·l[s] cortes »: cit. da BOUTIÈRE-SCHUTZ, nº XXV, p. 217, cf. JEANROY, Jongl. et troub., p. 26) è probabile che si tratti di un calcolato espediente per « camoufler la pauvreté des renseignements à la disposition du biographe » (PIROT, p. 251). La correzione proposta dall'Ernst, desplazers per desplazens (p. 304, cf. p. 269 s.), non risulta molto persuasiva a causa soprattutto della posizione isolata che tale sostantivo occuperebbe nel lessico delle Vidas e Razos in questa insolita specializzazione « generica » (cf. M. S. CORRADINI BOZZI, Concordanze delle biografie trovadoriche (A-L), Pisa, 1982, s.v. desplazer, -s). Cf. anche nota seg. ()
 
(20) Cf. la tavola cronologica approntata nell'Introduz. da Ernst relativamente al corpus calansoniano (p. 284), con discussione ragionata circa la nostra canzone a pp. 281-2 e note (nella n. 1 si corregge l'imprecisione del Dammann: è effettivamente il 1202, e non il 1204, l'anno di morte di Guglielmo VIII), STROŃSKI in FMarseille, p. 14 e più recentemente PIROT, pp. 231-2, 242, JAUSS, p. 230.
Sulla cronologia calansoniana è da vedere soprattutto il capitolo di PIROT (pp. 229-247), che contro l'ottimistica ricostruzione dell'Ernst si avvicina piuttosto al cauto scetticismo di K. LEWENT (Zu den Liedern cit., pp. 410-413). Per quanto attiene poi agli enigmatici asserti della Vida, il contributo di J. JANSSENS, Sur l'origine des qualifications dépréciatives dans les 'Vidas', in «Cultura Neolatina» XLIV (1984), pp. 49-83 (p. 69 su quella di Calanson) ricalca, oltre al cit. Pirot, quel più generale clima di sfiducia globale circa i dati da esse forniti al cui pericoloso apriorismo reagiscono ultimamente alcune indagini specifiche (si veda per tutte S. GUIDA, La 'biografia' di Guilhem de Balaun, in «Medioevo Romanzo» XI (1986), n. 3, pp. 345-367). L’impasse costituito dall'aggettivo desplazens è del resto superato in maniera palesemente insoddisfacente dall'Ernst (desplazers in quanto «genere» poetico): al di là dei dubbi avanzati dal PIROT circa la sua rarità d'impiego (p. 251: «fort peu pratiqué») e, più in specifico, dell'assenza di tale termine (così come del suo equivalente enueg, o del corrispettivo positivo plazer) dal lessico complessivo di Vidas e Razos (cf. la seconda parte di M.S. CORRADINI BOZZI, Concordanze citt., Pisa, 1987, s.v. plazer), a Calanson non risulta attribuito nessun testo assimilabile al genere suddetto (in ragione di ciò, probabilmente, la congettura dell'Ernst non trova seguito nelle edizioni delle Vidas, da Boutière-Schutz a Favati).
Mentre ancora meno giustificata appare la posizione compromissoria assunta da M. Egan (The Vidas of the Troubadours, translated by M.E., New York-London, 1984, pp. 41 inn. 2 e 113, s.v. desplazens), che pur mantenendo il testo tramandato da I (142 vº) e K (128 rº) propone di identificare l'aggettivo (?) in «a kind of verse composition», «poem expressing 'dislike' or 'displeasure'», converrà forse domandarsi se lo scomodo vocabolo non rappresenti il residuo deformato di un'informazione originariamente esatta (ma ciò apre il campo a ipotesi difficilmente verificabili, posta la univoca resa della tradizione).
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(21) ERNST, pp. 273-4 e note 2, 3; da cf. le opposte dichiarazioni scettiche di Dammann (p. 9, n. 1) circa l'attendibilità di tale segnale topografico. Fra i repertori moderni, in linea sostanziale con Ernst si situano sia CHAMBERS, p. 219 s.v. Pueg (dove pur convergendo nella detta attribuzione si osserva che « not all the references are entirely clear, and there are other places of this name ») che W. M. WIACEK, Lexique, cit., p. 155, s.v. Pueg n. 1 (con segnalazione dell'Exp. di Guiraut Riquier, v. 191, oltre che di numerosi altri testi di Gavaudan, PCardenal, ecc.).
Per ulteriori elementi di inquadramento culturale, rimandiamo a PIROT, pp. 244-7 e 304 ss., e alla introduzione di Varvaro alle opere di RBerbezilh, pp. 49-50 e note, dove si aggiunge, alla ivi accreditata testimonianza calansoniana, « un'altra interessantissima », sempre relativa ai certamina poetici promossi dalla corte del Puy-en-Velay, offerta dalla canzone di Bernart de Ventadorn, Ges de chantar no·m pren talans (ed. APPEL, Halle, 1915, nº XXI: l'ultimo verso istituisce un non precisato collegamento tra il vers di Bernart e « cil c'al Poi lo volran saber »). ()
 
(22) En Guillem de Saint Deslier, vostra semblanza (P.-C., 234, 12; ed. SAKARI, n. IX, pp. 128-35, riprodotta anche da RIQUER, Trovadores, I, pp. 561-3; cf. per altra bibliografia di base JUNG, p. 128 n. 14). La questione onomastica sollevata dalla duplicità di trasmissione del nom de famille di Guillem (Didier, più autorizzata, contro la dissimilata Leidier, Leisdier ricorrente a maggioranza nei mss. della Vida e ancora assunta in P.-C: «Guillem de Saint Leidier») appare risolta ad opera dello stesso Sakari (v. Intr., pp. XI ss. e Appendice, e BOUTIÈRE-SCHUTZ, p. 273 n. 1). La cronologia dell'opera è sicuramente anteriore al termine (presumibile) di vita del suo autore, collocato «entre 1195 environ et 1200» (SAKARI, p. 17; cf. JEANROY, Poésie, I, p. 382). Fra i contributi più recenti all'esegesi di questo interessante testo, v. BADEL, pp. 331 ss. (utili parametri di raffronto sul « songe allégorique ») e BATANY, pp. 24-5 (« l'idée de réunir le thème du songe, celui du verger et celui de la symbolique amoureuse était ' dans l'air ' quelques années avant Guillaume de Lorris »). Cf. anche nota 24. ()
 
(23) Compagnon en pessamen (cod. L = Vat. Lat. 3206, cc. 1r-2v: cf. P.-C, p. XVII, BRUNEL, Bibl., nº 320); ed. a cura di A. THOMAS, Chastel d'Amors, fragment d'un ancien poème provençal, in «Annales du Midi», I, 1889, pp. 183-96 e parziale in BARTSCH-KOSCHWITZ, cc. 271-2, con sistematica correzione dei sospetti italianismi (il testo Thomas si può leggere anche in NELLI-LAVAUD, pp. 242-56, accompagnato da traduzione fr.mod. e convenientemente annotato).
Ai riferimenti bibliografici essenziali dati da JUNG, p. 146, n. 67, si potrà aggiungere A. PULEGA, Ludi e spettacoli nel Medioevo. I tornei di dame, Milano, 1970, pp. LXXVI ss. (che fa rimando alla successiva ed. del CHASTEL ad opera di V. DE BARTHOLOMAEIS, Poesie provenzali storiche relative all'Italia, Roma, 1931, vol. II, p. 303 e ss.). Cf. infine la scheda riepilogativa del « Grundriss », VI/2, nº 4628 (le perplessità ivi registrate circa il punto di ripartizione delle competenze autore-scriba nella resa italianeggiante del testo invoglierebbero ad un'indagine più accurata in merito; per il resto, esplicito accordo con Thomas circa la proposta datazione « plutôt vers le milieu que vers la fin du s. XIII », e il probabile ruolo di fonte esercitato dalla canzone di Calanson nei cfr. del Chastel, riconosciuto anche da JUNG, p. 146, e soprattutto JONES, Cort, p. 64). Cf. anche nota 24. ()
 
(24) Lai on cobra sos dregz estatz (= cod. R, cc. 147vº-148rº: P.-C, nº 345, BRUNEL, Bibliographie, n. 194). Edd.: RAYNOUARD, Lexique, I, pp. 405-17 (non visionata direttamente) e MAHN, Werke, I (1846), pp. 241-50 (certo bisognosa di ritocchi, come risulta dalla nostra diretta collazione sul ms.); parziale in BARTSCH-KOSCHWITZ, cc. 291-6.
Il risveglio d'interesse per « il testo di gran lunga più fine » della narrativa medievale in lingua d'oc (LIMENTANI, p. 21, n. 14) è ora finalmente avvenuto (tanto che se ne annuncia la riedizione, a cura di R. Taylor e A. Monson: cf. TAYLOR, p. 309). Circa la tradizionale identificazione di questo poeta nel Peire Guillem da Tolosa menzionato, fra gli altri, da Chabaneau ed Anglade (e cf. P.-C, 345, che appunto sotto « Peire Guillem de Toloza » registra, sia pur dubitativamente, il presente componimento, a p. 305) cf. la messa a punto di JUNG, pp. 159-60 (e note), « Grundriss », VI/2, nº 4684 (anche per la proposta cronologica « entre 1234 et 1253 »), infine MONSON, pp. 98-101; la citazione a testo pure da JUNG, p. 166.
Come auspicava il compianto A. Limentani, il rinato interesse per le opere allegoriche medievali in lingua d'oc continua a produrre risultati apprezzabili: mentre del 'sogno' di Guillem de Saint-Didier continua ad occuparsi, da più angolature, A. SAKARI (L'originalité de Guillem de Saint Didier, in «Miscel·lània Aramon i Serra», vol. I, Barcelona, 1979, pp. 517-524, e Le somni de G. de S.-D., in «Studia Occitanica» citt., vol. I, pp. 253-264; v. anche M.L. MENEGHETTI, Beatrice al chiaro di luna. La prassi poetica delle visioni amorose con invito all'interpretazione dai provenzali allo stilnovo, in «Symposium in honorem prof. M. de Riquer», Barcelona, 1984, pp. 239-255), per il Chastel d'Amors v. G. PERON, Rolandino da Padova e la tradizione letteraria del castello d'amore, in «Il castello d'amore. Treviso e la civiltà cortese», Treviso, 1986, pp. 189-237 («Atti del Convegno internazionale sul Castello d'amore e le feste cortesi dei secoli XIII e XIV», a cura di L. BORTOLATTO). Non è invece ancora disponibile al momento attuale la confermata riedizione della «novella» di Peire Guillem ad opera di R. Taylor («Bulletin de l'Association Internationale d'Études Occitanes», n. 1: «Les tâches de la recherche occitane», Westfield, 1985, p. 19). V. infine il contributo di L.E. Jones già cit. in linee precedenti (Intr., nn. 17-18). ()
 
(25) Seinor vos que volez la fior (= cod. N, cc. 31r-46v: BRUNEL, Bibliographie, n. 11, « Grundriss », VI/2, n. 4648); ed. L. CONSTANS in « Revue des Langues Romanes », XX, 1888, pp. 121 ss., 209 ss., 261 ss., ed ora a cura di L. E. JONES, Chapel Hill, 1977, cui si rimanda per ogni altra informazione paleografica e storico-letteraria. Circa la datazione della Cort d'Amor, essa va collocata secondo la Jones « after 1204 (Guiraut de Calanso), and before 1235 (Guillaume de Lorris) at the earliest, and before 1250 (Peire Guilhem) at the latest. The author of the Cort d'Amor was probably a contemporary of Raimon Vidal » (p. 21). « The relationships between Guiraut's allegory and the Cort d'Amor are numerous and explicit » (p. 50, con susseguente utile messa a confronto tra i due testi); l'eterogeneità strutturale e compositiva è comunque evidente trattandosi, per la Cort, di una summa didattico-narrativa della civiltà « cortese » risultante dalla giustapposizione abbastanza riconoscibile di due parti (una « art of love » statica e discorsiva, seguita da una «dramatic love allegory»: p. 84). Trattasi di diversità non solo formale ma anche ideologica secondo lo Jung (cf. pp. 148-59; interessanti le note sulla caratterizzazione « giuridica » dell'opera di MONSON, pp. 95-8, in parallelo con quanto già affermato da DAMMANN, pp. 21-26). ()
 
(26) per dovere di completezza (ancora più avvertito data la esiguità numerica del settore) citiamo qui anche il componimento di PCardenal, Caritatz es en tan bel estamen (P.-C, 335, 13: ed. LAVAUD, nº XLVI, pp. 278 ss.) definito dall'ed. suddetto « peut-être la plus belle allégorie dévéloppée par P.C. » (cui sarebbe attribuibile, fra l'altro, « une sort de valeur picturale. On dirait la description et le commentaire d'un tableau ») e databile « vers 1240 » (l'autore vi compare « en pleine possession de son inspiration religieuse et morale »: p. 280). La matrice sacra e non profana (cui potrebbe alludere la comparsa, v. 9, del Diu d'amor in persona, contornato da altre proposopee di virtù e vizi) è stata sottolineata anche in ulteriori contributi (C. CAMPROUX, Amour chez Peire Cardenal, in « Phonétique et Linguistique Romanes, Mélanges offerts à G. Straka », Lyon-Strasbourg, 1970, II, pp. 395-409, a pp. 402 ss.; cf. anche M. Vuylsteke, Amor dans la littérature provençale, in « Revue belge de philologie et d'histoire », 53, 1975, pp. 805-14). Del tutto ascrivibile al filone satirico-morale, infine, la faula dello stesso PCardenal, Una ciutatz fo, no sai cals (P.-C, p. 299: ed. LAVAUD, nº LXXX, pp. 530 ss., riprodotta fra l'altro in RIQUER, Trovadores, III, n. 320, pp. 1515-18), per cui si rimanda alla scheda in « Grundriss », VI/2, n. 7396 (« poésie didactique moralisante, structurée comme une nouvelle ») e alle considerazioni di JUNG (p. 127: nei mss. dell'opera è significativamente comune la definizione di sermons). ()
 
(27) Del primer nom d'Amor suy en demanda: citiamo dalla recente edizione SANSONE, Allegoria, cui rimandiamo anche per ogni notizia relativa all'età del codice (XIV-XV sec.?) e alle caratteristiche testuali, linguistiche e metriche di questo interessante epigono della fioritura allegorica occitana (Sansone propende per un'originaria provenzalità di lingua, poi alterata dal frettoloso copista catalano « fedele alla sostanza del testo ma abbastanza libero in ordine a fatti morfologici e ortofonetici »: p. 250).
A questo riguardo sia lecita una minima postilla: anche la forma del v. 47 aretament, dichiarata ib. apax di dubbio significato (pp. 245-6) potrebbe aggiungersi all'elenco dei numerosi catalanismi (Osservazioni linguistiche, pp. 246-50) che prevedono, fra l'altro, il normale passaggio di e > a in protonia (cf. F. de B. MOLL, Gramática Histórica Catalana, Madrid, 1952, p. 93); quindi a. potrà essere ricondotto all'a. prov. (h)eretamen «héritage» (RAYNOUARD, Lexique, III 527), a nostro parere con miglioramento della perspicuità del passo rispetto alle altre soluzioni proposte. ()
 
(28) L'assetto strofico risulta proprio, oltre che della tenzone del StDidier (sei coblas doblas, ciascuna composta da quattro vv. di undici sillabe, femminili — sulla cui arcaicità v. SAKARI, pp. 33-4 — e da quattro eptasyllabes maschili: FRANK, 382:2), del Chastel d'Amors (30 raggruppamenti di 6 héptasyllabes, coblas continuadas capcaudadas, con interruzione del componimento al termine della trentesima) e ritorna, infine, nell'allegoria « catalana » (sei coblas singulars, ognuna composta da otto décasyllabes; la finida è una quartina unissonan con gli ultimi versi dell'ultima strofa: v. SANSONE, Allegoria, p. 241). L'octosyllabe a rima baciata, indice dell'assetto più scopertamente narrativo dei rimanenti testi, compare appunto nella Cort d'Amor (1721 vv.) e in Lai on cobra sos dregz estatz (436 da nostra verifica, « au début alternant avec quelques vv. 4.-s. »: « Grundriss », VI/2, 4684), ambedue del resto incompleti della fine. Al circolarismo strutturale della canzone « tendant à une perfection formelle close sur elle-même  (ZUMTHOR, p. 119; cf. anche MONSON, p. 70) si addice precipuamente la disposizione concentrica dei livelli tematici di Celeis cui am (di cui ci occupiamo più avanti, cap. relativo all'Exp.). ()
 
(29) Oltre a En Guillem de Saint Deslier che apre la serie, rientrano nella
categoria dei testi « esplicati » (che, quindi, alternano parte allegorica e parte allegoretica, indipendentemente dalla specifica collocazione) anzitutto la « novella » di PGuillem (cf. qui alla n. 24 e poi al successivo cap.), ma anche il Chastel d'Amors, i cui successivi enunciati vengono per lo più diligentemente chiosati in immediato seguito al loro prodursi, con alternanza, anche nello stesso verso, di « testo » e « glossa » (ed. NELLI-LAVAUD, cobla 8: « De veer son li fossat [...] », ecc.; c. 9: « Las portas son de parlar », ecc.; dopo la centrale equazione di Amor nel foec, c. 19, seguono le ormai trasparenti metafore guerresche relative all'assalto di marit e gelos, da c. 21 in avanti). Una situazione radicalmente diversa si prospetta per la Cortd'Amor, dove l'elemento allegorico risiede specificamente nelle proliferanti personificazioni che affollano la « cort » e il « verger », in bocca alle quali sono posti i discorsi parenetico-didattici dell'autore (variabili dalla « définition » al « petit conte », in base all'analisi di Jung) e certo meritevoli di specifica attenzione. ()
 
(30) Premessa l'immanenza del modello triadico in tutti i settori della vita medievale (M. CORTI, Ideologie e strutture semiotiche nei « Sermones ad status » del secolo XIII, in Il viaggio testuale, cit., pp. 221-42, e J. LE GOFF, Note sur société tripartie, idéologie monarchique et renouveau économique dans la chrétienté du IXe au XIIe siècle, in Pour un autre Moyen Age. Temps, travail et culture en Occident: 18 essais, Paris, 1979, pp. 80-90 e cf. passim; altre indicazioni in GUREVIČ, p. 222 n. 4), per quanto attiene alla specifica diffusione del tema « amoroso » la bibliografia è vastissima e assai stratificata diacronicamente (partendo, come è naturale, dalla civiltà greco-latina). Per l'indagine romanza si può ricorrere utilmente a C. SEGRE, « Ars amandi » classica e medievale, in «Grundriss», VI/2, pp. 162 ss. (e cf. JUNG, p. 144 n. 3, SANSONE, Allegoria, p. 250 n. 3 con vari rimandi).
I riflessi di questa concezione « ternaria » meriterebbero un'indagine accurata in campo specificamente trobadorico: basti ricordare la curiosa applicazione « sociale » che ne dà Daude de Pradas, Amors m'envida e·m somo (NELLI-LAVAUD, p. 148, vv. 19-20: « E per tant non son meins cortes / Ad amor si la part en tres »), o la architettonica sistemazione effettuata nel Breviari d'Amor, dove i tipi di amore sono pure ricondotti a tre, forse sullo stesso modello della nostra canzone (NELLI-LAVAUD, pp. 658 ss.). Insomma, questa tripartizione « n'a rien de particulièrement mystérieux; elle devait être familière au public de l'époque » (JUNG, p. 144), anche se l'indagine sulle matrici culturali conduce a sostanziali biforcazioni: in particolare, le captanti suggestioni della filosofia amorosa araba (NELLI, Érotique, pp. 251 ss.) non devono portare a trascurare l'altrettanto fondamentale filiera aristotelico-ciceroniano-agostiniana (PARÉ, pp. 82-98, con pertinenti citazioni di fonti; per PAGÈS, p. 316 i « terzi » di Calanson risulterebbero anzi « preuve [...] indiscutable de l'influence de l'amitié aristotélicienne », travasata in direzione secolare-cortese per il noto tramite dell'Etica nicomachea). Decisamente meno probanti i supposti contatti con l'amor divinus dei mistici, dato che le superficiali analogie di ripartizione sono determinate da criteri radicalmente eterogenei (GILSON, Théologie, pp. 193-215, con specifici rimandi al testo calansoniano; NELLI, Érotique, pp. 260-1 e n. 25; ma cf. J. DEROY, Thèmes et termes de la fin'amor dans les Sermones super Cantica Canticorum de Saint Bernard de Clairvaux, in « Actes du XIIIe Congrès International de Linguistique et Philologie Romanes » (Québec, 29-8/5-9 1971), vol. II, Québec, 1976, pp. 853-863). ()
 
(31) Gli slittamenti avvenuti nella terna all'epoca di Guiraut Riquier (rispetto alla « classica » formulazione di Andrea Cappellano) vengono chiaramente schematizzati in NELLI, Érotique, p. 256 (e richiamati dal contributo JONES, pp. 110 ss.). Per quanto attiene ai diretti rapporti Calanson-Riquier, punti di divergenza fondamentali risulterebbero i seguenti: 1) comparsa in Riquier dell'amor coniugale al secondo posto (cui, secondo Calanson, tanh Franquez'e Merces: cf. la qui seguente nota 33), mentre il primo poeta alluderebbe all'« amour pur intersexuel »; 2) fatto decisamente dirompente, la netta squalifica morale dell'ultimo terzo, denominabile peraltro, nell'uno e nell'altro, « amour mixte intersexuel » (quello cantato dai trovatori, insomma). Fermo resterebbe invece il riferimento, nei due Guiraut, all'amore celeste per il primo terzo (mentre in Andrea tale posto era occupato dell'« amour pur intersexuel »).
Le ragioni storiche di tali trasposizioni sono ampiamente discusse dallo stesso Nelli: una data cruciale sarà certo costituita dal 1277, anno della seconda famigerata condanna, ad opera del vescovo di Parigi, Étienne Tempier, di quella « somme des conceptions courtoises incompatibles avec le Christianisme » che aveva trovato appunto più compiuta espressione nel « trattato » del De Amore (ib., p. 247 e ss.; i testi delle proposizioni rigettate si possono ora leggere, in traduz. italiana, nella raccolta curata da G. C. GARFAGNINI, Aristotelismo e Scolastica, Torino, 1979, pp. 257-63). ()
 
(32) Da cfr. in proposito le recenti puntualizzazioni della Jones che, manifestato il suo accordo circa l'assegnazione del primo e del secondo posto gerarchico rispettivamente a « Love of God » e « fin'amor », indica nel terzo ultimo non tanto l'amor carnalis « acquisito » (per pecunia o altrimenti), quanto vagheggiato, con suo conseguente parziale riscatto (dato che la potenziale « pericolosità » di tali desideri non ne esclude l'intrinseca liceità morale). In questa direzione platoneggiante (l'amore terreno come primo gradino per la progressiva elevazione verso il celeste) può interessare il precedente contributo di L. T. TOPSFIELD, Three levels of love in the poetry of the early troubadours, Guilhem IX, Marcabru and Jaufre Rudel, in « Mélanges [...] Boutière », I, pp. 571-587, e ancor più quello del Deroy (sul tendenziale rimando del « soddisfacimento », peraltro non escluso in toto dalla concezione trobadorica, v. anche qui avanti ai §§ successivi). ()
 
(33) Tali perplessità, come si rileva in JONES, p. 111, sorgono anzitutto dalla poco univoca valenza semica di Franquez'e Merces (virtù considerate dalla suddetta studiosa « basically irrelevant » nei confronti dell'amore « familiare » e invece « the essential condition of fin'amor », come appunto si propone). A questo riguardo conviene osservare che il ventaglio di accezioni riferibili ai due termini, per quanto abbastanza variato, indirizza più in senso « socio-morale » che amoroso (basti cfr. THIOLIER-MÉJEAN, con ampia esemplificazione da testi lirici e didattici: pp. 76-77, 96-97 e passim). Risulta quindi ben motivata l'asserzione del Pagès secondo cui Franquez'e Merces si qualificano componenti etiche basilari della società feudale e all'interno di essa della famiglia stessa (dato lo scopo primario assegnato al matrimonio « de propager l'espèce et d'accroître l'héritage par l'union de deux fiefs »: p. 325). Sempre in linea con la suddetta interpretazione le più generali e condividibili considerazioni del BATANY, p. 24, che contro la netta opposizione istituita dal più tardo Riquier fra « amour spirituel » ed « amour charnel » afferma: « il semble plutôt qu'il [ = Calanson] envisage un élargissement de la passion charnelle à un amour fondé sur les valeurs sociales (Franqueza et Merces [...]), et à un amour spiritualisé qui plane au-dessus du ciel, sans qu'il l'oppose pour cela à l'amour physique ».
A questo punto (ricordato che come « secondo » amore anche il Breviari contempla quello per i propri « enfants », e che tale risulta, pure per DAMMANN, p. 11, l'ambito del « secondo » terzo calansoniano: « die Verwandtenliebe », cioè l'amore « dei parenti ») può anche destare ragionata curiosità la definizione settecentesca del LA CURNE DE SAINTE-PALAYE, pp. 373-4 (= rist. 368) relativa ai « terzi » riquieriani: come « secondo » si chiosa infatti « le naturel, qui avoit pour objet la gloire et la fortune » (da cf. il sibillino rimando alla Fortuna nella 3a cobla del testo catalano Del primer nom d'Amor: possibile che l'anticamera del « minor terzo » sia occupata dagli illustri cultori del « secondo » che qui risultano appunto tutte persone d'alto rango, reys, duchs, comps e ricom?). ()
 
