PIETRO G. BELTRAMI - MARCO SANTAGATA
«RAZO E DREYT AY SI·M CHANT E·M DEMORI» UN EPISODIO DELLA CULTURA PROVENZALE DEL PETRARCA (*)
I.
Pietro G. Beltrami
APPUNTI SU «RAZO E DREYT AY SI·M CHANT E·M DEMORI»
Non si può più dubitare dell’importanza di Razo e dreyt ay si·m chant e·m demori, come sarà ormai da intitolare la canzone citata da Petrarca in Lasso me, della quale Maurizio Perugi ha dato ora una nuova edizione con un amplissimo commento.
Perugi ripubblica la canzone dando fiducia, contro Appel (1), alla disposizione testimoniata dal canzoniere K, ma, rispetto ad Appel, limitando il ricorso a K per la costituzione del testo (in particolare eliminando l’inopportuna allusione a un marques d’Est, a favore della lezione di C, coms d’Uzest). In estrema sintesi (e rimando al seguito di queste pagine), per la collocazione cronologica e culturale del testo, Perugi, che rifiuta l’attribuzione di Appel ad Arnaut Daniel, dà valore a questi elementi: 1) il Sanguiniers del congedo è per lui l’autore, celato sotto uno pseudonimo misterioso, ma che allude al Vaucluse. 2) Tramite l’aggancio con la poesia La beutat nominativa, trascritta di seguito in K, la tradizione di Razo e dreyt si collega secondo Perugi con la produzione testimoniata dal canzoniere f. 3) Razo e dreyt è attiva nella cultura poetica della fine del Duecento, da Guiraut Riquier in poi, particolarmente nell’ambiente che ha il suo centro propulsore nella corte di Rodez; inoltre è attiva nella codificazione delle Leys e nella produzione trecentesca (sulla quale Perugi offre un ampio excursus, dedicato principalmente alla figura di Raimon de Cornet). 4) Il cotel tronc, «tonaca scorciata», è secondo Perugi la veste degli Spirituali, divenuta un simbolo attraverso le polemiche e le persecuzioni trecentesche, con anticipazioni testimoniate dalla Chronica XXIV Generalium e da Ugo di Digne. Perugi valorizza anche un cenno contenuto in una decretale di Bonifacio VIII: capas, scapularia seu mantellos vel cucullas (dove peraltro non si dice se questi abiti siano corti). Per Perugi l’autore dev’essere un nativo del Vaucluse, la cui produzione sia tramandata dalla «triade dei mss. CR + f»; lo trova quindi alla corte di Rodez nella persona di Guilhem de Murs, e data la poesia tra il 1280 e il 1285, con preferenza per il 1281.
Non dispiacerà ora, a partire dal lavoro di Perugi, la proposta alla discussione di qualche riflessione in materia, e anche di qualche ipotesi alternativa.
Rinuncio a dare nuovamente in trascrizione diplomatica, dopo Appel e Perugi, il testo dei due mss. che tramandano la canzone, C e K (2). Dopo un esame diretto dei manoscritti, sono però da fare alcune osservazioni.
1. Per Mahn (3), Appel e Perugi l’incipit di C suona Razo e dreyt ay mi chant em demori. Per quanto riguarda le due tavole di C, la lezione è invece sim chan: nella prima tavola a c. 15r della prima numerazione Razo e dreg ay. sim chan em demori, nella seconda a c. 29r sempre della prima numerazione Raso e drech ay sym chan om demori. Ma anche per quanto riguarda il testo di C, bisogna osservare che dal taglio dell’iniziale decorata (che ha mutilato ma non reso illeggibile sia la d iniziale di demori sia quella di dieu, v. 3) si è salvato l’angolo superiore inclinato in avanti della s dritta; inoltre dei quattro tratti verticali che seguono questo avanzo di s il primo è legato in basso al secondo, che è legato in alto al terzo, mentre il quarto è appena un poco staccato. A mio parere si impone di leggere anche qui sim, come nelle tavole; la mancanza del trattino obliquo sulla i non fa difficoltà, visto che subito dopo dieu e lieys ne sono sprovvisti, e su ampari esso è tanto sbiadito da far dubitare della sua presenza. Così ha letto il compilatore del vecchio catalogo, Bibliothèque Impériale, Catalogue des manuscrits français, tome I, ancien fonds, Paris, Didot 1868, p. 141. Si noti ancora che a c. 353r col. 1 r. 7 dal fondo (v. 44) sim è tracciato proprio allo stesso modo, con in più il trattino obliquo sulla i.
2. Al v. 29 di C si deve leggere senza alcun dubbio do lom, seguito dal punto di fine verso, non de lom. Mahn, seguito poi da Appel, stampò de lo mentill trascurando il punto, ed era forse un tentativo di emendamento. Perugi non è intervenuto sulla lettura di Mahn, nonostante la sua revisione del testo (4). La o di do, eseguita come sempre con due tratti, il primo in senso antiorario dall’alto a sinistra verso il basso a destra e il secondo in senso orario fra gli stessi punti iniziale e finale, è in effetti molto leggermente incompleta in basso a destra; ma il secondo tratto della e, che viene iniziata allo stesso modo, ha sempre un’inclinazione ben diversa (risulta indirizzato molto più in alto), e inoltre manca qui ogni traccia del terzo trattino che dovrebbe completare una e. Anche la o di mon del verso successivo (v. 30), del resto, non è perfettamente chiusa.
3. Al v. 14 di K, corrispondente al v. 14 di C (ma ben diverso nella lezione), dopo leis qui loi mes si può leggere nell’interlineo un en sbiaditissimo (che Mahn e Appel riportano senza avvertenze nella trascrizione, e Perugi ha invece eliminato). Ancora meno leggibile (e questa volta non sono affatto sicuro della lettura) al v. 21 di K (corr. al v. 48 di C) un et interlineare subito dopo foch (può essere un tentativo di raddrizzare la misura del verso). Delle aggiunte interlineari di K l’unica che abbia la stessa intensità di inchiostro del testo è tondre al v. 24 (v. 51 di C).
4. Al v. 5 di C la lettura di partisca, in parte danneggiato nella parte superiore dall’asportazione dell’iniziale decorata, è estremamente incerta: non si può proprio escludere che sia da leggere parcisca (forma sulla quale v. la nota al verso).
A mio parere Appel non coglie nel segno quando, descrivendo i due mss., nota (p. 213) che «il primo verso della seconda strofa di C è sostituito in K con il primo verso della quarta strofa di C», postulando uno scambio di distici iniziali (poiché di distici si tratta) fra i due testi. A partire dal fatto che in K mancano del tutto sia il primo distico della seconda strofa che i vv. 3-9 della quarta di C, la soluzione più semplice consiste nel pensare che in un punto della tradizione che dà luogo al testo di K (in K stesso o prima) si sia copiato un testo nel quale le strofe di C erano ordinate I-IV-II-VI-III-VII (impossibile dire quando sia caduta la V di C) saltando dal secondo verso della seconda strofa (IV di C) direttamente al terzo verso della successiva (II di C) (5). La successione di K sarebbe quindi in realtà (utilizzando la numerazione delle strofe come sono in C): I-IV1-2II3-9-VI-III-VII. La diversa interpretazione di Perugi (pp. 13-4), che sostiene la priorità della disposizione di K, si fonda sulla lettura de lom del v. 29 di C: questa sarebbe da sciogliere d’el(a) om, dove om sarebbe on < UNDE per fonetica sintattica davanti alla labiale iniziale del verso successivo (s’intende che per questa soluzione la successione di K deve essere riportata sulla lezione di C: cfr. l’apparato).
La verifica dell’ipotesi che propongo non può consistere che in un tentativo di edizione, traduzione e commento del testo secondo la struttura testimoniata da C (6). Cf. Razo e dreyt ai si·m chant e·m demori.
* * *
Perugi ha certamente ragione quando dichiara che la canzone è troppo arnaldiana per essere di Arnaut Daniel (7), e che Appel si è lasciato ingannare dalla molteplicità delle riprese arnaldiane che l’imitatore ha disseminato nel testo (p. 42). Un imitatore, dunque: ma mi sembra francamente eccessivo definire la sua opera un «immane, teratologico pastiche» confezionato da un autore al quale «è completamente estranea la scintilla della poesia». Ci troviamo di fronte ad un testo forse non particolarmente ispirato, ma non peggiore né più artificioso di tanti altri che si incontrano nella letteratura trobadorica e, se letto con un poco di simpatia, anche godibile. Nemmeno considererei del tutto irrilevante il giudizio di un lettore come Petrarca, che di questa canzone ha fatto, per sé, un testo esemplare; e non credo soltanto perché, come si può credere con relativa certezza, riteneva che il testo fosse di Arnaut Daniel.
