L’opera poetica di Jaufre Rudel, pur concentrata nel breve spazio di sei componimenti di attribuzione sicura, è senza dubbio fra le più affascinanti e suggestive dell’intera produzione trobadorica.
Ciò, ovviamente, in primo luogo si deve ai suoi intrinseci pregi contenutistici e formali: inerenti all’elaborazione tematica e alla fattura tecnica, insomma alla «scrittura» del poeta nel senso più ampio del termine; ma lo si deve anche, in non esigua misura, ai valori e significati ulteriori — in breve, a un incanto e a un fascino sempre nuovi — che attraverso i secoli e specialmente in età moderna la poesia rudeliana ha rivelato e sviluppato nella lettura dei posteri.
Non a caso il più sensibile e geniale degli studiosi che abbia esercitato la sua intelligenza critica sul canzoniere di questo trovatore ha potuto assumerlo, in un magistrale saggio, a paradigma del movimento trobadorico in generale.
L’aspetto enigmatico della poesia di Rudel, il suo linguaggio cifrato, la pluralità di sensi possibile e passibile di divergenti — anzi opposte — interpretazioni, che vanno certamente oltre una indubitabile ambiguità programmatica; inoltre la quasi completa oscurità che circonda i fatti reali della vita del poeta, oscurità che però lascia intravedere una personalità socialmente rilevante quanto umanamente ricca e singolare, sono all’origine di un così fortunato destino.
Una non del tutto inadeguata comprensione dei testi di Jaufre Rudel, anche ai fini di una responsabile presa di posizione in ordine alla problematica strettamente ecdotica ad essi relativa, postula necessariamente la conoscenza non solo dei presupposti ma anche dei termini essenziali di tale fortuna e la consapevolezza di quali interrogazioni i lettori ammirati e perplessi si siano poste e continuino a porsi riguardo a una particolarmente complessa e compiutamente inafferrabile realtà testuale.
A tutto ciò occorre pertanto anche in questa sede almeno succintamente accennare.
Quello che con provata certezza sappiamo, insieme a quanto su buon fondamento si può ragionevolmente congetturare, riguardo alla personalità storica di Jaufre Rudel, è stato riportato alla luce, riunito e criticamente vagliato in anni non lontani da Paul Cravayat.
Prima di allora le nostre conoscenze sul trovatore si riducevano a quel che Gaston Paris, alla fine del secolo scorso, aveva potuto racchiudere in una breve frase («il était seigneur, prince ou vicomte de Blaye, il composa des vers dans la langue des troubadours et il se croisa en 1147»). Ancora nel 1949, la scheda biobibliografica preposta da Aurelio Roncaglia alla sezione rudeliana della sua antologia trobadorica faceva presente che del poeta non si aveva «nessuna notizia cronachistica o documentaria»; le poche informazioni fornite laconicamente dal Paris, infatti, erano tutte di provenienza letteraria: offerte dalla vida — come vedremo — e dall’invio di un sirventese di Marcabruno, datato dal Boissonade ( 1) alla metà del 1148 («Lo vers e·l son vuoill enviar / a·n Jaufre Rudel outra mar») ( 2). Adesso, almeno, grazie alla ricostruzione su dati archivistici del Cravayat, conosciamo bene la stirpe di Jaufre (con tanto di albero genealogico), essendo sicura l’identificazione di lui con il Gaufredus Rudelli che, insieme al padre Geraldo di Blaia (Geraldus de Blavia) e al fratello Guglielmo Freland (Willelmus Freelandi), sottoscrisse poco dopo il 1125 un atto di conferma della donazione del feudo di Peunouveau (Charente-Maritime, arr. di Saintes) all’abbazia di Fontdouce. Il capostipite del casato di Rudel fu Goffredo conte d’Angoulême (dal 1030 al 1048); il nonno del poeta Guglielmo Freland, compare in atti dal 1090 col titolo nobiliare di principe di Blaia ( Blaviensium princeps) ( 3).
Dei fatti della vita del trovatore si deve reputare certa la sua partecipazione alla seconda crociata, nella spedizione organizzata da suo cugino Guglielmo IV d’Angoulême, a cui presero parte anche Alfonso Giordano conte di Tolosa ( 4) e Ugo VII il Bruno di Lusignano conte della Marche ( 5). Sembra invece del tutto campata in aria la supposizione che abbia trovato la morte all’assedio di Damasco (1149), mentre è plausibile pensare, con Martín de Riquer, che Rudel non fosse già più in vita nel 1164, quando suo figlio Gerardo andò in pellegrinaggio a Gerusalemme.
Da questa base ristretta di verità che possiamo dire ormai assodata, la fantasia di non pochi critici ansiosi di saperne di più si è lanciata arditamente verso le incerte plaghe dell’ipotetico, sollecitata dall’antica biografia ( 6). La questione dell’attendibilità delle biografìe trobadoriche è tra le maggiormente discusse dai provenzalisti. Credo che a volersi destreggiare avvedutamente tra Scilla e Cariddi schivando lo scetticismo pregiudiziale senza cadere nell’ingenua credulità, si debba far tesoro delle prudenti considerazioni fatte al riguardo ultimamente da Martín de Riquer (pp. 26-30) e considerare la questione di quelle che non si possono decidere astrattamente in un senso o nell’altro, ma richiedono invece di essere valutate con prudenza caso per caso, nella fattispecie notizia per notizia.
Ciò premesso, tornando alla vida rudeliana, si sa che l’oggetto del contendere è costituito dall’amore del poeta per la contessa di Tripoli ( 7). Purtroppo, nessuna delle candidate storiche all’identificazione proposte dagli ascritti a quella che Leo Spitzer ha definito «école biographique» ha tutte le carte in regola circa i requisiti richiesti dalla biografia: non Melisenda, di carducciana memoria ( 8), sorella di Raimondo II di Tolosa, e neppure Odierna, loro madre, moglie di Raimondo I; tanto meno, la famosa Eleonora d’Aquitania.
Melisenda deve la sua candidatura a un tradimento: cioè al fatto che, essendo promessa sposa all’imperatore di Costantinopoli, Manuele Comneno, alla vigilia delle nozze (verso il 1160) costui le preferì all’ultimo momento la sorella del principe di Antiochia. Sarebbe stata per l’appunto questa lacrimevole disavventura, secondo il Diez che propose l’identificazione e lo Stimming e il Carducci che l’approvarono, a intenerire il cuore del trovatore. Per far tornare i conti con la cronologia il Diez non esitò a supporre che Jaufre Rudel, tornato incolume in patria dall’impresa bellica, avrebbe assai dopo, attorno al 1170, appreso la storia pietosa della donzella che forse aveva conosciuto bambina in Oriente al tempo della crociata; la compassione si sarebbe quindi trasformata in amore, e la brama di contemplarne fisicamente l’oggetto avrebbe spinto il poeta al viaggio fatale. È a dir poco sorprendente che un austero filologo abbia potuto abbandonarsi così incautamente all’immaginazione: l’argomentazione dieziana fa infatti acqua da tutte le parti, come ha mostrato esaurientemente il Paris (pp. 503 ss.), e non soltanto perché Melisenda non fu contessa di Tripoli.
La candidatura di sua madre che pure lo fu, non ha trovato per altro molto maggior credito: anche se — bisogna ammetterlo — pare alquanto meno romanzesca. Non a caso, del resto, fu avanzata — dal Suchier, recensendo il libro dello Stimming — in alternativa a quella di Melisenda, come meno improbabile: e tale effettivamente era, perché Odierna fu davvero contessa di Tripoli; inoltre, in quanto nata nel 1118, d’età concupibile quando Jaufre Rudel si fece crociato. Eppure, neanche lei è riconoscibile nella comtessa di cui parla il biografo del trovatore. Come faceva notare il Paris, «nous savons pertinemment qu’Odierne ne se fìt nullement nonne en 1147, année où le malheureux Jaufre, d’après M. Suchier, serait venu expirer entre ses bras: après avoir assez mal vécu avec son mari Raimond Ier, elle exerça, quand il eut été assassine en 1152, la tutelle de son fils mineur, et mourut en 1161» (p. 518).
Visto che la “qualifica” di contessa di Tripoli creava difficoltà all’interpretazione realistica della vida, il Crescini propose di accantonarla come un dato immaginario che non valeva a inficiarne la sostanziale storicità (una storicità “all’ingrosso”). Sebbene al corrente del fatto che altri trovatori cantarono l’amore ses vezer, il Crescini, insomma, non volle considerarlo un mero topos in Rudel, pensando che il suo amore fosse comunque rivolto ad una dama in carne ed ossa, magari non proprio contessa di Tripoli, ma comunque dimorante in Terrasanta; aprendo così inopinatamente la strada alla tesi del Monaci. Fu questi il primo a supporre che l’amata di Rudel fosse nientemeno che la regina di Francia, l’affascinante Eleonora d’Aquitania che con un seguito di numerose altre dame altolocate accompagnò il marito Luigi VII alla crociata. Ipotesi audacissima, che fu accolta dal Savj-Lopez e dall’Ortiz, poi riesumata trent’anni fa dal Santangelo con lievi ritocchi e presa in considerazione, se non con aperta e incondizionata adesione, certo con disponibilità e simpatia dalla Lejeune (p. 429 e n. 18).
Un rilievo costante della critica rudeliana più avvertita è non da oggi quello dell’intrinseca difficoltà di una poesia pur tanto esteriormente leu ( 9). Al lettore odierno delle liriche di Jaufre Rudel appaiono pertanto inequivocabilmente datate, nonché oltremodo insoddisfacenti, le ingenue interpretazioni cosiddette «biografiche» ( 10) presentate sommariamente nelle pagine precedenti.
Alla prova del confronto puntuale coi testi esse si dimostrano, infatti, del tutto disarmate verso una scrittura sigillata nel suo mistero, malgrado l’apparente semplicità. Eppure, quando già Casella, Spitzer e Battaglia avevano aperto la strada a un tipo di lettura dei trovatori assai più perspicace e persuasiva, alcuni studiosi hanno candidamente riproposto il «biographic approach» al canzoniere del principe di Blaia; con commovente fiducia specialmente Irénée Cluzel, Salvatore Santangelo e Yves Lefèvre. Manca loro purtroppo anche il pregio dell’originalità, riformulando essi senza sostanziali novità le vecchie tesi, rispettivamente, del Diez, del Monaci e della Frank. Vediamo, in breve, con quali argomenti.