(34) « A l'amour charnel (le menor tertz d'Amor) s'ajoute soit l'amour naturel, donc l'amour des parents, soit l'amitié: les termes qui caractérisent ce ' second tiers ' ne sont pas assez explicites pour que la question puisse être tranchée » (JUNG, p. 144, con rimandi in n. 63 circa le varie classificazioni « laiche » e « sacre » dell'amore). A parte la difficoltà di assegnare maggior credito, per questo riflesso letterariamente rarefatto, alle divisioni proposte da questa o quella corrente filosofica medievale (oltre a S. Bernardo, citato a proposito da Jung, la passio amorosa trova un attentissimo indagatore anche in S. Tommaso, Summa theologica, Ia IIe qu.XXVI: De passionibus animae in speciali, et primo, de amore; cf. anche IIa IIe qu.XXIII: De caritate, e ss.), non va escluso che in coerenza alla poetica medievale (in special modo riguardo al dettato allegorico) il testo di Calanson si presti ad una stratificazione ermeneutica (del tipo ad es. proposto, con felice suggestione anche se in mancanza di prove decise, dal contributo della Jones, secondo cui Calanson farebbe riferimento contemporaneamente a « the Goddess Amor », alla « lady » amata, alla propria chanso). La credibilità da assegnare a tali « pluralità di implicazioni » (SANSONE, Allegoria, p. 252), se metodologicamente comunque opportuna (basti il rimando a M. RIFFATERRE, Le tissu du texte, in « Poétique », n. 34, 1978, pp. 193-203) diventa quindi indispensabile nella specifica prospettiva storica della civiltà letteraria medievale: « toute oeuvre médiévale satisfait [...] aux deux sens d'ambigu: elle est ambivalente selon l'optique médiévale, et équivoque selon l'optique moderne » (T. BALLET LYNN, Recherches sur l'ambiguité et la satire au moyen âge (Art et littérature), Paris, 1977, p. 20; cf. anche BADEL, pp. 141-2 e BRUNI, Modelli, pp. 6-8, SCHAEFFER, pp. 11-12, n. 23). ()
 
(35) « Le caractère propre de l'allégorie est conditionné par le genre littéraire, la chanson, qui est statique par définition. De là, cette réduction de l'allégorie à la pure description » (JUNG, p. 168); opportune precisazioni circa « la parenté entre l'allégorie et l'image peinte » nel contributo dello stesso autore, Jean de Meun et l'allégorie, in « Cahiers de l'Association Internationale des Études Françaises», n. 28, 1976, pp. 21-36 (con rimandi ai lavori di Batany e Zumthor presenti nella nostra Bibliografia; v. anche qui avanti la nostra n. 49). ()
 
(36) Il « problema del genere » è uno dei nodi centrali a livello di personificazione, definibile «une transformation lexicale qui remplit une «case vide» dans le système: ' abstrait/concret ' - ' inanimé '/' animé ', en reliant la catégorie ' abstrait ' à la catégorie ' animé ' », e quindi comportante il superamento dell'arbitrarietà del « genere » propria degli esseri « neutri »: « le genre devient motivé, ou naturalisé, en tant que caractérisation sexuelle » (P. VALESIO, Esquisse pour une étude des personnifications, in «Lingua e Stile», IV, 1969, pp. 1-21, a p. 6 con successiva formalizzazione generativista dei vari tipi possibili « d'une des parties les plus intéressantes de la métaphore »). Fra i contributi precedenti, oltre a quelli menzionati nella bibliografia finale dal Valesio, cf. M. W. BLOOMFIELD, A grammatical approach to personification allegory, in « Modern Philology », vol. LX, 1963, fasc. 3, pp. 161-171 (dove si rileva la discreta rarità, nella letteratura medievale in genere, della personificazione « statica » rispetto alla « dinamica » o narrativa i cui « signs » essenziali di riconoscibilità sarebbero offerti da « animate verbs and predicates », in effetti ricorrenti anche per la nostra canzone). ()
 
(37) DA DAMMANN, pp. 25-27 (che rileva come « novità » calansoniana il passaggio dal classico Liebesgott ad un essere di sembianze femminili) a più o meno tutti i critici moderni che si sono occupati in qualche modo della canzone (o della produzione allegorica in genere): citiamo almeno JUNG, pp. 136 ss., RUHE, p. 92, JONES, Cort, pp. 33 ss. (con notazioni complessive circa la lenta affermazione della personificazione di Amore nel Medioevo romanzo, e circa le oscillazioni di « genere », almeno morfologico, che in conseguenza di ciò è dato di riscontrare nei documenti letterari galloromanzi: ad es. nell'Yvain di Chrétien de Troyes Amore può comparire alternativamente « male or female »).
Anche lo specifico contributo di Taylor sulla questione non fa che constatare « some hesitation about the gender of Amor », partitamente nella Cort d'Amor e nella canzone di Calanson, invocando del resto la solita spiegazione grammaticale (p. 312): soprattutto nella Cort risulta quindi in modo evidente l'opposizione tra « genere » (legato alle regole morfo-grammaticali) e «sesso » (che il dinamismo giuridico-feudale della rappresentazione inclinerebbe a far identificare nel maschile e non nel femminile). ()
 
(38) L'ibridismo Venere-Cupido (notato tra gli altri da RIQUER, Trovadores, III, pp. 1081-2 a proposito della nostra canzone) risale senz'altro alla fase preromanza (per gli esempi dai mitografi tardolatini cf. RUHE, pp. 46 ss.): interessanti gli scandagli iconografici di Panofsky che tra l'altro appurano lo « strano » mutamento di sesso del dio d'Amore anche nei reperti germanici dell'età media (dove, guarda caso, « Liebe » e « Mirine » sono sostantivi femminili: pp. 159-60 e passim). Circa la progressiva intrusione di elementi propri della Fortuna (più in « sinistra » versione, quindi come pagana casualità, che in veste di provvidenziale esecutrice del mandato divino come cerca di reinterpretarla lo « spirito conciliatore » del cristianesimo medievale: PARÉ, pp. 115 ss., GILSON, L'esprit, pp. 154-174 e passim) sono pure interessanti, oltre alle notazioni di Ruhe (con rimandi ai « classici » lavori di A. Doren e H. R. Patch), i reperti esaminati da PANOFSKY, pp. 152 ss.; v. infine l'ampio panorama offerto da H.-R. JAUSS, Allegorese, Remythisierung und neuer Mythus, in Alterität, cit., pp. 285-307 (che riprende e integra il più volte cit. cap. del « Grundriss »; lo stesso contributo è leggibile in traduzione francese, Allégorie, ecc., nei « Mélanges [...] Rostaing », I, Liège, 1974, pp. 469-99). ()
 
(39) Varie le motivazioni di tale annessione alla/alle divinità amorose (il tratto risulta proprio, da una data epoca, sia di Cupido che della madre Venere: cf. PANOFSKY passim): esse risalgono ai mitografi mediolatini (che cominciano ad occuparsene dal XII-XIII sec). Oltre che trasparente allusione al carattere irrazionale dell'esperienza amorosa, ciò può costituire un più pressante indizio della profonda negatività morale di cui risulta bollata la cupiditas nel Medioevo cristiano: « Così Cupido Cieco cominciò il suo cammino in alquanto sinistra compagnia », nella fattispecie soprattutto la Fortuna e la Morte (PANOFSKY, p. 156; la benda risulta un'addizione tardiva coronante la sempre più sgradevole rappresentazione del dio). Per un'interpretazione in chiave filosofica (orfico-neoplatonica), cf. invece M. ALLEGRETTO, Il luogo dell'Amore. Studio su Jaufre Rudel, Firenze, 1979, pp. 91-2 (la nostra canzone citata in n. 16). ()
 
(40) Può essere interessante segnalare quello che a noi risulta il più compiuto pendant della canzone: si tratta di un passo di Matfre Ermengaud, Breviari d'Amor, relativamente alla sezione finale del Perilhos tractat (l'unica finora riedita da Ricketts), dove ai vv. 28584-9 (introducenti la citazione di GBerguedà, Mais volgra chantar a plazer, vv. 25-32: v. RICHTER, p. 284, n. 119) si afferma: « e dic qu'est'amors s'escumpren / per azaut, e lai on vol cor, / non gardan beutat ni ricor, / e de plazer viu, so sabchatz, / per que·i val mais sso que mais platz », versi che in effetti appaiono un'accattivante reminiscenza calansoniana (canzone o Fadet joglar?), se non riquieriana (il poeta risulta esplicitamente ricordato nel Breviari, cap. De conoichensa, vv. 33190 ss., con l'epiteto di amoros e susseguente citazione daP.-C, 248,18: Be·m meraveill co non es envejos, vv. cf. RICHTER, p. 301, n. 136). ()
 
(41) Per la « corona » guittoniana seguiamo qui l'edizione curata da F. EGIDI, Un « Trattato d'Amore » inedito di Fra Guittone d'Arezzo, in « Giornale Storico della Letteratura Italiana », vol. XCVII, 1931, pp. 49-70 (che riproduce l'Escorialense; testo interpretativo a cura del medesimo Egidi in Le Rime di G. d'A., Bari, 1940, pp. 268-75). La serie di sonetti scoperta dallo studioso a Madrid (e a cui egli impose il titolo di « Trattato d'Amore », in effetti assente dal ms.) « devait servir de légende à une représentation figurée d'Amour, qui n'a pas été reproduite par le copiste, et commenter les propriétés et les attributs de cette allégorie, ainsi que les effets pernicieux de la passion amoureuse » (C. MARGUERON, Recherches sur Guittone d'Arezzo. Sa vie, son époque, sa culture, Paris, 1966, p. 94; cf. qui avanti le nostre note 43 ss.). La cronologia ivi affermata, all'interno del corpus guittoniano, e cioè 1285-1294 (p. 116), confermerebbe quanto già suggerito dal contenuto, aspramente reprobatorio dei carnali diletti e quindi attribuibile con buona presunzione di certezza « à la plume d'un moraliste morose et viellissant » (ib., p. 94; si attende ora la parola in merito di M. Picone che sta attendendo alla riedizione dell'opera dell'aretino). ()
 
(42) Riferimenti essenziali saranno l'edizione Egidi (I Documenti d'Amore di Francesco da Barberino secondo i mss. originali, a cura di F. EGIDI, Roma, 1905-27 (rist. Milano, 1982), nel vol. III, pp. 407 ss.) e lo studio iconografico del medesimo EGIDI, Le miniature dei Codici Barberiniani dei Documenti d'Amore, in « L'Arte », vol. V, 1902, pp. 1-20 e 78-95; nella parallela (e discussa) ed. di A. ZENATTI, Il Trionfo d'Amore di Francesco da Barberino, Catania, 1901, utile se non altro per la messa a punto introduttiva che spazia nel Medioevo romanzo in genere, il titolo di evidente gusto petrarchesco sostituisce quello voluto dal Barberino in persona, che è appunto Tractatus Amoris (cf. F. EGIDI, Un « Trattato », cit. in n. prec, p. 53, n. 1).
La ricchezza composita dell'opera risalta già dalla schematica esposizione di « Grundriss », VI/2, 2746 (e cf. VI/1, pp. 95-6 e 154 in nota relativamente al Tractatus); quanto all'esegesi critica, se si eccettua il fondamentale contributo apportato a suo tempo da THOMAS, Barberino (che però non cita né Calanson né Riquier tra i trovatori certamente frequentati dal nostro autore: cf. pp. 103 ss.) « il discorso sui Documenti d'Amore è ancora tutto aperto, sia alla definizione per viam negationis del retroterra culturale da cui nacque sia ad una precisazione positiva del suo significato (M. PRANDI, Vincenzo di Beauvais e Francesco da Barberino = G. BILLANOVICH-M. PRANDI-C. SCARPATI, Lo « Speculum » di Vincenzo di Beauvais e la letteratura italiana dell'età gotica, III, in « Italia medievale e umanistica », XIX, 1976, pp. 133-61, a p. 160). ()
 
(43) La stretta intercomplementarità testo-pitture (per esempi analoghi, cf. le indicazioni dell'Egidi: il Conciliato d'Amore di Tommaso da Giunta ed il De Balneis di Pietro da Eboli) è provata dalle superstiti meticolose istruzioni al miniatore: nel codice (e nell'ed. EGIDI del «GSLI») è infatti ben visibile lo «spazio bianco» destinato alla irriprodotta figura d'Amore (seguente la trascrizione del sonetto d'esordio al Karo amicho), contornato da tali fitte note ai lati sinistro e destro del f. (« Quy de' essere la [figu]ra de l'amore pincta s[ì ch']el sia garçone nudo, ciecho, cum due ale su le spale [...], cum un archo en man, ch'el abia ferío d'una sayta un çovene enamorao; cum una girlanda en testa [...] » ecc.; cf. l'ed. interpretativa dello stesso Egidi, p. 268 ss., con testo purgato dei presumibili venetismi di copia).
Per quanto riguarda Barberino, l'ipotesi finora accreditata circa la paternità delle figurazioni nei due principali codici che ci tramandano i Documenti (Vat. Barb. Lat. 4706 = A, autografo almeno in parte, e Vat. Barb. Lat. 4077 = B, pure supervisionato dall'autore) è quella riassunta dalla PRANDI, art. cit., p. 135 n. 2: per B lo stesso Francesco, e per A « un pittore che le eseguì sulla base dei disegni dell'autore dei Documenti » (secondo quanto affermato già da EGIDI, Miniature, cit., pp. 1-3).
Per il parziale autografismo dei codici dei 'Documenti d'Amore' di Francesco da Barberino, si rimanda alla perizia di A. PETRUCCI, Minuta, autografo, libro d'autore, in «Atti del convegno internazionale ‘Il libro e il testo'» (Urbino, 1982), Urbino, 1985, pp. 397-414, app. 409-410 (a cui si fa rinvio da A.P., Scrivere il testo, in «La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro», Atti del convegno di Lecce, 22-26/10/1984, Roma, 1985, pp. 209-227, app. 224-225). ()
 
(44) « Nulla v'è di disforme dalla tradizione, chè caecus et alatus, puer et pharetratus: / istis quinque modis depingitur deus amoris » (EGIDI, in «GSLI» cit., p. 56, con individuazione del quinto elemento nella nudità). L'aderenza al dettato dei « saggi » antichi, quindi alla tradizione latina, è d'altronde apertamente dichiarata da Guittone e da Francesco in sede di propositio: il primo nel son. 241, quadro sintetico o summa introduttiva degli elementi poi singolarmente chiosati nei sonetti seguenti (si chiude osservando « che già non fu ritracto en tal esença / day Saviy sença ben propria chazione, / Che d'onni cossa fanno experiença; / unde d'amor fan està divixione »: vv. 10-13); il secondo in attacco dei versi destinati a descrivere appunto La figura d'Amore (ZENATTI, p. 83: « Io non descrivo in altra guisa Amore / che facesser li saggi che tractaro / in dimostrar l'effetto suo in figura »), con susseguenti pretese di innovare in parte la pur lodata tradizione, in effetti più protestate che reali, a parte il deciso rifiuto della cecità («io no 'l fo cieco, ch'è dà ben nel segno»). ()
 
(45) Precisiamo qui che gli unici manoscritti calansoniani provvisti di miniature (per l'elenco completo cf. la seguente n. 50 al paragrafo 2), tra quelli che ci tramandano Celeis cui am, risultano I e K, tuttora « inediti e mai studiati a fondo sia per la struttura che per la lingua » (G. FOLENA, Tradizione e cultura trobadorica nelle corti e nelle città venete, in « Storia della cultura veneta », I: « Dalle origini al Trecento », Vicenza, 1976, pp. 461-2 in n. 25), le cui miniature, di stile vivacemente veneto (forse padovano secondo quanto ipotizzato da Folena ib.) sono certo da attribuire ad esponenti di un unico scriptorium, con i possibili scambi reciproci, segnalati ad es. da AVALLE (p. 93). In ambo i casi, l'iniziale del testo calansoniano (che segue, sia in I che in K, la vida del trovatore) appare miniata con raffigurazione del poeta, secondo la consuetudine adottata per ogni autore della raccolta (stessa caratteristica riconosciuta del resto ad A, della medesima costellazione « veneta », ma non nella zona relativa al nostro testo). In K a margine l'annotazione (postuma?) « Amore si discrive ». ()
 
(46) Nei reiterati, patenti moniti di Guittone contro il van semblante del carnale amore, disseminati dal proemiale sonetto d'indirizzo (Karo amicho) fino alla allarmata petitio conclusiva (son. 251: Sguarda, amicho, poy vey ciascuna parte), è se mai rintracciabile una discreta rete di rimandi motivali e formali all'Exposition del coevo Riquier. Quanto all'opera del Barberino, la sua giusta degustazione è senz'altro più difficile: incerto, tra l'altro, se attribuire a poco credibile ostentazione di ortodossia o a più probabile audacia dissacratoria la paradossale dichiarazione di voler descrivere non già l'amore terreno e carnale (al quale rimanda ogni elemento della raffigurazione, sia visiva che pittorica) bensì quello divino. L'intento, oltre che nelle chiose in versi volgari, è ancora più apertamente esplicitato nel commento latino: «videbis quomodo illa omnia que ibi [nel testo volgare] dicuntur ad intentionem reducuntur spiritualem » (ZENATTI, p. 73; ulteriori specificazioni, suasive dei renitenti, riportate ib., p. 89). ()
 
(47) Il quale insiste anche esplicitamente affinché il lettore conceda pari attenzione alle figure ed al testo: « Poi si guardate ben la sua figura / che già sol per lectura / non si poria veder sua derittura / Così dell'altre dico il simigliarne » (EGIDI, Miniature, cit., p. 5 n. 3). Per quanto riguarda l'organizzazione interna del ciclo guittoniano, il punto è stato fatto da tempo: cf. R. BAEHR, Die Rhetorik als Gestantulgsprinzip im Trattato d'Amore Guittones von Arezzo, in « Romanische Forschungen », 67, 1956, pp. 320-337 (che mette in luce come ogni attributo di Amore — caecus - alatus - nudus - pharetratus ecc. — riceva adeguata spiegazione in un sonetto della « corona », tramite ordinato succedersi dei vari loci inventionis, dall'interpretatio nominis alle qualitates animae et corporis). Allo stesso schema si attengono i due sonetti « responsori » indirizzati a Guittone da Federigo dall'Ambra, editi da D. De Robertis (Il Canzoniere Escorialense e la tradizione « veneziana » delle rime dello stil novo, in « Giorn. Stor. d. Lett. It. », suppl. nº 27, Torino, 1954, pp. 231-34 = Appendice III; cf. MARGUERON, pp. 181-3, 376). La stretta organicità della « corona » aveva spinto anzi l'Egidi, sulla scorta della definizione di «canzone» tramandata nell'opera dell'Equicola, ad ipotizzare una fase di trasmissione del « trattato » in forma di continuum scrittorio, privo delle rubriche intermedie, « così da presentarsi come altrettante stanze di un'unica canzone» ( « Giorn. Stor. », cit., p. 52; cf. ZENATTI, pp. 64-5). ()
 
(48) Ci riferiamo a Panofsky, che riconduce sia il Cupido barberiniano che altre raffigurazioni trecentesche (in particolare, l'allegoria giottesca della castità in S. Francesco ad Assisi, e l'affresco del castello di Sabbionara, presso Avio [Trento]) ad un prototipo (profano, certo, e non sacro come insinuato dal Barberino) che « deve essere stato immaginato parecchio tempo prima che Barberino scrivesse il suo trattato, sebbene, certamente, non prima del XIII secolo » (p. 168). Dal canto suo, l'Egidi (segnalando esso pure l'allegoria umbra, in Miniature, p. 14, ma come foggiata direttamente sul modello barberiniano) riteneva semplicemente più probabile che le guittoniane indicazioni al miniatore, più che prodotto della sua personale inventiva, riflettessero « la maniera comune » di rappresentare il dio d'Amore (« Giorn. Stor. », cit., p. 56). ()
 
(49) Quanto all'opportunità teorica e pratica di un approccio semiologico congiunto, essa è stata ormai ribadita in varie sedi: cf. la già citata rassegna della PEZZOLI, pp. 607 ss. in particolare sui rapporti tra allegoria scritta e figurata nel Medioevo (con rimandi agli studi di Alpatov, Panofsky, de Tervarent, ecc.) e l'interessante contributo di Friedman (che sottolinea la « complexité de l'interrelation entre les oeuvres littéraires et artistiques », inducente ad operare in stretto collegamento fra letteratura, storia, religione, « histoire du goût », ecc); per una più ampia sistemazione teorica della questione, si può ricorrere a L. MARIN, Études sémiologiques. Écritures, peintures, Paris, 1971, e cf. infine AA.VV., « Iconographie et Littérature. D'un art à l'autre », Paris, 1983 (pubblicazione esplicitamente «consacrée [...] aux interférences des arts plastiques et de la littérature » attraverso i secoli).
Fra i pochi ma importanti contributi relativi ai maniscritti medievali romanzi, segnaliamo almeno il recente volumetto di K. LASKE-FIX, Der Bildzyclus des Breviari d'Amor, München-Zürich, 1973 (che all'analisi sistematica delle miniature contenute nei mss. del Breviari aggiunge in Intr. considerazioni metodologiche, con ampi riferimenti bibliografici) e i « classici » contributi di A. Kuhn e soprattutto J. V. Fleming sul « Roman de la Rose » (cf. gli appunti alquanto scettici di BADEL, pp. 10-11, che consiglia, sia pure da « non-spécialiste », « une vue prudente et nuancée des rapports entre l'écrit et l'image »). Per l'ambito it. ant., cf. L. MARINO, The Decameron « Cornice »: Allusion, Allegory, and Iconology, Ravenna, 1979 con ulteriori aggiornamenti, e la di poco anteriore analisi di V. MOLETA, The Illuminated « Canzoniere », Ms. Banco Rari 217, in« La Bibliofilia », a. LXXVIII, 1976, disp. 1, pp. 1-36 (nella silloge si assisterebbe addirittura, secondo la convincente dimostrazione del Moleta, al fatto che « the script has been accommodated to the miniatures, and not vice versa »; sulla possibile unificazione pure attuata ib. tra miniatore e copista cf. sopra le nostre note relative ai codd. barberiniani).
Il rapporto testi-immagini all'interno dei manoscritti trobadorici è stato ampiamente indagato da M.L. MENEGHETTI, Il pubblico dei trovatori cit., cap. VII (Narrazione e interpretazione nell'iconografia dei trovatori, pp. 325-363); v. anche A. RIEGER, «Ins e·l cor port, dona, vostra faisso». Image et imaginaire de la femme à travers l'enluminure dans les chansonniers de troubadours, in «Cahiers de civilisation médiévale» XXVIII (1985), n. 4, pp. 385-415. ()
 
(50) Mss.: A 82vº, C 251rº, D 191rº, E 132, I 142vº K 128rº, O 68, R 91 vº (= R'), R 191rº (= R 2), a' 163, a² 480. False attribuzioni: A a' (Gaucelm Faidit); O (anonimo).
Edizioni critiche: DAMMANN, pp. 1-3 (secondo tutti i mss. tranne K e a²); ERNST, pp. 320-2 (secondo tutti i mss.); APPEL, p. 75 n. 34 e BARTSCH-KOSCHWITZ, cc. 183-4 (varia lectio). Altre edizioni: RAYNOUARD, Choix, III, pp. 391-3; MAHN, Werke, III. pp. 30-31; per le diplomatiche si rimanda a JEANROY, Jongleurs et troubadours, p. 27 (ib., pp. 28-43, testo secondo ciascun gruppo di mss.).
Metrica: FRANK 577:23 (sei coblas unissonans di otto versi e due tornadas di tre versi ciascuna, secondo lo schema: 10a 10b 10b 10c 10c l0d l0d; rime er/ir/ es/at). Un riepilogo della situazione testuale di Celeis cui am, con particolare riguardo alla versione R² (contenuta nella Exposition di Riquier) sarà offerto nella susseguente Appendice. ()
 
(51) Punti di partenza essenziali per lo studio di questa importante silloge della lirica provenzale del Medioevo saranno ovviamente G. GRÖBER (Die Liedersammlungen der Troubadours, in « Romanische Studien », II, 1875-7, pp. 368-401, con le precisazioni apportate da TAVERA, Chansonnier) e AVALLE, pp. 85-7 (sulla sezione riquieriana in particolare) e 112-120; v. poi i repertori di A. JEANROY, Bibliographie sommaire des chansonniers provençaux, New York, 1916, rist. 1971, p. 13, e BRUNEL, Bibliographie, n. 194, pp. 56-59 (con elenco delle sole composizioni narrative o comunque non liriche; la Table completa in P. MEYER, Les derniers troubadours de la Provence, Paris, 1871, pp. 157-98). Per ulteriori indicazioni si rimanda a BERTOLUCCI, Il « Libro », da p. 216 in note. ()
 
(52) Cf. comunque l'attenta recensione di K. LEWENT (partic, pp. 409-10 e 432-3): la nostra riproduzione del testo Ernst tiene conto, fra l'altro, delle ivi addotte puntualizzazioni ortografiche relative alla segnalazione dell'enclisi. Per il resto si è intervenuto solo ritoccando la punteggiatura, come richiesto in taluni luoghi dalla qui presente revisione interpretativa (v. le seguenti Postille); per qualche osservazione di maggior rilievo cf. la finale Appendice.
Quanto ai rapporti con la precedente edizione Dammann, la sua complessiva accettazione da parte dell'Ernst (che rimanda esplicitamente, per quanto attiene alla Handschriftenverhältnis, alla sistemazione del precedente studioso) non esclude alcuni punti di divergenza, che si situano ai vv. 1 (D. a leis / E. celeis), 24 (mas/e), 36 (plazer/voler): per la discussione si rimanda alle note dell'Ernst (e alla già citata Appendice). ()
 