Un elemento di datazione interno al testo può essere offerto dal cotel tronc che l’autore dichiara di voler indossare, variando ai vv. 49-50 il topos della monacazione per l’insuccesso amoroso. A questo proposito nel cap. IV Perugi ripercorre la storia delle polemiche sull’abito strictus et curtus degli Spirituali (non avendo nessun dubbio nell’identificare con questo il cotel tronc), e delle persecuzioni connesse, con una documentazione che parte dal 1309. A p. 144 tuttavia apprendiamo dallo stesso Perugi che a rigore l’allusione è possibile anche prima della metà del XIII secolo (e Perugi del resto data la canzone non al primo Trecento, ma agli anni 1280-85, con preferenza per il 1281), dato che la Chronica XXIV generalium narra della persecuzione di Crescenzio Grizzi da Jesi (Ministro Generale dei Francescani dal 1244 al 1247) contro monaci portantes etiam mantellos curtos usque ad nates. I fatti avvennero nella Marca Anconitana quando Crescenzio ne era Ministro Provinciale (quindi ancora prima del 1244, ma non in Provenza) (8), tuttavia il senso che la habitus deformitas debba essere difesa contro il potere è ben chiaro, nello stesso giro di anni o poco oltre, in Ugo di Digne. Al passo citato da Perugi (dal De finibus, SISTO, p. 330, leggibile anche nella Expositio, SISTO p. 272) si può aggiungere anche un’altra citazione dalla Expositio (SISTO p. 192):
Sunt autem aliqui regulares in vestibus, calciamentis et necessitatibus aliis multum completi, multumque forinsecus quadam honestate compositi, multumque fratres in hiis deficientes, et quandam in cultu extrinsecus deformitatem habentes, inhonestos et irreligiosos propter nuditatem ipsam atque penuriam reputant. Sed nulla maior honestas, quam Christum et eius apostolos imitari. Paupertatis et humilitatis honestas per quam sanctissime et nude nudo ac pauperi Christo servitur, quantelibet vestium et calciamentorum honestati prefertur (9).
Il problema, che evidentemente era vivo per Ugo di Digne, non lo era a quanto pare altrettanto per gli autori di una delle sue fonti, la Expositio Quatuor Magistrorum, datata da Oliger tra il 1241 e il 1242 (10); i quali, per tutto commento alle parole Et fratres omnes vestimentis vilibus induantur della Regola, dicono solo:
Quaeritur quid dicatur vestimentum vile. Et secundum intentionem regulae, vilitas attenditur in pretio pariter et colore secundum aestimationem hominum regionis, in qua fratres commorantur.
Una lettura degli atti raccolti nel vol. XXII del Mansi (11) dà però l’idea che la gerarchia ecclesiastica si sia occupata con particolare attenzione dell’abito dei religiosi secolari e regolari, non solo e non necessariamente (come appare ovvio dalle date) in relazione con i problemi dei Francescani, almeno a partire dalle Constitutiones Gallonis del 1208 e dal Concilium Avignonense del 1209. Da qui fino al Concilium Provinciale Scoticum del 1225 (per limitarmi al risultato di una breve esplorazione) si trovano ripetuti, insieme con altri, e avvicinati in un modo che colpisce l’attenzione di chi abbia in mente Razo e dreyt, tre concetti: che l’abito dei religiosi non deve essere lussuoso, ma nemmeno indecente, e non deve essere colorato; che la lunghezza dell’abito non è ad libitum dei religiosi; che i religiosi devono portare una tonsura adeguata. Così si esprime il capitolo De indumentis clericorum del concilio più importante di questo periodo, il Laterano IV del 1215 (MANSI XXII, col. 1003-6):
... Coronam et tonsuram habeant congruentem, et se in officiis Divinis et aliis bonis exerceant studiis diligenter. Clausa deferant desuper indumenta, nimia brevitate vel longitudine non notanda. Pannis rubeis aut viridibus, necnon manicis aut sotularibus consutitiis seu rostratis, fraenis, sellis, pectoralibus et calcaribus deauratis, aut aliam superfluitatem gerentibus non utantur...
Ma le parole che più colpiscono per la consonanza quasi letterale con il testo di Razo e dreyt si trovano negli Statuta del Concilio di Montpellier del 1215 (12), dove, nella parte che tratta De abbatum, monachorum, et canonicorum regularium disciplina, si legge (MANSI XXII, col. 943, erron. numerata 843):
XVI. De forma vestimentorum. Item tunicas non habeant curtas, vel apertas ab anteriori, vel posteriori parte, sed longas et clausas.
XVII. De materia eorundem. Item non utantur cappis, tunicis, vel pallis, de aliqua bruneta clara vel nigra, nec etiam stamine forti, seu cuniculis, vel etiam cameloto.
E ancora, poco oltre (MANSI XXII, col. 945):
XXIII. Ut canonici regulares amplas coronas portent; monachi amplissimas. Item praecipimus, ut canonici regulares amplas coronas portent, et monachi amplissimas. Itaque duoram digitorum, vel trium, amplus sit monachis circulus capillorum.
Il termine corona per indicare la tonsura è stato spiegato poco sopra negli stessi Statuta (MANSI XXII, col. 941):
IV. De tonsura sive corona eorundem [scil. canonicorum]. Statuimus insuper, ut clericus cathedralis vel conventualis ecclesiae, vel alius [corr. dell’ed. per alterius] qui beneficio ecclesiastico vivit, talem tonsuram ferat, quae gradum non habeat, sed dirigatur in gyrum, ita quod capilli qui inter inferiorem et superiorem rasuram remanent, propter suam rotunditatem merito possint dici corona.
Non sarebbe quindi strano nemmeno per un Provenzale del secondo decennio del Duecento, come non lo sarebbe per uno della fine, che l’uso del topos della monacazione per l’insuccesso amoroso fosse rielaborato specificando il colore (o meglio il «non colore» del floc bru) e la lunghezza dell’abito e la forma della tonsura. Così dunque, mi pare, l’allusione individuata da Perugi dietro il palese errore di Appel non specifica alcun periodo preciso dal secondo decennio del Duecento in poi; ma certo ritrovare tunicas curtas e amplas coronas accostate insieme nel 1215 esercita una certa suggestione in favore di una data alta.
Un altro elemento di datazione è l’allusione al coms d’Uzest al v. 25. La genealogia dei signori di Uzès, città dell’attuale Gard che si trovava entro il dominio del conte di Tolosa, non è cosa chiarissima (13), ma si possono stabilire alcuni fatti utili al nostro caso. I signori di Uzès, come nota anche Perugi (p. 26), non portano mai il titolo di conte, ma, appunto, quello di signore; ma, ciò che mi sembra più interessante, continuano a portarlo, ognuno per la sua parte (la signoria si andò dividendo per via di matrimoni e di successioni non limitate al primogenito), anche dopo il 1229, anno del trattato che ratifica a favore di Luigi IX la conquista militare di Luigi VIII del 1226. Con questo, Uzès passa alla corona di Francia, com’è logico, completa dei suoi signori locali, e il suo sovrano non è più un conte, ma un re; invece ciò che resta alla casa di Tolosa in mano di Raimondo VII viene destinato, con il mezzo del matrimonio della figlia di Raimondo VII con il fratello del re Alfonso di Poitiers, a quest’ultimo, futuro conte di Tolosa (14). È insomma molto più probabile che nell’allusione del poeta sia chiamato in causa il conte di Tolosa piuttosto che il re di Francia: nella prospettiva di un Provenzale che scriva nel primo trentennio del Duecento all’incirca, un gran signore che non sfigura certo nell’accostamento con il re di Londra o con l’imperatore dei Greci. Sembra a questo proposito non insignificante il fatto che Alfonso Jordan, conte di Tolosa fino al 1148, aveva sposato Faidida di Uzès, figlia di Raimon Decan signore a metà di Uzès e iniziatore di uno dei due rami principali in cui si divide la famiglia dei signori di questa città (15); di costei Raimondo VI era dunque nipote, Raimondo VII bisnipote in linea diretta (16). Si può osservare, per la verità, che nel 1271 Filippo l’Ardito raccolse l’eredità di Alfonso di Poitiers e di Giovanna, e che fino al 1361, data dell’effettiva riunione di Tolosa e delle sue dipendenze alla corona, i re di Francia governarono la contea «comme comtes particuliers de cette ville» (17). Riferito a Uzès, che era stata riunita alla corona dal 1229, e non faceva quindi più parte della contea di Tolosa, il titolo di conte è però sempre impreciso, e soprattutto l’allusione macchinosa («il conte di Uzès» = «il sovrano di Uzès, il quale è il re di Francia, che è anche conte di Tolosa»).