Negando credito all’osservazione di Gaston Paris che nella vida di Jaufre Rudel «tout ce qu’on peut vérifier est faux», per il fatto che invece rispondono a verità le notizie sul rango del trovatore e sul suo viaggio in Terrasanta, il Cluzel rilancia arditamente l’ipotesi realistica di un amore «d’outre-mer»: nulla infatti, a suo avviso, si opporrebbe ad essa nelle canzoni sull ’amor de lonh, che sarebbero poi soltanto la seconda ( Quan lo rius) e la quinta ( Lanquan li jorn) ( 11). Le vicende dell’amore oltremarino si inquadrerebbero in uno schema biografico fondato sulla congettura del duplice viaggio formulata dal Diez: «Jauffré, très jeune encore, se croise en 1147. Au cours de ce premier séjour en Orient, il a l’occasion de voir une dame — indéterminée — qui fait sur lui une vive impression. De retour en France, l’ amor de lonh transfìguré par l’absence et la distance, s’exalte au point de pousser le prince de Blaye à faire à nouveau le voyage de Terre Sainte. Il meurt en Orient, au cours de ce dernier séjour». Che dire di questa fantastica ricostruzione della vita del poeta? Certo, in confronto ad essa quel «romanzo cavalleresco in miniatura» (Casella) che è la vida appare, oltre che incomparabilmente più suggestivo, anche più attendibile. Secondo la sua ipotesi biografica il Cluzel propone inoltre una «nouvelle classifìcation des pièces du troubadour» : così articolata: canzoni prima, terza e quarta che alludono «à des amours réelles, antérieures à la croisade, exprimant une passion juvénile et très sensuelle», attribuibili a una fase biografica conclusa nel 1147; canzone sesta, una «simple plaisanterie» il cui «ton badin», comune a composizioni analoghe di Guglielmo IX e di Raimbaut d’Aurenga, «permet de l’attribuer aux années de jeunesse du troubadour», cioèa prima della crociata; canzoni seconda e quinta, «cycle de l’amor de lonh. De retour en France, le prince de Blaye n’a pas oubliée la dame connue, ou simplement aperçue en Terre Sainte. Cet amour insatisfait s’exalte au point de revêtir parfois un caractère mystique. Finalement, Jaufré décide de se réembarquer, en qualité de pèlerin cette fois (pièce V). Il meurt outre-mer (1162?)». La data supposta è quella assegnata all’evento da Nostradamus ( 12), le bizzarre escogitazioni del quale sono del tutto indegne del benché minimo credito.
La tesi di Irénée Cluzel potrebbe proprio sembrare un caso limite: rientra invece nella norma, perché l’incontinenza congetturale è una costante delle interpretazioni biografiche, paradossalmente determinata dal loro preteso quanto malinteso realismo ( 13). Volendo spiegare ad ogni costo la poesia con i fatti della vita empirica del poeta, quando questi scarseggino per carenza di notizie bisogna scoprirli per via d’immaginazione: detto brutalmente, inventarli. Naturalmente, chi lo fa finisce quasi sempre per convincersi di esserne autorizzato dai testi, e diviene lui stesso la prima vittima delia sua mistificazione. A questa sorte soggiace fatalmente anche Salvatore Santangelo, che loda il Monaci perché si sarebbe accorto degli «elementi realistici» presenti nelle poesie di Rudel; perché per primo avrebbe intuito che «un piccolo canzoniere di sei poesie non poteva cantare che una sola donna»; perché avrebbe capito che «poiché la canzone in cui il poeta si propone di lasciare l’amore e andare in Terrasanta riguarda certamente una dama di Francia, tutt’e sei hanno per oggetto questa donna», suggerendo quindi d’identificarla con Eleonora d’Aquitania. Le argomentazioni prodotte dal Monaci a questo riguardo non sembrano però pacificamente accettabili al Santangelo, che presume di poterne addurre di più soddisfacenti. In primo luogo osserva che la dama cantata dal trovatore «se è sempre la stessa, è lontana solo in tre canzoni; in tutte le altre è vicina, e nelle ultime tre addirittura benevola, e il poeta la lascia per andare in Oriente». Si tratterà dunque di una francese «famosa per le sue qualità fisiche e morali»: estremamente verosimile pare pertanto al Santangelo che costei fosse davvero, come supposto dal Monaci, «Eleonora, duchessa d’Aquitania, contessa di Poitou, regina di Francia, potente e cortese, giovane, bella e colta, liberale protettrice dei trovatori». Ecco dunque come si potrebbero ricostruire le vicende di questa regale passione sulla base dei «non pochi passi realistici» sparsi nel canzoniere rudeliano: «li poeta potè dapprima amarla [sc. Eleonora] da lontano, quando la conosceva soltanto per fama, e potè poi essere ricevuto alla corte di lei, sia come vassallo, sia come trovatore. Essa, giovine di venticinque anni e di liberi costumi quale era, avrà incoraggiato il romantico principe e poeta che la corteggiava e la cantava; potè anche riamarlo e fargli sperare il premio agognato. Partirono entrambi per la crociata: lei col marito Luigi VII nella seconda quindicina di giugno 1147; lui col suo signore diretto, il conte d’Angoulème, nell’agosto seguente, e presumibilmente con la speranza di rivedere l’amata in Terrasanta». Quivi, il poeta andava infatti, non per ardore di fede, bensì perché «voleva diventare migliore per realizzare più degnamente il suo sogno d’amore». Ma un destino crudele non consentì l’avverarsi del sogno: correggendo quel che narra la vida «è lecito arguire» che Jaufre si sia ammalato durante la navigazione, al termine della quale il conte di Angouléme sarebbe approdato a Tripoli sbarcandovi il poeta morente. «E se il principe crociato giunse a Tripoli gravemente malato, abbiamo anche il diritto di ammettere che il conte e la contessa lo abbiano visitato e assistito negli ultimi istanti della sua vita»: ammissione che serve a spiegare come mai la vida, sebbene «materiata di elementi storici accertati o probabili e senza elementi anacronistici» derivando «da una tradizione coeva ai fatti che narra», identifichi erroneamente «la donna lontana con la contessa di Tripoli». Allorché infatti «si seppe che il principe poeta, giunto in fin di vita in Oriente, era stato assistito dal conte e dalla contessa di Tripoli, e poi seppellito con grande onore nella casa del Tempio; se, come è verosimile, si aggiunge che la giovane contessa si era commossa per la morte del giovane e nobile crociato; più d’uno si sarà ricordato che il poeta aveva cantato una donna lontana a tutti ignota, la quale forse, chi sa, era proprio colei che lo aveva assistito e lo aveva pianto. Qualche altro avrà ricordato che delle donne cristiane d’Oriente e della contessa di Tripoli si era parlato in Occidente quando, caduta Edessa, da Antiochia eran venuti emissarii a chiedere aiuto per gli stati cristiani minacciati dagli infedeli; e avrà creduto verosimile che di quella giovine contessa si fosse innamorato da lontano Jaufre Rudel e si fosse crociato per andare a vederla». È davvero stupefacente che il Santangelo, nell’intento di accordare con la sua ipotesi la narrazione dell’antica biografia provenzale, non esiti a sovrapporre alla sobria affabulazione di questa una sua quota ingente di romanzesco. E ancora più stupefacente è che, così facendo, s’illuda di ristabilire la verità storica e di rispettare la realtà testuale. E infine lamenti, dopo aver prospettato una catena d’ipotesi dichiarate apoditticamente verosimili, che «neanche oggi gli storici sanno fare a meno della congettura quando difettano le notizie».
Ma veniamo al terzo dei «biographistes» sopra citati: Yves Lefèvre. Egli ripropone la «théorie biographico-allégorique» ( 14) di Grace Frank, secondo la quale la terra lonhdana «c’est la Terre Sainte; c’est Bethléem, où Jaufre prétend, dans sa chanson I, vouloir se rendre pour suivre l’enseignement de Jesus; c’est Jérusalem, où l’on doit aller en croìsade, et c’est aussi, comme on le prêchait aux croisés, la Jérusalem celeste, le paradis, que l’on gagnait en conquérant la Jérusalem terrestre»; di conseguenza, l ’amors de terra lonhdana non sarebbe altro che «l’idéal des croisés, [...] l’amour mystique qui doit les mener en Terre Sainte et, au-dela, vers Dieu et la vision béatifique». Tale ideale, che la Frank ravvisava soltanto nelle canzoni seconda e quinta, il Lefèvre crede di ritrovare anche nella quarta e nella sesta. L’una, cioè la quarta detta «Chanson de la Conversion», esprimendo l’orgoglio e la gioia del poeta che ha finalmente riconquistato sa valor, sarebbe «d’un ton beaucoup trop moralisateur pour ne pas pouvoir être inspirée par l ’amor de terra lonhdana»; del quale l’altra, la sesta, tratterebbe ambiguamente per influsso del vers de dreit nien ( 15) di Guglielmo d’Aquitania. L’ambiguità di Rudel consisterebbe nel parlare della Terrasanta «selon la tradition courtoise comme d’une femme aimée»; in modo, peraltro, da non poter essere frainteso dai destinatari del componimento, appartenenti a un «milieu bien déterminé, dans lequel régnait une complicité d’idées» e perciò consapevoli del fatto che, se la dama non poteva vedere il trovatore (v. 8) e non era in grado di «lui manifester les sentiments qu’aurait une femme, le choisir comme ami, faire avec lui pacte amoureux» (vv. 27-30), tutto ciò voleva dire che essa in realtà non era una donna. «La terre est muette», infatti, e «n’a pas d’yeux». Fiero di tali scoperte e conscio della sua acribia, il Lefèvre si sente autorizzato a strapazzare senza riguardi tre insigni maestri che hanno espresso opinioni diverse dalla sua sulla canzone Non sap chantar. Ernest Hoepffner, per presunte contraddizioni, e «cela n’est pas de bonne méthode»; Alfred Jeanroy, perché non avrebbe letto con sufficiente attenzione il testo che pubblicava («Jeanroy a-t-il mal lu la chanson qu’il a lui même éditée?»); Leo Spitzer perché avrebbe bluffato dando alla canzone un senso «que rien n’autorise dans le texte». «Da qual pulpito...», si dirà. Ma si sa che anche i cattivi maestri (nonché gli ottimi, come nella fattispecie) sono generalmente migliori dei loro tardivi fustigatori.