(53) La quale traduzione, aderente appunto al testo critico (per quanto riguarda la versione di R 2, cf. più avanti nel settore dei testi editi) risente ovviamente del confronto con le altre principali esistenti, a partire da quelle annesse alle edizioni critiche DAMMANN (pp. 10-11, non letterale né, soprattutto, completa, in quanto mancante dell'inizio: vv. 1-4) ed ERNST (pp. 340-41, con richiami nelle note). Quanto alle altre, reperibili nelle varie ristampe delle suddette edd. all'interno di raccolte antologiche, citiamo solo le principali tenute in conto: J. ANGLADE, Anthologie des troubadours, Paris, [1927] (= ANGLADE), pp. 115-8; A. JEANROY, Anthologie des troubadours, XIIe-XIIIe siècles, éd. refondue. Textes, notes, traductions par J. Boelcke, Paris, 1974 (= JEANROY), pp. 1234, seguiti assai puntualmente, almeno per quanto riguarda il nostro testo, da NELLI-LAVAUD, pp. 651-3, e JUNG, pp. 136-8; RIQUER, Trovadores, II, pp. 1081-4; JONES, p. 120. Sono stati tenuti presenti, inoltre, i glossari delle crestomazie APPEL e BARTSCH-KOSCHWITZ, nonché di R. TH. HILL-TH. G. BERGIN, Anthology of the Provençal Troubadours. Textes, notes, and vocabulary, New Haven, 1949², ed occasionalmente gli spunti offerti da RAYNOUARD, Lexique, e LEVY, SW (che citano in più occasioni versi della nostra canzone).
Per completare l'elenco delle traduzioni di Celeis cui am de cor e de saber, si può ricorrere a M. d'HERDE-HEILIGER, Répertoire des traductions des oeuvres lyriques des troubadours des XIe au XIIIe siècles, Béziers-Liège, 1985 (a p. 213, n. 243). ()
 
(54) Per quanto riguarda il primo aspetto: al di là delle comparse in zona rubricale (qui e in capo del susseguente Testimoni), il termine Exp. torna soltanto all'interno di quest'ultimo componimento (vv. 4 e 12; nell'Exposition ricorre solo la voce verbale collegata esponen, gerundio di espondre) e quindi garantisce limitatamente circa la «volontà d'autore» sottesa a tale scelta intitolativa (per quanto, al di là della possibile compartecipazione diretta di Riquier alla stesura del Test. medesimo, abbiamo ottime ragioni di credere che anche l'intelaiatura rubricale del «libre» sia stata attuata sotto il suo diretto controllo: cf. BERTOLUCCI, Il «Libro», p. 216).
Circa la illusoria circolarità delle relazioni testo-paratesto, particolarmente sensibile a livello di tradizione manoscritta medievale (data la notoria caratterizzazione tardiva e accessoria del «titolo»), cf. le osservazioni di SCHAEFFER, pp. 15 ss. (dove si ammette tuttavia che «le postulat général d'une telle circulation est la condition sine qua non de toute étude de la généricité): decisamente sconfortante la conclusione al riguardo di MONSON, p. 20 («Il ne semble donc pas que l'on puisse inférer des rubriques l'intention des poètes d'écrire des poèmes appartenant a un genre déterminé. Tout au plus peut-on en conclure à la présence, chez des scribes contemporains ou peu postérieurs aux poètes, du sentiment de l'existence d'un tel genre»). ()
 
(55) L'oggettiva rarità di attestazioni del termine in a.prov. (nessuna integrazione dà LEVY, SW, rispetto ai pochi contesti di RAYNOUARD, Lexique, IV 612; cf. anche APPEL, 115, 173 e BARTSCH-KOSCHWITZ, 409, 24) è certo da porre in diretto rapporto con la sua preziosità dotta (cf. su ciò HILDER, p. 115, nº 211, PARÉ, pp. 19-22 e JAUSS, Entstehung, pp. 152 ss.), che spiega del resto la tendenziale specializzazione d'uso in ambito didattico (gli ess. su ricordati di Raynouard ed Appel si rifanno al Breviari d'amor).
Nella coscienza (soprattutto poetica) medievale il grado di autorevolezza assegnato al vocabolo doveva essere comunque rilevante, dato che l'expositio, parte vitale dell'esegesi sacra e profana, da metodo e prassi didattica si elevava ad operazione critica, ad approccio propriamente conoscitivo dei testi via via «esposti», e cioè analiticamente commentati: sulla stretta intercomplementarità di «grammatica» e «letteratura» (medievalmente intese, è ovvio) cf. L. SPITZER, The Prologue to the Lais of Marie de France and medieval poetics, in Romanische Literaturstudien 1936-1956, Tübingen, 1959, pp. 3-14 (a p. 12: «originally γραγγατιχή (τέχνη) and litteratura [...] were identical in meaning; since Quintilian the terms have represented, between them, recte loquendi scientiam et poetarum enarrationem ») e BAGNI, p. 130 («l'expositio presuppone il testo per formare, grazie al magister, il lettore; la poetica presuppone il lettore per costituire, grazie al poeta, la poesia»), HUNT, p. 106 (sulle «close relations between dialectic, grammar and rhetoric»). Oltre alle indicazioni già fornite in cap. prec, n. 9, cf. infine «Les genres littéraires dans les sources théologiques et philosophiques médiévales. Définition, critique et exploitation» (Actes du colloque international [...] 25-27/5/1981), Louvain-la-Neuve, 1982, in particolare i contributi di E. JEAUNEAU, Gloses et commentaires de textes philosophiques (IXe-XIIe siècles), pp. 117-131, e G. FRANSEN, Les gloses des canonistes et des civilistes, pp. 133-149 (nel primo di essi di procede alla delucidazione delle «specie» comprese nel «genere» e., e cioè «glose» et «commentaire», la prima più completa del secondo perché dedicata alla lettera e al senso del testo preso in esame). ()
 
(56) L'ipotesi ANGLADE (GR, pp. 21 ss.) circa una formazione avvenuta sotto lo stretto controllo ecclesiale non faceva che applicare allo specifico caso di Riquier quanto ci è documentariamente ben noto circa la scolarizzazione medievale, in particolare per l'area «gallica» (v. ad es. E. LESNE, Les écoles de la fin du VIIIe siècle à la fin du XIIe, Lille, 1940, a pp. 49 ss.; per i livelli superiori d'insegnamento cf. P. GLORIEUX, La faculté des arts et ses maîtres au XIIIe siècle, Paris, 1971, e soprattutto J. VERGER, Remarques sur l'enseignement des arts dans les Universités du Midi à la fin du Moyen Âge, in «Annales du Midi», t. XCI, 1979, pp. 355-381). Ai dati relativi alle principali istituzioni universitarie del Sud della Francia (Toulouse, Montpellier, ecc.) si potrà aggiungere quanto segnalato da J. CAILLE, Le studium de Narbonne, in «Les Universités du Languedoc au XIIIe siècle», Toulouse, 1970, pp. 245-257 circa la purtroppo effimera e scarsamente documentata esistenza di uno studium generale nella città del nostro trovatore, proprio attorno alla metà del sec. XIII (la parte in esso assegnata al diritto pare confermare quanto già supposto da ANGLADE, GR, pp. 238 ss.). Niente di nuovo, sia pure a livello più generalmente biografico, è infine reperibile nell'intervento di J.-M. PETIT, Guiraud Riquier: période narbonnaise et destinée du dernier grand poète de cour, in «Narbonne. Archéologie et Histoire. Narbonne au Moyen âge» (XLVe Congrès organisé par la Fédération historique du Languedoc méditerranéen et du Roussillon: Narbonne, 1972), Montpellier, 1973, vol. II, pp. 69-75 (monotona accentuazione della vena di patetismo già affiorante qua e là nei vecchi studi di Anglade e Jeanroy, cui si fa esplicito rinvio, circa «le calvaire de l'homme de lettres» in perpetuo dilemma tra fame e umiliazione presso i potenti).
Indicazioni bibliografiche aggiornate sugli studi superiori nel Medioevo sono offerte da O. WEIJERS, Terminologie des Universités au XIIIe siècle, Roma, 1987 (a pp. xxii-xxix per quanto riguarda il territorio galloromanzo; cf. anche l'Index des termes, pp. 429 ss., per tecnicismi di largo impiego a partire da expositio di cui in prec. n. 2). Sullo studium di Narbonne giunge a conclusioni ancora più restrittive della cit. CAILLE, A. GOURON, Canonistes et civilistes des écoles de Narbonne et de Béziers, in La science du droit dans le Midi de la Franceau Moyen Âge, London, 1984 (pp. 523-536 del reprint n. VI, partic. a p. 525: «son histoire ne couvre peut-être que quelques années», anteriori comunque al termine del sec. XIII).()
 
(57) Inc. Bernat de Panasac; in didascalia liminare «Le digz frayre R. Gloza sobrel vers d'en Bernat de Panasac, senher de Roeda» (sul toponimo v. THOMAS, BPanassac I, pp. 37-38, e NELLI, Écrivains, II, p. 311: si tratterà di «Arrouède, commune limitrophe de Panassac dans le Gers», terra originaria quindi del damoisel). Le nostre citazioni si rifanno all'unica edizione esistente dell'opera: Noulet-CHABANEAU, Deux mss., pp. 56-61 (nº XXVIII), con note a p. 151 e p. 243 (riprodotta solo con lievi ritocchi e annotazioni nella già citata «antologia bilingue» del NELLI, Écrivains, II, pp. 311-317).
Sui trecenteschi codici tolosani dell'«Académie des Jeux Floraux» i quali ci tramandano l'opera poetica di Cornet e degli altri maggiori rappresentanti della «scuola», cf. JEANROY, Bibliographie sommaire, cit, p. 29 (sigle t' e t2, mentre J. MASSÒ TORRENTS, Repertori de l'antiga literatura catalana, Barcelona, 1932, I, pp. 75-6 adotta β e β') nonché BRUNEL, Bibliographie, p. 77 n° 265 (con rimando a Deux mss., introduzione ed edizione), inoltre l'ampio resoconto di JEANROY, HLF (cf. poi note seguenti). La Gloza di Cornet occupa, in t', i ff. 26rº-27vº: 153 versi in tutto (escludendo dal computo quelli di Panassac), interrotti (verso la presumibile conclusione: sono già state trascritte cinque coblas e parte della sesta del componimento glossato) a causa di un danneggiamento meccanico (la caduta del f. 28).
Converrà infine segnalare che, in opposizione a quanto comunemente verificabile per l'Exp. di Riquier (cf. cap. prec, n. 1), l'intitolatura della Gloza risulta avere un suo peso nelle scelte catalogative moderne: a uno specifico «genere» o sottogenere (Gloza, appunto) fanno riferimento sia il repertorio di BRUNEL (Bibliographie, Table méthodique: VIII 4, p. 120) che quello di FRANK (II, pp. 80 e 201), mentre solo JEANROY si distingue proponendo la assimilabilità della gloza ad una letra (in risposta a un quesito non pervenutoci: HLF, pp. 64-5). Cf. anche note seg. ()
 
(58) La giusta inserzione di RCornet all'interno della fase «tolosana» del trobadorismo (cf. JEANROY, HLF, partic. pp. 31-65, ANGLADE, Leys, IV, pp. 92 ss., PAGÈS, pp. 128-136, NELLI, Érotique, pp. 265-274, RIQUER, HLC, I, pp. 521-32 e passim) non deve far dimenticare i possibili agganci al milieu di Rodez, avvenuti forse per il tramite paterno (figura assai poco nota, il cui unico componimento certo è quello analizzato da JEANROY, HLF, pp. 28-31; cf. Deux mss., Intr., pp. XXVII-XXIX con edizione del testo a pp. 77 ss., nº XXXIX). Del resto, come opportunamente rilevava Anglade, Enrico II di Rodez, «auprès duquel se rassemblèrent la plupart des troubadours de la décadence, vit jusqu'au début du XIVe siècle [...] Il est tout à fait vraisemblable que le père du plus grand troubadour de cette école, Raimon Cornet, a connu le milieu qu'avaient fréquenté Folquet de Lunel, Guiraut Riquier, le catalan Serveri de Girone et beaucoup d'autres troubadours. Que l'on se rappelle enfin que ce même Raimon Cornet est né dans le Rouergue aux environs de 1300, et l'on ne sera pas étonné qu'il ait pu hériter de son père et sans doute aussi de quelques autres troubadours survivants du XIIIe siècle, les goûts et les traditions de l'École de Rodez que l'École de Toulouse allait faire revivre» (ANGLADE, Troub. Toul., pp. 198-99, con rimando a Deux mss., p. XXVIII n. 1 dove già si ipotizzava che l'educazione letteraria dei Cornet padre e figlio fosse avvenuta alla corte di Rodez). Cf. infine la sistemazione bibliografica operata da F. ZUFFEREY, Bibliographie des poètes provençaux des XIVe et XVe siècles, Genève, 1981, nº 557 (Cornet 'père') e 558 (Raimon de Cornet, sulla cui Gloza v. in particolare a p. 62).
Oltre alla serie tolosana, l'unica pièce di Raimon de Cornet a noi nota è costituita dal sirventes conservato in esclusiva dal codice barcellonese Sg (su cui v. JEANROY, HLF, pp. 8-11 e in specifico p. 45), edito da J. MASSÒ TORRENTS, Poésies en partie inédites de Johan de Castellnou et de Raimon de Cornet d'après le manuscrit de Barcelone, in «Annales du Midi», vol. XXVII-XXVIII (1915-1916), pp. 5-36, ap. 15 n. VII (Ins en la font de cobeytat se bayna: v. anche ZUFFEREY, Bibliographie cit., p. 55 n. 21). Da ascrivere invece a PCardenal, come segnalato da tempo (JEANROY, HLF, p. 10 n. 5, nonché P.-C, 335, 57 e ZUFFEREY, p. 60), l'altro unicum attribuito da Sg a Raimon de Cornet (ed. MASSÒ TORRENTS, p. 28 n. XV: Totz temps azir falsetatz ez engan, ma v. PCardenal, ed. LAVAUD, p. 494 n. LXXV). Su RCornet ed altri trovatori tardi v. anche M. PERUGI, Trovatori a Valchiusa. Un frammento della cultura provenzale del Petrarca, Padova, 1985 (e P.G. BELTRAMI - M. SANTAGATA, «Razo e dreyt ay si·m chant e·m demori». Un episodio della cultura provenzale del Petrarca, in «Rivista di letteratura italiana» V (1987), fasc. 1, pp. 9-89). ()
 
(59) En vos lauzar es, Dona, mos aturs (Deux mss., n. XXVIII = Gloza, per cui v. le indicazioni date in precedente n. 4, e inoltre qui avanti nota 11 per l'assetto metrico). Le poche notizie biografiche desumibili da NOULET-CHABANEAU (ib., pp. XI ss.: stato sociale, luogo di nascita, approssimata cronologia) si completano grazie alla curiosità erudita di A. THOMAS (BPanassac I e II) che peraltro non giova all'edificazione morale di questo co-fondatore della Gaya Sciensa (cf. anche il débat Thomas-Fourgeot nei medesimi «Annales du Midi», vol. XXVIII, 1916, pp. 389-93, e infine la nota di C. SAMARAN, À propos de Bernard de Panassac, ib., vol. XXXI-XXXII, 1919-1920, pp. 430-435).
La sua carriera letteraria, pure oggetto di più frequenti annotazioni, risulta esigua nei reperti oggi disponibili: oltre al componimento glossato da Cornet, l'unica pièce a noi nota è quella, univocamente profana, segnalata da A. PAGÈS in «Annales du Midi», II, 1890, p. 531, e su cui v. poi THOMAS, BPanassac I, pp. 42-46; cf. ora ZUFFEREY, Bibliographie, cit., n. 482. ()
 
(60) Per quanto attiene al primo aspetto, «il était absolument interdit aux poètes de la nouvelle école de puiser leurs inspirations dans l'amour des dames» (Deux mss., pp. XII-XIII). L'assunto è fatto proprio anche dalle Leys d'Amors (cit. ib.), oltre che da singole voci poetiche: cf. in proposito la querelle mossa da Guiraut Riquier, ed. PFAFF n. LXXXI, vv. 60 ss., di cui citaz. anche in Deux mss., p. XXXVII n. 1 (al diletto dichiarato dall'autore in prima persona «de far bels dictamens» si oppone il biasimo delle autorità e anche della vulgaris opinio: «Mas lo pus de las gens / O tenon a folor, / E neis nostre rector / Dizon, que peccatz es.»). Proprio a Riquier del resto si deve quel «manifeste — fort explicite — qui condamne le «passé» et l'amour profane» rappresentato dalla canso XXVII, Yeu cujava soven d'amor chantar, del 1289 (ed. MÖLK, p. 117 e ss.), citato appunto a propositodi questo ribaltamento ideologico-poetico da NELLI, Érotique, p. 263 (cf. anche J. SALVAT, La Sainte Viergedans la littérature occitane du Moyen Âge, in «Mélanges [...] Frank», Saarlandes, 1957, pp. 614-656, a pp. 621-2 che ancora ammette «la possibilité d'une double interprétation»); lo precede di un anno la canzone alla Vergine Kalenda de mes caut ni freg (nº XXVI dell'ed. MÖLK), dove per la prima volta secondo ANGLADE «le poète emploie résolument la phraséologie conventionnelle des chansons d'amour», volta però ad ambito squisitamente religioso (GR, p. 296). ()
 
(61) Gli studi del Nelli segnano una svolta determinante rispetto alla linea tradizionale che, dai generici apprezzamenti di ANGLADE (cf. Hist. somm., p. 112, Troub. Toul., pp. 198 ss., ecc.), giungeva all'articolato (sul piano dell'analisi tematica e formale) ma tutto sommato monocorde contributo di JEANROY, HLF (cf. nn. prec.): molti dei componimenti di Cornet si rivelerebbero «textes fastidieux [...] parfois de véritables logogriphes» (p. 47), «puérils exercices de prétentieux verbalisme» (p. 49), e tale «variété abstraite du trobar clus» formalizzerebbe quella che risulta, a Jeanroy come ai suoi antecessori Noulet-Chabaneau, l'idea portante della produzione tutta del nostro autore: «le sage doit préférer l'amour de Dieu à celui des créatures; ce que le poète célèbre sous le nom d'amour pur, noble ou loyal, c'est donc tout simplement la foi chrétienne et la pratique des vertus religieuses» (p. 48).
La reinterpretazione, se non proprio «eretica», senz'altro antitradizionale del Nelli (esplicata soprattutto in Écrivains, II, pp. 335 ss.) provvede in modo non indifferente alla riabilitazione poetica di Cornet, in particolare per i suoi versi sul Joy che, definiti da Jeanroy nei poco lusinghieri termini su riportati, vengono ora con buoni titoli di credibilità inseriti «parmi les plus beaux poèmes mystiques de la littérature occitane» (Écrivains, I, p. 329). ()
 
(62) Per uno sguardo d'insieme alla storia dell'Occitania si può partire dal volume Histoire du Languedoc, publiée sous la direction de P. WOLFF, Toulouse, 1967, a pp. 196-233 per il periodo che ci riguarda (Le Languedoc royal, con bibliografia in finali pp. 232-233); in specifico su Rodez ed il Rouergue, esistono recenti pubblicazioni collettive (Histoire du Rouergue e Histoire du Rodez, sous la direction d'H. ENJALBERT, Toulouse, 1980 e 1981).
Quanto alla tormentata dinamica religiosa (e sociale) dell'epoca, cf. NELLI, Érotique (partic. i capp. V e VI, dedicati rispettivamente a La période albigeoise e La condamnation de 1277, pp. 247 e 265 ss., nonché la più approfondita ricerca dello stesso autore, La vie quotidienne des cathares du Languedoc au XIIIe siècle, Paris, 1969, partic. pp. 143 ss.), W.L. WAKEFIELD, Heresy, Crusade and Inquisition in Southern France, 1100-1250, Berkeley, 1974, e inoltre l'aggiornata messa a punto di Y. DOSSAT, Église et hérésie en France au XIIIe siècle, London, 1982. Non dimentichiamo infine che si tratta di anni carichi di profonde tensioni socioeconomiche: cf. le ricerche specialistiche di P. WOLFF, Regards sur le Midi médiéval, Toulouse, 1978, e la raccolta di studi «Paix de Dieu et guerre sainte en Languedoc au XIIIe siècle», Toulouse, 1969 (toccante tutti i principali aspetti di quest'epoca di crisi). ()
 
(63) Così il Nelli propone di leggere la Gloza di Cornet, in parallelo a quello che ritiene il «double jeu poétique et mystique» di Panassac (verosimilmente inviato, comunque, a una destinataria terrena e non celeste): «En soutenant ainsi, contre toute vraisemblance, que cette poésie faussement mystique célébrait vraiment le doux servage de la Reine des Cieux, on peut se demander si le grand poète contestataire de ce Siècle d'Or finissant n'a pas voulu se livrer à une sorte de canular»; quindi una dimostrazione «par l'absurde» della disutilità e anzi della dubbia consistenza morale di tale imperativo teorico (NELLI, Écrivains, II, pp. 312-13). Cf. anche Deux mss., p. XXXIX (può risultare significativo il passato «béguinage» di RCornet, «où le mysticisme amenait si facilement la confusion des deux amours»). ()
 
 (64) Le caratteristiche metriche della Gloza dipendono almeno in parte da quelle del vers di Panassac in essa inserito, costituito da coblas crozadas retrogradadas (con introduzione di una nuova rima ogni due coblas, fra 6º e 7º e 2º e 3º verso); le rime sono date dalle cinque vocali seguite da -rs o da -aus (Deux mss. p. LI; cf. JEANROY, HLF, p. 55 per i sondaggi circa analoghe predilezioni metrico-rimiche di Raimon de Cornet). La Gloza si lega, quindi, «per le rime» alla pièce commentata («Le vers qui précède chaque couplet rime avec le premier hémistiche de ce couplet, celui qui suit avec le dernier»: Deux mss., p. LII); in essa ritroviamo solo il primo tipo di rime (vocale + rs), data la dislocazione di -aus sempre a interno di vers. Per la meno diffusa serie in -ur(s) sono effettuabili i seguenti riscontri: Gloza, 27:28 purs: escurs, 113:114 prejurs: tafurs, 129:130 azur: segur, e vers 16: Gloza 38 segurs: escurs, vers 32: Gloza 94 durs: aturs; Exp., 592:593 mur: segur, 734:735 escurs: segurs; senza corrispondenza nel vers, infine, le rime femminili in -ura dell'Exp. (139:140 creaturas:seguras, 299:300 atura: mezura, ecc.), ma cf. Gloza, 53:54 folraduras: penchuras. Concludiamo con altri isomorfismi meno indicativi: rime in -ayre (Gloza, 139:140 - Exp., 187:188), -erra (Gloza, 125:126 - Exp., 891:892), -il(s) (Gloza, 33:34 -Exp., 189:190, 849:850), -ort (Gloza, 65:66 - Exp., 503:504 e 795:796). ()
 
(65) Deux mss., p. LII: nella Exp. di Riquier «c'est [...] avec le second hémistiche que rime tant le vers qui précède que celui qui suit». Il quadro si completa tenendo conto degli analoghi agganci istituiti fra ricitazioni di vv. calansoniani e relativi punti d'appoggio all'interno dell'Exp. (cf. qui avanti alla n. 14, anche per quanto riguarda la Gloza).
Le nostre due opere si rivelano comunque esemplari quanto a coerenza nell'attuazione dei procedimenti adottati, rispetto alla varia polimorfia osservabile sotto questo aspetto nella letteratura occitana medievale (del resto, ancora da indagare con sistematicità). Questo stato di tendenziale anarchia raggiunge forse il suo culmine nella composita Doctrina d'Acort (cf. MARSHALL, pp. 168-169 in risposta alle precedenti osservazioni di A. Ruffinatto nella sua edizione del testo), mentre al polo opposto di moderata regolarità potrebbe essere collocato il Breviari, nella sezione del Perilhos tractat (dove si verifica il costante combaciamento di rima tra primo verso citato e termine del precedente couplet: cf. in proposito RICHTER, p. 46). ()
 
(66) All'unica vera eccezione (non sussistenza della rima fra il v. 16 della canzone ed Exp., v. 266) si può rimediare facilmente previo scambio di posizione fra i due elementi che compongono l'ultimo emistichio riquieriano (trobat aiai trobat, come si attua difatti in sede di edizione: cf. qui avanti nota al testo n. 266). Per la rima tz:t fra l'ultimo verso della I. cobla calansoniana ed il v. 214 dell'Exp. (jutjatz: vertat), si tenga presente la verisimile addebitanza al copista di questa come di altre analoghe scorrettezze (idem naturalmente per Exp., 233:34 = replica del medesimo verso della canzone e inizio del commento relativo, in rima jutjatz: declarat), ma anche la più remota possibilità che fatti di questo tipo vadano inseriti nella ormai accreditata fenomenologia «limosina» (su cui cf. qui avanti, n. al testo 466). ()
 
(67) A questo livello c'è poco da osservare per la Gloza in quanto le duplicazioni dei vv. di Panassac, di per sé quantitativamente sporadiche (vv. 44, 51, 100-101), non provocano turbamenti né di misura del verso né di rima. La costante reintroduzione dei décasyllabes calansoniani all'interno di ogni specifica porzione di Exposition crea invece problemi anzitutto di eccedenza sillabica (nei confronti dei più brevi versi di sei sillabe di Riquier), a cui si cerca di porre variamente rimedio.
Ai vv. 223, 328-9, 538-9, 828-9 assistiamo così ad un inserimento almeno parzialmente «normalizzato» dei versi calansoniani, previo opportuno adattamento sul modello del verso-glossa (a ciò non ripugna nemmeno la Gloza, che però reagendo a tale mimetismo segnala la ricitazione per il tramite di additivi infratestuali elementari, del tipo Ditz el, vv. 51 e 100). A un livello di interventismo ancora più deciso si collocano le parafrasi più o meno accentuate dei vv. 227-228, 530-531, 534, 726, 790-791, 862-863 (non sempre riconosciute, a quanto consta, dai moderni editori del testo, data la tendenziale assimilazione di questi segmenti di dubbio statuto attributivo alla sezione calansoniana tout court: cf. le nostre note all'ed. n. 530-531 e 862-863).
Le motivazioni di tali lievi infedeltà possono naturalmente variare in dipendenza dal contesto rispettivo (ma almeno nell'ultimo caso la variante cove per tanh è richiesta palesemente dalla rima). Per quanto attiene in specifico alla regolarità degli agganci rimici, deviazioni minimali si localizzano nella prima porzione di Exp., v. 223 (la rima sussiste solo in progressione col v. seg.), vv. 315-316 (manca viceversa l'aggancio con il verso susseguente, peraltro addossato a un nuovo inserto calansioniano secondo le modalità dette), vv. 231-33 (a bcc c: manca la sutura tra a e b, mentre fra c e c = vv. 233-4 sussiste l'incongruenza grafica già verificata a nota n. 13); l'esempio appena citato riguarda una coppia di versi (canz., 6-7) sia pure ridistribuita su tre linee in ossequio al principio visto, mentre regolare sotto tutti gli aspetti risulta l'unico «vero» caso di inserzione triplice (vv. 648-50 = canz., 34-36). Cf. anche n. 776. ()
 