È comunque improbabile che Razo e dreyt sia posteriore al 1271, anzi al 1269. Come è noto, essa presenta la stessa forma metrica (schema delle rime, rime e formula sillabica) del sirventese di Cerverí En breu sazo aura·l jorn pretentori, databile al 1269 (18). Perugi si libera rapidamente dell’opinione di Frank che, com’è normale, sia il sirventese ad imitare la canzone: «né c’è bisogno di precisare che, secondo me, il rapporto va rovesciato» (p. 59 n. 3). Ora, può essere che Frank, nel dichiarare che sia En breu sazo a imitare Razo e dreyt, sia stato influenzato dalla teoria di Appel sulla paternità arnaldiana della canzone; e certo la regola secondo la quale l’imitazione di un sirventese da parte di una canzone non è cosa possibile non è dimostrata da nessuno spoglio completo di testi (e d’altronde una buona parte delle canzoni, per il tipo del loro contenuto, non sono databili se non entro i confini dell’attività dei loro autori, quando siano noti), e sembra alle volte applicata ricorrendo a petizioni di principio (19). Una verifica di questa regola, inoltre, richiede anche delle decisioni importanti sull’esatta natura del sirventese. Nel nostro caso, però, da un lato non ci sono prove convincenti in positivo che la canzone sia databile dopo il 1269 (come sostengo in queste stesse pagine); dall’altro c’è un dato formale che deve fare riflettere. Il sirventese di Cerverí non è identico nella forma alla canzone, ma contiene in più una rima interna nel primo verso di ogni strofa che anche Perugi, com’è logico, mette in evidenza nella sua edizione. Bisognerebbe allora pensare che, proprio nel periodo (se siamo oltre il 1269) in cui è viva la tendenza (non importa qui se originaria o meno) a classificare il sirventese come una forma «inferiore» rispetto alla canzone ed al vers (20), un poeta abbia composto una canzone dell’impegno stilistico e formale di Razo e dreyt (comunque se ne giudichino i risultati) non solo prendendo in prestito la forma di un sirventese, ma destrutturandola in parte, insomma semplificandola. In attesa di studi più approfonditi, a me sembra un’ipotesi eccessiva anche per una delle figure marginali di cui in ogni caso ci stiamo occupando.
La stessa mano che ha aggiunto in calce a K Razo e dreyt, nota Perugi (pp. 42 ss.), ha trascritto di seguito un’altra poesia, La beutat nominativa (BdT. 461, 183, ora riedita da Perugi, pp. 43-4). Questa è un gioco poetico sulle categorie grammaticali, usate in modo equivoco come metafore del discorso amoroso, che si inserisce in una pratica tarda e scolastica, testimoniata in particolare da Rostanh Berenguier e, per quanto riguarda la tradizione, dal codice provenzale f. In comune, fra Razo e dreyt e questo testo, l’aggettivo nominativa riferito alla donna o alla sua bellezza; ma si deve notare che l’uso di questa parola nei due testi è completamente diverso. Dicendo nominativa, cioè «di chiara fama», «di gran pregio» la donna, l’autore di Razo e dreyt non fa nulla che non si potesse fare nel linguaggio poetico fin dal secolo XII. Come risulta proprio dalla documentazione raccolta da Perugi nel cap. X, il primo a usare al maschile nominatiu è Cercamon (BdT. 112, 2 a, ed. TORTORETO, VII, v. 31: Gasco cortes, nominatiu); al femminile, Raimbaut d’Aurenga (BdT. 389, 41, ed. PATTISON, V, v. 48: qu’ill es tant nomenativa; BdT. 389, 8, ed. PATTISON, XIX, v. 60: comtessa nominativa), il quale è del resto la fonte verosimile della strofa VI di Razo e dreyt. È solo nel secondo testo trascritto in K che nominativa trascina nel gioco dona de pretz genetiva (v. 3), crezen che·m seretz dativa (v. 5) e via dicendo. Non sarà certamente un caso che chi ha integrato K abbia trascritto proprio quel secondo testo dopo il primo, per esempio intendendo il secondo come una glossa o un interessante riscontro al nominativa contenuto nel primo; ma né nominativa stabilisce una comunanza di scuola fra i due testi, né il fatto che K li abbia trascritti di seguito è prova che i due testi provengano da una tradizione comune o che si trovassero nello stesso manoscritto. Il codice «affine di f» su cui Perugi insiste a partire da p. 47 come fonte della c. 185v di K è insomma ipotizzabile soltanto per La beutat nominativa; come anche non ha valore, basata su questo solo riscontro, l’ascrizione di Razo e dreyt alla «triade CR + f» (per es. p. 190, e passim; C, il solo dei tre che contiene Razo e dreyt, contiene una quantità di poesie la cui tradizione non si configura in questa triade). D’altro canto la doppia discrepanza dal tipo rappresentato in K riscontrabile nel Laur. Strozzi 178 (l’incipit Raison et dreç e l’attribuzione ad Arnaut Daniel) rende almeno possibile che il testo circolasse in Italia in una tradizione diversa da quella disponibile all’integratore di K, il quale difficilmente si sarebbe lasciato sfuggire l’attribuzione ad Arnaut se la avesse avuta di fronte.
Il ramo principale della tradizione, C, offre invece un dato concreto sul quale si deve discutere, ma che non può essere trascurato, l’attribuzione a G. (cioè Guilhem) de Saint Gregori. Su questo punto Perugi (p. 40) dà per acquisite le conclusioni di Appel; «Senza dubbio l’Appel (pp. 220-3) ha buon gioco nel dimostrare, caso per caso [per le cinque attribuzioni a Guilhem], che abbiamo a che fare con un ‘Versteckname’, lo stesso che la nostra canzone presenta in rima del v. 46», e passa oltre: «Ma se Guilhem de Sant Gregori non è, come sembra, se non un mero flatus vocis, chi è in realtà l’autore di Razo e dreyt?», rifiutando Arnaut Daniel proposto da Appel e optando per Guilhem de Murs e per il 1281.
In realtà le dimostrazioni di Appel sono lontane dall’essere inoppugnabili, e sembrano risentire (anche se non è questo il punto) del fatto che egli si sentiva sicuro dell’attribuzione ad Arnaut: caso per caso, per ogni attribuzione incerta a Guilhem de Saint Gregori, l’onere della prova sembra essere a carico di quest’ultimo piuttosto che dei concorrenti. Tre delle cinque attribuzioni a Guilhem de Saint Gregori sono in effetti contraddette nei manoscritti da attribuzioni contrastanti. Non è però il caso di Razo e dreyt (almeno nella tradizione diretta), che in C gli è attribuita e in K è anonima, e nemmeno della tenzone con Blacatz (BdT. 233, 5), dato che a fronte di DªIK che gliela attribuiscono, GQ non danno attribuzione ed E si limita ad un Guilem che non conferma, ma nemmeno contraddice. Per chiarezza, conviene trascrivere di seguito la tavola che si ricava da BdT. 233 (nella quale abbrevio in G.S.G. il nome del nostro trovatore):
1. (= 80, 8a) Be·m platz lo gais temps de pascor: G.S.G. ABD; Bertran de Born IKTa¹; Blacasset PUV; Lanfranco Cìgala Ce; Pons de Capduoill Sg; Guilhera Augier de Grassa M.
2. Ben grans avolesa intra: G.S.G. Dª; Bertran de Borri a¹; anon. H.
3. Nueyt e jorn ai dos mals seignors: G.S.G. C; Pons de la Guardia E.
4. Razo e dreyt: G.S.G. C; anon. K.
5. (= 97, 9) Seigner Blacatz, de domna pro: G.S.G. DªIK; Guilem E; anon. GQ.