Il primo a contestare vibratamente, con sacrosanta indignazione, quel metodo superficiale e approssimativo di leggere i trovatori che nei suoi poco brillanti epigoni recenti abbiamo appena finito di esaminare, è stato Mario Casella. Per il quale, nella storia della poesia provenzale, il caso di Jaufre Rudel è «tipico della massima incomprensione», dovuta specialmente all’errata interpretazione della vida: tanto da parte di coloro che hanno creduto di trovarvi notizie più o meno esatte di carattere biografico (Stimming, Diez, Suchier, Savj-Lopez, Crescini, Monaci), quanto ad opera di chi, come Gaston Paris, non vide in essa altro che «la storiella di un qualche giullare». Presa in considerazione dalla «critica tradizionale» — non importa se per accoglierla o rifiutarla — come una fonte di notizie biografiche, la vida di Jaufre Rudel sarebbe invece, nelle intenzioni del suo stesso estensore, tutt’altra cosa: «un’introduzione poetica all’interpretazione di un’attività immanente al poeta», sotto forma di «un romanzo cavalleresco in miniatura» conforme alla concezione galloromanza del genere, nel quale «le rappresentazioni fantastiche [...] erano un mezzo sensibile di conoscenza spirituale». Un testo, quindi, che un «tardo ammiratore» del poeta avrebbe composto «exemplariter, per introdurci alla lettura spirituale del suo canzoniere». Tale è appunto la lettura che il Casella propone, offrendo della lirica rudeliana una interpretazione speculativa secondo il pensiero di Sant’Agostino, esposta in un linguaggio mutuato dalla filosofia gentiliana. Occorre scostare questo velo verbale e guardare all’essenza del discorso, perché sotto la superfetazione decadente del linguaggio del Casella c’è una sostanza mentale di capitale importanza.
Il Casella reperisce alla base della poetica rudeliana la «concezione platonico-agostiniana dell’arte come mimesi di una forma, nel significato metafisico della parola», rilevando nelle canzoni del trovatore una «ragione» trascendentale che si oggettiva nella figura dell’amore lontano: «La ragione poetica che informa il piccolo canzoniere di Jaufre Rudel, individuandosi con positiva ricchezza di note psicologiche e affettive, si raccoglie e si conclude nell’immagine dell’amore lontano (amor de lonh). Tale immagine, specificatrice di una spiritualità indeterminata e fluttuante, serve al poeta per contemplarsi idealmente e farsi intelligibile a se stesso, in ciò che costituisce il fondo più segreto della sua personalità, come richiesta volontaria e naturale di vita felice [...]. La ragione poetica dell’amore lontano è dunque una ragione spirituale, che non si può chiudere in un concetto, né si può esaurire in un’affermazione. Tanto meno la si può cogliere intellettualmente o empiricamente, aggrappandosi alla materialità delle immagini. Tale ragione va intesa in sé e considerata trascendentalmente».
L’appassionata insistenza del Casella sul dato ontologico della non esistenza di un “reale” al di fuori dell’interiorità («L’amore di terra lontana non ha dunque che un’esistenza puramente spirituale. È un sogno ineffabilmente individuale e intimamente soggettivo»; e ancora: «La bellezza che Jaufre Rudel vagheggia intenzionalmente e contempla dinanzi a sé, non ha alcuna esistenza fisica»), ove non si tenga costantemente presente il riferimento implicito alla psicologia della conoscenza agostiniana, che proclama la preminenza dell’esperienza interiore («Noli extra te ire, in te ipsum redi. In interiore homine habitat veritas»), e alla dottrina della naturalis dilectio quale attitudine virtuale all’amore («Il poeta coglie e conosce, mediante le immagini specificatrici del suo particolare sentimento, quell’idea di felicità che resta in lui una disposizione di natura: una cara affezione dell’anima: idea che si fa oggetto presente al suo spirito, nella linea intelligibile delle immagini, in cui questo amore o inclinazione di natura si ama e si riconosce»), rischia di essere presa per la manifestazione sintomatica di un’esegesi in chiave esasperatamente ed ossessivamente solipsistica, magari incoraggiando illazioni sullo psichismo dell’interprete. Non a caso, infatti, lo studio del Casella sui primi trovatori ha incontrato una diffusa e profonda incomprensione fra i provenzalisti. Né meraviglia che fra i suoi più prossimi interlocutori l’unico che, superando le indubbie difficoltà di lettura che il suo stile comporta ed evitando le facili ironie a cui il suo discorso critico talvolta offre il fianco in certi passaggi — su cui hanno malevolmente insistito quanti non riuscivano a comprenderne e ad apprezzarne il senso complessivo —, ha procurato d’intendere nell’essenziale il pensiero del Casella sia stato Leo Spitzer. Il quale, riconoscendogli il grande merito di aver posto debitamente in evidenza l’a priori cristiano della lirica trobadorica, ha mostrato persuasivamente come lo studioso italiano, ben più dei «biographistes», abbia saputo cogliere il senso della poesia dei trovatori. Sta di fatto che soltanto grazie all’acutissima valorizzazione spitzeriana il contributo del Casella ha potuto successivamente trovare presso gli specialisti la considerazione che merita. Ma l’importanza dell’intervento di Leo Spitzer va molto oltre questo pur notevole risultato e segna una svolta decisiva nella storia degli studi trobadorici per la parte strettamente originale che lo caratterizza.
Prendendo decisamente le difese di Mario Casella contro le aspre critiche a lui mosse da Grace Frank, lo Spitzer dimostra la «dérivation organique» dell’amor de lonh dal «paradosso» fondamentale della poesia dei trovatori: quello, cioè, di un amore «qui ne veut posseder, mais jouir de cet état de non-possession, amour-Minne contenant aussi bien le désir sensuel de “toucher” à la femme vraiment “femme” que le chaste éloignement, amour chrétien transposé sur le plan seculier, qui veut “have and have not”». Il «paradosso amoroso» si fonda a sua volta sul paradosso della vita cristiana: «La conscience du “réel irréel” est bel et bien un trait de l’esprit chrétien médiéval, pour qui le monde invisible existe et le monde visible existe comme s’il n’existait pas».
Ciò detto per l’amore trobadorico in generale, qual è il senso proprio dell’amor de lonh? Per Spitzer l’espressione «ne doit pas être rendue par “amour d’une terre lointaine”, où le de indiquerait l’objet de l’amour (comme dans amor patriae), mais par “Amour de terre lointaine” avec de indiquant le lieu de provenence (“Amour venant de terre lointaine”) et avec Amour, comme si souvent, = l’Amour se personifiant dans la Bien-Aimée (cfr. I, 29)». Dunque la peculiarità di questo amore, anzi di questo Amore, sarebbe la sua lontananza dal poeta: lontananza geografica, che è figura di una lontananza morale («cet “lointain” moral, si essentiel à cet amour») esplicitata dalla circostanza che «la dame apparaisse mariée», particolare che «ajoute à la gratuité de cet amour sans issue».
La natura fortemente idealistica di tale amore non esclude tuttavia, e a questo riguardo Spitzer prende nettamente le distanze da Casella, il coinvolgimento della corporeità: è precisamente nel conflitto vittorioso contro le brutali esigenze di questa che l’amor de lonh attinge il suo supremo valore. La sua natura è «paradossale» in quanto «le coeur et le corps désirent des choses différents», in quanto «l’éloignement est paradoxalement consubstantiel avec le désir de l’union».
Questa concezione dell’amore trova la sua più pertinente formulazione letteraria nella tecnica del devinalh, «la forme artistique le mieux appropriée à l’état d’âme paradoxal de l’amant-poète». Come dimostrato da Dimitri Scheludko, quella tecnica riprende modalità formali proprie dell’enigmistica mediolatina, che poneva interrogativi sulla realtà delle cose alluse nelle definizioni metaforiche. Appunto la trasposizione metaforica, quale strategia dell’occultamento, spiega la prevalenza della condizione onirica nel devinalh: «le songe», o meglio «le songe amoureux» sarebbe la chiave dell’indovinello nel vers de dreit nien di Guglielmo IX, prototipo di un genere riconoscibile nella canzone rudeliana Non sap chantar, definita da Spitzer «poésie d’amour rêveuse».
Orbene, «le motif de l’amour lointain n’est pas sans rapport avec le motif du rêve amoureux: les deux ont en commun les couples de notions contradictoires “réalité” et “irréalité”, “être” et “non être”, “quelque chose” et “rien” et l’énigme est apparentée à l’existence énigmatique de la dame»; sicché «l’amour lointain doit être une derivation et variante de l’idée du songe, appelée à exprimer un amour qui “possède en ne possédant pas” et oscillant entre la réalité et l’irréalité».
La condizione onirica rispecchia dunque una realtà enigmatica, propriamente «l’énigmatique de l’événement interieur» nascente dalla «attitude particulière de l’ admirari de la part de ce christianisme augustinien qui voit les merveilles de Dieu s’accomplir dans l’homme même». Insomma, è «la réalité de la vie intérieure qui a conduit au motif de l’amour irréel et lointain». Per altra via lo Spitzer incontra così a sua volta la matrice cristiana dell’amore trobadorico: è una conferma della tesi del Casella ( 16), che è dunque da lodare per aver insistito sull’ « a priori chrétien» della lirica rudeliana.