(68) Exp., 353-4 («fon [...] comparat»), 607 («fon comparat»), 642 («es comparatz»), 833 («comparet»), sempre in rima; Gloza, 127 («cumparet» a interno di verso). Da segnalare anche la comune ricorrenza del verbo pauzar (Exp., 691 e Gloza, 38), esso stesso «in un certo senso tecnico, proprio del linguaggio giuridico e del vocabolario dialettico-dimostrativo» (GUIDA, p. 92 nota appunto la sua frequenza nei jocs poetici dell'entourage di Enrico); per la sua diffusione nell'area didattica basti rimandare a JCastellnou, Glossari, § 24 p. 217, § 210 p. 255 — «dir e pauzar» —, § 268 p. 226, ecc. e a N'At, p. 149, n. 236 («darlegen», «auseinandersetzen», «zeigen»: cf. anche LEVY, SW VI, p. 155 n. 5). ()
 
(69) Il contesto più eloquente in questa direzione si situa al v. 39 (v. nota all'ed.): per e. «Bedeutung, Sinn» v. LEVY, SW III, p. 48 n. 4 comprendente, tra l'altro, citazione da N'At I 1342 (conferma in nota BERNHARDT relativa, p. 156) nonché dalla tenzone Guiraut Riquier, segon vostr'essïen, v. 34: «Guiraut, totz noms a son entendemen» (ed. GUIDA, nº I, nota a p. 94). Alla precisazione dell'area semantica pertinente a questo lessema proprio anzitutto del vocabolario intellettuale (ma anche morale e, in ultima analisi, amoroso-trobadorico) concorrono gli spogli ragionati di THIOLIER-MÉJEAN, pp. 99 ss. e CROPP, pp. 217-220; cf. anche HILDER, pp. 80-81 (probabile influsso della terminologia scolastica). ()
 
(70) Prendendo come lemmi di riferimento clar e clus, è possibile estrapolare le due seguenti serie: Exp., vv. 39-40 («l'entendement tot clar, si[·s] pogues declarar»), 212-13 («dirai vos declaran / l'entendemen per ver»), 319-21 («Ad aiso no·n cal jes / de declaratïo, / car entendut es pro»), 346-7 («Aiso s'enten assatz / e es pro declarat»); inoltre vv. 451 («pro clar, qui o enten»), 748 («donc clar es per entendre») e passim. Gloza, vv. 16-18 («L'entendemens es clars/pro del comensamen, / si que totz oms l'enten»), 120-21 («Tot son entendemen / vos ay demostrat clar»), 148-53 («Aytals pessi que fos / le sieus entendemens. / Tot l'als ditz claramens, / per qu'en vuelh pauc parlar, / car tot so qu'om ditz clar / declaracîos es.»).
II) serie: Exp., v. 65 («la chanso cluzamen»), 548 («Mot o dis bel e clus»), 691 («Mot fon gen clus pauzat»), sempre in contesti laudatori riferiti alla chanso (cf. qui avanti n. 34). In connessione antitetica a clar: vv. 105-106 («en dreg declaramens / al clus entendemens»), nonché v. 38 («trobadors clar e clus», su cui cf. nota al testo) e vv. 733-734 («Aisi a per vertat / ditz clars e pro d'escurs»). Gloza: non compare clus, la cui valenza semica è assunta dall'aggettivo escurs, e voci collegate (v.11: «escuramen parlan», v. 28: «pauc es escurs», v. 38: «sos digz pauzet escurs»); i vv. 56-57 («Assatz vos ay ubert / lo sieu entendemen») suggeriscono peraltro una presenza 'latente' di clus. ()
 
(71) Tutti questi enunciati risultano pertanto largamente topici: per il comune ricorrere delle due serie terminologiche, afferenti rispettivamente al clar glossante ed al clus glossato, cf. ad es. RCornet, Doctrinal, 530 («escurs ses gloza»), Declaratio, v. 281 («gen l'escur declaran»), JCastellnou, Glossari, §§ 349-51 p. 236, e 114, p. 221, ecc. ecc. (da p. 216: exordium, alla conclusio, p. 239). Facilissimi poi gli sconfinamenti in area oitanica: basti il rimando a JUNG, pp. 237-8, e a BADEL, 135-41, che insiste opportunamente, tra l'altro p. 313 e passim, sulla significatività «positiva» di clus, dato l'accertato rapporto di sinonimia istituibile con sotilssubtile est l'oeuvre qui peut être declairiee et dont la glose, instituant cette oeuvre en texte, contraint le lecteur à acquérir un savoir universel»: cf. qui avanti n. 33). ()
 
(72) «La procedure clef, c'est la greffe ou la coûture, point d'articulation du citant et du cité» (CHARLES, p. 131). L'uso della transitio è codificato teoricamente dalle Leys d'Amors (G.-A., IV, p. 340: «Transitios es una color per laqual homo continua las cauzas dichas a las dizidoyras [...]»).
Per quanto riguarda la Gloza, dispositivi del genere risultano assai desueti, limitandosi per lo più ai semplici segnali introduttivi di coblas (El ditz, Pueys ditz, Pueus ditz, ecc.) tra l'altro autoescludentisi dal computo metrico. Per transitiones più assimilabili al tipo riquieriano cf. l'inizio delle sezioni I e II (vv. 16 e 38 ss.), e passim all'interno delle singole porzioni di commento (dove la più elastica localizzazione è già di ostacolo a un netto individuamento della formula). ()
 
(73) Exp., vv. 208-13 e 214-16, 260-65 e 266-69, 380-86 e 387-92, 484-87, 609-14 e 615-18, 727-32 e 733-40: l'estensione media è di 10-11 vv., escluso l'attacco in medias res dell'esposizione della IV. cobla (a metà dell'opera, vv. 488 ss.) che come notiamo altrove costituisce il culmine della prova ermeneutica di Riquier, caratterizzato da specifici mezzi espressivi quale anzitutto l'insistenza sulle figure etimlogiche (v. n. 136). ()
 
(74) Cf. in proposito J. GRÜBER, Laura und das trobar car. Studien zur Stilistichen Funktion des Enjambements [...], Hamburg, 1966, pp. 84-7 (rimandi puntuali all'Exp. di Riquier che ricorrerebbe appunto a tali variazioni sintattico-metriche allo scopo di evitare «eine eintönige Wiederholung») e in generale la rimeditazione di P.G. BELTRAMI, Sondaggi per un'analisi sintattica: tipologia delle connessioni tra verso e verso, in Metrica, poetica, metrica dantesca, Pisa, 1981, pp. 67-102. ()
 
(75) Per l'Exp., un computo esaustivo sarebbe assai lungo: basti qualche rimando indicativo ai più diffusi sintagmi segon lo / al m(i)eu semblan (vv. 211, 214, 363, ecc.), al m(i)eu albir (260, 290, ecc.), (a) mi par (62, 82, 121, 168, 170, ecc.), segnalando la loro collocazione preferenziale in zona introduttiva di commento (es. a vv. 266-67: «Segon qu'ieu ai trobat / en mon entendemen»). Nella Gloza, l'alta frequenza di espressioni cautelative (vv. 5, 12, 39, 46, 69, 140, 144), perlomeno tale se commisurata alle brevi proporzioni del testo (153 vv. escluse le inserzioni), è certo da connettere all'oggettiva quantità (e qualità) degli enigmi ricorrenti nel vers di Panassac, alcuni dei quali probabilmente impenetrabili all'esegesi. Per concludere con le parole di A. JEANROY, «on ne saurait affirmer que Cornet en a sûrement retrouvé la clef, mais il en a du moins présenté en un style agréable des interprétations ingénieuses» (HLF, pp. 64-5). ()
 
(76) Cf. in proposito DAMMANN, pp. 40-42: tali clauses de modestie rilevano da un lato del topos retorico esordiale (ZUMTHOR, pp. 106-7) e si qualificano al contempo elemento strettamente connaturale al «commento», il cui statuto assai variabile si precisa anche in rapporto al grado di «modestia» del commentatore (CHARLES, p. 136, e cf. le altre indicazioni alla nota 6 del cap. prec.). ()
 
(77) Si tratta di serie ben riconoscibili: ver / vertat dis (vv. 214-215, 273, 290 e passim), ses / senes mentir (vv. 270, 428, 537, ecc., cf. a 591 senes guila), a / segon / per razo passim, la cui stretta specificità di funzione trova conferma negli spogli effettuati su altri testi del settore, primo fra tutti la Gloza (v. nota seg.).
Il valore di queste ed altre consimili clausole stilemiche sarà meglio focalizzato se, al di là dell'aspetto meramente laudativo (che giunge alla dichiarata superfluità del proprio intervento: cf. ai vv. 319-321 e passim), saranno considerate spie «de cette fierté professionnelle de poète qui au moyen âge constituait un topique» (MONSON, p. 21, con rimando ad E.R. CURTIUS, La Littératureeuropéenne et le moyen âge latin, Paris, 1956, pp. 590-591). Sintomatico quindi il rialzo di frequenza osservabile nelle zone di apicale oscurità del testo calansoniano, mentre sarà dovuta alla buona diplomazia del commentatore la loro comparsa a sostegno dei luoghi dove si compie una più aperta ingerenza «interventista» nei confronti del presumibile senso originario (cf. n. 36). ()
 
(78) Gloza, vv. 3-6 («vers mot cortes, / lo quals certamens es [...] de la Verge plazen»); 20-23 («Be par, segon albire / d'ome que trobar sab, / le vers, senes tot gab, / de la mayre de Dieu»); 32 («Certamens el volc dir»); 130 («Volc el dire segur»); cf. poi a vv. 45-46 dove il rigore dell'asserto è sfumato dalla consueta precisazione cautelativa («E volc o del cel dire, / segon lo mieu albire»). Tramite fra allegoria e relativa allegoresi, l'usatissimo verbo esser (cf. a vv. 55, 70, 73, 79, 115, 136, 142), spesso rinforzato con ulteriori moduli asseverativi (da avverbi di afferrnazione, tipo sert, all'ottativa «si Dieus m'ajut»). Per i parallelismi comunque istituibili in questa direzione con l'Exposition, cf. la nostra nota al testo n. 532. ()
 
(79) Gli esempi svariati di coblas am refranh, vers figurat e declaratiu ecc., tutti tipici prodotti della consorteria poetica della «Gaia Scienza» (cf. A. JEANROY, Les Joies du Gai Savoir, Toulouse, 1914, e partic. Appendice a pp. 267 ss.), rappresentano ulteriori tentativi di sperimentazione nel campo (certo, latamente comune) della pièce avec citation (cf. le indicazioni generali già date nel cap. prec, n. 7).
Ad un'indagine più focalizzata potrebbe invitare (ma, purtroppo, si tratta di un cammino a ritroso del tutto incognito) la comparsa della «glosa» come genere poetico autonomo nell'area poetica ispanica del sec. XV (v. T. NAVARRO, Métrica española. Reseña histórica y descriptiva, New York, 19662, pp. 125-28 e cf. a p. 529 s.v. Glosa; R. BAEHR, Manual de versificación española, Madrid, 1970, pp. 330-339, e infine G. CARAVAGGI, Alle origini del petrarchismo in Spagna, in «Miscellanea di studi ispanici», Pisa, 1971-73, pp. 7-101). Accettati come verosimili gli invocati contatti con l'area galloromanza (P. LE GENTIL, La poésie lyrique espagnole et portugaise à la fin du moyen âge, Rennes, 1952, II, pp. 291-304: La glose), anche tenendo conto delle peculiarità irriducibili della glosa (anzitutto della sua costante organizzazione strofica) pare che più delle sparse analogie riscontrabili con questo o quel genere «gallico» (dalla ballada al fatras) o con lo stesso villancico iberico, meritino attenta considerazione proprio i nostri reperti provenzali. Essi permettono almeno di ovviare al troppo esiguo spazio concesso a questo ambito dal Le Gentil (che cita solo il Breviari, posto in connessione con il Conhort del catalano Francesc Ferrer): la rete dei riscontri è, in questa direzione, subito ispessibile con altri pertinenti rimandi (basti pensare alle composizioni glossate di Arnau March, o alle noves rimades di Pere Torroella destinate a illustrare i tormenti d'amore con l'ausilio di densissime e svariate citazioni romanze: per le prime indicazioni, v. PAGÈS, pp. 180-181 e 395-396, RIQUER, HLC, I, pp. 677-678 e III, 161-163). ()
 
(80) La specializzazione semantica assunta da entendedor in ambito trobadorico-cortese, dall'originaria accezione di «verständlich» (LEVY, SW III, 46, e RAYNOUARD, Lexique, V 327 n. 24) ad «intenditore d'amore», quindi «innamorato, amante» (che altri non è, del resto, se non «celui qui tend, applique son esprit à quelque chose»: BCarbonel, Coblas, p. 180, n. a III 1) è stata ampiamente commentata (basti rimandare a F. BRANCIFORTI, Note al testo di Guilhem de Montanhagol, in «Filologia e Letteratura», XIV, 1968, pp. 337-405, a p. 351 e nn. 70, 71; Gavaudan, p. 293, n. a VI 1-3 con ulteriori rimandi). Un equivalente italiano antico (a livello culturale se non strettamente lessicologico) potrebbe essere rappresentato da conoscente, «termine tecnico filosofico pieno di implicazioni» (CORTI, Felicità, pp. 18-19) e insieme di spiccato utilizzo in ambito lirico amoroso. ()
 
(81) Per la cronologia dell'opera riquieriana, v. BERTOLUCCI, Il «Libro», pp. 247 ss.: l'Exposition, datata al suo interno (vv. 20-25) con la solita esattezza, e cioè gennaio 1280, risulta la prima opera composta a Rodez dopo il periodo «castigliano» (ANGLADE, GR, p. 171 e n. 2; GUIDA, Jocs, pp. 33-34), mentre ancora dal territorio iberico proviene la terza e ultima «retroencha», scritta nella seconda metà del 1279 e già dedicata ad Enrico II (BERTOLUCCI, Il «Libro», p. 232 nº 57; LONGOBARDI, vers, p. 88 n. 1-4).
Come nell'Exp. apre il secondo soggiorno rouergate nel nome benemerito di Enrico, così il Testimoni (di Enrico medesimo? cf. qui avanti al capitolo successivo) contiene la sua ultima menzione: al di là di questo «triomphe littéraire», «le nom du comte de Rodez ne reparaît plus dans ses vers» (ANGLADE, GR, p. 182; cf. JEANROY, Poésie lyrique, I, p. 296 e n. 4). ()
 
(82) All'«eterogenea compagine, che si presenta non già come un gruppo chiuso, ma come una maisnada aperta al giudizio e agli interventi del pubblico più vasto della corte» rappresentata dal circolo culturale di Rodez, in specie sotto Enrico II, dedica peculiare attenzione l'Intr. di GUIDA, Jocs (pp. 29 ss.), concretizzando del resto, in base alla sua indagine settoriale, quanto già più volte affermato circa i rapporti letteratura-pubblico nel Medioevo: cf. in particolare CORTI, Principi, pp. 53 ss. («se l'autore sa, come accade nel Medioevo, di avere un pubblico definito e con una precisa ideologia, è anche definita la sua funzione di scrittore [...] l'opera allora contiene in se stessa l'immagine del lettore cui è destinata») e le più generali considerazioni di A. ASOR ROSA, Letteratura, testo, società, in «Letteratura italiana», vol. I: «Il letterato e le istituzioni», Torino, 1982, pp. 3-29, a p. 10 (in ogni caso specifico, «l'astrazione rappresentata dal concetto di pubblico va ricondotta alla concretezza dei singoli soggetti storici che la compongono: [...] si va dal singolo fruitore [...] ai soggetti collettivi, per i quali la lettura s'ispira a regole elaborate in comune e talvolta anche intenzionalmente programmate e diffuse»). A un'accuratissima indagine sulla poesia provenzale antica «dalla parte del destinatario» è ora dedicato tutto il volume di M.L. MENEGHETTI, Il pubblico dei trovatori. Ricezione e riuso dei testi lirici cortesi fino al XIV secolo, Modena, 1984.
Alla problematica della recezione in ambito specificamente a.prov. si è interessato anche D. RIEGER (Audition et lecture dans le domaine de la poésie troubadouresque. Quelques réflexions sur la philologie provençale de demain, in «Revue des langues romanes», t. LXXXVII (1983), n. 1: «Le texte des troubadours», pp. 69-85 = Hören und Lesen im Bereich der trobadoresken Lieddichtung [...], in «Zeitschrift für romanische Philologie», 100 (1984), 1/2, pp. 78-91, e «Senes breu de parguamina»? Zum Problem des 'gelesenen Lieds' im Mittelalter, in «Romanische Forschungen», 99 (1987), heft 1, pp. 1-18). ()
 
(83) Potrebbero fungere da segnali testuali dell'oralità della rappresentazione i verbi auzir (Exp., vv. 55, 179, 269) e, di riscontro, parlar (vv. 175, 184, 384), che, riferiti rispettivamente al destinatario ed all'espositore, sembrano sottintendere una certa concretezza fonica (ma si tratta, come si vede, di elementi poco probanti almeno in via univoca, data l'avvenuta loro cristallizzazione letteraria, in formule di massiccio utilizzo).
La forte carica di «spettacolarità» rilevata da GUIDA (Jocs, pp. 31 ss.) alla base delle varie manifestazioni culturali e mondane dell'entourage di Enrico II ben si attaglia del resto alle più generali e già abbastanza indagate tendenze di gusto della società «cortese» dell'epoca (cf. ad es. G. OLSON, Literature as Recreation in the Later Middle Ages, Ithaca-London, 1982, partic. a pp. 64 ss., 90 ss., e J. VERDON, Les loisirs au Moyen Âge, cit., pp. 211-257; per altre indicazioni si rimanda a quelle esaurienti di GUIDA, passim e a MENEGHETTI, vol. cit., partic. pp. 80-97 volte a descrivere «la situazione mondana, l'occasione nella quale la performance stessa [esecuzione trobadorica] ha luogo»). ()
 
(84) Tali specificazioni rientrano nei fini tradizionali dell'exordium, tendente ad accattivarsi la necessaria benevolentia «en expliquant les raisons qui ont amené l'auteur à s'exprimer» (MONSON, p. 87 n. 13) e risultano qui doppiamente pertinenti trattandosi di opera «critica» e non poetica, che impone, quindi, in primo luogo «la reconnaissance des limites de la propriété» («A partir de là, on définit les droits d'appropriation [...] Tour ceci nous rappelle che le contrat littéraire de l'écrivain n'est pas le même que celui du critique», ecc.: L. PERRONE-MOYSES, L'intertextualité critique, in «Poétique», n. 27, 1976, pp. 372-384, a p. 373). Nella nostra prospettiva storica, andrà tenuta presente in particolare l'introduzione alla glossa o accessus, le cui «parti» o circumstantiae della composizione (causa, soggetto, scopo, ecc.) sono richiamate anche in JEAUNEAU, Gloses et commentaires, cit., pp. 121-122. ()
 
(84 bis) La «politica egemonica ed accentratrice del conte», anche al livello propriamente letterario, viene messa in luce con particolare insistenza da GUIDA, Jocs pp. 67 ss., forse oltre i limiti di quanto storicamente deducibile: anche se tale giudizio andrà sfumato in rapporto a Riquier, personalità essa stessa ben forte e quindi antagonista quasi d'eccezione all'interno del gruppo, la genesi dell'Exposition si colloca all'interno di quel comune gusto del «gruppo di Rodez» per l'opera letteraria in quanto ars, interessante in primis «per la sua qualità espressiva» (ib., p. 68). Per quanto attiene infine agli altri frequentatori della corte (poeti di spicco come BCarbonel, CGirona, FLunel) cf. qui avanti Test., n. 6. ()
 
(85) Cf., 1.1.1. n. 21: alla bibliografia si può aggiungere R. LEJEUNE, Rigaut de Barbezieux, analyse textuelle et histoire littéraire, in «Moyen Âge», LXVIII (1969), pp. 331-377, a pp. 372-376 (per le puntualizzazioni relative all'arco temporale entro cui si colloca l'attività letteraria di maggior spicco del Puy-en-Velay: «dès la première moitié du XIIe siècle» fino agli inizi del successivo; soprattutto, in base alle concordi testimonianze producibili, «on n'a pas de raison de douter de l'existence réelle de cette cour»). ()
 
(86) È un cenno, pure programmatico, alla fase dell'inventio, «proprement la découverte des idées» (ZUMTHOR, p. 100, BAGNI, pp. 74-5, ecc.), preliminare indispensabile ad ogni opus poeticum ma anzitutto a quello didattico-allegoretico cui conviene, più che altrove, «sottigliezza». L'indicatività di frequenza dei lessemi esprimenti tale concetto, all'interno della letteratura latina e romanza dei secc. XII-XIII, viene opportunamente messa in luce da BRUNI, Semantica, pp. 1 ss. (che ne rileva le diverse sfumature, da quella più generale di «capacità intellettuale» alle più squisitamente colte, in campo teo-filosofico o retorico).
Per quanto riguarda «la cooccurrence de 'subtil', 'subtilité', de leurs équivalents latins, avec des termes tels que 'glose', 'espondre', 'entendement', 'allegorie', allegoria, involucrum» cf. le osservazioni di BADEL, p. 140 e passim; per ess. specificamente trobadorici, rinviamo a PATERSON, pp. 136 ss. ()
 
(87) Cf. Exp., vv. 64-5 («sei que fey per auzir / la chanso cluzamen»), 206-7 («sa chanso, on cubrir / saup son entendemen»), 528-9 («en Guirautz com senatz / dis o cubertamen»), 548 («mot o dis bel e clus»), ecc. (cf. anche la ns. precedente nota 17).
Termini chiave, appunto, clus e cubert, che data la pregnanza semica assunta in ambito specificamente trobadorico funzionano in contemporanea da autoestimatorio del glossatore Riquier («los virtuosos de la glosa se sienten atraídos especialmente por las dificultades que de esto resultan», nota a proposito BAEHR, Manual cit., pp. 332-333) e da indizio catalogatorio, in direzione ovviamente «escura», del poeta Calanson. Sull'annosa questione definitorio-interpretativa delle «scuole» trobadoriche, rimandiamo alla messa a punto di C. DI GIROLAMO, Trobar clus e trobar leu, in «Medioevo Romanzo», VIII, 1981-3, pp. 11-35, ricordando l'ultimo intervento al riguardo di U. MÖLK, Stiltheorien: trobar clus, trobar leu, trobar car, in Trobadorlyrik. Eine Einführung, München-Zürich, 1982, pp. 73-82; cf. infine L. MILONE, Raimbaut d'Aurenga tra 'FinAmor' e 'No-Poder', in «Romanistiche Zeitschrift für Literaturgeschichte - Cahiers d'Histoire des Littératures Romanes», VII (1983), 1/2, pp. 1-27. ()
 
(88) Coagulo definitorio dell'operazione è naturalmente il verbo reprendre, che anche altrove compare all'interno dell'Exp. (vv. 749 e 944) nella stessa accezione tecnico-programmatica comune ad altri «trattati» (Terramagnino, Doctrina d'Acort, 10; JFoixà, Regles, 15-16; JCastellnou, Glossari, p. 216, l.11 — «reprehenden ço que sera contra dever pauzat» —, p. 238, n. 421, ecc.), oltre che alla stessa Declaratio di Riquier, v. 60 («e nos, sitot repenre / crezem que no·n volran / mot que saber non an / per lonhar bes de mals [...]»). Non si raggiunge comunque, né qui né nella Gloza (che ribadisce più volte la precisa intenzione di «declarar pauc», cioè quel tanto che è necessario: cf. ai vv. 15, 19, 28, 151) la pregnanza giuridico-disputativa di cui il termine si trova ad esser investito nel Breviari, vv. 27800 ss. (Perilhos tractat), dove viene esposto il programma di serrata reprehensio nei confronti dei diffusi «failhemens» trobadorici, poi compiutamente realizzato «per digz dels autres trobadors» secondo la nota prassi dell'argumentatio per auctoritates che appunto caratterizza le «fiktiven Streitfälle» (RICHTER, p. 48; l'analogo procedimento osservabile nei Documenti d'Amore era segnalato dal THOMAS, Barberino, p. 63). ()
 
(89) Ben notata da DAMMANN (pp. 42 ss.), la generale diplomazia del doctor de trobar si concede poche eccezioni: dove il dissenso è esplicito, si tratta per lo più di affermazioni enfatiche la cui portata oggettiva deve essere ridimensionata (cf. ad es. ai vv. 162 ss.: «Aquela ses mentir / merma, que apelet, / qui la chanso trobet, / lo menor ters d'Amor; / e pogra dir maior, / si·s volgues atressi, / segon que par a mi [...]», e in parallelo 583-86: «Ben ditz sa voluntat / e pogra de mais / que las .ix. partz m'albir / que·l barris ten del mon [...]»). Si rileva qui il gusto di Riquier per l'iperbole, tollerata entro certi limiti dalle Leys d'Amors (G.-A., IV, p. 244: «Et aquesta sufertam quar es acostumada»). ()
 
(90) Con questo anticipando (prima di glossare la seconda e ultima tornada), nella stessa formulazione stereotipa, una delle modalità di conclusio previste dalle artes («epilogus, id est per recapitulationem sententiae; per operis emendationem; per veniae petitionem [...]»: BAGNI, p. 73, citazione dall'Ars versificatoria di Matteo di Vendôme). Nell'epilogo per ostensionem gloriae possono invece rientrare gli ultimi 14 vv. dell'Exp., contenenti la topica sfida agli eventuali detrattori dell'opera affinché producano una «declaratïo / pus serta [...] / et ab razos pus claras» con l'immediata e pure scontata contrapposizione della propria insuperabile eccellenza (finale, vv. 946-49). ()
 