Su questa tavola si possono proporre alcune considerazioni.
Il nome di Guilhem de Saint Gregori non è un’invenzione di C (motivata, ma solo per Razo e dreyt, dall’espressione fe que deg Saynt Gregori), dato che lo riportano manoscritti indipendenti per testi che C non conosce. Allo stato attuale, ma dopo ricerche molto limitate, non trovo questo nome nella documentazione storica, ma si deve credere che una persona di questo nome sia esistita e che si tratti di un trovatore o di un giullare.
Camille Chabaneau, partendo dall’ipotesi che il trovatore sia un Provenzale, ritiene che il Saint-Grégoire in questione sia la località nel comune di Valensolle, dipartimento Alpes-de-Haute-Provence (21). È possibile però che si tratti di Saint-Grégoire nel comune di Lavernhe, arrondissement di Millau, dipartimento Aveyron; dev’essere comunque questo il San Gregori che nel 1204 figura in una lista di borghi e castelli dati in garanzia da Pietro II d’Aragona a Raimondo VI di Tolosa (22). In una carta del Rouergue databile verso il 1175 è nominato un P. de San Grigori (23); un altro P. de Sancto Gregorio praeceptor militiae, che ignoro se possa essere lo stesso, è presente nel 1189 all’omaggio di Guillaume de Montpellier a Raimondo di Tolosa (come conte di Melgueil) (24). Un Raimunz de S. Grigori si nomina in.un atto redatto verso il 1185 nel Gévaudan (25).
Pur ritenendo che il ms. E, con V, rappresenti la trasmissione più sicura delle opere di Pons de la Guardia, e che, come regola, le attribuzioni di E meritino maggiore fiducia di quelle di C, István Frank, editore di Pons, tende ad escludere che Nueyt e jorn possa essere di questo trovatore: «Une simple lecture comparée de ce texte et de tous ceux que nous attribuons à Pons de la Guardia montre cependant dès l’abord que ces décasyllabes légers et cou-lants, les clichés élégants, les exempla littéraires des deux premières strophes, la rhétorique des oppositiones de la troisième strophe - que le ms. E a d’ailleurs fort malmenée - et de la dernière: tout cela tranche nettement sur le portrait stylistique que nous suggère la lecture attentive de ses chansons authentiques. Bartsch a eu donc raison de préférer l’attribution de Nueg e jorn à l’autre troubadour plutôt qu’au nôtre» (26).
Nonostante l’opinione degli ultimi editori, Gouiran e Paden Jr., l’attribuzione a Bertran de Born di Be·m platz lo gais temps de pascor non è affatto meno incerta delle attribuzioni concorrenti; la poesia è fin troppo genericamente nello stile di Bertran per essere sua, e non contiene nessun elemento che ne confermi la paternità, se si esclude un congedo tramandato da tre soli manoscritti e molto sospetto (27). La Beatrice che si elogia nella strofa Pros comtessa per la meillor, tramandata da una parte dei manoscritti, potrebbe essere la figlia di Tommaso di Savoia che andò sposa verso il 1220 a Raimondo Berengario V di Provenza, e l’occasione potrebbe essere proprio quel matrimonio, dato il contenuto (28):
Pros comtessa, per la meillor
c’anc se mires ni mais se mir
vos ten hom e per la genssor
dompna del mon, segon q’auch dir.
Biatriz d’aut lignatge,
bona dona en ditz et en fatz,
fons lai on sortz tota beutatz,
bella ses maestratge,
vostre rics pretz es tant poiatz
que sobre totz es enansatz ( 29).
A questa data un candidato per la stesura di questa strofa (come autore di tutto il testo o anche, in teoria, come rimaneggiatore di un testo altrui), forse più probabile di Blacasset (30), è l’autore della sestina, evidente rifacimento di quella di Arnaldo con le stesse parole-rima in forma di sirventese, Ben grans avolesa intra (31). Questa è scritta in vituperio di un Aesmar, Aemars che porta il titolo di coms e che deve essere Aimar II di Poitiers conte di Valentinois e di Diois (fino al 1230), e in lode del bon Prebost son oncle, il Prevosto di Valence documentato nel 1189 come testimone proprio all’atto di omaggio di Aimar al conte di Tolosa (32). Questo Prevosto potrebbe essere lo stesso che scambia una tenzone con Savaric de Mauleon (BdT. 384, 1 = 432, 3) entro il 1219, ma non si può dire quanto prima (33); ciò che dà a questa sestina un margine di oscillazione abbastanza ampio (a meno di cogliere una ragione storica precisa per il vituperio di Aimar; Bertoni intanto la data «all’alba del secolo XIII»). A me pare significativo che nell’attribuzione di questo esercizio arnaldiano si incrocino di nuovo i nomi di Guilhem de Saint Gregori e di Bertran de Born (34), che qui certo non può essere venuto sotto la penna di un trascrittore per somiglianze stilistiche. Questo incrocio prende valore se si considera che il nome di Guilhem ritorna come interlocutore in una tenzone con Blacatz, il padre di Blacasset, il quale ultimo è anche, come è noto, un buon conoscitore e imitatore di Bertran de Born (35). Quale che sia l’affidabilità di queste attribuzioni prese ognuna per sé, accostate insieme esse fanno in certo modo, e forse non casualmente, sistema: il nome di Guilhem de Saint Gregori ne viene qualificato come quello di un abile imitatore di modi altrui, nel cui repertorio sono presenti Arnaut Daniel e Bertran de Born (non senza coerenza, visto che anche Bertran modella il suo testo migliore su una canzone di Arnaut (36)), in contatto con un ambiente nel quale è viva la lezione di Bertran de Born, tanto che il suo nome e quello di Blacasset possono diventare intercambiabili per un testo (Be·m platz lo gais temps de pascor) che ha il marchio stilistico di Bertran. L’attribuzione a questa stessa persona di un secondo esercizio spiccatamente arnaldiano non farebbe che rafforzare questa immagine.
Se si vuole precisare ulteriormente la collocazione di Razo e dreyt in questo contesto, si entra in un campo di ipotesi da vagliare ancora con estrema cautela. Con questa riserva, un esame degli elementi a disposizione mi pare comunque utile.
L’allusione ai Sabran (37) che si può leggere nel congedo potrebbe riferirsi a Guglielmo di Sabran, che alla morte di Guglielmo IV di Forcalquier nel 1209 (38) si impadronì con la madre Alice della contea di Forcalquier, sulla quale Alice vantava dei diritti in quanto sorella di Guglielmo IV. Rimaneva con ciò spossessata Garsenda di Sabran, moglie di Alfonso II di Provenza (morto nel 1209) e reggente di Provenza dal 1213 (anno della morte di Pietro d’Aragona, che esercitò la tutela sull’erede) per il figlio Raimondo Berengario V: a costei (e a suo figlio, in favore del quale rinunciò (39)) la contea spettava non solo e non tanto in quanto nipote di Guglielmo, ma in virtù di un atto specifico di quest’ultimo (40). La stessa reggenza della Provenza era del resto messa in forse dal fatto che Sancho d’Aragona, prozio di Raimondo Berengario come di Giacomo d’Aragona, assunse il titolo di conte durante la minorità del pronipote (associandosi il figlio Nuno) (41). Dalla quasi prigionia del castello di Monçon Raimondo Berengario evase tra il 1216 e il 1217 (42), e ritornò in Provenza certamente con l’appoggio di nobili provenzali ostili a Sancho. Fra questi deve avere avuto una parte di rilievo Blacatz, che è lodato nella seconda tornadadi Amors, ben m’avetz tengut di Elias de Barjols (43), dopo che nella prima il poeta ha celebrato il ritorno di Raimondo Berengario:
Al senhoriu de Proensa
es vengutz senher naturals
a cuy no platz enjans ni mals
ni cobeytatz no l’agensa.
En Blacatz, vostra valensa
es de totas valors eguals,
e sapchatz: s’ades es aitals
non trobaretz qui ia·us vensa (vv. 41-48).
Raimondo Berengario e Garsenda sua madre (cioè costei per lui, dato che il conte era nato tra il 1204 e il 1206) contesero quindi la contea di Forcalquier a Guglielmo di Sabran, fino ad un accordo, nel 1220, con il quale Guglielmo conservava una parte di minore rilievo della contea (e continuò per questo a farsi chiamare conte di Forcalquier), mentre Raimondo si riprendeva la parte più importante e con essa legittimava il titolo al quale non aveva mai rinunciato (44).