Sulla linea esegetica spitzeriana si pone dichiaratamente, nella sua definitiva stesura, la proposta critica di Salvatore Battaglia ( 17). Questi pure si sofferma a lungo sull’aspetto enigmatico dei testi di Jaufre Rudel, i quali, malgrado lo stile piano fatto di paubres motz, «non risultano sempre chiari, e complessivamente lasciano perplesso il giudizio del lettore». Il Battaglia sottolinea che «con Jaufre Rudel la lirica dei trovatori scopre già il suo volto composito le cui fattezze sono spesso simulate e dissimulate». L’ambiguità sottile che vela suggestivamente il senso profondo di questa poesia si annida nelle modalità della scrittura, satura di effetti evocatori e di connotazioni allusive che si affidano a un’ingannevole trasparenza: scrittura rispondente ad una «sensibilità» congiunta ad «un atteggiamento intellettualistico di voluta e segreta mistificazione». Un esempio altamente significativo di tale poesia il Battaglia indica nella canzone Non sap chantar, che riceve da Guglielmo IX il tema dell’amore ignorato svolgendolo, tuttavia, in una modulazione ben altrimenti vaga e sfuggente per una particolare attitudine del poeta «al sogno e alla sua labilità». La parola poetica di Rudel si arricchisce per detta attitudine di significazioni sempre più distanti dai consueti valori semantici, fino al punto di «svanire nella pura risonanza musicale» con liberazione protratta della vocale finale dell’ultima rima della strofa.
L’elaborazione della forma del devinalh, inaugurata dal primo trovatore, rappresenta un momento molto importante della ricerca espressiva rudeliana; la quale però, nell’itinerario pur breve del piccolo canzoniere, non si conclude con esso: oltre il «gioco dell’intelligenza e della curiosità», infatti, pervenne — in Lanquan li jorn — alla fusione di linguaggio e musica, in una superiore armonia che rivela «la implicita intenzione di evadere dai legami d’un qualunque contenuto per accentuare i puri valori ritmici e melodici del poetare».
Le conclusioni dei saggi di Spitzer e di Battaglia recano in guise diverse un contributo definitivo alla determinazione del «senso» dell’amore lontano nella poesia di Jaufre Rudel. La validità di quelle conclusioni risulta infatti, a mio parere, pienamente confermata da una riconsiderazione critica dei testi. Resta tuttavia qualcosa da aggiungere circa l’attualità della lirica rudeliana e della poetica che la informa. Dobbiamo, in altri termini, interrogarci sui valori di cui questa poesia è portatrice nel presente, in quanto «comunicazione differita» ( 18) nell’arco di otto secoli, e sull’udienza che essi trovano presso di noi, sulla loro incidenza nell’«orizzonte d’attesa» ( 19) del lettore novecentesco.
Mossa d’avvio opportuna per una sia pur sommaria indagine di questo tipo sarà la messa in prospettiva dell’ amor de lonh nel quadro di riferimento ideologico della “cortesia”, sullo sfondo storico della società feudale.
La poesia dei trovatori appare, già nelle sue prime manifestazioni, perfettamente integrata nella realtà socio-politica del feudalesimo della Francia meridionale agli albori del dodicesimo secolo. Originariamente meno bellicoso e più raffinato di quello settentrionale, il feudalesimo meridionale aveva registrato, nel secolo precedente, una decisa evoluzione del costume civile tendente a privilegiare sulle virtù guerresche il prestigio irradiato dall’intelletto e dalla cultura, dal fasto e dalla liberalità. In quel clima culturale venne elaborata la nozione di “cortesia”, costellazione di valori etici ed intellettuali, di virtù cavalleresche e mondane: valori e virtù che trovano la loro più eletta espressione nella fin’amor, la teoria dell’amore cortese profondamente influenzata dalle norme istituzionali secondo le quali la collettività è rigidamente strutturata. Conseguenza vistosa di tale condizionamento è la trasposizione metaforica della terminologia giuridica del vassallaggio al servizio amoroso.
Ciò posto, vediamo che cosa, nell’espressione “amore cortese”, il qualificativo determina nel sostantivo. Essa designa la concezione feudale dell’amore, cioè lo specifico configurarsi del rapporto amoroso nelle classi dominanti della società feudale. Il dato sommamente caratterizzante dell’amore cortese sta nella sua natura essenzialmente extra-matrimoniale, la cui ragione storica dipende dal fatto che, nel mondo cortese, il matrimonio fra membri dell’aristocrazia non era di norma il frutto di una libera scelta ispirata dall’inclinazione amorosa, ma un contratto stipulato per interessi dinastici di ordine politico-patrimoniale. Nel vincolo matrimoniale inoltre, giuridicamente istituito e garantito, non poteva avere ovviamente luogo quel timore che è connaturato nell’amore secondo la tradizione ovidiana recepita dalla dottrina cortese, codificata nel trattato De amore di Andrea Cappellano ( 20).
Nella convenzione trobadorica il rapporto fra il poeta amante e la donna amata si configura come “servizio”, vincolo di dipendenza modellato e metaforizzato sul vassallaggio feudale: la dama (DOMINA) era legittimamente coniugata, moglie di un potente signore e pertanto investita di un ruolo d’indiscussa autorità e di massimo prestigio nella corte. Quel ruolo, appunto, in forza del quale la donna ebbe una funzione insostituibile nell’evoluzione del costume feudale dalla originaria austerità guerriera ad una fastosa mollezza. Come ha precisato ineccepibilmente il Roncaglia, «con la nuova posizione acquistata dalla donna nella vita di corte [...] è nato il mondo “cortese”, e con esso la poesia “cortese”: un mondo cui la partecipazione determinante di dame colte e sensibili conferisce un nuovo tono di mondanità, carico di lusinghe erotiche; una poesia elegante ed aristocratica, che di tali lusinghe si fa strumento espressivo, e le solleva e le trasfigura, dandocene un’immagine letterariamente stilizzata e in qualche modo spiritualizzata» ( 21). Tale spiritualizzazione delle «lusinghe erotiche» è determinata dalla idealizzazione mondana e laica della domna, in quanto sia fornita di un complesso di non comuni virtù morali ( pretz, ensenhamen, mezura, merce, ecc.) che trovino nella bellezza fìsica — indispensabile anche nell’ideale muliebre dei trovatori — la loro visualizzazione simbolica. Virtù che devono, d’altra parte, trovare un adeguato corrispettivo nell’amante, affinché la dama possa accettarne senza vergogna l’omaggio. Ecco la causa di quell’incentivo al perfezionamento morale che l’amore perfetto suscita nell’innamorato.
La casistica del rapporto amoroso è l’oggetto, o meglio l’argomento, delle canzoni dei trovatori.
La situazione di gran lunga prevalente nella tematica trobadorica è quella dell’amore non corrisposto, del servizio non remunerato per inadeguatezza ontologica del soggetto — colui che dice «io» nella canzone —, essendo l’ intentio amorosa diretta ad un oggetto sublime, che trascende perennemente l’amante. Il rapporto si tinge pertanto di un acceso misticismo: viene allora in evidenza la componente bernardiana ( 22) dell’ a priori cristiano dei provenzali. Ma sul misticismo trobadorico occorre intendersi. Non si tratta, come opinava l’Appel, di misticismo sacro; però non è neppure del tutto esatto definirlo erotico, o anche genericamente profano. È propriamente misticismo puro, confacente a una poesia dell’amore assoluto: «amour qui est sa propre fin» lo ha dichiarato la Lot-Borodine; infatti, «le poète n’aime plus que pour aimer, son don est un don gratuit, désintéressé, l’offrande du coeur qui porte sa récompense en elle-même». I tratti essenziali di esso sono: la trascendenza inattingibile dell’amata; la gratuità del sentimento; l’abnegazione dell’amante nell’istanza amorosa che non può essere concretamente appagata. Il joi si consuma così nello stato di esaltazione e nell’impegno di autosuperamento, per cui il soggetto accresce il suo naturale valore nello sforzo d’integrazione dell’assenza: non dunque, il joi, è il possesso dell’amata, ma la tensione inesausta verso di essa. Se lo sì intendesse come piacere, non si capirebbe la maggior parte dei testi dei trovatori.
Una formulazione massimalistica dell’amore assoluto è a mio avviso l’ amor de lonh: amore, propriamente, caratterizzato dalla lontananza, che vive e ha valore per (e nella) lontananza. Da intendere, questa, spitzerianamente, come distanza fisica soltanto per metafora della irraggiungibilità dell’amata ( 23).
Nella distanza, empiricamente incolmabile, fra il soggetto e l’oggetto di questo amore si apre lo spazio della scrittura: «scrittura come operazione magica, stregoneria evocatrice», che sfrutta a fondo le possibilità comunicative offerte dal «simbolismo intrinseco del linguaggio»; strumento della «ricerca» dell’ineffabile che l’espressione poetica persegue «in concorrenza [...] con la musica». Le citazioni tra virgolette rinviano alla eccellente introduzione di Mario Luzi ad una antologia del Simbolismo ( 24): la sua applicabilità a Rudel e agli altri trovatori testimonia l’attualità della loro poesia. La cui consapevolezza è, del resto, generalmente acquisita; ma è conquista relativamente recente, legata ai nuovi orientamenti della critica novecentesca applicati alla lirica provenzale.
L’interpretazione di questa sofferse, infatti, nel secolo scorso — a causa del ruolo predominante che l’esaltazione della passione e la nozione di poesia d’occasione ebbero nella poetica romantica — di un doppio equivoco: determinato da una lettura psicologistica e insieme legata alla ricerca, appunto, delle occasioni. I fraintendimenti da essa generati, ancorché in parte sussistano presso qualche sprovveduto lettore, sono stati sostanzialmente rimossi dalla cultura successiva.
L’approccio biografico, che sembrava coonestato dalle vidas e dalle razos, fu messo in crisi dalla dimostrazione — alla quale ha validamente contribuito il Casella — che quei testi non fanno altro, a ben vedere, che allineare in senso narrativo quanto è liricamente concentrato nelle poesie: risolvendo, per così dire, il metaforico in metonimico, espongono in forma affabulata la materia condensata nei testi poetici (interpretazione, questa, nel caso specifico della vida di Jaufre Rudel, puntualmente confermata dall’esatta determinazione analitica delle sue strutture formali compiuta da Valeria Bertolucci Pizzorusso).