(91) Nel Medioevo, in effetti, «on considère l'amplificatio comme la fonction spécifique de l'écrivain» (ZUMTHOR, p. 101): l'elenco completo dei vari procedimenti che ad essa fan capo secondo i trattatisti in FARAL, pp. 61-85 (e cf. anche BAGNI, pp. 134-5 e passim). Per quanto riguarda la loro concreta applicazione all'interno dell'Exp., cf. in note al testo passim (e qui avanti nn. 82-83 per la tendenziale distribuzione bilanciata fra procedimenti «descrittivi» e «annominativi», analogamente a quanto osservato per l'ensenhamen da MONSON, pp. 69 ss.). ()
 
(92) Per quanto riguarda le digressioni, anche qui siamo in linea coi precetti delle artes che contemplano appunto la digressio fra i normali procedimenti amplificatori (cf. FARAL, pp. 74-5, BAGNI, p. 99, ZUMTHOR, pp. 101-2, ecc.). La più macroscopica, all'interno dell'Exp. (vv. 70-101), riguarda la liceità dell'espressione menor ters (cf. qui avanti alla nota n. 42). Notevole anche la lunghissima esposizione del «primo» terzo, o amor di Dio, per la quale sono possibili riscontri puntuali nelle chiuse devote di altre «epistole» riquieriane (Exp., vv. 884-921, cf. nota n. 93). Non tanto assimilabili a digressioni, quanto direttamente funzionalizzati alla testura disputativa (sia pure latente) dell'Exp., i vv. dedicati alla querelle fra illusi amanti e savi entendedors sostenitori del poeta (vv. 250-9, 842-53, 936 ss.). ()
 
(93) La verifica concreta dà esiti di precisione quasi assoluta: alla seconda cobla sono infatti dedicati 121 vv. di Exp., alla terza 101, alla quarta 127, alla quinta 118 ed alla sesta 125. Tornano qui a proposito le considerazioni di ANGLADE (GR, pp. 12 ss.) circa quell'«esprit d'ordre et de méthode qui cadre mal avec les reproches qu'il s'adresse souvent sur sa négligence habituelle», deducibile dall'armonico assetto del «libro» (numero stesso dei componimenti inseriti, perfettamente bilanciato tra vers e cansos; intitolature, ecc., su cui cf. i sondaggi approfonditi di BERTOLUCCI, Il «Libro», passim). ()
 
(94) In effetti, il commento sulla seconda tornada si risolve in un asciutto no comment (vv. 932-935), che del resto provvede ad una sua caratterizzazione sia pure «in negativo», congruente a quanto risulta dalla teoria e la pratica trobadorica («non es / del sen de la chanso»: sulla tipologia di questa parte periferica della canzone cf. JEANROY, Poésie, II, pp. 93-4 con gli aggiornamenti di U. MÖLK, Deux remarques sur la tornada, in «Metrica», III, 1982, pp. 3-14). La ben più estesa discussione della prima tornada calansoniana (73 versi, come detto) si situa in rapporto alla sua opposta pregnanza semica, costituendo essa un indispensabile complemento al contenuto della canzone (la definizione dei primi due «terzi», a suggello chiarificatore e contrastivo della lunga descriptio del menor che occupa tutti i precedenti versi). Questo sconfinamento in zona di tornada di una porzione tematica così rilevante per il sens complessivo della canzone non risulta in effetti molto comune nella prassi trobadorica: più verificabile se mai l'opposto addentramento, nel corpo centrale delle coblas, di quegli elementi (dedica, invio, ecc.) di normale competenza della tornada medesima (C. DI GIROLAMO, Elementi di versificazione provenzale, Napoli, 1979, pp. 63-65); pure diversa dalla presente è la situazione per cui «la tornade ne contient pas d'envoi et répète, en termes à peu près identiques, une pensée exprimée dans un des couplets précédents» (JEANROY, l. cit., p. 93 n. 3). ()
 
(95) Cf. la precedente nota n. 39. Nonostante che qui raggiunga forse il culmine quel virtuosismo interpretativo di cui l'Exp. offre dovizia di esempi, la sbrigativa condanna Dammann del passo (invece di giungere subito all'essenziale, Riquier indugerebbe qui in «Nichtigkeiten», banalità: p. 42) scavalca quello che risulta il gusto culturale dell'epoca e dell'ambiente (messo in luce, ad es., da ANGLADE, GR, pp. 278-80 e passim, PAGÈS, pp. 123 ss., 277 ss., ecc., e cf. gli utili riscontri di MONSON, pp. 125 ss. sulle «orge» classificatorie e definitorie organizzate da N'At de Mons). ()
 
(96) Facciamo riferimento, in particolare, alla motivata analisi di BRUNI, Modelli, pp. 21-34 (rivolta all'ambito universitario italiano del Due-Trecento, ma agevolmente estensibile agli altri paesi di civiltà latino-romanza). Per il settore galloromanzo, l'espressione letteraria più compiuta di questo ideale è forse costituita dal Roman de la Rose, parte II (cf. J. BADEL, Raison 'fille de Dieu' et le rationalisme de Jean de Meun, in «Mélanges [...] Frappier», Genève, 1970, I, pp. 41-52), ma utili riflessioni forniscono anche gli stessi romanzi cortesi (almeno stando all'interpretazione sociologica di E. KÖHLER, L'aventure chevaleresque, Idéal et réalité dans le roman courtois, Paris, 1974, pp. 205-7). ()
 
(97) Tenuto in conto che proprio nel sec. XIII un tale armonico ideale di «sapienza cristiana» riceve scosse irreparabili (cf., per un primo indirizzo alla questione, «Enc. Dant.», IV, pp. 831 ss. s.v. ragione, con rimandi bibliografici), si può citare dall'art. del BADEL (n. prec): «dans la mesure où l'entendement humain est l'image de la raison divine [...] la cultiver, c'est être toujours plus pleinement humain et reconnaissant envers le Créateur. Aimer Raison, c'est aimer Dieu» (p. 50; cf., con appropriate citazioni di fonti tomistiche e non, GILSON, Esprit, pp. 304 ss.). ()
 
(98) Interessanti anche le chiose fornite da più di un poeta «dotto» a tale vulgato assioma: per l'oc risulta esemplare il passo di N'At de Mons, II, vv. 300 ss. («Mas la razo entendre / nos da Dieus, per voler / governar e tener; / car ja leu no fara, / pus a sa guia va, / sos volers mas foldat», a vv. 335-40; cf. a 343-4 la corretta indicazione aristotelica delle sedi rispettive, razo «el servel» e voler «el cor»: NARDI, pp. 26 ss.). Resta inteso che, al di là dell'esatta rispondenza lessicale, i riscontri possono avvalersi di altre numerose bipolarità concettualmente equivalenti: basti il rimando a qualche passo del Breviari (per es.: ai vv. 28605 ss. dove l'affermazione che Amore «solamen sec so voler» viene corroborata dalla autorità di Bernart de Pradas, Ab cor lial, fin e certa = RICHTER, p. 207, n. 52, dove al v. 23 sono opposti cosseilh e talen), oppure a BCarbonel, Coblas, LXI 7-8 (sen/talen). Per altri riscontri in questa direzione cf. DAMMANN, pp. 48 ss., e PAGÈS, pp. 292-3 e note (rimandi, fra l'altro, a Cerverì ed al medesimo Breviari; anche per Ausiàs March è palese la necessità di contemperare «Volentat ab la Rahó», cf. componimento II cit. ib.).
Invita a qualche pur superficiale scandaglio, infine, il campo poetico italiano, così sensibile alla speculazione intorno all'amore: ricordiamo solo Guittone, Trattato d'Amore (partic. 243, 4-6 dove sono antinomizzate proprio «firmeza di ragion» e «scanoscenza e volontà noiosa») e Cavalcanti, Donna me prega, vv. 35-41 (commentati in CORTI, Felicità, pp. 28-9); altre indicazioni in d'A. S. AVALLE, Ai luoghi di delizia pieni. Saggio sulla lirica italiana del XIII secolo, Milano-Napoli, 1977, pp. 67-69. ()
 
(99) «Aristotle himself recommends attention to contraries in the investigation of the meaning of words», e l'aetas Aristoteliana delle scuole parigine (XII-XIII secolo) ha i suoi riflessi anche a livello letterario: basti pensare allo spazio decisamente ampio riservato dalle nuove artes poeticae alle figure retoriche di tipo antitetico, dalla contentio al contrarium (HUNT, p. 97 e passim; FARAL, p. 64).
Per quanto attiene alla peculiare fenomenologia dell'antitesi in campo trobadorico, cf. Bec (col pendant più direttamente engagé sul piano del contenuto fornito da M. MANCINI, Antitesi e mediazione in Bernart de Ventadorn, in «Attualità della retorica», Padova, 1975, pp. 129-152), e le ulteriori indicazioni di N. PASERO, Devinalh, «non-senso» e «interiorizzazione testuale»: osservazioni sui rapporti fra strutture formali e contenuti ideologici nella poesia provenzale, in «Cultura Neolatina», a. XXVIII, 1968, pp. 113-146, a p. 137 e passim (del resto, «molti esempi di opposita compaiono anche in testi mediolatini trattanti il tema degli effetti contradditori dell'amore»; per il cfr. con l'area italiana cf. pure ib., pp. 141 ss.). ()
 
(100) «La théorie de la volonté et de l'appétit nous introduit au coeur même de la conception thomiste des passions» (PAGES, p. 293, prendendo spunto dallepoesie di A. March ma con ampie citazioni latine e provenzali). L'equilibrio ragionevolontà viene meno quando la seconda prevarica sulla prima, asservendo l'uomo alla cieca passio e spegnendo la luce del libero arbitrio (non dimentichiamo che quest'ultimo è definito da S. Tommaso «facultas voluntatis et rationis»: S. Th., Ia IIae, Qu.Ia, 1). La plana volontat di Calanson (e di Riquier) corrisponderà quindi all'appetito sensitivo in opposizione al razionale, alla folle cupiditas: «A tal punto è come se l'uomo non avesse la sua vera vita; difatti egli non sa più agere secundum rectam rationem, che è insieme recta ratio naturae e recta ratio intellectualis [...] con cui si ha la signoria stabile di sé» (CORTI, Felicità, p. 29). ()
 
(101) «Amare est velie alicui bonum», da Aristotele a S. Tommaso (S.Th., I-II, Qu. XXVI, 4), ma più specificamente la corrente mistica distingueva una voluntas propria ed una communis, identificando in esse rispettivamente la smodata egoistica passio e l'agapico amor Dei («Voluntatem dico propriam, quae non est communis cum Deo et hominibus, sed nostra tantum [...] Huic contraria est recta fronte caritas, quae Deus est»: S. BERNARDO, In tempore Resurrectionis, sermo III, 3: cit. da GILSON, Théologie, pp. 73-4 n. 2). Ciò costituisce l'estrema sublimazione di quella ricorrentissima antitesi di lontana ascendenza riproposta dalla stessa speculazione tomistica (nei termini di amor amicitiae ed amor concupiscentiae: S.Th., Ia IIae, qu. XXVI, art. 4 e passim) e assai vulgata anche in campo lettarario nel sec. XIII (cf. A. KARNEIN, La réception du «De Amore» d'André Chapelain au XIIIe siècle, in «Romania», t. CII, 1981, fasc. 3, pp. 324-51; fasc. 4, pp. 501-542).
Cf. ora il volume complessivo di A. KARNEIN, 'De Amore' in volkssprachlicher Literatur. Untersuchungen zur Andreas-Capellanus-Rezeption in Mittelalter und Renaissance, Heidelberg, 1985. ()
 
(102) Per quanto attiene al campo trobadorico, cf. le indicazioni di CROPP, pp. 271-273 (sia voler che volontat travalicano l'originario ambito semantico, eminentemente intellettualistico, per designare «le désir d'amour»), inoltre DAMMANN, p. 48 cui si aggiungeranno Breviari, vv. 27820 ss. (da ABelenoi, Puois lo gais temps de pascor, vv. 41-2: «que fin'amor, so sabchatz, / non es als mas volontatz») e passim; N'At de Mons, V 327-8 («Segon nostres auctors / Amors es volontatz»), infine PGuillem, p. 249 v. 9 («E fai la noirir voluntatz», con la riferito ad Amore, di cui la volontat costituisce il nutrimento essenziale: dissentiamo in questo punto dall'altrove sempre conseguente parafrasi traduttoria di JUNG, p. 165 dove al contrario «la volonté» è considerata oggetto e non soggetto).
Al di fuori della Provenza: G. LAVIS, L'expression de l'affectivité dans la poésie lyrique française du moyen-âge (XII-XIII s.), Paris, 1972, pp. 69-70 e 80; «Enc. Dant.»,IV, pp. 1126-7 e 1134 ss., ss. vv. volere, volontà. Cf. infine A. JEANROY, in «Romania», LXV, 1930, p. 116 («il s'agit du désir, de l'impulsion passionnée, à laquelle la raison peut et dévrait résister», con rimandi a testi catalani e occitani). ()
 
(103) L'indovinata formula pare risalire a M. GORCE, Le Roman de la Rose, texte essentiel de la scolastique courtoise, Paris, 1933 (cf. PARÉ, pp. 8 e 84 e ora «Grundriss», VI/1, p. 112 n. 16 che fra i «riflessi» provenzali pone l'epistola V di N'At de Mons e la nostra Exposition). Per considerazioni più ampie, v. R. GUIETTE, D'une poésie formelle en France au Moyen âge, Paris, 1972, partic. p. 79 («La forme n'est plus qu'indirectement génératrice de poésie [...] D'autres éléments prennent le premier plan. Toutes les ressources de la casuistique amoureuse sont invoquées. Les données de la doctrine courtoise se renouvellent par l'application de l'allégorie [...] La scolastique fait son apparition dans le poème, sans rien perdre de son pédantisme. C'est ce qu'on nommera l'alliance entre la poésie de cour et la poésie d'école»). ()
 
(104) Si fa qui riferimento alla scelta terminologica operata da C. SEGRE, Intertestuale-interdiscorsivo. Appunti per una fenomenologia delle fonti, in «La parola ritrovata. Fonti e analisi letteraria», a cura di C. di Girolamo-I. Paccagnella, Palermo, 1982, pp. 15-28, a pp. 23-24: «Poiché la parola intertestualità contiene testo, penso essa sia usata più opportunamente per i rapporti fra testo e testo (scritto, e in particolare letterario). Viceversa per i rapporti che ogni testo, orale o scritto, intrattiene con tutti gli enunciati (o discorsi) registrati nella corrispondente cultura e ordinati ideologicamente, oltre che per registri e livelli, proporrei di parlare di interdiscorsività (con neologismo affine alla pluridiscorsività di cui parla Bachtin)». Circa la successiva distinzione operata fra linguaggio poetico e prosastico, in particolare del romanzo, assodato che «il continuo approfondimento del linguaggio poetico è anche ripresa innovativa di schemi altrui, perciò un dialogo che si spinge sino all'emulazione e al contrasto [...] l'intertestualità può farsi strada entro l'interdiscorsività: ma per il poeta il valore del materiale prevale sulla sua provenienza» (ib., pp. 25 e 27). ()
 
(105) Per integrazioni a quanto già abbondantemente schedato nella rassegna Dammann (che nella ricerca delle fonti del «palazzo», ad esempio, risaliva fino alla Tebaide di Stazio), cf. l'Introduzione JONES all'ed. della Cort d'Amor, nonché RUHE, pp. 92-94 e passim. È ormai un'acquisizione palese il fatto che «la profondeur de la surface» imponga di evadere dall'ambito geo-culturale di stretta pertinenza del trobadorismo (la Provenza, insomma): cf. le premesse metodologiche avanzate da M. PICCHIO SIMONELLI, Il «grande canto cortese» dai provenzali ai siciliani, in «Cultura Neolatina», a XLII, 1982, fasc. 3-4, pp. 201-238 (l'ars imitandi era [...] la base di ogni ars dictandi: il modello diventava una matrice di moduli operativi», p. 204 e passim), inoltre A. CHERCHI, Some considerations on tradition and topoi, in Andrea Cappellano, cit. in nota n. 59, e la fitta rete di rapporti intertestuali posta in risalto nel già cit. vol. di M.L. MENEGHETTI (per quanto attiene m particolare ai topoi, intesi quali «valide spie» di una situazione del tipo suddetto quando rispondano a precisi quesiti isomorfici, v. a p. 106 e passim). Esemplare, a questo specifico riguardo, il sondaggio pluridimensionale compiuto da A. LIMENTANI alla ricerca de Il poeta di Flamenca e la sua cultura (L'eccezione narrativa, pp. 155 ss.): cf. anche il più concentrato scandaglio di I.M. CLUZEL, La culture générale d'un troubadour du XIIIe siècle, in «Mélanges [...] Delbouille», Gembloux, 1964, II, pp. 91-104. ()
 
(106) Rimandiamo in proposito alle considerazioni già fatte: circa la cronologia relativa di canzone e Fadet joglar, cf. la messa a punto di PIROT, pp. 253-61, fautore della priorità della canzone (in linea con i precedenti interventi di Appel e Lewent) contro il parere opposto di Keller ed Ernst ivi citati. In effetti, la conclusione dello stesso Pirot è ragionevolmente aperta: «le Fadet joglar ne peut être daté que des années de production du troubadour qui, comme on l'a vu, sont comprises entre 1190 et 1220» (p. 261), non sussistendo elementi di indiscutibile preferenzialità nell'una o nell'altra direzione. Anche sulla rarità della personificazione in area trobadorica, cf. quanto osservato in 'La canzone', 1.2.: in ogni caso, spicca nell'una e nell'altra opera di Calanson «l'emploi de thèmes qui, jusqu'alors, étaient étrangers à la poésie lyrique en langue d'oc» (JUNG, p. 135). ()
 
(107) La rete dei raccordi numerici viene evidenziata nel contributo di JONES, p. 113 ss. (che rileva, come ovvio, nel 'tre' la cifra chiave dell'intero componimento). Calanson non giunge peraltro al «delirio numerologico» con cui Sansone definisce la II cobla Del primer nom d'amor (L'allegoria, p. 256, con rimandi in nota 2 a cui si aggiunga il fondamentale volume di E. HELLGARDT, Zum Problem symbolbestimmter und formalästetischer Zahlenkomposition in mittelalterlicher Literatur, München, 1973, partic. a pp. 253 per le applicazioni letterarie, e bibliografia a pp. 305 ss.). Può incuriosire, infine, la consultazione dell'agile repertorio CIRLOT (ora anche in traduz. it., Dizionario dei simboli, Milano, 1985, s.v. numeri, pp. 340 ss. per 'tre', 'quattro', 'cinque'). ()
 
(108) «En tant que structure, l'amour courtois est caractérisé par un mouvement extatique de bas en haut [...], où la recherche du bien supérieur — l'amour de la Dame — s'accompagne du côté de l'amant d'un ensemble d'attitudes et d'expressions comme la prière, le service, l'obéissance, la vénération — à commencer par celle de la beauté physique — dues aux vertus courtoises reconnues chez la personne aimée» (P. IMBS, De la fin'amor, in «Cahiers de Civilisation médiévale», XII, 1969, pp. 265-85, a p. 273; citato, con opportuni complementi, in P. BEC, Nouvelle anthologie de la lyrique occitane du moyen âge, Avignon, 1970, pp. 16-17). La necessità di non attribuire a tale dinamismo una precisa curva temporale, sottolineata altrove dallo stesso BEC (L'antithèse, pp. 135-6), è implicita anche alle considerazioni di E. KÖHLER, Il servizio d'amore nel partimen, p. 124 (per la delimitazione dello «spazio dilatato artificialmente, [...] tra istinto e ideale, tra desiderio e soddisfazione», entro cui si compie «la realizzazione delle attitudini personali» e sociali del fine amante); su questa linea, cf. le suggestive implicazioni antropologico-culturali poste in risalto da L. MILONE, L'«amor enversa» de Raimbaut d'Aurenga, in Museum Patavinum», a.I., n. 1, 1983, pp. 45-66 («C'est le thème [...] de l'amour à distance, fondé sur la suspension lyrique du désir, sur le rapport suspendu ou levé — et bien masochiste — de l'homme occidental à la castration, véritable constante psychique qui perce la culture poétique occidentale entière»). ()
 
(109) L'opposizione Fin'Amors / Fals'Amors è stata riconosciuta una delle polarità tipologicamente costitutive dell'universo cortese (M. MEYLAKH, The structure of the courtly universe of the troubadours, in «Semiotica», XIV, 1975, pp. 61-80, a p. 65 e passim): per l'ambito trobadorico, cf. le indicazioni di DAMMANN, pp. 47-48 (relative soprattutto al dezordenat poder di Amore) e le serrate distinzioni del Breviari, Perilhos tractat, passim. Interessanti anche i tentativi di superamento dell'antitesi, che vanno dall'ormai indagato travestimento «cristiano-integrale» di GMontanhagol (ad es. cf. XII, 13 ss.: «qar amors non es peccatz, / anz es vertutz qe·ls malvatz / fai bons, e·ll bo·n son meillor [...]») alla requisitoria di Guillem de l'Olivier, «Fals'amor no si pot dir [...] c'amors autra res non es / mas can benvolen desir» (cf. C. DE LOLLIS, Poesie provenzali sulla origine e sulla natura d'amore, Roma, 1920, p. 28 nº XVI), come si vede imperniata sul postulato definitorio di amore = voluntas bona («[...] mas dir pot hom: fals semblan trichador / m'a fag mi dons sotz semblansa d'amor»).
Sull'opposizione fin'amor / fals'amor, cf. le indicazioni riepilogative offerte da U. MÖLK, La lirica dei trovatori, Bologna, 1986, cap. III, pp. 33 ss. (e bibliografia a pp. 124-125). Nella raccolta DE LOLLIS compare il nome Guiraut de l'Olivier, ma cf. P.-C. 246 (Guiraut oder richtiger Guillem de l'Olivier d'Arie: i componimenti citati ib. e in successiva nota n. 65 corrispondono ai nn. 24 e 26) nonché O. SCHULTZ-GORA, Die 'Coblas triadas' des G de l'O. d'A., in Provenzalische Studien, I, Strassburg, 1919, pp. 24-82. ()
 
(110) In questo settore, le segnalazioni si concentrano sulla Cort d'Amor (vv. 837-842), dove il brevissimo episodio dell'incoronazione del dio focalizza il raccordo fra le due distinte «parti» dell'opera (ed. JONES, Intr., pp. 53 e 74 con segnalazione del punto di convergenza fra Cort e Celeis cui am, del resto già in DAMMANN, p. 26: «die goldene Krone [...] sonst nirgends als Attribut des Liebesgottes erwähnt wird»). Cf. poi C. Stössel, Die Bilder und Vergleiche der altprovenzalischen Lyrik nach Form und Inhalt untersucht, Marburg, 1886, p. 24 (abbastanza ovvio l'inquadramento all'interno degli attributi regali o comunque afferenti a «hochgestellte Persönlichkeiten»); la scelta dell'oro è parimenti corroborata da una lunga e multiforme tradizione: cf. «L'Or au moyen âge (monnaie-métal-objets-symbole)» ( = «Sénéfiance», 12), Aix-en-Provence-Marseille, 1983 (per l'ambito trobadorico il contributo di G. GOUIRAN a pp. 169-184, e cf. passim).
A livello mitografico, risulterebbe prioritario il serto floreale, tipico appunto della coppia Venere-Cupido e sottoposto alle fantasiose moralizzazioni cristiane (RUHE, pp. 46 ss., FRIEDMAN, passim), affiancato (a quanto pare già in epoca assai antica: cf. citazione dagli inni omerici in WARTBURG, p. 7) e poi spesso sostituito dall'ornamento metallico di foggia regale (che compare ad es. nelle miniature oitaniche del «Dieu d'amour»: PANOFSKY, p. 144 e figure 74-76). ()
 
(111) In effetti, anche il timore tipicizza l'«universo» cortese (MEYLAKH, art. cit. p. 69: «the basic dyad of characters in courtly poetry are found in a relationship of complementary distribution, such that to the all-powerful there is opposed, as a rule, the humble (humilis, tremblans) troubadour»; cf. anche PICCHIO SIMONELLI, art. cit., p. 210 ss.).
Per quanto attiene al «colpo» fatale, rimandi già sufficientemente indicativi vengono forniti per il campo trobadorico da DAMMANN (pp. 51-2, ivi compresi Fadet joglar e «novella» di PGuillem su cui v. anche qui avanti); corollario spesso contemplato (ma non dal nostro testo), la mortalità della ferita prodotta con tanta precisione e forza, motivo anche questo di lunga fortuna (cf. per l'it. ant. E. SAVONA, Repertorio tematico del dolce stil nuovo, Bari, 1973, pp. 54 ss.). ()
 
(112) Il «secondo» senso (stando alle gerarchie filosofico-scientifiche del Medioevo, da Alano di Lilla e Bernardo Silvestre a Richard de Fournival: JUNG, pp. 142-3 con rimandi alle fonti) aveva in ogni caso a suo favore una tradizione di tutto rispetto, posto che degli amores ex auditu discorre lo stesso Agostino (il quale ammette esplicitamente che possa sorgere amore per un «virum bonum [...] cuius faciem non vidimus, ex notitia virtutum»: l'importanza del passo, in apertura del X libro del De trinitate, è stata rivendicata da P. CHERCHI, Notula sull'amore lontano di Jaufre Rudel, in «Cultura Neolatina», XXXII, 1972, pp. 185-7, poi in Andrea Cappellano, i trovatori e altri temi romanzi, Roma, 1979, pp. 52-55).
Che in area d'oc la «storia» poetica di J. Rudel non costituisca un episodio isolato e eccezionale lo dimostrano del resto numerose risonanze: lo stesso Breviari cita paradigmaticamente No sap chantar (unica inserzione rudeliana nell'opera di Ermengaud: RICHTER, p. 303 n. 138 e Breviari, p. 21), con ragionata introduzione del motivo a vv. 29409 ss. («et a vegadas eichamen / ama ben hom sso qu'anc no vi / ab dezirier coral e fi / per lo be quez om en au dir; / adoncs s'escompren per l'auzir / amors [...]») e ribadimento conclusivo a v. 29426 della genesi di amore «o per vezer o per auzir». Cf. anche la tenzone fra Guiraut de Salignac e Peironet (edita in CRESCINI, n° 39, pp. 260 ss.) dedicata alla preeccellenza di «huoill» o «cor» quali messaggeri d'amore dove tra l'altro si protesta che «ses los huoills pot lo cors francamen / amar cellui q'anc non vic a presen, / si cum Jaufres Rudels fetz de s'amia» (vv. 38-40).
Menzione congiunta di «occhi» ed «orecchie» anche nel ben addottrinato Roman de Flamenca (ed. U. GSCHWIND, Berne, 1976, I, p. 92, vv. 2710-12: «per doaz partz mi sen nafratz, / car per l'aurella e per l'uil / ai pres lo colp don tan mi doil»), forse all'incirca contemporaneo dell'Exposition (cf. la messa a punto di E. BAUMGARTNER, Le roman aux XIIe et XIIIe siècles dans la littérature occitane, in «Grundriss», IV/1, Heidelberg, 1978, pp. 627-644, a p. 635, e gli opposti argomenti di Gschwind a favore dell'arco 1230-50: ed. cit., I, pp. 12-13). Per il passo analogo che compare nella «novella» di PGuillem, cf. nota alla nostra ediz. n. 303-4. ()
 