Se l’allusione ai Sabran si può collocare in questo contesto, l’oscuro soprannome En Sanguiniers può designare o Raimondo Berengario stesso, o Blacatz, o un altro dei sostenitori di Raimondo Berengario, e la poesia si dovrebbe datare fra il 1217, anno del ritorno del conte, e il 1220, anno dell’accordo con Guglielmo di Sabran; ma più vicino alla prima data, se vale la presunzione di concomitanza con la canzone di Elias de Barjols. L’espressione lai on Sabra son pec sembra limitare l’accusa contro i Sabran al caso particolare: ciò quadrerebbe con il fatto che anche Raimondo Berengario era un Sabran per parte di madre. Quanto all’espressione qui que sai rest (45), sarebbe qui allettante una lettera di Innocenzo III a un Guglielmo di Forcalquier che Bouche trascrive e riferisce a Guglielmo di Sabran (46), nella quale si invita il destinatario a partire per la crociata per redimersi dai peccati per cui è scomunicato; ma la lettera è del 1198 (47), ed è quindi rivolta a Guglielmo IV, non a Guglielmo di Sabran. Posteriore all’episodio in questione è invece la domanda garbatamente ironica rivolta a Blacatz da Folquet de Romans, se·l viatge vos agensa / o si·os platz la remanensa: siamo dopo il matrimonio di Raimondo Berengario con Beatrice di Savoia (48). Queste testimonianze dicono però che la questione della crociata è sempre viva, ed è possibile che l’allusione non sia esattamente documentabile (49), o che qui que sai rest voglia dire più genericamente «chiunque non si muova, chiunque rifiuti il suo aiuto». Ma gli elementi concreti offerti da questa tornada per datare il testo sono davvero minimi e sfuggenti.
Per restare, conclusivamente, alle sole ipotesi più ragionevoli, gli indizi convergono almeno nel far ritenere che la nostra canzone, posteriore all’attività arnaldiana e a Celeis cui am di Guiraut de Calanson (cioè ai primi anni del Duecento (50)), non sia posteriore al 1229. L’attribuzione a Guilhem de Saint Gregori, l’unica data dalla tradizione diretta, è almeno coerente con le altre attribuzioni a questo trovatore, e non ci sono ragioni cogenti per respingerla.
Se, infine, ci si domanda come abbia potuto una figura di trovatore così marginale e, alla lettera, evanescente come Guilhem de Saint Gregori ottenere un successo così duraturo e scintillante, attraverso gli ambienti poetici la cui lettura è documentata da Perugi (51) e fino nientemeno che a Petrarca, si deve rispondere che il successo non è tanto di Guilhem quanto della sua maniera arnaldiana, della sua riuscita (sono cose che riescono una tantum) nel proporre un testo che manifestava in un equilibrio ammirevole il repertorio stilistico del maestro, pur non potendone avere, s’intende, la voce. Così la fortuna di Razo e dreyt non è in definitiva altro che un capitolo della fortuna di Arnaut.
Postilla 2014
Sui testi attribuiti a Guilhem de Saint Gregori, cfr. Michele Loporcaro, «Be·m platz lo gais temps de pascor» di Guilhem de Saint Gregori, «Studi mediolatini e volgari», XXXIV, 1988, pp. 27-68 (sulla diversità dello stile di Be·m platz da quello di Bertran de Born: Pietro G. Beltrami, Bertran de Born il giovane e suo padre (appunti sulla maniera di Bertran de Born, in Studi testuali 5, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998, pp. 25-55) e Due poesie di Guilhem de Saint Gregori (BdT 233.2 e 233.3), «Medioevo romanzo», XV, 1990, pp. 17-60.
II.
Marco Santagata
PETRARCA E ARNAUT DANIEL
(con appunti sulla cronologia di alcune rime petrarchesche)
1. Da tempo ormai si attendeva che un romanista di valore studiasse i rapporti di Petrarca con la tradizione lirica occitanica. Il libro di Perugi, dedicato in gran parte alle vicende della tarda produzione poetica di Provenza, riserva però solo due capitoli ed una appendice — su un totale di undici capitoli e quattro appendici — alla cultura occitanica del Petrarca. È comprensibile, allora, che i lettori interessati soprattutto a Petrarca (e in questo loro interesse sollecitati anche dalla sede editoriale, oltre cha da un accattivante sottotitolo) sulle prime possano essere rimasti un po’ delusi. Il «frammento della cultura provenzale del Petrarca» qui preso in esame riguarda però Arnaut Daniel: è pertanto un frammento centrale nel mosaico da costruire e quindi tale da risarcire di ogni eventuale delusione.
La sezione petrarchesca propone due grandi temi: 1) i tempi in cui e i canali attraverso i quali Petrarca venne a conoscenza della canzone, che egli riteneva di Arnaut, Razo e dreyt ay si·m chant e·m demori (citata in Lasso me nella forma Drez et rayson es qu’ieu ciant e·m demori); 2) le stratificazioni lungo le quali i testi danielini si depositano nei Fragmenta e il diagramma cronologico dei rapporti di Petrarca con Arnaut.
2. Benché le osservazioni di Beltrami abbiano seriamente minato molti dei presupposti sui quali si regge la ricostruzione di Perugi delle circostanze in cui Petrarca venne a conoscere la canzone pseudo-arnaldiana, vale ugualmente la pena di seguirne il percorso, soprattutto perché, lungo la strada, sarà possibile mettere a fuoco numerosi problemi di cronologia petrarchesca. Basandosi unicamente sull’autorità di Appel (52), Perugi colloca la composizione della canzone LXX (Lasso me) durante il soggiorno a Valchiusa fra il 1337 e il 1340. «La canzone è concepita come, una sorta di prologo alle tre Cantilenae [ma Petrarca scriverebbe Cantilene] oculorum (LXXI-LXXIII)» (p. 236), un blocco di testi nei quali la crisi del rapporto con Laura, «che Appel (sulla scorta di Rime LXII, LXXVII-LXXVIII, XCVI e dell’epistola latina I, 7) situa all’epoca del viaggio a Roma compiuto nel 1336-7» (53), sembra risolversi, sul piano poetico, con una soluzione ‘stilnovisteggiante’, facente perno su una visione ‘spiritualizzata’ dell’amore. La conoscenza petrarchesca di testi danielini è comunque anteriore alla composizione di Lasso me, dal momento che «tracce del canzoniere [di Arnaut] sono senza dubbio già presenti nell’abbondante produzione italiana che Petrarca aveva messo insieme ad Avignone» (p. 236, n. 19). Anche per Razo e dreyt non dobbiamo scendere sino al tempo di Lasso me: «Petrarca [la] conosceva verosimilmente già prima del 1337» (p. 237). La prova, consistente nel fatto che la struttura metrica della canzone petrarchesca risentirebbe di quella di Razo e dreyt, non è stringente. Tanto più che la precisa allusione dell’incipit petrarchesco a quello di un’altra canzone unissonan di Arnaut, Er vei vermeills, vertz, blaus, blancs, gruocs (fenomeno che a p. 237 viene definito, inspiegabilmente, una «parodia») potrebbe essere intesa anche come un attendibile indicatore metrico (54). Di questa possibilità Perugi non fa cenno; dell’allusione incipitaria scrive; «l’impressione è che Petrarca abbia inteso sigillare con un incipit danielino fra i più illustri questo tour de force metrico, per il quale egli pur sempre credeva di ispirarsi al medesimo trovatore [cioè, a Razo e dreyt]» (p. 238).
Le cose si complicano quando entra in gioco la canzone Be m’a lonc temps menat a guiza d’aura di Jofre de Foixà, che già Frank (55) aveva indicato come il modello di canzone ‘a citazioni’ (o cum auctoritate) più vicino al tipo sperimentato da Petrarca. Secondo Perugi la canzone dello pseudo-Arnaut e quella di Jofre «dovevano trovarsi, magari a contatto di gomito, sull’affine di f» (p. 238), cioè sul codice attraverso il quale Petrarca sarebbe venuto a conoscenza di Razo e dreyt; più avanti, a p. 266, si ipotizza che la canzone di Jofre fosse «nella stessa pagina o nella pagina successiva» (e sempre lì si immagina che quel codice fosse «verosimilmente minuscolo e di apparenza dimessa»). Le cose si complicano, dicevo, perché sarebbe proprio la lettura della canzone di Jofre a suggerire a Petrarca l’idea di adottare quella particolarissima struttura per Lasso me (56). Ecco, in concreto, come sarebbe andata:
Al momento di prender possesso del suo angolo in Valchiusa [nell’estate del ’37], è come se Petrarca intenda conferire solennità programmatica ai rapporti culturali che ormai lo legano saldamente alla terra di Provenza. Qui ha conosciuto e apprezzato l’esemplarità retorica e metrica di Razo e dreyt, al punto di sceglierla come rappresentativa del modo danielino di far poesia. Ed ora, per il manifesto di poetica che ha in progetto di affidare a Lasso me, il modello più congruo lo trova ancora una volta tra le pagine dello stesso volume: è la canzone a citazioni di Jofre de Foixà... (pp. 238-9).