Quanto, al pregiudizio psicologistico (poesia come manifestazione spontanea di sentimenti, generati da accadimenti presunti reali), esso è stato vigorosamente ridimensionato dalle prospettive aperte anche alla lettura dei poeti medievali o di una parte di essi dall’esperienza simbolista.
Come particolarmente significativi per questo nuovo tipo di «ricezione», basterà fare i nomi di Ezra Pound e di Thomas Stearns Eliot.
Pound, come è noto, ricercava — in The spirit of romance ( 25) — «alcuni elementi, o qualità, che erano operanti nelle letterature medievali delle lingue neolatine, e che sono ancora certamente operanti nelle nostre»; alla luce di una critica letteraria «che pesi sulla stessa bilancia Teocrito e Yeats». Nei trovatori, specialmente in quelli «oscuri», egli privilegia il carattere «ritualistico» dei testi: «son canzoni che portano le loro rivelazioni a chi è già iniziato».
Si noti il termine «rivelazioni»: esso postula una nozione della poesia come conoscenza rivelata, «dove l’estasi non è turbine o follia dei sensi, ma splendore che sorge dalla natura esatta della percezione».
In relazione a un tale tipo di conoscenza, Pound afferma che per «la Provenza il problema è semplicemente questo: assunse quest’“amore cavalleresco”, quest’estetismo, proprietà medianiche? Stimolato dal colore, cioè dalla qualità, dell’emozione, assunse quel “colore” forme interpretative dell’ordine divino? E condusse all’“esteriorizzazione della sensibilità” e all’interpretazione del cosmo secondo sentimento?». Sono queste le domande che si pone un critico che è anche, anzi soprattutto, un poeta, e in quanto tale proietta fatalmente sui testi altrui qualcosa di una problematica artistica che gli è propria. Ma non di meno, nel suo dichiarato antiaccademismo, costui percepisce cose che stanno oltre il breve giro d’orizzonte della critica professionale: avverte a suo modo, ad esempio, l’a priori cristiano dei trovatori notando le affinità del loro linguaggio con il linguaggio dei «chiostri» sperimentato nei testi raccolti da Rémy de Gourmont nel volume Le latin mystique. La lettura trobadorica di Pound, insomma, vince tenaci pregiudizi degli specialisti del suo tempo, esplicandosi in felice sintonia con la più moderna sensibilità al fatto poetico che si andava affermando in sede militante.
È risaputo che nel citato libro di Pound trovò T. S. Eliot «il precedente immediato alla propria teoria del correlativo oggettivo» ( 26). La quale è poi la poetica pertinente alla nozione eliotiana di integrità della poesia: una poesia, come ha detto Luciano Anceschi ( 27), che «non può essere un gioco dei miti dell’infanzia dell’uomo, né un puro incanto verbale in una musica astratta; può invece, mostrarsi alto e complesso impegno dell’uomo per riconoscere se stesso». Una nozione, si noti, che consentì a Eliot di riconoscere con netto anticipo su tanti eminenti dantisti, che in Dante «la filosofia è essenziale alla struttura, e la struttura alla bellezza poetica delle parti»; e che Dante «più che qualsiasi altro poeta, è riuscito a trattare la filosofia non come una teoria (nel senso moderno, non nel senso greco della parola) o come proprio commento o riflessione, ma in termini di percezione, come qualche cosa di percepito».
Lo scarto qualitativo nettissimo che si nota fra l’esegesi trobadorica spitzeriana e quella della quasi totalità degli altri provenzalisti dipende, verosimilmente, in non piccola parte dalla meditazione di Spitzer sugli scritti critici di Pound e di Eliot, dal suo attivo commercio di lettore e d’interprete con la poesia simbolista. Senza passare anche attraverso queste fondamentali esperienze, infatti, è senza dubbio più brusco e sconcertante l’impatto col simbolismo medievale in genere e con quello dei trovatori in particolare.
È così passato in giudicato, grazie specialmente a Spitzer, il riconoscimento della ricchezza di significazioni inerenti alla parola poetica rudeliana; del suo, come suol dirsi, spessore semantico. In esso recentemente il Topsfield ha creduto di riscontrare livelli di senso pertinenti a «three planes of love»: l’amore, infatti, sarebbe «a phenomenon which can either sensed or imagined or aspired to and which may provide various degrees of Jois and benefìcials effects [...]. There is a wordly plane of physical desire which may possibly be expressed within the conventions of courtly society, a plane dreamlike imagining in which the poet puts distance between himself and his eartly love and fìnds escape in an illusory joy, and a “trascendental” plane which is removed from everyday pleasures and imagined satisfactions and which, because of its excellence, promises a supreme joy from which good results flow». Diversamente da Guglielmo IX, che avrebbe trattato i tre tipi suddetti di amore in componimenti distinti, «Jaufre intermingles these planes, passing from one level of aspiration to another or seeking Jois on more than one level at the same time».
I tre piani o livelli dell’amore per quanto compresenti e non separati nei singoli testi, risultano nel pensiero di Topsfield pur sempre giustapposti in un anarchico avvicendarsi di esperienze sensuali, oniriche e visionarie: i livelli di senso della scrittura sarebbero, dunque, allineati e non sovrapposti. Ritengo, invece, che la concezione rudeliana dell’amore sia sostanzialmente unitaria e che lo spessore semantico della poesia di Jaufre Rudel sia da intendere non tanto nel senso della varietà, quanto in quello della profondità. Che è poi, naturalmente, la profondità della coscienza, esplorata nell’introspezione e significata per immagini che, nella parvenza iconica, portano valenze simboliche.
I due livelli, letterale e simbolico, della scrittura poetica sono gestiti simultaneamente, ma in rigorosa autonomia, seppure in funzionale parallelismo. La cosiddetta ambiguità rudeliana, come anche di gran parte della lirica medievale, consiste eminentemente in questo. E sul privilegiamento oltranzistico dell’uno o dell’altro livello si fondano le interpretazioni essoteriche ed esoteriche.
La commistione programmatica dei livelli, con l’intenzione ludica di produrre enunciati enigmatici, caratterizza lo stile del devinalh: che non è detto debba occupare necessariamente l’intero spazio testuale, potendo all’occorrenza disporsi — con effetti di particolare ironia stilistica — in zone limitate del testo. Uno stile il cui modello, come abbiamo visto, Rudel ha trovato in Guglielmo d’Aquitania, nel quadro più generale di un esemplare paradigma di linguaggio poetico, immanente anche nell’ordine strettamente idiomatico. Ordine al quale sarà pertanto opportuno prestare adesso, brevemente, attenzione.
La lingua delle poesie di Jaufre Rudel, quale appare nel mobile e in certa misura senza dubbio illusorio e ingannevole specchio della loro documentazione ( 28), risulta essere una tra le varietà più equilibrate e canoniche, o si dica pure generiche, nell’ambito della produzione occitanica. Se ormai è generalmente ammesso dai romanisti che «tendenza caratteristica delle lingue letterarie medievali è di costituirsi, come si suol dire, su base interregionale» ( 29), la lirica rudeliana porge infatti all’asserto una ben significativa conferma.
Nella totale mancanza di dati più rilevanti ai fini di un’ipotesi di localizzazione dell’uso linguistico di Rudel all’interno del cosiddetto «provenzale», un sondaggio esplorativo si può almeno rapidamente compiere in relazione a quei tratti fonetici che nell’ottimo manuale del Pellegrini ( 30) sono indicati come validi indizi per la «attribuzione dei testi ad una regione piuttosto che ad un’altra»: cioè gli esiti di C + A, C + T, nonché il «fenomeno della -n mobile».
Di essi soltanto il terzo è oggettivamente provato, nella prima canzone 23 mati (: aissi 5, vi 10, langui 17 ecc.) e 36 Tolza (: valra 6, venra 12, s’esca 18 ecc.): dato questo, purtroppo, scarsamente indicativo in quanto, tutt’al più, escluderebbe eventualmente soltanto i territori situati ad oriente del Rodano e soltanto in ordine all’uso parlato o comunque non letterario, mentre riguardo alla lingua letteraria la presenza del fenomeno nulla significa nella prospettiva dell’ipotesi suddetta.
Quanto agli altri due tratti, i manoscritti attestano una «polimorfia» (con preponderanza evidente, invero, dell’esito cha su ca < C + A, di it su ch < C + T), che però non è a rigore possibile stabilire se sia «secondaria» o «primaria» ( 31).
Stando così le cose, non sembra proprio il caso di compiere in questa sede uno spoglio linguistico sistematico dei testi del principe di Blaia: basti avvertire che, in tesi generale, la fenomenologia offerta sarebbe assai simile a quella rilevata in Guglielmo IX da Nicolò Pasero ( 32).
A parte la relativa prossimità di origine (entrambi i trovatori essendo nativi della zona sud-occidentale del dominio di oïl), si tenga infatti presente che di quella del duca d’Aquitania la poesia di Jaufre Rudel manifesta influssi inequivocabili, oltre che in fatto di tecnica letteraria, anche sul piano strettamente linguistico: ad esempio nella canzone seconda, dove la rima fonde gli esiti di -AL e di -AU ( 33).
A scanso di equivoci, comunque, passando ad altro genere di considerazioni, sarà bene aggiungere a quanto detto sulle affinità fra i due poeti che la loro chiara congruenza linguistica e tecnica non implica affatto una qualche subalternità del secondo al primo, nemmeno dal rispetto meramente formale.
Dell’entità della iniziativa rudeliana in questo campo possono bastare a dare un’idea, fra l’altro, gli aspetti cospicui — pur nelle modeste dimensioni del corpus — che nello stile di Rudel manifestamente preludono a modalità che avranno grande fortuna presso i cultori del trobar clus, canzoni prima, 14-15 (v. nota), terza (modulazione delle rime -ana, -ina, -anha), quarta (orchestrazione fonico-ritmica complessiva del componimento) ( 34).