(113) «Causa generante dell'amore è la veduta forma che s'intende» (CORTI, Felicità, p. 23), in ossequio alla nota teoria aristotelico-tomistica («Philosophus dicit IX Ethic. (V, 3) quod visio corporalis est principium amoris sensitivi»: Summa Theol., Ia IIae, qu. XXVII, 2 = Utrum cognitio sit causa amoris, da cf. con NARDI, pp. 13-14, forse eccessivamente riduttivo nei confronti dell'«udita»). Come noto, la più vulgata enunciazione mediolatina dell'equazione vedere = piacere si deve ad A. CAPPELLANO (Trattato d'Amore, a cura di S. Battaglia, Roma, 1947, Liber I, cap. 1, p. 4: Quid sit Amor): fra l'abbondante bibliografia moderna al riguardo, ricordiamo il recente contributo di A. KARNEIN, Amor est passio. A definition of courtly love?, in «Court and Poet», cit., pp. 215-221, AVALLE, Ai luoghi di delizia pieni, cit.., partic. al cap. I (Due tesi sui limiti di Amore, pp. 17-55 e passim), nonché P. CHERCHI, Andreas' De Amore: its unity and polemical origin, in Andrea Cappellano, i trovatori e altri temi romanzi, cit., pp. 83-111. Per quanto attiene alla produzione trobadorica occitana, cf. NELLI, Érotique, pp. 164-74 e passim; buona esemplificazione anche in DAMMANN, pp. 49 ss., a cui si aggiungerà la didattica esposizione del Breviari, vv. 29386 ss. con citazione da A. Peguilhan, Anc mais
de joy ni de chan, vv. 28-36 ( = RITCHER, p. 162, n. 14): «Quar li hueilh son drogoman / Del cor, e·l hueilh van vezer / Sso qu'al cor platz retener [...] / Qu'estiers no pot naicher ni comensar, / Mas per lo grat dells .iii. nais e comensa». ()
 
(114) Citiamo solo gli interventi più accreditati: la tenzone fra Giacomo da Lentini e l'abate di Tivoli (Poeti del Duecento, I, pp. 82 ss.), l'affermazione dantesca nella Vita Nuova (ed. D. De Robertis, Milano-Napoli, 1980, XXV 1) secondo cui «Amore non è per sé sì come sustanzia, ma è uno accidente in sustanzia», e il manifesto cavalcantiano di Donna me prega (al v. 2 parimenti Amore viene denominato «un accidente — che sovente — è fero»: cf. CORTI, Felicità, pp. 34-5 e passim). Le indagini sulle ascendenze più probabili di tali scelte terminologiche operate dai nostri poeti del Duecento nei confronti della fenomenologia amorosa sono tuttora in corso (cf. M. ALLEGRETTO, Figura Amoris, in «Cultura Neolatina», XL, 1980, fasc. 4-5-6, pp. 231-42, e D.L. HEIPLE, The «Accidens Amoris» in Lyric Poetry, in «Neophilologus», vol. LXVII, 1983, nº 1, pp. 55-64 che convergono verso matrici medico-fisiologiche piuttosto che filosofiche in senso stretto).
Non si tratta, del resto, di un motivo particolarmente diffuso in ambito trobadorico: DAMMANN (pp. 48-49) cita al riguardo un componimento di Uc Brunenc, Cortezamen mou en mon cor mesclansa (DE LOLLIS, Poesie cit., p. 3, vv. 5-6: «Amors, qui es us esperitz cortes / que noys laissa vezer mas per semblans [...]») ed uno di BZorzi (ed. E. LEVY, Halle, 1883, Nº 10), dove del dio d'Amore compare solo la votz (cf. a vv. 22 ss., 119 ss.). ()
 
(115) Come chiosa opportunamente il Barberino nei confronti del «suo» dio d'Amore («Ali gli fo, chè sença / quelle parria che non fusse suo gire / come spirito a merito e ferire»: ZENATTI, p. 84, con minimi interventi editoriali rispetto ad EGIDI, III, p. 410), ciò si qualifica un corollario dell'asserita incorporeità di Amore (e, a sua volta, causa immediata e sufficiente della canonica istantaneità del «colpo», commentata anche nell'Exp., v. 301: sopte 'all'improvviso'). Che in ambito specificamente occitano le ali di Amore risultino una rarità, era segnalato già da DAMMANN (pp. 48-9) ed ERNST (p. 372, n. 20): l'esempio ib. riprodotto da RAurenga, Aissi mou un sonet nou (nº XVIII dell'ed. W.T. PATTISON, Minneapolis, 1952, vv. 37-8; e cf. C. APPEL, Raimbaut von Orange, Berlin, 1928 = Genève, 1973, p. 80, v. 16) è riferibile ad un esponente della tradizione suscettibile di duplice e contrastante interpretazione semantica (v. le note di APPEL, p. 81 e PATTISON, p. 129). Cf. se mai Breviari, v. 28585 («[...] e lai on vol cor»), nel passo già citato (cap. prec, nota n. 40) quale concentrato di isomorfie formali e tematiche nei confronti della canzone. Può interessare, comunque, l'equazione posta a livello iconografico medievale fra posizione stabile ed equilibrio (e quindi movimento = squilibrio, disordine ecc.): «En règle générale [...] les positions stables correspondent aux êtres bons ou qui agissent bien, les positions instables caractérisent les méchants et ceux qui [...] se débattent dans un état de désarroi» (F. GARNIER, Le langage de l'image au moyen-âge, Signification et symbolique, Paris, 1982, p. 120; cf. l'eloquente corrispettivo letterario fornito dalla cobla IV Del primer nom d'Amor, vv.25-26, dove velocità e nudità congiunte caratterizzano la «meynada» vittima del menor terç: «e pus corion nuts», v. 26).
In direzione ancora più scopertamente simbolica, e in ogni caso posteriore cronologicamente, saranno da collocarsi le curiose figurazioni di Amore «représenté en ange à six ailes [...] et à trois visages surmontés d'une couronne d'or, avec, sur la poitrine, une sorte d'écu» (A. RIEGER, «Ins e·l cor [...]», cit., p. 402, e cf. in n. 73 per i supposti influssi araldici; ancora più opportuni i rimandi effettuati ib., p. 403 e note, alle alte gerarchie angeliche, cherubini e serafini, sulla linea di MENEGHETTI, Pubblico dei trovatori, pp. 355-56 e n. 81). ()
 
(116) Riquier in effetti si limita a calcare con le solite amplificazioni quanto già espresso circa la «genealogia» di Amore da Calanson (canz., v. 21), il quale, da parte sua, ripeteva «die allgemein herrschende Anschauung vom Ursprung der Minne war und was auf den Gemeinplatz vom 'Sehen' und 'Gefalien' hinausläuft» (DAMMANN, p. 60), con ciò fuoriuscendo, come nota JUNG (p. 138), dal canone mitografico. Proponiamo per azaut la traduzione italiana 'piacimento': in base agli insegnamenti assai vulgati dell'Etica aristotelica, «piacimento in senso soggettivo, cioè piacere e diletto che prova l'anima di fronte alla bellezza, è quello che desta nel cuore il desiderio amoroso» (NARDI, p. 13).
L'idea che Azaut generi Amore si trova espressa anche altrove in campo trobadorico, in particolare nella canzone di GBerguedà, Mais volgra chantar a plazer (ed. Riquer, vol. II, p. 232, nº XXVII), v. 22: «qu'azautz puej'amor e noyris» (cf. la nota del medesimo RIQUER, Trovadores, II, p. 1082 in riferimento alla canzone calansoniana, e le indicazioni da noi fornite in nota all'ed. n. 465).
Quanto all'illusoria caducità del 'piacimento', a ragion veduta Riquier si dilunga su quello che risulta un altro assioma dell'aristotelismo del tempo (CORTI, Felicità, partic. p. 33 circa il v. 58 di Donna me prega: lo sguardo che «fa parere — lo piacere — certo» si rivela al filosofo un argumentum ex apparentia totalmente infondato). ()
 
(117) Si allude in particolare alla poco perspicua apertura del commento alla VI cobla (Exp., vv. 733 ss.) seguita da un meno impegnativo rimando ad locum (vv. 753-60, v. note al testo); la spiegazione prosegue contorta e reticente, come motivato dallo stesso pudibondo autore (circa la vergognosa nudità di Amore non riesce a trovare «per re / plana via deguda», vv. 788-789). Forse necessitava di un approfondimento la sbrigativa chiosa della 'povertà' di Amore, attributo abbastanza sorprendente data la complessiva regalità della personificazione (da collegare forse alla quasi totale nudità) e per il quale Riquier si limita a un altro ribadimento dell'identificazione Amore = voluntat (vv. 802 ss.).
Ancora in zona finale, tuttavia, lo scrupolo dell'esegeta rivela punte di inopinata sottigliezza, dalla chiosa dell'aurfres (vv. 806-15) ai vv. 830-41 dedicati al fuecx procreatore (su questo motivo cf. qui avanti e Appendice 2). ()
 
(118) L'utilità metodologica di tali raffronti è sottolineata ad es. in BEC, pp. 120-121 («L'examen des séquences antinomiques [...] montre bien à quel point ces termes son aisément commutables et que, là encore, le jeu des occurrences contrastées fait partie intégrante du plaisir poétique»). Nel nostro caso, la commutazione razo-dreit è suggerita dalla lettera del testo calansoniano (vv. 7-8) e risponde ad una acquisizione fondamentale della cultura medievale (cf. «Enc. Dant.», IV, pp. 831 ss. s.v. ragione); per i trovatori, J.W. WETTSTEIN, 'Mezura'. L'idéal des troubadours, son essence et ses aspects, Genève, 1974, pp. 36-40 («Agir selon le droit, être équitable, se traduit par faire drechura [...] seguir razo [...], feire razo e dreg», ib., p. 38; sulla topicità di Amore ingiusto v. d'altronde la qui prec. n. 56).
Anche per quanto attiene alla maneira (che ricomparirà verso il termine dell'Exp., fra le virtù enumerate come diretto dono di Dio, a v. 899), rimandiamo all'appena citato volume di Wettstein, passim (m. risulterebbe una specificazione «superficiale» della fondamentale mezura, attestante l'importanza sociale ed estetica della cortesia: v. specialmente pp. 54-6) e a THIOLIER-MÉJEAN, pp. 91 ss., 321 ss. (ambedue con citazioni riquieriane, da PFAFF LXXII e LXXXIV). V. anche la chiarificante coppia endiadica proposta da PCardenal, LXVIII 44 secondo cui l'uomo giusto «sec razon e mesura», complementare a quella di Guillem de l'Olivier: «E mezura es seror de drechura».
Su «Mezura» v. ora P.F. DEMBOWSKI, Mesura dans la poésie lyrique de l’ancien provençal, in «Studia Occitanica» cit., vol. II, pp. 269-280. ()
 
(119) Circa l'antinomica bivalenza «profonda» del fuoco cf. CIRLOT, pp. 100-101 (s.v. fire); quanto al topos lirico v. le considerazioni di DAMMANN, p. 85 («Der Vergleich von Liebe und Feuer kehrt ja unendlich oft in der Troubadourpoesie wieder») e l'esemplificazione approntata da PICCHIO SIMONELLI, pp. 217-224, dove si rileva al contempo la moderata produttività dell'«urit Amor» in ambito provenzale, di contro alla più larga utilizzazione in campo lirico italiano (per cui v. anche F. CATENAZZI, L'influsso dei provenzali sui temi e immagini della poesia siculo-toscana, Brescia, 1977, pp. 82-84). Ricordiamo comunque, fra le opere più vicine alla canzone di Calanson, il Chastel d'Amors, cobla 19 (dove si procede all'identificazione completa di fuoco ed Amore: «Laïnsz non cal autre foec / Mas Amor [...]»). ()
 
(120) Si tratta del «principe philosophique des individus ordonnés au bien de l'espèce», di origine aristotelica (PARÉ, p. 321), tornato in auge proprio all'epoca di Riquier sotto la spinta clericale «anticortese»: risultati diversi solo nella forma (più scopertamente scolastica e addottrinante) sono quelli raggiunti in Breviari, vv 32784 ss. (contro la lussuria), e cf. 32805-7 ove si sottolinea che «Matremoni Dieus establi / entre gens per multiplicar / e no per luxuriejar». Che si tratti di dogma perfettamente opposto all'ideologia trobadorica, è evidente: «In the system of values of the courtly universe this would seem absurd» (MEYLAKH, art. cit., p. 75). ()
 
(121) Per questa fondamentale opposizione cf. MEYLAKH, art. cit., pp. 64 ss. e passim: il richiamo letterario più immediato, per l'oc, è rappresentato da Chastel, cobla 20 («Laïnsz non venon ni van / Merchadier ni negosan, / Mas sol ço qu'es de gran ran», e cf. il capovolgimento di tale «precisa quanto schematica polarizzazione castale» nell'allegoria catalana edita da SANSONE, p. 257 e cobla III). In campo figurativo, si rivelano utili gli orientamenti di GARNIER, cit., pp. 98-104 («Dans l'iconographie médiévale, la séparation, la proximité et la contigüité signifient plus qu'une distance physique [...] l'éloignement est souvent renforcé par la matérialisation de l'appartenance des personnes à des espaces différents», materializzazione spesso simboleggiata da precisi elementi architettonici). ()
 
(122) Cf. in particolare JUNG (p. 139 e p. 143): l'«élément dynamique» rappresentato dal motivo dei tre dardi aprirebbe una nuova prospettiva in concomitanza con porte e gradini, i quali tutti insieme «marqueraient deux fois, et sur deux plans légèrement différents, deux «temps» de l'aventure amoureuse». In altra direzione, L.E. JONES ritiene di poter effettuare un taglio netto fra «parte prima» (prime tre coblas) e «seconda» (ultime tre), dedicate rispettivamente alla dipintura di Amore prima quale «the familiar Ovidian Cupid in feminine form», poi assumente «some of the attributes of the medieval Fortuna» (p. 105 e ss.): per considerazioni relative a questo ambito, cf. 'La canzone', 1.2.2. ()
 
(123) Per informazioni circa l'origine e la diffusione della fortunata metafora, si può partire da E. FARAL, Recherches sur les sources latines des contes et romans courtois du moyen âge, Paris, 1967, pp. 143 ss. con rimando ai loci ovidiani (in partic. Metam. I, vv. 468-71) ritenuti fonte principale della antinomica interpretazione dei due dardi (oro/piombo = amore/odio, o almeno disamore) che ebbe ampio seguito nel Medioevo latino e romanzo. Per il primo settore, ci limitiamo al campionario di «moralizzazioni» messo insieme da RUHE, pp. 46 ss., mentre fra le opere volgari andrà ricordato il Roman d'Enéas (citato soprattutto da FARAL; cf. I. HANSEN, Zwischen Epos und Höfischem Roman, München, 1971, pp. 110 ss.), il Roman de la Rose (dove si assiste ad una moltiplicazione fino a dieci del numero di frecce, sempre però ripartibili nelle due suddette categorie: cf. l'ed. LECOY, Paris, 1965, vv. 923 ss. e la nota di PANOFSKY, p. 145 n. 20), il Fablel dou Dieu d'Amors (ed. LECOMPTE, p. 82, strofe 106-109 e cf. Intr., p. 68: anche il Fablel rappresenta «in all its essential traits, only one example of a sort of allegory wich was widespread about the middle of the thirteenth century»), sino all'immenso crogiuolo dell'Ovide moralisé (t.I, vv. 2795 ss., 3328-30: «[...] L'une partie nous enseigne / a amer, et l'autre a haïr, / l'un a suivre et l'autre a fuïr»). La generalità della attribuzione ad Amore di due dardi «nella poesia francese, provenzale e italiana del tempo (cf. ancora la canzone, forse boccaccesca, Donna, nel volto mio dipinto porto, vv. 112-119, comunque l'Amorosa Visione, XV 28-9, e Petrarca, CCVI 10-11, giù fino a Marot)» viene segnalata fra gli altri da G. Contini (a proposito de «l'uno e l'altro dardo» di cui è provvisto Amore nella canzone Tre donne intorno al cor mi son venute: DANTE ALIGHIERI, Rime, Torino, 1970, p. 177, n. 59). ()
 
(124) Le incertezze che sussistono circa il rapporto cronologico tra canzone e sirventese (cf. qui addietro, n. 53) non tolgono interesse a un raffronto tra i dardi menzionati dall'una e dall'altra opera: nel Fadet joglar si parla di dos cairels, d'oro e d'acciaio rispettivamente (ed. PIROT, vv. 209-213: «l'us es tan bels / de fin aur qu'om ve resplandir; / l'autr'es d'asier, / mas tan mal fer / qu'om non pot del sieu colp gandir»), i quali potrebbero rappresentare uno stadio anche diacronicamente intermedio fra recezione del motivo classico (mantenimento della duplicità ovidiana) e inventiva personale di Calanson (introduzione dell'acciaio, connotato infallibile come in canz., vv. 11-14). Per quanto attiene alla proposta del Pirot (p. 260) circa l'identificabilità del v. 207 («ab sos dartz qu'a fatz gen forbir») in primordiale citazione delle «flèches de plomb» assenti dal sirventes, a nostro avviso il contesto induce a riconoscere in dartz un Obl. Pl., prima enunciazione cioè dei dos cairels di seguito descritti (va riconosciuto peraltro che la lezione di R «e dos cairels», respinta dal precedente editore Keller, costituisce un punto d'appoggio all'ipotesi Pirot). ()
 
(125) La struttura della «novella» prevede, di seguito alla descriptio del dio e dei suoi accompagnatori, un serrato elenco di domande sulla natura e gli effetti di Amore da parte del narratore-protagonista, con corrispondenti e articolate risposte, nell'ultimo settore dell'opera, offerte da Amore in persona. Ora, per quanto riguarda le tre frecce, partitamente elencate a p. 244, vv. 7 ss. dell'ed. MAHN, di esse veniamo ad apprendere quanto segue: «La us es resplendens d'aur fi / E l'autre d'acier peitavi / Gent furbit e gent afilat, / El ters es de plum roilhat, / Ab una asta torta de boih, / Ab que fier tot amador moih, / E amairitz cant voi trair». Purtroppo, dopo il v. 28 (p. 249) dobbiamo riconoscere l'esistenza di una lacuna nel testo di R, in base a motivi logici e metrici (cf. già DAMMANN, p. 56 n. 1 e JUNG, p. 166 e n. 101), che ci priva verisimilmente della prima porzione di chiosa (relativa ai dardi aurei, e forse d'acciaio). Ci troviamo infatti ex abrupto in presenza di una ripresa della già annunciata decodifica del plom, che conferma quanto già detto in apertura («Ab lo plom fier lo fals el morn»), seguita un po' disordinatamente da spiegazioni che si addicono piuttosto all'acier produttore di ferita piacevole («E ja negus non vol guerir, / Qu'el cairel intra ab sospir / Per meg los huels e per l'aurelha»). Tutto quanto rimane della «novella» consiste poi in una insistita requisitoria contro gli sleali amanti (non scevra da allusioni satireggiami nei confronti di non ben identificati contemporanei di Peire). ()
 
(126) Poeti del Duecento, II, p. 514: il possibile influsso calansoniano viene accennato da Contini, ib., in nota 2. Da tener presente anche la terzina finale, almeno parzialmente decodificante: «la prima dà piacere e disconforta, / e la seconda disia la vertute / della gran gioia che la terza porta». Pertanto, «se questi [dardi] hanno le virtù assegnate loro da Ovidio, l'ultima, desiderata e risolutiva, saetta non può essere che quella che estingue la passione» (ib.), dal che discenderebbe che la «salute» già richiamata a v. 9 sia, moralisticamente (e non tanto secondo Calanson, quanto secondo Riquier), la liberazione dal giogo d'amore. Viene peraltro richiamato dallo stesso Contini il volume di S. SANTANGELO, Le tenzoni poetiche nella letteratura italiana delle origini, Genève, 1928, dove a pp. 94-97 si prende in esame il sonetto Oi deo d'amore, a te faccio preghera (ristampato in «Poeti del Ducento», I, pp. 82 ss.) dell'abate di Tivoli (tenzone con Giacomo da Lentini): la ricorrenza in esso di due dardi, d'oro e di piombo, ma, a quanto è dato d'intendere, ambedue produttori di pur dissimili ferite amorose (cf. vv. 10 ss., e nota 1), complica ma al tempo stesso arricchisce quanto ci è dato di supporre sulla fortuna del motivo in area italiana (l'influsso calansoniano, su cui il Santangelo avanza dubbi, è rivendicato più scopertamente da ZENATTI, pp. 50-51, in base alle altre isomorfie constatabili e anzitutto alle «quattro scale», v. 9, che riprodurrebbero i «quatre gras» del v. 29 di Celeis cui am). ()
 
(127) Intanto la vicenda psicologico-sentimentale (posto che tale sia, come a noi pare, l'ambito interpretativo più adeguato ai dardi cavalcantiani) può avere esito ben dissimile a seconda soprattutto del valore da assegnare all'ultimo risolutivo elemento della triade: fine dell'amore (Contini) o gioia del completo appagamento (Ercole, Santangelo, Di Benedetto: cf. anche il più recente contributo critico di R. RUSSELL, Tre versanti della poesia stilnovistica: Guinizzelli, Cavalcanti, Dante, Bari, 1973, pp. 83-164: Il versante del tormento intellettualizzato: G. Cavalcanti, p. 134). È poi da tenere in conto la diversa lettura gnoseologico-speculativa proposta da M. MARTI (Poeti del dolce stil nuovo, Firenze, 1969, p. 169 in nota, da cui si cita) e G. FAVATI (Inchiesta sul dolce stil nuovo, Firenze, 1975, pp. 197 ss.): «colpo della species sensibilis (la «veduta forma») attraverso gli occhi [...] piovere del phantasma, o dell'intenzione, nell'anima sensitiva e conseguente angoscia d'amore e ansia di liberazione [...] sublimazione della bellezza e conoscenza intellettiva che coincide con la salvezza morale («saria dell'alma la salute») e col 'bono perfetto'» (per la rintracciabilità del medesimo iter all'interno di altri luoghi dell'opera cavalcantiana, cf. Donna me prega, con commento CORTI, Felicità, pp. 23 ss. e passim; dispiace non poter inserire nel qualificato agone esegetico il finora solo annunciato libro di D. De Robertis sul corpus poetico di Guido).
È ora disponibile l'annunciata riedizione delle poesie di Cavalcanti: GUIDO CAVALCANTI, Rime, con le rime di Jacopo Cavalcanti, a cura di D. DE ROBERTIS, Torino, 1986 (cf. a pp. 66-68, n. XX, per il sonetto O tu, che porti nelli occhi sovente: in note un ragionato riepilogo delle potenzialità interpretative relative alle frecce). ()
 
(128) Esso viene citato anche da Contini (Poeti del Duecento, I, p. 82) per la suddivisione ternaria delle frecce del dio d'Amore, motivata dissimilmente nel testo volgare (dove si discorre di tre «misure» o qualità dei predetti, «piccoli, grandi e meçan») e nel commentario latino («trium generum [...] iacula; in quibus [...] representantur tres personae in trinitate»): cf. l'ed. EGIDI, III, pp. 410-11, e ZENATTI, pp. 75 e 85.
Per le figurazioni dei codici: EGIDI, Le miniature, già citate tavole fuori testo (tra pp. 9 e 10 = cod. A, c. 99b, e cod. B, c. 88b). ()
 
(129) AUSIÀS MARCH, Obra poética completa, edición, introducción, traducción y notas de R. FERRERES, Madrid, 1979, t. I, nº LXXIX (pp. 398 ss.): si tratta del sonetto O vós, mesquins, qui sots terra jaeu, dove in c. II si afferma: «Los colps d'Amor són per tres calitats, [...] per què·ls ferits són forçats de sentir / dolor del colp segons seran plagats. / D'or e de plom aquestes flexes són, / e d'un metall que·s anomen· argent; / cascù d'aquests dóna son sentiment, / segons que d'ells differenç ·ha ·n lo món». L'originale spiegazione del poeta subito susseguente (da c. III: la loro distinzione procederebbe cioè in base alla sempre minore capacità offensiva, dal mortifero oro all'argento i cui «plagats, de morir són estorts», fino al piombo: «son poder no bast· a traure sanch») appare difficilmente sovrapponibile alla generale concezione ternaria dell'amore pure espressa in più componimenti dal March (cf. qui avanti nota seguente e le osservazioni del FERRERES, Intr., pp. 60-62 in replica alle precedenti di PAGÈS, pp. 247-9). ()
 