Non tutto è chiaro: Petrarca conosce già Razo e dreyt (ma per l’appunto non è chiaro se l’espressione «al punto da sceglierla come rappresentativa del modo danielino di far poesia» alluda a Verdi panni, secondo Perugi metricamente esemplata — come si è detto — su Razo e dreyt, oppure alla decisione di inserire quest’ultima fra le citazioni della progettata canzone), sta progettando Lasso me, ed ora, su quello stesso volume, conosce la canzone di Jofre. Ma quando, allora, Petrarca ha avuto fra le mani l’affine di f ? E ancora: quanto tempo è trascorso dalla lettura dei testi contenuti in quel codice e la composizione di Lasso me? Non si dimentichi, infatti, che la ricostruzione di Perugi fa perno sulla data di composizione di questa canzone.
Poche pagine dopo quella appena citata, ci viene detto che «Petrarca [...] aveva già un’esperienza sufficiente del canzoniere danielino per essere piacevolmente sollecitato nel suo orgoglio di bibliofilo al momento che, sfogliando un modesto codice trovato a due passi da Valchiusa, credette di imbattersi in una nuova canzone del prediletto modello» (p. 240). Sembrerebbe di dover capire: un codice trovato vicino a Valchiusa, ma sfogliato a Valchiusa. Altri passi sembrano confermarlo: in particolare, queste righe a p. 246:
Proprio in questi anni a ridosso della composizione di Lasso me, Petrarca ricupera [...] il Virgilio ambrosiano [il 17 aprile 1338] che era andato disperso alla morte del padre; e sarebbe seducente immaginare che, accanto a questo ritrovamento ben più importante e prezioso, egli abbia avuto occasione di mettere le mani sul modesto codice affine di f e proveniente — chissà — dal feudo dell’Isle-Jourdain (57). E un periodo, questo, di intensa creatività: subito dopo il ritorno in Provenza e l’acquisto della casetta in Valchiusa, Petrarca pone mano alle grandi opere latine; e, sul versante del volgare, approfondisce il processo di «Spiritualisierung der Liebe».
Si accumulano, dunque, indicazioni che puntano verso un periodo posteriore alla seconda metà del ’37. I fili allora si ingarbugliano, perché, poche pagine prima, Perugi aveva affermato che la conoscenza di Razo e dreyt doveva risalire agli anni avignonesi. Il passo riassuntivo di tutta la ricostruzione (p. 266) comincia con queste parole: «Nello scrittoio affacciato sulla verde quiete di Valchiusa, il Petrarca si china a meditare su una canzone in lingua d’oc conosciuta da poco». Onde evitare insanabili contraddizioni, dobbiamo concluderne che la conoscenza, di Razo e dreyt (e di conseguenza dell’affine di f che la tramandava) sia avvenuta poco prima del ’37, ad Avignone, e che la composizione di Lasso me cada non molto dopo la metà del ’37, a Valchiusa.
Tutto ciò comporta alcune necessarie conseguenze. Per esempio, dobbiamo ritenere che Petrarca abbia avuto a disposizione l’affine di f, o direttamente o attraverso copia, per un certo numero di anni; diversamente, le sue meditazioni valchiusane sui testi conosciuti grazie a quel codice sarebbero puramente mnemoniche, e pertanto, le espressioni di Perugi puramente metaforiche. Ancora, e su questo secondo punto vale la pena di fermarsi un po’: si è costretti ad ammettere che la composizione di Verdi panni (prima realizzazione del modello metrico dello pseudo-Arnaut) sia anteriore a quella di Lasso me. Tuttavia, in assenza di qualunque indizio di tipo documentario, e rifiutando di applicare la regola che il testo che precede nell’ordine delle rime sia anche anteriore dal punto di vista cronologico, ci si può chiedere quali argomenti escludano che Verdi panni sia posteriore a Lasso me.
Quelli di Perugi sono desunti da Appel: «Illustrando l’ideologia consegnata alle Cantilenae oculorum, è significativo che l’Appel additi due isolati precedenti nel sonetto XIII e nella canzone XXIX, ambedue ‘in deutlicher Anlehnung an provenzalische Vorbilder’: tanto è vero che [...] essi contengono la parodia di due incipit danielini» (p. 237). Ora, Appel ritiene che vi sia un nesso stretto fra la LXX e le canzoni ‘degli occhi’, e che la composizione dell’intero gruppo cada fra il ’37 e il ’40 (58); se però si accetta quella che è più che un’ipotesi, vale a dire che la composizione dei trittico LXXI-LXXIII risalga ai primi anni Cinquanta (si veda più avanti), proprio la rilevata omologia ideologica con quel gruppo di canzoni rende per lo meno problematica la datazione tradizionale di XIII e XXIX agli anni avignonesi. Si aggiunga che il ruolo di guida al cielo riconosciuto a Laura in questi testi è del tutto incongruo nel sistema tematico e nella concezione dell’amore propri del Petrarca di quegli anni. Affermazioni come quelle contenute nelle terzine di XIII:
Da lei ti vèn l’amoroso penserò,
che mentre ’l segui al sommo ben t’invia,
pocho prezando quel ch’ogni huom desia;
da lei vien l’animosa leggiadria
ch’al ciel ti scorge per destro sentero,
sì ch’i’ vo già de la speranza altero
e nei vv. 40-2 di XXIX:
ché men son dritte al ciel tutt’altre strade
et non s’aspira al glorïoso regno
certo in più salda nave
ritorneranno, relativamente numerose, in testi della sezione ‘in morte’, e quindi posteriori al ’48, e in pochi altri luoghi della parte ‘in vita’: LXXII, 1-7, CCIV, 9-14, CCLXI, 5-8. Ebbene, CCIV non è databile, ma gli altri due sono testi quasi sicuramente posteriori alla morte di Laura. Con questo non abbiamo certo la prova che anche il son. XIII e la canz. XXIX siano successivi all’evento fatale, ma certo la loro ascrizione agli anni Trenta va considerata con molta cautela (59).
Da parte sua Perugi aggiunge il riferimento ai due incipit danielini. Dell’allusione ad A. D. XIII, 1 da parte di R. v. f. XXIX, 1 ho già detto; il secondo incipit in questione è Amors e jois e luecs e temps (A. D. XIV), il cui secondo emistichio si ritroverebbe in XIII, 5 «I’ benedico il loco e ’l tempo et l’ora» (nonché nelle clausole di CXLII, 34 «ora la vita breve e ’l loco e ’l tempo» e CLXXV, 1 «Quando mi vène inanzi il tempo e ’l loco») (pp. 237, 306) (60). In verità si tratta di una coppia molto diffusa (cfr. anche Dante, Amor tu vedi ben 74) per la quale un riferimento diretto ad Arnaut, se non avvalorato da altre circostanze (sulle quali ritornerò più avanti), è forse eccessivo; ciò vale in particolare per XIII, 5, dove la coppia danielina verrebbe a situarsi in un contesto quanto mai topico (61). Se così non fosse, tutti i nostri problemi cronologici sarebbero risolti: una delle postille che accompagnano il son. Aspro core ci attesta infatti che la conoscenza della canz. XIV di Arnaut (Amors e jois) risale al settembre, o poco prima, del 1350. Un argomento a favore della pertinenza del richiamo anche per XIII, 5 potrebbe venire dal son. XII, Se la mia vita da l’aspro tormento, altro testo concordemente assegnato al periodo avignonese (62). L’immagine dell’amante che spera di godere da vecchio le gioie negategli in gioventù — per la quale generalmente si rinvia a Dante, Io sento sì d’Amor 46-8: «e se merzé giovanezza mi toglie, / io spero tempo che più ragion prenda, / pur che la vita tanto si difenda» —, potrebbe risentire infatti di una analoga immaginazione a cui Arnaut si abbandona proprio nella canz. XIV (vv. 37-9) (63):
e sieu mi pec cinc anz o seis,
ben leu, can sera blancs mos sucs,
jauzirai zo per qu’er sui sers.