Conformemente, insomma, a quel che asserisce Rudel stesso (e a ciò che intese dire, in fondo, il biografo duecentesco parlando di bons sons e di paubres motz), la sua scrittura poetica è davvero plana come lessico: ma in essa cominciano ad introdursi elementi raffinati, quantunque ancora essenzialmente fonici piuttosto che semantici ( 35).
Le conclusioni da trarre da queste considerazioni preliminari alla lettura delle canzoni di Jaufre Rudel risultano ormai chiare, credo, da quanto detto sin qui: non resta dunque che riassumerle brevemente.
La poesia rudeliana è poesia dell’amore assoluto. Eventuali riferimenti autobiografici, non dimostrabili ma neppure teoricamente escludibili, sono comunque integrati in una visione della tematica amorosa che trascende l’individuo. Poiché la tensione spirituale che sostiene questo amore, sublimato nel “mito” dell’amor de lonh, è rivolta ad una impossibile integrazione dell’assenza, la poetica della lontananza si risolve nella poetica dell’assenza: paragonabile, mutatis mutandis, a quella operante in tanta poesia simbolista e postsimbolista (si pensi, ad esempio, all’ermetismo). Il che spiega come la lirica di Rudel sia tanto vicina al nostro gusto e alla nostra sensibilità.
L’egemone pulsionale che domina l’ispirazione di questa poesia, identificabile con ciò che il poeta definisce razo ( Non sap chantar, v. 4), è un disperato sentimento di privazione che alimenta l’istanza perennemente inappagata di congiungimento dell’io con l’altro sentito come termine di un irraggiungibile quanto agognato equilibrio ( 36). Uno stato d’animo, insomma, di derelizione, non empiricamente orientato verso una persona reale, ma, per così dire, consustanziale e ontologico: segno di un destino irrevocabile, simboleggiato dal pairis.
Tale stato d’animo, emergendo dal profondo alla luce della coscienza, si verbalizza nell’archetipo fonico lonh. È questo il nucleo generativo della ispirazione di Jaufre Rudel, matrice espressiva che genera un campo semantico immaginabile come un’ellisse i cui fuochi sono il sa (luogo della materialità della vita empirica) e il la (luogo ideale, dov’è l’oggetto dell’istanza amorosa): veri e propri centri gravitazionali di due costellazioni sinonimiche contrapposte, attivate dalla proliferazione lessicale che i loro impulsi contrastanti producono nella scrittura.
Al livello retorico la loro polarità si manifesta nella figura dell’ossimoro: figura emblematica dell’eterno intimo dissidio dell’uomo, scisso fra opposte inclinazioni, tentato da terra e cielo, in un dramma esistenziale vissuto con angosciosa intensità dalla coscienza cristiana medievale. ( ↑)
[maggio 1985]
Dopo il tentativo di Stimming, pur meritorio ma ormai decisamente insoddisfacente nella prassi e nel metodo, di utilizzare le diverse fonti manoscritte disponibili senza pregiudiziali esclusioni, la lezione critica della presente edizione è stata per la prima volta elaborata, sulla base di tutta la tradizione, secondo i più avanzati criteri della metodologia ecdotica lachmanniana, o meglio neo-lachmanniana.
Come è noto, infatti, l’edizione Jeanroy si fonda invece sul canzoniere C, assunto al rango di «codex optimus», specialmente perché contiene tutte le sei canzoni di attribuzione sicura, oltre che per i suoi indiscutibili pregi formali e grafici. Ma esso è anche il testimone più infido a causa delle sue inclinazioni alla congettura e al rimaneggiamento, cioè in quanto opera di uno scriba oltremodo “saccente”.
Del tutto particolari sono, d’altra parte, le finalità verso le quali è orientato il lavoro del Pickens: in ossequio alla nozione zumthoriana di mouvance, vale a dire il mobile atteggiarsi del testo nel corso della trasmissione attraverso la quale ci è pervenuto, esso accantona la questione della stesura originaria da ricostruire considerandola inattingibile e comunque «largely irreievant»: impostazione metodologica manifestamente diversa dalla nostra, il che ovviamente non impedisce che il libro del Pickens risulti assai utile, anche a chi non ne condivide l’impianto teorico, per l’accurata presentazione delle fonti testuali e per la ricca messe di note.
La lezione critica delle canzoni rudeliane scaturisce, nella presente edizione, dallo scrutinio integrale della tradizione manoscritta e dalla conseguente razionalizzazione di questa, sintetizzata nello «stemma codicum». Essa non privilegia pregiudizialmente alcun testimone, ma a posteriori si può dire, in tesi generale, che di contro a C valorizza non di rado l’autorevolezza di AB, talvolta di IK, talvolta di M o di a¹, dal rispetto sostanziale. Da quello formale e grafico, viceversa, si rinnova anche qui l’opzione per C in virtù della sua riconosciuta affidabilità idiomatica.
L’apparato critico è negativo e convoglia, con le lezioni palesemente erronee o ritenute tali, anche quelle rifiutate per ragioni stemmatiche: varianti in primo luogo sostanziali dunque, ma altresì varianti per così dire di frontiera fra l’ordine sostanziale e quello formale, preferendosi piuttosto peccare per eccesso che per difetto nella loro registrazione. Restano pertanto escluse le varianti di rilevanza senza dubbio esclusivamente grafica e linguistica, parzialmente raccolte a titolo esemplificativo in uno specifico regesto.
Quanto, infine, alla consecuzione dei componimenti, è pienamente valido l’avvertimento di S. Pellegrini a considerare i testi delle canzoni nella loro individualità irrelata, cioè «ognuno come generato in occasione autonoma» (Jaufre Rudel e la critica, p. 239). Se qui non si segue quella tradizionale (Stimming, Jeanroy, Pickens), accostandosi invece a quella del Casella, è per suggerire un percorso di lettura di una qualche organicità tematica del canzoniere rudeliano, in luogo di una sequenza testuale meramente fortuita: senza che, tuttavia, ciò comporti alcuna illazione di cronologia relativa, essendo questa non determinabile neppure approssimativamente sul fondamento di elementi di oggettiva consistenza.
Il glossario registra il lessico dei testi d’indiscussa autenticità rudeliana, tralasciando dunque quello delle strofe apocrife e del componimento settimo (al fine della massima semplificazione tipografica nella registrazione delle occorrenze i testi sono forniti, oltre che della numerazione delle strofe e dei versi del componimento sul lato sinistro, di una numerazione generale dell’intero canzoniere sul lato destro fra parentesi quadre). ( ↑)
3. VIDA
Mss.: A 127, B 76, I 121, K 107, N² 19.
Citazioni: G. M. Barbieri, Dell’origine della poesia rimata, Modena, 1790 (x di Pillet; Mussafia, p. 214).
Edizioni: Stimming, p. 40; G. Paris, Jaufré Rudel, in «Revue historique», LIII, 1893, p. 225; Appel, Provenzalische Chrestomatie, p. 189; Jeanroy, p. 21; Crescini, Manuale per l’avviamento agli studi provenzali, p. 331; Cavaliere, Cento liriche provenzali, p. 31; Casella, p. 16; Riquer, La lírica de los trovadores, p. 96; Roncaglia, Venticinque poesie dei primi trovatori, p. 47; G. Favati, Le Biografie trovadoriche, testi provenzali dei secc. XIII e XIV, Bologna 1961, p. 120; Viscardi, Florilegio trobadorico, p. 41; V. Bertolucci Pizzorusso, Il grado zero della retorica, p. 12; J. Boutière, A. H. Schutz, Biographies des troubadours, Textes provençaux des XIIIe et XIVe siècles, Paris 1973², pp. 15-9; Riquer, Los trovadores, p. 154; Pickens, pp. 53-9.
Come osservato da Boutière e Schutz, sono evidenti le inclinazioni della recensione AB all’amplificazione supervacanea, al pleonasmo, alla ridondanza, di contro alla mirabile stringatezza della recensione IKN². Tale fenomenologia s’inquadra perfettamente nella casistica che determina la bipartizione degli stemmi fra AB da un lato e la restante tradizione dall’altro in moltissime vidas (cfr. Boutière, Schutz, p. XXXIII).
Degno di particolare considerazione è nella fattispecie il conflitto delle testimonianze in 9: lo vezer AB — l’auzir IKN². Tali varianti si riferiscono ad un contesto in cui si dice che il trovatore, giunto esanime a Tripoli, fra le braccia della contessa riprese miracolosamente i sensi; a rappresentare i quali, con la vista oppure con l’udito, è delegato il respiro (flazar FLATARE). Se in astratto è altrettanto ammissibile in tale funzione l’una o l’altra coppia, contestualmente, data l’insistenza sulla vista (2 ses vezer, 10 tro qu’el l’agues vista), la lezione lo vezer appare più pertinente ma appunto per questo «facilior», restando viceversa fortemente improbabile la sua surrogazione con l’auzir. Ciò che invece non si può escludere è la compresenza nell’originale, come, supposto dal Casella, di entrambe le lezioni (recobret lo vezer, l’auzir e il flazar). Si dovrebbe in tal caso ipotizzare un archetipo il cui estensore avesse omesso per distrazione una di esse, riportandola successivamente in margine lui stesso od altro utente del codice. La lezione integrativa sarebbe poi stata erroneamente ritenuta variante alternativa.
Testo:
Jaufres Rudels de Blaia si fo mout gentils hom, princes de Blaia. Et enamoret se de la comtessa de Tripol, ses vezer, per lo ben qu’el n’auzi dire als pelerins que venguen d’Antiocha. E fez de leis rnains vers ab bons sons, ab paubres motz. E per voluntat de leis vezer, el se croset e mes se en mar, e pres lo malautia en la nau, e fo condug a Tripol, en un alberc, per mort. E fo fait saber a la comtessa et ella venc ad el, al sieu leit, e pres lo entre sos bratz. E el saup qu’ella era la comtessa, si recobret l’auzir e·l flazar, e lauzet Dieu, que l’avia la vida sostenguda tro qu’el l’agues vista; et enaissi el mori entre sos bratz. Et ella lo fez a gran honor sepellir en la maison del Temple; e pois, en aquel dia, ella se render monga, per la dolor qu’ella ac de la mort de lui.