(130) Tra essi ricordiamo almeno i componimenti XLV, XCII, CXXIII, CXXVII (già citati da PAGÈS, p. 248, n. 3, assieme ad altri luoghi che testimonierebbero una fruizione diretta dell'opera di Calanson). I tre tipi di Amore, secondo March, risultano rispettivamente il «celestial», il «mixto» (proprio dell'uomo perfetto, «el que percibe los sentimientos de la carne y del alma») e quello propriamente «carnal» (FERRERES, Intr., pp. 65-66). «Toda esta teoría y clarificación del amor, con el simbolismo de los dardos, tiene sus antecedentes en la filosofía aristotélica y en los trovadores provenzales», come si nota opportunamente ib., anche se il livello di permeabilità della poesia di Ausiàs all'influsso trobadorico occitano è stato oggetto di prese di posizioni abbastanza discordi (cf. ib., a pp. 41 ss., e PAGÈS, pp. 311-345; tra i recenti contributi J.M. SOBRÉ, Ausiàs March, the myth of language, and the troubadour tradition, in «Hispanic Review», L, 1982, pp. 327-336 e P. RAMÍREZ I MOLAS, El decasíl·lab d'Ausiàs i la recepció de l'«endecasilabo» petrarquista, in «Versants», nº 7 (n. sér.), 1985, pp. 67-68, partic. a 67-72).
Per i rapporti di Ausiàs March con la tradizione trobadorica, cf. anche C. DI GIROLAMO, Ausiàs March and the Troubadour Poetic Code, in «Catalan Studies. Estudis sobre el català, in Memory of J. de Boer», ed. J. GULSOY - J.M. SOLÀ-SOLÉ, Barcelona, 1977, pp. 223-237 (citato anche da P. COCOZZELLA, A.M. and the «truth» of the troubadours, in «Studia in honorem prof. M. de Riquer», vol. I, Barcelona, 1986, pp. 111-132). ()
 
(131) «Gli esperti di metallurgia sapevano estrarre alcuni metalli, quali il rame e il ferro, dai loro minerali ed erano in pieno possesso dei metodi di saggio dell'oro e dell'argento [...] Nel crogiuolo, denominato coppella, particolarmente poroso, il metallo prezioso grezzo, mescolato al piombo veniva scaldato al color rosso vivo e quindi fondeva. Soffiando aria sopra la massa fusa, il piombo e gli altri metalli vivi si ossidano; l'ossido di piombo formatosi o litargirio, che ha la virtù di sciogliere gli ossidi degli altri metalli vili, liquefatti, in parte viene soffiato via e in parte si compenetra nelle pareti della coppella. Al fondo del crogiuolo rimane un residuo di oro puro o di una lega oro-argento, se al principio era presente con l'oro anche quest'altro metallo nobile». (E.J. HOLMYARD, Storia dell'Alchimia, Firenze, 1972, pp. 39-40).
In area trobadorica era topico, del resto, designare metaforicamente col piombo etwas Wertloses oder Verächtliches» (DAMMANN, p. 56): cf. gli esempi proverbiali repertoriati da E. CNYRIM, Sprichwörter, Sprichwörtliche Redensarten und Sentenzen bei den provenzalischen Lyrikern, Marburg, 1888, p. 47 (nn. 817-18) e p. 51 (n. 940: «Non daria un plom», corrispondente a Breviari, vv. 28459-60); ai su ricordi processi alchemici fa inoltre diretto riferimento l'esempio n. 807. ()
 
(132) Cf. supra, partic. n. 74: la deformazione moraleggiante, per entrare nell'ottica DAMMANN (pp. 55-56), e comune all'interpretazione che del terzo dardo dà PGuillem, Lai on cobra (dal medesimo studioso giudicata invece più verosimile): in essa il piombo è destinato agli sleali traditori (cf. n. 72), coerentemente a quel clima di attualità polemica (sia pure assai attutita dal piglio «novellistico» e dal filtro allegorico) che è stato rilevato, fra gli altri, da LIMENTANI e JUNG (cf. 1.1.2. n. 24). ()
 
(133) L'elenco delle possibili reminiscenze latine (classiche e medievali) in DAMMANN, pp. 11 ss.; «toute cette longue liste atteste que le palais allégorique n'es pas une invention de G. de C., mais elle prouve en même temps l'indépendance de notre jongleur» (JUNG, p. 139, con susseguente rimando ai ben possibili coinflussi dei «sermonnaires de son temps»: cf. in proposito ZINK, La prédication cit. in qui seguente n. 84, pp. 279 ss., 285-6 sull'utilizzo del «chastel» allegorico all'interno degli exempla). La fortuna del modello (al di là dell'indubbia attrattiva esercitata da questo simbolo architettonico del potere feudale) è forse racchiusa nel suo valore archetipale: «centro» occulto, «unmoved mover» (CIRLOT, p. 236 sv. castle). ()
 
(134) All'intersezione fra ambito «sacro» e «profano» sembra collocarsi il palatium in medio mundi del De Amore (ed. BATTAGLIA, Roma, 1947, p. 104), possibilissimo punto di riferimento per le successive elucubrazioni letterarie romanze, anzitutto oitaniche (sui vari jugements d'amour e componimenti assimilabili, che hanno a sfondo quasi obbligato palazzi e relativi vergiers, cf. JUNG, pp. 192 ss., RUHE, pp. 84 ss. e soprattutto la panoramica di «Grundriss», VI/1, pp. 109 ss. nonché 224 ss., con relative schede nel t. 2).
Per l'ambito provenzale, la prima citazione riguarda necessariamente il Chastel d'Amors ('La canzone', n. 23), tendenzialmente identificato, anche con una certa frettolosità, in una sorta di riflesso semiautonomo della nostra canzone (cf. «Grundriss», VI/1, p. 230 n. 33 dove fra i probabili «modèles» son citati anche l'opera di Robert Grosseteste e la occitana Cort d'Amor, e FOLENA, Tradizione e cultura trobadorica, cit., pp. 516-518 con additamento dei precedenti bizantini indagati da M. Krümbacher). ()
 
(135) Citiamo quelli che appaiono i luoghi più esemplificativi, a partire da Exp., vv. 224-230, 234-241 (parafrasi della I cobla, con prolungamento digressorio sulla infidità di Amore-fals semblans, qui nominato per la prima volta al v. 237); vv. 298-301 e 324-26 (sui vv. 11-12-14 della II, con specificazione che la drechura del tiro consiste nel giungere sempre «al cor»); 419-426 (indugio iperbolizzante sul motivo della scelta ineluttabile del colpito, di cui a canz. Ili, v. 18); 428-433 (chiosa del v. 19 su cui è da cf. qui avanti Appendice, 2); 434-446 (secca deduzione della levità, di cui in canz. III, v. 20, come caratteristica della voluntat, cui segue una esposizione più distesamente descrittiva sul «timore» suscitato da Amore); 450-463 (forse anche qui si compie un travisamento interessato del v. 22: cf. Appendice 2, n. 35); infine, vv. 762-775 (sulla VI cobla: cf. note al testo). ()
 
(136) All'interno dell'Exp., sono reperibili in effetti tutte le soitospecie di figura morfologica elencate da SMITH (pp. 124 ss.), da quella definita «etymological» (a common root in different words or parts of speech»), in effetti la più diffusa, alla cosiddetta «composition» («etymological figure by prefixation», del tipo lens-elenegar ai vv. 563-565: cf. nota al testo). Pur ricorrentissime in tutta l'opera (citiamo a partire dall'inizio, rimandando eventualmente alle note per appunti specifici: vv. 38-40, 70-74 e ss., 132-3, 136-7, 192-9, 238-242, 251-3, 255-6, 280-6, ecc. ecc.), esse si fanno ancora più frequenti e ricercate a partire dal commento alla IV cobla: cf. nostre note relative ai vv. 501-513 (aizinar-aizina), 563-565 (lens-elenegar), 571-577 (empachat-empag), nonché 658-660 e 677-678 (joc-jogar), 695-714 (diluitissima scansione del paradigma di franher, con inserzione dell'ulteriore doppia annominatio falhis-falhizo, vv. 708-715, e blasm'-blasmatz, vv. 710-717). Quanto ai peculiari funambolismi etimologizzanti (chiosa sul peiro, vv. 629 ss.; giochi verbali analoghi su grat e plazer quali elementi costitutivi del taulier, vv. 651-656), cf. n. seg. e le relative note all'ed. ()
 
(137) Come si sa, le artes poeticae concedevano uno statuto almeno parzialmente autonomo alla notatio: «une forme particulière de l'interpretatio consiste à exploiter l'etymologie» (FARAL, pp. 65-67, con rimandi a testi latini ed oitanici); si tratta di predilezione ben meditata, poiché era appunto compito dell'etimologia «révéler la nature profonde des choses désignées» (ZUMTHOR, p. 105), e il rapporto nominares costituisce un aspetto rilevante del pensiero filosofico medievale (HUNT, passim; cf. anche GUIDA, Jocs, p. 94 n. 33).
Più che ai funambolismi onomastici prediletti da alcuni trovatori (fra i quali converrà comprendere lo stesso Riquier: cf. canso XI vv. 60-66 e la nota in Suppl., p. 95 n. 696; altre indicazioni in BRANCIFORTI, Note, cit., p. 351 n. 72), i jeux de mots qui esperimentati si apparentano a quella diffusa e fluida tipologia reperibile soprattutto in area sermocinante ed 'esemplare' (v. in proposito M. ZINK, La prédication en langue romane avant 1300, Paris, 1982, pp. 288-292; in generale, la messa a punto di A. TOBLER, Verblümter Ausdruck und Wortspiel in altfranzösische Rede, in Vermischte Beiträge zur französischen Grammatik, Leipzig, 1906, pp. 211-263). ()
 
(138) Le principali ipotesi moderne, riassunte nell'articolo di L.E. JONES (pp. 108 ss.), risultano le due seguenti: per i cinque portali o i cinque sensi «par lesquels le monde extérieur pénètre dans l'âme» (JUNG, p. 142, come già DAMMANN, pp. 68 ss.; cf. ANGLADE, GR, p. 225 n. 3 e RUHE, p. 194, JAUSS, p. 230 n. 33 ecc.) oppure le quinque lineae amoris di ovidiana ascendenza (CURTIUS, Europäische Literatur, cit., pp. 502-4 con diretta citazione calansoniana) di cui sono segnalati vari riaffioramenti («avec des légères modifications», anche propriamente numeriche) in area medievale e romanza (CROPP, p. 51 n. 6 da cui si cita; DEROY, pp. 310, 318 e passim; NELLI, Érotique, pp. 181 ss., più scettico sulla riconoscibilità di tali trasposizioni). In effetti, proprio il senso «profondo» della porta (CIRLOT, s.v. door, p. 81; cf. anche, per le applicazioni visive, GARNIER, p. 244) rende parimenti accettabili le due soluzioni, del resto una generale ed una specifica: «Eyes, ears, mouth, hands, and 'euvre vilaine' agree with visus, alloquium, osculum, tactus, and factum, a concordance between each gradus and a specific organ of sense perception» (L.J. FRIEDMAN, Gradus Amoris, in «Romance Philology», vol. XIX, 1965-66, n. 2, pp. 167-177, a p. 170). Per quanto riguarda i gras, la riconosciuta universalità del simbolo (CIRLOT, pp. 297-99, s.v. steeps: «ascension, gradation, and communication between different, vertical levels») ha allineato a quanto proposto a suo tempo da Dammann (pp. 73-6) più o meno tutti gli interpreti moderni (cf. nota seguente). ()
 
(139) Cf. ad es. FRIEDMAN, art. cit., p. 173 (i gradini secondo Riquier indicano «necessary attitudes in the male lover during courtship, not moments in the process», i quali vengono «curiosly» recuperati nell'enumerazione dei portali), nonché JUNG, p. 146 («Les quatre degrés [...] désignent donc le comportement de l'amoureux plutôt que la progression de la conquête»), infine più recisamente JONES, p. 109 («Guiraut Riquier's four degrees are not successive and do not permit one to 'ascend', rather the contrary, since the first step is honor and the last is suffering»). V. inoltre F.R.P. AKEHURST, Les étapes de l'amour chez Bernard de Ventadour, in «Cahiers de civilisation médiévale», XXVI, 1973, pp. 133-147, con riepilogo nella prima parte di lineae amoris, porte e gradini (anche in specifico riferimento a Calanson-Riquier). ()
 
(140) Cf. ad es. DAMMANN, pp. 74-75, Deux mss., p. 149 e assai recentemente MÖLK, Trobadorlyrik, cit., pp. 89-90. Tramandato dai codici L, N, Q sotto le rispettive etichette di domnejaire, comjat, tençon, la tipologia di quest'opera risulta in effetti abbastanza ibrida (cf. la buona messa a punto di P. BEC, Pour un essai de définition du salut d'amour: les quatre inflexions sémantiques du terme, à propos du salut anonyme Dompna, vos m'aves et amors, in «Estudis Romànics», IX, 1961, pp. 191-201, coi rimandi ai fondamentali contributi di P. Meyer ed A. Parducci, nonché dello stesso E. Melli). Ci rifacciamo, nelle citazioni, all'edizione critica di quest'ultimo: E. MELLI, Il salutz provenzale Dompna, vos m'aves et Amors, in «Studi Mediolatini e Volgari», vol. V, 1957, pp. 77-94 (secondo tutti i codici, ma con a base N), tenendo presente però anche la precedente di A. KOLSEN, Dichtungen der Trobadors, Halle, 1916, rist. Genève, 1980, pp. 21-31 (secondo L e Q, dei quali codici si vedano le edd. diplomatiche a cura di M. PELAEZ, Il canzoniere provenzale L, in «Studi Romanzi», t. XVI, 1921, a pp. 25-26 e di G. BERTONI, Il canzoniere provenzale della Riccardiana 2909, Dresden, 1905, a p. 14).
Sul salut d'amor, cf. la messa a punto di C. LEUBE-FEY, Salut d'amor, in «Grundriss» vol. II, t. 1, fasc. 5 (Heidelberg, 1979), pp. 77-87 (con rimandi a Dompna, vos m'aves et amors). ()
 
(141) Oltre al dubbio statuto di genere (v. nota prec.), altri problemi che meriterebbero riconsiderazione sono quello attributivo e la strettamente collegata cronologia dell'opera. La messa a punto introduttiva di Melli (pp. 81-83) invita a identificare nel «coms d'Anguieus» nominato ib., v. 81, il Raimondo vissuto nel sec. XII di cui sono pervenute solo menzioni indirette di una sua attività poetica (famosi ormai i rimandi a suoi «trattati» che dà Francesco da Barberino nel commentario ai propri Documenti d'amore, per cui v. almeno MONSON, pp. 132-5), ma anche altri elementi di giudizio ricavabili dal domnejaire parlano in favore di una datazione meno antica (v. soprattutto BEC, Pour un essai, cit., p. 199). Potrebbe quindi meritare un rilancio l'ipotesi classica che vuole Carlo d'Angiò autore della prova poetica (KOLSEN, p. 21 e n. 1, P.-C, p. 153 n. 1; più nota la sua attività in lingua d'oïl, ma cf. comunque le indicazioni di SALVERDA DE GRAVE in BAlamanon, p. 114 n. 2, di M. BONI in Sordello, pp. XCIX ss. e note, e, dello stesso, Sordello con una scelta di liriche tradotte e commentate, Bologna, 1970, pp. C ss. dove si precisano i rapporti personali e poetici fra trovatore e principe).
Il livello di arbitrarietà connesso all'una o all'altra opzione è peraltro abbastanza scoraggiante se si considera che loro matrice propulsiva risulta «une de ces expressions idiomatiques dont on relève d'autres exemples chez les troubadours» (BEC, Pour un essai, cit., p. 199 n. 23): frasi tipo quella del domnejaire (vv. 78-81: «Far sabes tals cinc centz honors, / que s'es una de las menors / non voil aver Los Mans ni Tors / ni esser coms d'Anguieus clamatz») sono infatti subito riscontrabili con estrema facilità, e solo per non appesantire ulteriormente la nota limitiamo i nostri rimandi a PCardenal, XLV, vv. 85-90 (in contesto moraleggiante e sentenzioso, che forse allude ad una specifica contingenza storica: cf. nota dataria Lavaud a p. 270).
Infine, un quesito minimale (non definibile proposta di emenda data la troppo scarsa attenzione a ciò attribuita in questa sede) di carattere ecdotico: nel v. 79 di Dompna secondo MELLI (e KOLSEN), s'es appare interpretativamente più sforzato di ses «senza» (la forma con nasale, sens, ricorre del resto in L: cf. ed. PELAEZ, p. 26, c. 6r), intendendo «senza uno dei minori (onori)», in riferimento al sostantivo honors appena ricorso (e notoriamente di genere femminile nel galloromanzo antico). ()
 
(142) Cf. ad esempio NELLI, Érotique, pp. 181 ss. e JUNG, pp. 140-142 (trasferimento delle quinque lineae ai gras, con tentativo di aggirare il mancato combaciamento numerico in nome dei documentati ondeggiamenti del canone nel corso della tradizione latina prima ancora che romanza: v. in proposito CROPP, p. 51 n. 6 con rimando ai quattro «stadi» del De Amore). Desta invece netta perplessità (se non dipende da un nostro equivoco interpretativo) la proposta PIROT (p. 261, cf. da p. 256) di identificare nel barri villanesco il «quinto» scalino mancante nella canzone, rammentato al v. 219 del Fadet joglar: «e·l quint escalon de(l)fenir» (lezione di D, contro R «els .xv. escalos deuezir»: «il est bien clair qu'il faut choisir la leçon de D [...] pour admettre qu'il s'agit évidemment d'un cinquième échelon venant après les quatre gras»). ()
 
(143) All'interno dello stesso corpus calansoniano, va segnalata la pertinente citazione del prejador (ERNST, 2, 17 e nota a p. 351 con rimando a Dompna; per la ricorrenza di entendedor a 4, 20, a proposito della quale viene effettuato da Ernst, pp. 361-2, un parallelo rimando al domnejaire-salut, pare invece accertata la sua diversa connotazione semantica: «die schlechten Liebhaber», come si traduce opportunamente ib., p. 336).
Ad allargare i raffronti, più delle sparse occorrenze di questo o quell'elemento del «canone» (che possono far sorgere seri dubbi circa la legittimità di una sua retrodatazione rispetto al domnejaire, dubbi apertamente formulati in CROPP, pp. 78-9) si riveleranno utili eventuali ritorni seriali dei termini interessati: segnaliamo qui quello offerto da un passo di FLunel, Si quon la fuelh'el ramelh, vv. 19 ss. (non scevro da peculiari problemi interpretativi; l'ed. EICHELKRAUT, qui poco attendibile almeno per quanto riguarda la divisione delle parole, ha invitato ad una verifica diretta sul ms. C - e non A, come erroneamente registrato ib., p. 21 -, al fol. 324 vº, il cui risultato concorda con il testo già proposto da LEVY, SW I, p. 275 s.v. coindarel. Gli elementi individuati ib. risultano preyador (v. 19, poi ancora ricorrente al v. 34), entendedor (v. 20), fin amador ( = drut?, v. 21, cf. fis amans a v. 26), infine fenhedor (v. 22; a v. 23 torna fenhens riferito alla dompna). In stretto collegamento a questi ultimi due termini, ricorre yrnelh/yrnelha, di significato oscuro: la pur dubitativa traduzione di LEVY, l. cit. («wankelmüthig», cf. PD s.v.: «inconstant?») non risulta soddisfacente dato che l'area semantica concordemente riservata nel galloromanzo antico ai derivati di germ. *snel (FEW XVII, p. 159) risulta piuttosto quella di «prompte, rapide, agile» (si sarebbe tentati di attribuire alle su citate occorrenze una traduzione del tipo 'precipitoso', 'irruente', 'intempestivo' in antitesi quindi, e non in sinonimia paritetica, con la carica semica propria di fenhedor).
Sulle possibili valenze semiche di irnelh in direzione diversa dalle consuete ('snello, agile' e quindi 'grazioso, elegante') cf. ADaniel, 5, 39 («coinde e isnel» tradotto 'amabili e brillanti', e cf. nota a p. 187: «È possibile che il binomio arnaldiano sia applicabile anche in malam partem», con rimando al contesto di FLunel qui considerato); v. anche PERUGI, Trovatori a Valchiusa, cit., p. 31 (per il luogo di Razo e dreyt, v. 40, dove ad yrnelh si addirebbe particolarmente il significato di 'favorevole', in riferimento a una «condizione di gioia e di piacevolezza che consegue a un amore perfettamente ricambiato»). Tra gli ulteriori riscontri trobadorici ivi addotti, sembra indicativo almeno quello di PEIRE DE BLAI, En est so fatz chansoneta novela (= P.-C, 328, 1), vv. 7-9 (non 1-3 come cit. ib.: cf. ed. MAHN, Werke, III, p. 337), poiché è ad un ambito psicologico-morale e non meramente fisico che rimandano proposizioni come quella del v. 8 («isnella es sella que·m ten isnel»). Sul sintagma cors isnel v. anche S. VATTERONI, Le poesie del trovatore Johan Esteve, Pisa, 1986 (nota a II 68). ()
 
(144) Per Exp., vv. 707-718 («Qui gen no·ls sap menar / e falhis en .j. fag, / a prezen qu'en es lag / blasm'at ab gran desgrat; / et on mais a montat / si meteis en honor, / en perilh es maior / de franher son resso: / car, si fa falhizo, / ja no n'er razonatz, / ans n'er pus trop blasmatz / c'us autres no seria») è da confrontare PFAFF, LXXV, w. 470-75 («Ans si fa falhimen, / qui s'entremet d'onor, / on may a de lauzor, / es le blasmes pus grans / e conogutz enans / que d'autr'ome ganre»), dove la perspicuità dei contatti non richiede commenti; v. anche a LXXII 132 ritorno della coppia blasme-desgrat. Le isomorfie concettuali e formali sono al solito allargabili alla coeva produzione morale-didattica: v. almeno PGuillem, p. 250, vv. 12 ss. («Car no pot esser restaurat / a dona, can fai falhimen; / car en aissi cum es plus gen / a dona, can fai benestar, / lh'es plus lag, cant fai malestar, / que nulha autrui res qu'el mon sia») e anche BCarbonel, Coblas, IV e Poésies, II, 13-14 («E qui mais val mais fay de falhimen, / can falh en res, que us homs ses valor»: cf. nota 12 a p. 141 con altri rimandi). ()
 
(145) L'ispirazione comunque religiosa (anzi, scopertamente filoclericale) dell'opera trova espressione peraltro in molte altre sedi idonee (dalle oculate scelte lessicali a citazioni più o meno parafrasate di passi sacri: su tutto ciò cf. le nostre note all'ed., passim). Per un riepilogo della bibliografia relativa, cf. G. PERON, Temi e motivi politico-religiosi della poesia trobadorica in Italia nella prima metà del Duecento, in «Storia e cultura a Padova nell'età di Sant'Antonio», Padova, 1985, pp. 255-299, partic. a p. 257 in n. 4. ()
 
(146) Cf., nella medesima sede conclusiva, PFAFF LXIX 98 ss., LXXI 485 ss. (e addietro passim), LXXVII 381 ss., LXXVIII 263 ss., LXXXI 455 ss. e LXXXIII 220 ss. (in immediata adiacenza alla susseguente Exposition), nonché Decl., vv. 386 ss. che ben sintetizza i più diffusi periodi invocativi di cui sopra: «E sels Dieus, qu'endressar / pot totz bes, qu'es totz bos, / endres aiso e nos / en tot Cant entendem / de ben far, si podem, / si qu'el n'aya lauzor / e nos pro et honor: / e plassa·l c'aisi sia», con l'Amen finale che pure sigilla la quasi totalità delle precedenti preghiere. ()
 
(147) Su Enrico II di Rodez, poeta egli stesso (P.-C, n° 140), ma soprattutto operatore culturale di alto livello (come dimostra il già fitto elenco di rimandi alla sua persona ricavabile dal corpus trobadorico: CHAMBERS, p. 117, s.v. Enric n. 11, e p. 231 n. 3, s.v. Comte de Rodes) sono da consultare anzitutto i classici ANGLADE (GR, pp. 173 ss.) e JEANROY (Poésie, I, pp. 288-99: profilo volto a evidenziare i «goûts d'antiquaire» del conte e la sua viva propensione al débat poetico-cortese). Questi e altri dati sono tenuti presenti, e opportunamente aggiornati e integrati, dal recente volume di GUIDA, Jocs (si rimanda in particolare all'Intr., pp. 30-33 e passim), dove appunto sono editi tutti «i jocs ai quali prese parte, con diverse funzioni, Enrico di Rodez» (ib., p. 69; cf. anche n. seg.). ()
 
(148) Le ragioni addotte da Guida per motivare l'esclusione del Testimoni dalla raccolta (l'essere, cioè, «privo di qualsiasi rilevanza artistica e strettamente legato alla lunga espozitio»: p. 69 n. 191) sembrano dunque meno stringenti di quelle che invece guidano alla scelta dei testi editi (v. nota precedente). Risulta poco facile, a nostro parere, gerarchizzare il tasso di letterarietà del Testimoni rispetto, per esempio, al Jutjamen dello stesso Enrico II (su cui cf. n. 11); l'uso del verso, in ogni caso (e la stessa formula metrica) apparentano il Test. al settore epistolare ben sperimentato all'epoca e a buon diritto definito, esso stesso, «un genere ibrido» («Grundriss», VI/1, pp. 97-98; cf. ANGLADE, GR, pp. 263 ss. e MONSON, pp. 114 ss.). Il versante «documentale» può essere del resto normale riflesso di quel continuo interferire dello ius in tutti i campi della vita sociale e culturale del Medioevo (cf. GUREVIČ: Un paese si costruisce sul diritto, pp. 163-223). ()
 