Anche in questo caso il riscontro è tutt’altro che cogente. Tuttavia, tra le varie tecniche che Petrarca impiega nell’ordinare i microtesti nella raccolta (ad esempio, la similarità di sintagmi o di figure retoriche, come quella che si riscontra fra il trycolon «gli anni, e i giorni et l’ore» di XII, 11 e «il loco e ’l tempo et l’ora» di XIII, 5) (64) è frequente, al punto da poter essere considerata una costante, la collocazione in serie contigue di componimenti che rinviino, per qualche aspetto, ad un medesimo extratesto. È inoltre documentabile, su quei pochi testi che lo consentono, il persistere in singoli microtesti nati congiuntamente del ricordo, anche in tracce mnemoniche esilissime, di una eventuale fonte comune (quando ciò si verifica, i microtesti vengono collocati in serie contigua in fase di ordinamento) (65).
Questo fenomeno potrebbe allora avvalorare la concordanza in Arnaut dei sonetti XII e XIII, suggerendo in tal modo una loro genesi ravvicinata nel tempo, genesi che, stando così le cose, sarebbe posteriore al 1350 (66). La somma di tutti questi argomenti non può essere considerata decisiva per una diversa datazione di XIII e XXIX; credo, tuttavia, che essa consigli una qualche cautela nel fare propria la datazione avignonese. Cautela tanto maggiore, trattandosi di testi collocati nella zona iniziale del Canzoniere, in una sezione testuale, cioè, dove si può presumere a priori che le esigenze strutturali abbiano quasi di necessità comportato l’inserimento di componimenti cronologicamente eterogenei o comunque distanti da quel tempo giovanile richiesto dalla fictio narrativa (67).
3. Il pilastro cronologico che sostiene gran parte della ricostruzione di Perugi è costituito dalla datazione di Lasso me, fissata, come già ho ricordato, fra il 1337 e il 1340. Considerando che una delle più importanti acquisizioni degli studi petrarcheschi del secondo dopoguerra è la consapevolezza di quanto possano essere ingannevoli, dal punto di vista storico, i quadri autobiografici delineati da Petrarca nei suoi scritti, colpisce la totale fiducia accordata da Perugi alle sequenza — costruita da Appel unicamente sui testi —: crisi del rapporto amoroso e successiva rigenerazione, con approdo ad una visione spirituale dell’amore, in coincidenza del primo viaggio a Roma (68). Ritengo anch’io (69) che esattamente a metà della forma Correggio (o Pre Chigi) del Canzoniere, e precisamente con il gruppo di canzoni LXX-LXXIII, Petrarca segnali una svolta, e che questa svolta porti proprio nella direzione indicata da Appel e, ancora, che Petrarca abbia cura di metterla in relazione con Roma, sfruttando a questo scopo alcuni testi, come i sonetti LXVII e LXIX, scritti in occasione di quel viaggio, o comunque ad esso riferiti; ma detto questo, è indispensabile precisare che si tratta di una svolta interna alla fictio narrativa, da riportare quindi al momento di costruzione della raccolta, e pertanto databile 1356-58. Del resto, se andiamo ad esaminare con un po’ di attenzione i testi sui quali sono basate le ricostruzioni biografiche come quella di Appel, vediamo che non mancano argomenti per mettere in forse una troppo pacifica accettazione di quanto Petrarca vorrebbe farci credere.
Fra quelli citati da Appel già si è visto quanta cautela richiedano testi a prima vista insospettabili come il son. XIII e la canz. XXIX. Prendiamo ora in considerazione il madrigale LIV, Perch’al viso d’Amor portava insegna. È convinzione diffusa che il madrigale testimoni un momento di crisi del rapporto con Laura e che l’ultimo verso «et tornai indietro quasi a mezzo ’l giorno» — dove il giorno sarebbe una scontata metafora del corso della vita — rimandi ad un periodo compreso fra il ’36 e i primi del ’39: la citazione di Appel sarebbe dunque del tutto pertinente. Si consideri però che gli esegeti concordano anche nel ritenere che il madrigale sia strettamente legato al testo che nella raccolta lo segue, la ballata Quel foco ch’i’ pensai che fosse spento: questa rappresenterebbe una sorta di secondo tempo della vicenda liberazione e ricaduta nel vincolo amoroso, di cui il madrigale rappresenterebbe invece il primo. Ma questo è un effetto indotto dal romanzo, nulla in realtà ci garantisce che la «pellegrina» del madrigale sia proprio Laura. Il madrigale, si sa, è un genere ‘leggero’, fortemente connotato in senso erotico (70), e per di più quasi sempre accompagnato dalla musica. È francamente difficile credere che Petrarca avrebbe affidato il racconto di una esperienza spirituale e sentimentale tanto rilevante ad un testo che l’uso corrente connotava in quel senso. Mi pare più corretto ritenere che il madrigale si riferisca ad un episodio galante, estraneo alla vicenda laurana, e che solo il posteriore appaiamento con la ballata LV abbia dato luogo ad una sequenza narrativa ambigua (coscientemente costruita da Petrarca) nella quale Laura e la «pellegrina» potevano anche coincidere. Vedremo fra breve una analoga vicenda in relazione ad un altro madrigale. Dunque, una «pellegrina» in senso proprio (e per questa via potrebbe persino tornare buona, sebbene con altro significato, la datazione romana (71)), o più genericamente una straniera. Quest’ultima eventualità, che a me sembra la più probabile, lascia aperta la strada alle più disparate ipotesi cronologiche: da una datazione molto ‘alta’, addirittura pre-avignonese (72), ad una che potrebbe essere anche posteriore alla morte di Laura. Agostino Nifo, stando alla testimonianza riportata nel suo commento da Silvano da Venafro (73), riferisce di aver letto in una copia autografa del madrigale la soprascritta «A Madonna Camilla Cane di Verona». La testimonianza, per di più indiretta, non è certo di quelle che ispirano fiducia; resta il fatto però che questa presunta dedica, da cui verrebbe confermata l’originaria destinazione galante del testo, ci porta ad una città, Verona, evocata dagli studiosi moderni in relazione ad un madrigale vicino a questo, il LII, Non al suo amante più Dïana piacque. Petrobelli ritiene che Non al suo amante, musicato da Jacopo da Bologna, sia «frutto di un’occasione ‘cortese’» (esattamente come il LIV secondo il Nifo) e che la sua composizione cada in un periodo compreso tra il marzo del 1348 e il settembre del 1352, quando Jacopo soggiorna a Verona e particolarmente stretti sono i rapporti di Petrarca con la corte scaligera (74). Anche in questo caso, tuttavia, non usciamo da un discorso puramente indiziario. Si aggiunga poi che una datazione ‘bassa’ di LII non comporta di per sé una analoga datazione di LIV. Si presti però attenzione a due circostanze: in primo luogo, che i rapporti documentati di Petrarca con esponenti della polifonia profana — documentazione affidata ai testi extravaganti per Confortino e ai sonetti del Canzoniere inviati a Tommasio Bambasio — ci portano in area padana, a cominciare dal 1350 (75); e poi che gli altri due madrigali petrarcheschi (CVI, CXXI) potrebbero rompere anch’essi verso il basso i limiti cronologici a loro assegnati su basi congetturali (precisamente, gli anni 1337-41 per CVI e 1343-45 per CXXI) (76). E infine è opportuno notare che il v. 10 del madrigale LIV «et tornai indietro quasi a mezzo ’l giorno» non è di per sé un ostacolo ad una datazione ‘bassa’: se infatti lo si intende come metafora della vita, bisogna contemporaneamente rilevare che il testo è impostato su un’ottica retrospettiva; diversamente, il verso può essere interpretato come una allusione all’ora della più calda sensualità, come in XXIII, 150-1 «in una fonte ignuda / si stava, quando ’l sol più forte ardea» e nel finale del gemello LII «tal che mi fece, or quand’egli arde ’l cielo, / tutto tremar d’un amoroso gielo» (in CXC, 12-4 il mezzogiorno è l’ora del risveglio dall’estasi amorosa: «Et era ’l sol già volto al mezzo giorno /.../ quand’io caddi ne l’acqua, et ella sparve»).