Traduzione:
Jaufre Rudel di Blaia fu molto nobile uomo, principe di Blaia. E s’innamorò della contessa di Tripoli, senza averla vista, per il bene che sentì dirne dai pellegrini che erano venuti da Antiochia. E fece su di lei molte canzoni, con belle melodie e semplici parole. E per il desiderio di vederla si fece crociato e si mise in mare, e una malattia lo prese sulla nave, e fu portato a Tripoli, in un albergo, come morto. E fu fatto sapere alla contessa ed ella andò da lui, al suo letto, e lo prese fra le sue braccia. Ed egli comprese che lei era la contessa e recuperò l’udito e il respiro, e lodò Dio perché gli aveva conservata la vita fino a che l’avesse vista; e così egli morì fra le braccia di lei. Ed ella lo fece seppellire con grande onore nella casa del Tempio; e poi, in quello stesso giorno, si fece monaca per il dolore che ebbe della morte di lui.
Apparato critico:
1-2. mont K; h.e fo p. I. 3. lo gran ben e per la gran cortesia q. B; qe n’a. KN²; el a. B.; dir de lieis a. AB; 4. venion A, vengron B. 4. m. bons, v.et ab B.; paubre IK. 5. el] et IK. 5-6. mes se] se mes I. 6. mar] mar per anar lieis vezer AB; e pres lo malautia en la nau e fo condug a Tripol] et en (adoncs en B) la nau lo pres mout grans malautia si que cill qui eron ab lui cuideron qe el fos mortz en la nau mas tant feiron que ill lo conduiseron a Tripol AB. 7. a. cum (aissi cum A) p. AB; f. a s. AB; c. de Tripol et N²; et adoncs e. A; ella om. B. 8. v. ad el] sen v. a lui A; lo om. N²; el om. IK. 9. qu’e.] que so A; si] e (mantenent I) IK; l’auzir] lo vezer AB; lo a. KN². 10. D. q. l’a.] D. el grazi qe ill B, D. e grasi qar l’a. N². 11. aissi N²; entrels braz de la comtessa (domna A) AB; f. honradamenz s. AB. 12. T. de Tripol B 12-13; a. meteus d. B. 13. qu’e n’ac I. 13-14. de la m. de lui] de la soi m. N², de lui e de la soa mort et aqui son escriutas de la soas chanssos AB.
Varianti di forma:
1. molt B, princeps N². 2. Tripoli I. 2-3. sens veser N². 3. pelerins I. 4. Antiochia BN², fetz AB, lieis AB, lleis IK. 5. volontat A, lieis AB, lleis IK. 6. Tripoli I. 7. faich AB. 8. son IKN², lieich AB, antre IKN², braz K. 9. flairar I. 10. vita A. 11. moric IK, fetz AB. 12. maion I, mason N², Templo N², puois K. 13. ela AB, morga IK.
Note:
4. venguen. Ha valore di piuccheperfetto, come ha fatto opportunamente notare V. Bertolucci Pizzorusso.
4. de leis. Complemento di argomento.
4- 5. ab bons sons, ab paubres motz. Secondo V. Bertolucci Pizzorusso il biografo avrebbe voluto dire che nelle canzoni di Rudel «le melodie erano più pregevoli dei versi». Malgrado i pertinenti riscontri addotti in sostegno di tale interpretazione, resto del parere che paubres sia qui portatore, non di una connotazione negativa, ma di un valore meramente denotativo nell’ordine tecnico in opposizione semantica a ric “ricco” (trobar ric è quello locupletato dall’opulenza e dall’esuberanza lessicale).
5- 6. e mes se. Consecuzione più plausibile di quella col pronome anteposto (e se mes), a norma della legge Tobler (regolarmente osservata ai righi 2, 6 e 8).
9. flazar. È questa, senza dubbio, la lezione corretta (cfr. V. Bertolucci Pizzorusso), a lungo misconosciuta dagli studiosi a vantaggio della «singularis» di I, flairar. la quale, fra l’altro, comporterebbe a rigore la surrogazione dell’olfatto (et. FLAGRARE) al respiro. (↑)
1. Les personnages et les événements de l’histoire d’Alemagne, de France et d’Espagne dans l’oeuvre de Marcabru (1129-1150). Essai sur la biographie du poète et la chronologie de ses poésies, in «Romania», XLVII, 1922, pp. 207-42, a p. 228. (↑)
2. Sono i vv. 37-38 di Cortesamen vuoill comensar (ed. di A. Roncaglia, in «Rivista di Cultura classica e medievale», VII, 1965, pp. 948-61, a p. 952). (↑)
3. Blaye, nella Saintonge presso la riva destra dell’estuario della Gironda. Una corretta valutazione storica dei dati — qui sommariamente riassunti — raccolti dal Cravayat si veda in François Pirot, Recherches sur les connaissances littéraires des troubadours occitans et catalans des XIIe et XIIIe siècles, Memorias de la Real Academia de Buenas Letras de Barcelona, Tomo XIV, Barcelona, 1972, pp. 134-6. (↑)
4. Cfr. Non sap chantar, v. 36. (↑)
5. Cfr. Quan lo rius, v. 32. (↑)
6. Le vidas dei trovatori ne accompagnano le poesie in canzonieri prevalentemente di origine italiana. Furono composte attorno alla metà del Duecento. Sulle insidie della biografia rudeliana, dagli effetti delle quali nessuno forse potrebbe presumere di serbarsi in sede esegetica del tutto indenne, si veda lo studio intelligente e istruttivo — ancorché a mio avviso non in ogni sua parte convincente — di Maria Luisa Meneghetti. (↑)
7. Tripoli di Siria, conquistata dai crociati nel 1109; costituita in contea sottoposta al regno di Gerusalemme, fu assegnata a Bertrando figlio di Raimondo di Saint-Gilles conte di Tolosa. (↑)
8. Come è noto, Melisenda fu cantata dal Carducci nella poesia che compose per celebrare la leggendaria vicenda del trovatore. (↑)
9. Nel suo pregevole saggio di recentissima pubblicazione, M. Allegretto, analizzando l’uso delle determinazioni deittiche locali e temporali nelle canzoni del trovatore, mostra come esse valgano ad «ottenere un effetto contrario alle loro funzioni: indeterminazione e vaghezza invece che precisazione», perché Rudel attribuisce loro «la funzione retorica di sviare da qualsiasi interpretazione “facile”, di celar il mondo della sua poesia». (↑)
10. Non a caso lo Spitzer definisce i loro sostenitori «naturalistes» o «positivistes»: più pertinente sembra la seconda qualifica, purché si pensi a un deteriore positivismo, rozzo e superficiale. (↑)
11. L’ordinamento delle canzoni rudeliane al quale convenzionalmente gli studiosi si riferiscono è quello dalle edizioni Stimming e Jeanroy: I. Quan le rossinhols el folhos, II. Quan lo rius de la fontana, III. Pro ai del chan essenhadors, IV, Belhs m’es l’estius e·l temps floritz, V. Lanquan li jorn son lonc en may, VI. Non sap chantar qui so non di. Lo stesso ordinamento esse hanno nel volume di R.T. Pickens. (↑)
12. Autore di un’opera su Les vies des plus célèbres et anciens poètes provençaux, Lione 1575, del tutto non degna di fede, essendo «un ammasso di notizie tendenziose o inventate di sana pianta, affastellate attorno ai dati delle biografie provenzali» (Santangelo). (↑)
13. Inuna nota finale del suo articolo il Cluzel nega, dopo aver fatto di tutto — forse inavvertitamente — per dimostrarla, «une adhésion totale à l’explication “biographique” de l’amor de lonh»; confessando, però, che meno assai lo convincono le «explications “philologiques” ou “théologiques” de certains érudits, tels que MM. Leo Spitzer ou Diego Zorzi». A parte il malizioso abbinamento, tale dichiarazione costituisce una inequivocabile, ancorché cauta, scelta di campo. Nello stesso campo si è schierato baldanzosamente anche M. Lazar, senza tuttavia produrre idee o ragionamenti di qualche utilità. (↑)
14. La definizione è dello Spitzer, che ha precisato come sia il «positivisme instinctif» della Frank «qui la fait retomber dans le “biographisme”». (↑)
15. Che il Lefèvre nega sia un devinalh: «Le comte de Poitiers s’est seulement amusé à donner à ses expressions un tour énigmatique, bien fait pour surprendre, intriguer l’auditeur et lui faire justement sentir l’angoisse d’une conscience qui s’interroge sur le sens, fort troublant en effet, de la vie et de la morale». (↑)
16. Due interessanti riscontri agostiniani al tema dell’amor de lonh ha indicato P. Cherchi nel De Trinitate. Chiosandoli, M. Allegretto osserva che l’«amore di udita» — qual è quello attribuito a Rudel dalla vida — nasce dall’immagine mentale della donna «sotto forma di visione contenuta nella memoria»; e ravvisa nella canzone Lanquan li jorn «un intrecciarsi di vaghe allusioni ad un luogo e ad un tempo che possono essere visti nell’ottica del concetto agostiniano di esperienza», per il quale «non sono tanto le sensazioni del corpo che valgono a formare un’esperienza, quanto queste sensazioni rivissute nell’animo». (↑)
17. Da lui stesso definita «interpretazione in chiave lirico-letteraria». (↑)
18. Terminologia di A. Greimas, Du sens, Paris, 1970, p. 286. (↑)
19. Di cui tratta ampiamente H.R. Jauss, Literaturgeschichte als Provokation der Literaturwissenschaft, Konstanz, 1967. Una impostazione critica su di esso fondata non altera affatto, come potrebbe sembrare, l’identità storica del testo. È noto, infatti, che «quanto più l’opera è artisticamente complessa e originale, quanto più si leva al di sopra di quelle che la circondano, tanto maggiore è la sua disponibilità a differenti letture sul piano sincronico e diacronico»; e che il «senso perenne di contemporaneità e universalità del capolavoro, consegue al fatto che la carica polisemica del testo permette la sua fruibilità in funzione dei modelli letterari (e prima ancora socio-ideologici) delle varie epoche. Come dire che ogni epoca applica i suoi codici di lettura, il suo mutato punto di osservazione, sicché il testo continua ad accumulare possibilità segniche, comunicative proprio in quanto è all’interno di un sistema in movimento». (M. Corti, Prncipi di comunicazione letteraria, Milano, 1976, p. 18). (↑)