(149) Le esitazioni relative alla resa italiana del vocabolo non dipendono dalla difficoltà di reperire equivalenti lessicali dell'a. prov. testimoni («testimonianza», che corrisponde a «Zeugnis» cioè «témoignage» di LEVY, SW e PD, è la risposta più immediata) ma dall'opportunità di indicare nel modo meno approssimativo possibile il potenziale equivalente versificato di una determinata categoria di documenti (cf. PAOLI, p. 54: «Lettera testimoniale» o «documento d'autenticazione»? V. anche i riscontri effettuati nella nota n. 3 dell'edizione del Testimoni). Pare indubbio, in ogni caso, che ci troviamo di fronte ad una charta dispositiva e non ad una notitia probatoria, come permette di appurare anzitutto la «forma soggettiva» del Testimoni, vale a dire l'uso, sia pure maiestatico, della 1ª persona (PRATESI, pp. 25-6, e ancora PAOLI, p. 19: in questo caso «è il documento stesso, che dà compimento e validità all'azione, e rimane poi esso solo testimonio autentico della medesima, e titolo e fondamento delle conseguenze che ne derivano»); cf. però L. GÉNICOT, Les Actes publics, Turnhout, 1972, p. 16 e n. 5: «Entre Urkunde et Notitia, charte et notice, la frontière n'est pas toujours nette» (v. anche la Mise à jour del fasc., ib., 1985, p. 3). ()
 
(150) Cf. la nota all'ed. n. 22. Com'è ben noto, l'auctoritas costituisce uno dei concetti cardine della cultura medievale, e specificamente a livello accademico indica «la qualité en vertu de laquelle un écrivain est digne de foi et se trouve classé parmi les auctores (PARÉ, p. 17 e ss., e cf. HILDER, pp. 17-22 con spogli da opere letterarie e bibliografia in n. 35); di «vers d'aucturitat» (e quindi «autorevoli, esemplari») parla del resto lo stesso Guiraut Riquier (Decl., v. 265, cf. n. a p. 120). Più in generale, «si le mot auctoritas, comme auctor lui-même, comme authenticus, marquent à la fois, de par leur étymologie, l'idée d'origine et l'idée d'autorité, c'est en fait le second sens qui l'emporte, du moins dans les formules steréotypées ou techniques, sur lesquelles la signification juridique s'est plus ou moins étendue» (M.-D. CHENU, Introduction à l'étude de saint Thomas d'Aquin, Vrin, 1950, p. 110). Sulla stretta interdipendenza di «autentico» e «autorevole» nel Medioevo, v. anche BRUNI, Modelli, p. 5 (rimandi bibliografici in n. 9, fra cui S. BATTAGLIA, La coscienza letteraria del Medioevo, Napoli, 1965, pp. 34-7, dove si traccia un chiaro riassunto dell'evoluzione semantica di auctoritas in rapporto alla sua progressiva ramificazione settoriale). ()
 
(151) Tra protocollo iniziale e vero e proprio corpo narrativo potrebbe essere ravvisato, a v. 5, un embrione di notificatio in forma soggettiva (PAOLI, p. 108, PRATESI, pp. 73-4: v. anche nota all'ed.). Tutte le successive informazioni (e in primo luogo la nomina dei coadiuvanti entendedors, su cui v. anche la n. 27 del precedente capitolo) rientrano nel canone della narratio, destinata a contenere appunto «l'analyse, plus ou moins dévéloppée, de la prière ou de la requête adressée [...] à l'acteur de l'acte par celui ou ceux qui l'ont sollicité; on y mentionne les raisons de l'accueillir, le consentement des tiers intéressés [...]» (GIRY, p. 548; sull'estrema variabilità delle dimensioni e delle parti componenziali della narratio medesima, cf. ib., p. 613 — progressiva contrazione delle circostanziate dichiarazioni alto-medievali nella tarda ridottissima notitia testum — e in succinto le osservazioni di PRATESI, pp. 74-75). ()
 
(152) Le ipotesi sull'identità di ciascuno dei compartecipanti al poetico torneo sono in linea teorica apertissime, data la mancanza, sia nell'Exp. che nel Test., di indicazioni precise in merito. Rifacciamoci ancora ad ANGLADE (GR, p. 181 n. 2): «on peut admettere sans peine qu'il y avait Guillem de Mur, que le seigneur Austorg del Boy qualifie de bon docteur [...] Peut-être y avait-il encore Folquet de Lunel; quant au quatrième, on peut hésiter entre Serveri de Girone, Bertrand Carbonel et les autres troubadours qui frequentèrent la cour du comte de Rodez». Per di più, dato che il Test. stesso invita a distinguere il grado di certezza relativo alla défaillance dei primi due concorrenti (vv. 16-17: «e dels dos sabem veramen / que mays no s'en entremetran») rispetto al terzo di cui, peraltro, «[...] crezem lo semblan / tan n'a lonc espazi avut» (vv. 18-19), la spiegazione più facile è la morte nel primo caso e la perdita di contatti nel secondo (come riconosciuto da ANGLADE ib).
Per puntualizzazioni relative alla cronologia di questi trovatori, cf. RIQUER, Trovadores, III, rispettivamente pp. 1396 (nº XCVII, BCarbonel: la sua attività poetica si colloca attorno alla metà del sec. XIII, sulla scorta di CONTINI, Poésies lyriques, pp. 12-24), 1550-51 (nº CX, FLunel: l'opera più tarda, il Romans de mundana vida, è datata 1284) e 1556 ss., partic. p. 1560 (CGirona «aún vivía en mayo de 1285, y ninguna de sus numerosas poesías conservadas permite prolongar más su vida»; cf. anche l'accenno del medesimo RIQUER, Para la cronología del trovador Cerverí, Madrid, 1952, p. 28 n. 1, circa la «posibilidad de que el envío de la Pistola y el Vers del comte de Rodes», datati al 1279, «tenga alguna relación» con il concorso poetico indetto da Enrico II). «Celui qui avait négligé d'envoyer son commentaire était peut-être Guillem de Mur, qui [...] s'était retiré dans ses terres» (ANAGLADE, loc. cit.): l'accurata ricerca di GUIDA (Jocs, Intr., pp. 34-39) non può aggiungere molto a quanto è lecito desumere da più di un componimento dell'entourage di Enrico II, e in particolare dal noto partimen Senhe n'Austorc d'Alboy, lo coms plazens (n° VII, pp. 231 ss.), databile sempre secondo Guida (p. 236) post 1280 (ma tali tendenze almeno apparentemente rustiche risultano già riprovate, sia pure in modo più blando, da parte dell'amico Guiraut Riquier nella prima tenzone col diretto interessato, Guilhem de Mur, que cuia far: ed. PFAFF, nº LXXXVIII, pp. 237-8, vv. 33-34 e cf. GUIDA, p. 245, n. 19-20 nonché ANGLADE, GR, pp. 49-52).
Come annota PERUGI, Trovatori a Valchiusa, cit., p. 170 n. 18, BCarbonel «è escluso per motivi cronologici» dalla rosa dei candidati formata da Enrico II, in base soprattutto alle acquisizioni di G. CONTINI, Poésies lyriques, pp. 6-24 (v. partic. a p. 16 e n. 1 circa le «prétendues rélations» con Guiraut Riquier supposte da J. Anglade). Il conte di Rodez a cui si appella il Carbonel in un suo componimento (P.-C, 82, 4, vv. 51-55) sarà quindi verosimilmente Ugo IV padre del suddetto Enrico, pure cantato da numerosi trovatori (cf. GUIDA, Jocs, p. 30 con rimando in n. 2 a CHAMBERS, Proper Names, che però a p. 231 n. 3 s.v. Rodes identifica in Enrico II il conte del Carbonel, in linea con i precedenti P. MEYER, Dern. Troub., p. 57 e n. 3, A. JEANROY, Coblas, p. 137 n. 1 nonché C. APPEL, Provenzalische Inedita aus pariser Handschriften, Leipzig, 1890, p. 353 s.v. Rodez). ()
 
(153) I vv. 27-28 contengono il probabile equivalente poetico della formula di corroborazione, che solitamente annunciava l'apposizione del sigillo (GIRY, pp. 575-6 e 754, con ess. da testi a.fr. e diplomi latini di area gallica) e più in generale «le formalità messe in atto per garantire l'autenticità dello scritto» (PRATESI, pp. 76-77). È ben nota l'importanza multipla del sigillo come elemento di convalida; sia, cioè, autenticativo del contenuto che garante della non manomissione materiale del documento (come richiama la qui presente postilla terminale del ms.): cf. M. PASTOUREAU, Les sceaux, Turnhout, 1981, partic. pp. 21-22. Esiste del resto un'inchiesta specificamente dedicata al nostro ambito d'indagine (M. de FRAMONT, Sceaux rouergates du Moyen âge. Etude et corpus, Rodez, 1982: il periodo preso in esame si estende dal XII al XV secolo).
Per quanto si riferisce alle coordinate spazio-temporali fornite dal testo (Montrozier, luglio 1285) il collegamento prospettato da ANGLADE, (GR, p. 181 e n. 2) fra stesura del Test. e una storicamente accertata assemblea nobiliare appare un po' sforzato (dato l'«ordine del giorno» politico e non letterario della medesima) e non necessario considerata la periodicità ravvicinata dei meetings a vario titolo indetti da Enrico II in questa o quella delle sue dimore comitali (cf. GUIDA, Jocs, pp. 30 ss.). ()
 
(154) L'attribuzione ad Enrico II, patrocinata già da BARTSCH (Grundriss, p. 49) e DIEZ (Leben und Werke der Troubadours, Leipzig, 1882 = rist. Amsterdam, 1965, pp. 421-422), nonché C. CHABANEAU (Cinq tensons de Guiraut Riquier, in «Revue des Langues Romanes», vol. XXXII, 1888, pp. 109-127, a p. 123 n. 1), e del resto registrata come tale anche in P.-C. (pp. 120, s.v. Enric II, n° 140, e 233, s.v. Guiraut Riquier, n° 248), viene accolta comunemente ancora oggi (cf. ad es. MONSON, p. 114 n. 1, e lo stesso GUIDA, Jocs, p. 69 n. 191).
Al contrario, gli studiosi riquieriani DAMMANN (pp. 40-42) e ANGLADE (GR, pp. 142 ss.) erano convinti che al narbonese dovesse essere fatto risalire, e in base a ben individuati «precedenti», il Testimoni («C'est, en effet, l'habitude de Riquier de rédiger les réponses des hauts personnages auxquels il adresse une question [...]. La tentation était toute naturelle pour un troubadour de faire la question et d'écrire la réponse, dans une société où tout prétexte était bon pour versifier; de plus, de tant de manières de faire la cour aux grands, à une époque où leur protection était si nécessaire, c'était encore la moins blâmable»: ANGLADE, l. cit., con susseguente allargo del discorso al dittico versificato di N'At de Mons, su cui v. n.seg.). ()
 
(155) L'analisi congiunta delle due «coppie» (stampate rispettivamente in PFAFF, nn. LXXIX-LXXX, poi BERTOLUCCI, Suppl. e Decl., e BERNHARDT, N'At de Mons, I) è stata avviata da BERTOLUCCI, ib., Intr., pp. 18 ss. («Se limitatamente al contenuto possiamo quindi supporre una certa collaborazione, quanto meno orale, da parte del re «sabio», la stesura del complesso supplica-risposta concerne in modo esclusivo sia Guiraut che il suo collega N'At de Mons: così si è sempre pensato, né v'è ragione di dissentire in proposito», p. 26). Cf. ib. n. 27 circa la meditabile proposta Bernhardt di «una risposta orale o scritta (in prosa) da parte del re, messa poi in versi dal trovatore», proposta collimante con quella Anglade e che rende comunque opportuno un tentativo di approfondimento dei rapporti tra i due autori e le due opere. Citiamo qui anche «il più antico esempio di supplica con relativa risposta» (Suppl., p. 18 n. 8), vale a dire il componimento di GBerguedà, Amicx: senher, no·us o cal dir(ed. RIQUER, II, pp. 253-65, n° XXX), atipico esemplare di quaestio disputata, a metà strada fra epistola didattica (cui rimanda l'assetto metrico della replica: versi di sei sillabe) ed esperimenti più lirici che narrativi quale il salut (MONSON, p. 114 n. 3). ()
 
(156) Si tratta, rispettivamente, di: P.-C. 140 1, 2, 1a, 1d = 248,75 e 76, 226,1 e 248,74 (ora occupanti i nn. II,V, VI e VII dell'ed. GUIDA, Jocs); e di P.-C, 140 1b e 1c = 226,5 e 6a (ed. GUIDA, nn. IV e III); infine, Guida stampa (n. I) il componimento di P.-C, 226,8 = 248,42 in cui Enrico compare in veste di jutje (cf. nota seguente).
L'identificazione del conte quale diretto compartecipe dei su citati jocs, anche se altamente probabile (e tradizionalmente accettata, ultimo Guida) in base al convergere di vari significativi indizi, non è sempre suffragata dalla diretta citazione nominale: ricorrono più spesso i titoli di coms e (quest'ultimo piuttosto generico) (mo)senher (cf. GUIDA, VI, p. 210; per le tenzoni con il Mur, ib., pp. 133 ss. e 157 ss.). Per quanto riguarda gli altri tenzonanti (tutti personaggi di spicco dell'ambiente rouergate, legati ad Enrico II da vincoli di parentela o amicizia oltre che dal legame vassallatico) rimandiamo alla più che esauriente messa a punto di Guida (con bibliografia completa degli studi antecedenti e stimolante annuncio di altro e ancora più approfondito lavoro storico sul milieu di Rodez, ad opera dello stesso studioso). ()
 
(157) Guilhems m'a dat e Guirautz pensamen (GUIDA, n° I, pp. 83-4, vv. 57 ss.; cf. ib. a p. 81 indicazioni sulle precedenti edizioni del partimen). La priorità della munificenza regale verso i «propri» o gli «estranei» (per cui vien chiamato in causa il solito prototipo duecentesco di largueza nei confronti dei forestieri, e cioè Alfonso X di Castiglia) costituisce argomento (vivacemente attuale) del dibattito. Eletto concordemente giudice, il coms joves (v. 56: termine ante quem per la datazione, poiché la nomina effettiva di Enrico risale al 1274) decreta in finale che «pus fin pretz a selh c'als sieus l'espan» (v. 68), in dichiarato accordo con il consultato cosselh di esperti (v. 65).
Riferimenti bibliografici ulteriori sul suddetto componimento: ANGLADE, GR, pp. 96 ss., NEUMEISTER, p. 158, KÖHLER, pp. 74-5 (cf. anche le considerazioni socio-economiche di GUREVIČ: Le concezioni medievali della ricchezza e del lavoro, partic. a pp. 258 ss.). ()
 
(158) NEUMEISTER, p. 16 n. 24, e Register, pp. 211-12 (in corsivo i nomi dei giudici). Può risultare sintomatico di una situazione generale il dato relativo alle venti tenzoni del corpus riquieriano (cf. PFAFF, pp. 223 ss., e l'edizione parziale di C. CHABANEAU, Cinq tensons de Guiraut Riquier, cit., comprendente i nn. 11, 16, 28, 34 e 80a di P.-C, 248): ben dodici di esse fanno appello in conclusione al «jutje» (ed. PFAFF nn. LXXXVI, LXXXVII, LXXXIX, XC, XCI, XCIII, XCVI e XCVIII, più le prime quattro edite da Chabaneau), ma solo due di queste (LXXXIX, vv. 61 ss., su cui cf. la qui seguente n. 16, e XCVI, vv. 57 ss., su cui v.n. prec.) ci tramandano il testo del relativo verdetto. ()
 
(159) Ad esempio, Enrico II risulta chiamato a dirimere un'altra tenzone tra Guiraut Riquier e Guilhem de Mur, Guilhem de Mur, chauzetz d'esta partida (P.-C, 248,36 = 226,3; ed. PFAFF, n° XCI, pp. 241-3), ma solo da parte del narbonese (v. 52), mentre Guilhem, pur appellandosi ad Enrico, sceglie a giudice una dama Eleonora (vv. 55-6: «E N Enricx sap, que uers es la part mia, / Mais al iutiar uuelh N'Elionors y sia») che probabilmente va identificata nella moglie di Marques de Canilhac, personaggio pure di spicco dell'entourage di Rodez e compartecipante a vari jocs insieme a Enrico e a Riquier (cf. GUIDA, Intr. pp. 39 ss., con attenta ricognizione documentale su «una delle famiglie più ragguardevoli della Francia centromeridionale»: la stessa Eleonora, originaria d'Apchier e Castelnau-Randon, risulta per discendenza e per inclinazione personale sensibile apprezzatrice dell'arte trobadorica). Anche nella tenzone Enric de Rodez-Guilhem de Mur che ora porta il n° III nell'ed. GUIDA (pp. 131 ss.): Guilhem, d'un plag novel, Enrico esordisce dichiarandosi nominato jutjes verays (v. 4) di tale plag (la «novità» riguarda la «questione sociale» dell'amore cortese, se cioè debbano valere distinzioni di rango, ecc.: cf. GUIDA ib. e NEUMEISTER, p. 183). ()
 
(160) Cf. anche le principali recensioni al volume di Neumeister, ad opera rispettivamente di L. Pollmann, F. Chambers, C. Camproux (indicazioni complete nelle schede ad esse dedicate da A. Ferrari in «Cultura Neolatina», XXXIV, 1974, pp. 362-3). In particolare l'ultima citata apporta utili integrazioni critiche, «soprattutto su quello che [...] sembra un atteggiamento riduttivo nei confronti della tematica», da N. ricondotta forse un po' troppo univocamente allo spiel che dà il nome al volume, inteso anche e soprattutto come meccanismo formale. Si fanno quindi pertinenti i rimandi alle meditazioni di tutt'altro ambito (ideologico e sociale), effettuate sugli stessi prodotti letterari da E. Köhler (cf. ora in «Grundriss», vol. II: Les genres lyriques, t. 1, f. 3, Heidelberg, 1979, pp. 1-32). L'impostazione introduttiva del N. (relazioni fra partimen e coeva tendenza alla disputa scolastica e legale) è comunque ampiamente condividibile (F. CHAMBERS in «Romance Philology», vol. XXVI, n. 1, 1972, p. 186, e ora GUIDA, Jocs, pp. 63 ss. e passim; MENEGHETTI, vol. cit., cap. III, pp. 101 ss., partic. a pp. 155 ss.). ()
 
(161) Guillems, prims est en trohar a ma guiza (P.-C, 205,4 = 201,3; ed. critica a cura J. MÜLLER, Die Gedichte des Guillem Augier Novella, in «Zeitschrift für romanische Philologie», XXIII, 1899, pp. 47-78, a pp. 73-5, e cf. B.-K., cc. 77-78). Al giudizio di Romieus ci si appella a partire dal v. 21 della tenzone, attribuendogli «sens de natur'e de lati»: circa la sua problematica identità, siamo tuttora fermi ai contributi elencati da P.-C., l. cit. (v. in particolare G. BERTONI, I trovatori minori di Genova, Dresden, 1903, p. XXVII n.1: il consigliere di Raimondo Berengario di Provenza o il trovatore Arnaut Romieu, «come sembra, contemporaneo di G. Augier»?). In ogni caso, l'epoca oscilla attorno al 1225 (NEUMEISTER, p. 160) e quindi si tratta del più antico «Urteil» a noi pervenuto, contraddistinto per il resto da una notevole esiguità di struttura (tre versi in tutto) destinata a incidere verosimilmente sulla stessa autonomia strutturale del «giudizio», in effetti qui assai debole (il suo riferimento in forma indiretta viene motivato da NEUMEISTER, ib. in base alla possibilità che «der Urteilende selbst dichterischer Formgebung nicht fähig ist»).
Sul corpus poetico di Guillem Augier Novella (P.-C, n. 205) cf. ora Il trovatore G.A.N., edizione critica a cura di M. CALZOLARI, Modena, 1986 (il testo qui considerato occupa il n° IV, pp. 115-134; circa l'identità di Romieus v. anche Intr., pp. 48-49). ()
 
(162) Guiraut Riquier, no.us tenhatz a otratje, a chiusa del torneyamen (fra Guiraut Riquier, Enrico II e Marchese di Canilhac) Senhe n'Enric, a vos don avantatje (ed. GUIDA, n° II, p. 116, vv. 61 ss.; cf. ib. per le antecedenti edd., ricordate a p. 113, e per la proposta datazione ante 1271: p. 107 e ss.).
Viene qui discussa l'ideale priorità di scelta tra fortitudo, sapienza e largueza (dibattito, come si provvede a rilevare ib., molto radicato nella coscienza «cortese» dell'epoca): quale competente jutje viene invocato il nobile chierico (secondo l'attendibile ricostruzione documentaria di Guida) Peire d'Estanh, portavoce dell'egemone classe dell'aristocrazia feudale, il quale si preoccupa di riaffermare che «lo donars sobre totz senhoria» (v. 68). Fra gli altri contributi specifici sul componimento, cf. ANGLADE, GR, pp. 179-180 (e in «Annales du Midi», XXIII, 1911, p. 339), NEUMEISTER, pp. 159 e 165-166, KÖHLER, p. 81. ()
 
(163) I due jutjamen concludono nel modo più pacifico e insieme dicotomico la tenzone fra Cornet e un mal precisato W. Gras circa la preferibilità da accordare, in ambito clericale, a ricchezza o povertà (Deux mss., n° XXXI: Mossen Ramons, per clercia) in quanto il primo Fontanas nel relativo jutjamen (Regardat ab diligensa) prende partito per paubriera (v. 8), il secondo a sua volta (Lo rix bos, a ma parvensa) per la già nominata congiunzione di ricchezza e drittura morale (altre osservazioni puntuali in NEUMEISTER, pp. 155-6).
Quanto all'irrisolta identità storica dei due giudici, denominati rispettivamente «W.» e «Johan» nella VII cobla (vv. 63 ss.), eccessivamente pessimista, forse, il «nous ne savons rien» di JEANROY (HLF, p. 67) di contro alla non provata connessione fra i nostri due Fontanas e l'abbiente famiglia tolosana segnalata da NOULET-CHABANEAU (Deux mss., pp. XX-XXI); v. pure ib., p. XLIII e nota per la datazione orientativa del componimento (epoca del «béguinage» di Raimon de Cornet? anche su questo cf. NELLI, Érotique, pp. 268-73).
Su «W.» e Johan de Fontanas, nonché W. Gras, cf. ZUFFEREY, Bibliographie cit., nn. 502 (p. 24), 505 (p. 26), 521 (p. 33). ()
 
(164) In conformità a quanto segnalato sopra, in n. 15, nemmeno una menzione spetta a Romieus (il cui parere viene soltanto riferito negli ultimi versi della tenzone suddetta) da parte di FRANK, I, 302:4 (che riporta appunto lo schema generale della tenzone); quanto all'intervento di Peire d'Estanh, lo schema relativo di FRANK (I, 368:4: sei coblas unissonans di 8 déc. ciascuna, più tre tornadas di 4) è in effetti applicabile al partimen che Peire è chiamato a dirimere, ma non tiene conto del jutjamen medesimo, costituito da «una strofa di 8 versi con struttura metrica e rimica uguale a quelle del partimen» (GUIDA, p. 113). Per quanto attiene invece al jutjamen di Enrico, che risulta il più articolato del gruppo, v. pure FRANK, I, 651:4 e GUIDA, p. 81 («una cobbola di otto decasillabi più una tornada di quattro decasillabi con schema rimico identico a quello del partimen»); infine, Deux mss., p. LII per la notizia metrica sulla tenzone fra Cornet e Gras e relativi giudizi (essi pure costruiti «en coblas doblas, c'est-à-dire que le second est sur les mêmes rimes que le premier»). ()
 
(165) I termini tecnici in questa direzione risultano testimoni, auctoritat (cf. alle precedenti nn. 3, 4) nonché guerentia del v. 28 (su cui v. nota all'ed., n. 28-30), incastonati in un tessuto espressivo che sia pure genericamente corrobora il rimando all'area giudiziaria. Le frequentissime espressioni asseverative, del resto etimologicamente imparentate, in quanto facenti capo a VERUM (dalla liminare ab veritat, al veramen in explicit, attraverso i ver, veramen, vertat dei vv. 5, 7, 10 ecc.) oppure al verbo CREDERE (v. 18 crezem, v. 27 crezut) non bastano certo a provare una specializzazione culturale di Riquier in questo ambito, anche se ANGLADE (GR, p. 27 e passim) ha creduto di poter rilevare da più luoghi della sua opera un analogo «goût pour les formules judiciaires», e se i proficui scambi fra diritto e letteratura sono stati messi in luce all'interno della medesima situazione storica (cf. P. OURLIAC, Troubadours et juristes, in «Cahiers de civilisation médiévale», VIII, 1965, pp. 159-177, che elenca fra i poeti-giuristi Daude de Pradas, Lunel de Montech e Matfre Ermengaud, e in generale A. GOURON, Le recrutement des juristes dans les Universités méridionales [...], in «The Universities in the late Middle Ages», ed. by I. Ijsewijn-J. Paquet, Leuven, 1978, pp. 524 ss.). Cf. anche al cap. precedente, nota n. 3. ()
 
(166) «Si tratta della formula di chiusura più marcata del libre, che in questo solo caso — se vogliamo attenerci ai dati in nostro possesso — accoglie versi altrui ad honorem del suo autore: con la trascrizione della «carta sigillata» [...] Guiraut Riquier dimostra di aver meritato, in via che diremmo ufficiale, quel titolo di doctor de trobar che Alfonso di Castiglia aveva su sua richiesta cortesemente istituito» (BERTOLUCCI, Il «Libro», p. 254). ()
 
(167) Sull'oggettiva difficoltà di distinguere il vero «autore-promotore» dal compilatore-redattore del documento medievale (e questo, in ultima analisi, dall'estensore materiale del medesimo) cf. le giuste notazioni di PRATESI, pp. 31-33: «colui che, secondo i casi, ordina o richiede la redazione del documento può essere — e molte volte è — persona diversa dall'autore dell'azione giuridica (spesso si tratta del destinatario il quale, poiché l'attestazione scritta costituiva per lui un titolo, aveva più di ogni altro interesse a farne domanda)» (v. pure GÉNICOT, cit., pp. 20-23).
Per quanto attiene al consenso a latere, al di là del richiamo strettamente cancelleresco ai testes quali elemento indispensabile alla ratifica dell'atto (PRATESI, pp. 52 ss., GIRY, p. 613 e passim), «si può intendere correttamente la struttura sociale dell'Europa medievale solo tenendo conto tanto dei rapporti 'verticali' di dominio e subordinazione quanto di quelli corporativi 'orizzontali'» (GUREVIČ, p. 199; cf. p. 207 e passim). ()

 

 

 

 

 

 

 

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