20. Andrea di Luyère, cappellano di Maria di Champagne figlia di Luigi VII di Francia e di Eleonora d’Aquitania, compose la sua opera, in tre libri, fra il 1185 e il 1196. Nei primo capitolo (Quid sit amor), dopo la famosa definizione dell’amore («Amor est passio quaedam innata procedens ex visione et immoderata cogitatione formae alterius sexus, ob quam aliquis super omnia cupit alterius potiri amplexibus et omnia de utriusque voluntate in ipsius amplexu amoris praecepta compleri»), Andrea spiega che esso è passio tanto nella fase incipiente del rapporto, «quia semper timet amans, ne amor optatum capere non possit effectum», quanto successivamente, perché «non minores timores insurgunt, uterque namque timet amantium, ne quod est multis laboribus acquisitum, per alterius labores amittat» (Andrea Capellano, Trattato d’amore. Testo latino del sec. XII con due traduzioni toscane inedite del sec. XIV, a cura di S. Battaglia, Roma, 1947, pp. 3-6). (↑)
21. A. Roncaglia, La poesia dell’età cortese, Milano, 1961, pp. X-XI. (↑)
22. La trasposizione mondana nell’amore cortese dell’amore divino teorizzato da San Bernardo nel trattato De diligendo Deo è stata messa in luce da M. Lot-Borodine, Sur les origines et les fins du Service d’Amour, in Mélanges de linguistique et de littérature offerts à M. Alfred Jeanroy, Paris, 1938, pp. 223-42. (↑)
23. Distanza che è innanzi tutto «separatezza etica e sociale», per M. Majorano. Secondo E. Köhler l’amor de lonh sarebbe la trasposizione in senso amoroso dello stato d’animo proprio dei cavalieri senza feudo, condiviso dal poeta prima di essere reintegrato nel possesso del castello di Blaia sottratto a suo padre da Guglielmo IX. (↑)
24. M. Luzi, L’idea simbolista, Milano, 1959. (↑)
25. London, 1910; trad. it. Lo spirito romanzo, Firenze, 1959 (da cui si cita). (↑)
26. Così S. Baldi, nella. prefazione a Lo spirito romanzo, cit., p. 8. (↑)
27. Nella premessa alla sua traduzione di The Sacred Wood T.S. Eliot, Il bosco sacro. Saggi di poesia e critica, Milano, 1971, p. 10. (↑)
28. Circa il complesso problema del rapporto fra il presumibile idioma dei singoli trovatori e le sue concrete risultanze nella tradizione manoscritta, sono da tenere presenti — anche quando, come nella fattispecie, sembrino meno fondatamente ipotizzabili interventi di restauro di una presunta originaria veste linguistica — le considerazioni di M. Perugi (nell’ Introduzione alla sua edizione delle canzoni di Arnaut Daniel) sull’intensa manipolazione normalizzante, nel senso di una «occitanità trascendentale», subita dai testi raccolti nei canzonieri. (↑)
29. D’A. S. Avalle, Cultura e lingua francese delle origini nella «Passion di Clermont-Ferrand, Milano-Napoli, 1962, p. 19. (↑)
30. G.B. Pellegrini, Appunti di Grammatica Storica del Provenzale, Pisa, 1965, pp. 36-7. (↑)
31. I termini sono di N. Pasero (Guglielmo IX d’Aquitania, Poesie, cit., p. 312). (↑)
32. Alle pp. 311-70 della sua edizione. Pasero affronta la problematica relativa al tentativo di «dare una descrizione esaustiva» della lingua del primo trovatore e, dopo aver riferito dei due fondamentali orientamenti degli studiosi nel definire quella lingua — «pittavino» (Gamillscheg, Migliorini, Scharten, Pignon), «lingua letteraria, con dialettalismi più o meno forti» (Morf, Appel, Jeanroy, Avalle, Pfister) —, con le risultanze della sua indagine convalida sostanzialmente il secondo. Alla medesima conclusione Avalle era pervenuto nella sua esemplare ricostruzione della realtà culturale e linguistica del Poitou nei secoli undicesimo e dodicesimo: «Il fondo della sua [sc.di Guglielmo IX] lingua è senza dubbio di tipo occitanico» (Cultura e lingua francese, cit., p.55). Di ciò Guglielmo stesso fu molto probabilmente consapevole: lo si può evincere, a mio avviso, anche dalla sua controversa dichiarazione di rinunzia all’inizio della canzone XI («mais non serai obedienz / en Peitau ni en Lemozi», vv. 3-4). Il senso della determinazione geografica in essa contenuta dipende da quello che si attribuisca ad obedienz, che infatti è il principale oggetto del contendere nella discussione esegetica su questo oscuro passo. L’interpretazione obediens “servo d’amore”, a norma dei vv. 25 ss. della canzone VII e di un precetto di Andrea Cappellano («dominarum praeceptis in omnibus obediens semper studeas amoris aggregari militiae», De Amore, ed. S. Battaglia, Roma, 1947, p. 124), condivisa da Diez, Crescini e Jeanroy, era considerata del tutto soddisfacente fino a quando ha preso posizione contro di essa A. Roncaglia («Obediens», in Mélanges [...] Delbouille, Gembloux, 1964, II, 597-614). Questi ha rilevato che nei versi citati di Guglielmo IX, mentre manca la «determinazione nominale o pronominale» che necessariamente accompagna il termine quando riferito a vassallaggio amoroso, compare una precisazione topografica che risulterebbe grottesca se la rinunzia del poeta fosse di contenuto amoroso. Ma obediens avrebbe invece nel «canto di penitenza» il significato di “vassallo, signore feudale” (nella struttura gerarchica del potere feudale «il circoscritto potere d’ogni autorità si subordina al più ampio potere dell’autorità superiore», sicché «ogni potestà può ben definirsi “obbedienza” senz’altro»: come risulta da documenti giuridici e amministrativi dell’epoca). A tali argomentazioni, senza dubbio interessanti e pertinenti, si può tuttavia rispondere: che la presenza nel caso in oggetto della determinazione personale non sembra indispensabile qualora l’obbedienza si riferisca, anziché ad una donna in particolare, generalmente all’amore («obbediente ad Amore»); che i riscontri addotti per l’interpretazione proposta sono scritture latine giuridico-amministrative e non volgari e letterarie, mentre è un fatto cheobediens nei trovatori (già nella canzone settima di Guglielmo IX) risulta tecnicizzato in relazione al vassallaggio amoroso; che nella prima strofe della canzone undicesima il poeta parla di se stesso non in generale, ma come soggetto di un’iniziativa poetica («non sarò più, come poeta, in rapporto di obbedienza rispetto ad Amore»). In questo ordine di idee, la duplice indicazione geografica assumerebbe altresì una ben precisa e plausibile funzione: quella di alludere ai due possibili tipi di lingua letteraria disponibili alla scelta del duca d’Aquitania. Egli era infatti signore della regione che fu sede di «una antichissima letteratura pittavina, ora scomparsa in gran parte, ma non per questo meno decisiva per le sorti e della poesia in lingua d’oc e di quella in lingua d’oïl» (Avalle, Cultura e lingua francese, cit., p. 59). Guglielmo IX potrebbe dunque a buon diritto avere assunto il Poitou e il Limosino come determinazioni geografiche emblematicamente allusive (in quanto centri d’irradiazione culturale e linguistica di primaria importanza) rispettivamente ad un tipo settentrionale (oitanico) e ad un tipo meridionale (occitanico) di lingua letteraria galloromanza. (↑)
33. La velarizzazione di l finale è propria dei dialetti galloromanzi occidentali, dal pittavino al guascone; ma «la rima au da al, biasimata dalle Leys (ed. Gatien, vol. II, p. 208), non è precisamente un volgarismo marginale come propone il Jeanroy (La poésie lyrique des troub., Paris-Toulouse, 1934, pp. 51-2) ma un mero pezzo fungibile del repertorio metrico trobadorico, immesso nell’uso fin da Guglielmo IX e spesso — anche se con minore frequenza di al — adottato» (M. Braccini, ed. Rigaut de Barbezieux, p. 39). Tratta estesamente del fenomeno Max Pfister nell’eccellente studio sulla lingua di Guglielmo IX (La langue de Guilhem IX, comte de Poitiers, in «Cahiers de Civilisation Médiévale», XIX 1976, pp. 91-113, alle pp. 101-4): studio che con qualche opportuna rettifica, reca importanti integrazioni alla descrizione di Pasero. (↑)
34. Componimento nel quale fa le sue prime prove nella lirica trobadorica l’artifìcio tecnico della parola-rima, che con la retrogradatio cruciata («ossia: invarianti e legge di variazione») sarà elemento costitutivo essenziale della sestina arnaldiana, come ha posto opportunamente in evidenza A Roncaglia (L’invenzione della sestina, in «Metrica», II, 1981, pp. 3-41, alle pp. 15-6). (↑)
35. Delle novità della poesia rudeliana non erano certamente ignari i contemporanei, come si può arguire da un’allusione al riguardo dell’ensenhamen di Guerau de Cabrera: «Ja vers novel / bon d’En Rudell / non cug que·t pas sotz lo guignon...» (vv. 25-27). Al termine di un’attenta analisi del passo, il Pirot (Recherches, cit., p. 142) osserva che «En ce qui concerne le style ou les idées, on peut affirmer sans ambage que Rudel constitue une nouvelle tendance dans le contexte de la seconde génération. La sensibilité frémissante du poète de Blaye donne à son oeuvre une vibration poétique tout à fait originale qui justifie amplement le jugement de Cabrera». (↑)
36. L’io di cui si discorre non è ovviamente, per quanto detto nelle pagine precedenti, autobiografico: è propriamente «le sujet de l’énonciation, une instance locuttice intégrée au texte et indissociable de son fonctionnement» (P. Zumthor, Essai de poétique médiévale, Paris, 1972, p. 69). (↑)
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