Altro testo implicato nella ricostruzione di Appel è il son. LXII, Padre del ciel, dopo i perduti giorni. A prima vista, il sonetto non sembrerebbe sollevare problema alcuno: è evidente, infatti, che i vv. 9-10 «Or volge, signor mio, l’undecimo anno / ch’i fui sommesso al dispietato giogo» si riferiscono all’anniversario del 1338 (o del 1337 (77)). Essendo però, non solo un testo di anniversario, ma un testo che fa esplicito riferimento al giorno della morte di Cristo («ramenta lor come oggi fusti in croce»), il sonetto è coinvolto nella complessa questione della data dell’innamoramento. Molto brevemente: sia accettando la tesi di Calcaterra che il giorno fatale fosse effettivamente il 6 aprile del 1327 e che quel giorno (che, come è noto, era il lunedì e non il venerdì della settimana santa) corrispondesse a quello in cui una tradizione per la verità non troppo consistente fissava, indipendentemente dal calendario liturgico, il giorno della morte di Cristo (78); sia invece accettando la proposta di Martinelli, secondo il quale l’incontro con Laura sarebbe effettivamente avvenuto il venerdì della settimana santa del 1327, cioè il 10 aprile, mentre solo dopo la morte di Laura, per instaurare una precisa coincidenza anche di data fra i due eventi, Petrarca avrebbe spostato alla «feria sexta aprilis» la cronologia di quel primo incontro (79); accettando, dicevo, o l’una o l’altra ipotesi, non c’è ragione per contestare la cronologia di composizione del sonetto. Ma è possibile — a me anzi pare la più probabile — anche una terza via, non priva di ripercussioni sul nostro testo, e cioè, che Petrarca abbia realmente incontrato Laura il 6 aprile, di lunedì, e che solo in un secondo tempo, dopo la morte della donna, abbai o fatta propria la tradizione della data fissa della crocifissione, o fatto coincidere quel lunedì di passione con il venerdì della settimana santa (80). In questa prospettiva appare plausibile l’ipotesi di Pastore Stocchi che il son. LXII sia stato scritto nel ’38, ma riscritto o rielaborato profondamente dopo il 1349 (81). Ipotesi avvalorata anche dal riscontro fra il v. 13 «reduci i pensier’ vaghi a miglior porto» e il finale dell’epistola che descrive l’ascensione al Ventoso — epistola che, come è noto (82), si suppone scritta il giorno stesso dell’escursione (26 aprile 1336), ma che in realtà risale al 1353 —: «ora, queso, ut tandiu vagi et instabiles [cogitatus = pensier’ vaghi] aliquando subsistant, et [...] ad unum, bonum, verum, certum, stabile se convertant» (83) (Fam. IV 1, 36). Si osservi inoltre che il 26 aprile del 1336, giorno della salita al monte, è un venerdì santo. Noto qui che anche uno dei testi centrali della pretesa crisi romana, il son. LXVIII, L’aspetto sacro de la terra vostra, che si ritiene indirizzato ad Orso dell’Anguillara nel 1337 (84), potrebbe avere avuto una vicenda redazionale simile a quella del LXII: lo lascia sospettare, per l’appunto, la concordanza rilevabile tra l’ultima terzina:
Poi torna il primo [pensiero], et questo dà la volta:
qual vincerà, non so; ma ’nfino ad ora
combattuto ànno, et non pur una volta ( 85)
e un passo della Familiare del Ventoso:
Nondum michi tertius annus effluxit, ex quo voluntas illa perversa et nequam, que me totum habebat et in aula cordis mei sola sine contradictore regnabat, cepit aliam habere rebellem et reluctantem sibi, inter quas iandudum in campis cogitationum mearum de utriusque hominis imperio laboriorissima et anceps etiam nunc pugna conseritur (Fam. IV 1, 22) (86).
Uno dei pilastri delle argomentazioni di Appel è costituito dalle tre canzoni ‘degli occhi’ (LXXI-LXXIII). Una volta tanto, a mettere in discussione la convinzione antica, e tenacemente radicata negli studi petrarcheschi (87), che le tre canzoni risalgano al primo soggiorno valchiusano non sono vaghi e opinabili elementi indiziari, ma precisi dati documentari. Sulla c. 6r. del Vat. lat. 3196 sono infatti vergati sei versi, preceduti dalla postilla f(inis) 2. stanze. 3. cantionis, che, profondamente rielaborati, diventeranno i vv. 25-30 della canz. LXXIII (88). Siccome possiamo stabilire con ragionevole certezza che quell’abbozzo di sirma tràdito dall’autografo è posteriore al febbraio del 1353 (89), ecco provato che in quel periodo la terza canzone degli occhi o era ancora in fase di composizione, o stava subendo una incisiva revisione. Il particolare carattere di questo ciclo, di cui numerosi elementi sottolineano l’unitarietà, rende più che plausibile l’ipotesi che la revisione abbia interessato tutti e tre i testi, e che il rimaneggiamento sia avvenuto in vista della collocazione del trittico in una posizione strategica della nuova forma di Canzoniere progettata proprio in quegli anni, la forma che prenderà il nome di Correggio o Pre-Chigi. I motivi di dubbio intorno alla cronologia di molti dei testi nei quali si manifesterebbero la crisi esistenziale precedente o concomitante al viaggio romano e la successiva «Spiritualisierung der Liebe» cominciano ad essere tanti: non intendo in questa sede addentrarmi oltre nel discorso, perché questo richiederebbe un esame attento della struttura complessiva dei Fragmenta e, soprattutto, dei profondi mutamenti progettuali che essi manifestano nella diacronia. Mi limito per ora a sottolineare la univocità delle indicazioni cronologiche desunte dai testi sin qui esaminati e come tutte le frecce puntino verso un periodo posteriore alla morte di Laura.
È all’interno di questo quadro, assai diverso nei riferimento temporali da quello tracciato da Appel e accettato da Perugi, che, a mio parere, va inserita la composizione di Lasso me (LXX). In un lavoro di alcuni anni fa (90), ho sostenuto la tesi che la data di composizione di questa canzone vada abbassata sino ai primi anni cinquanta, adducendo due ordini di argomenti. Da un lato, i rapporti che la canzone intrattiene con il gruppo delle cantilene oculorum, dall’altro — e questo è l’elemento decisivo —, il fatto che difficilmente Petrarca avrebbe citato in compagnia di testi fra i più autorevoli della tradizione lirica romanza la sua canzone Nel dolce tempo (XXIII) se questa non avesse ancora raggiunto il grado definitivo di elaborazione. Ora, le postille vaticane ci documentano che Nel dolce tempo, benché di ideazione e composizione giovanile, è ancora in fase di revisione nel 1350 e nel 1351 e che anche la trascrizione ‘in ordine’, avvenuta solo nel novembre del 1356, è preceduta da interventi sul testo. Insomma, anche per Lasso me sembra valere l’ipotesi proposta per le tre canzoni degli occhi, e cioè, che essa sia stata concepita in funzione della nascente raccolta. Ipotesi che potrebbe trovare conferma nel carattere esplicitamente programmatico della canzone, una specie di contro-manifesto rispetto a quello affidato in anni lontani a Nel dolce tempo, qui citata appunto per essere confutata.
4. Naturalmente, l’avere abbassato la data di composizione della canz. LXX non comporta affatto che debba essere spostato in misura uguale anche il periodo in cui Petrarca venne a conoscenza di Razo e dreyt. Allo stato attuale, in realtà, niente ci consente di fissare con qualche sicurezza le coordinate di questo evento. Rimanendo allora nell’ambito delle pure ipotesi, si possono delinerare almeno due scenari più convincenti di altri.
Considerando il carattere palinodico di Lasso me, collocata al centro della prima parte della Correggio a chiudere con un giudizio negativo un’intera epoca dell’attività poetica petrarchesca, e tenendo conto che la citazione di Nel dolce tempo non lascia dubbi sul fatto che la stagione ripudiata è quella giovanile, in sostanza, quella degli anni Trenta, potremmo supporre, con motivazioni diverse da quelle addotte da Perugi, che a quegli anni, risalga anche la conoscenza della canzone pseudo-arnaldiana. Citando a memoria, a distanza di molti anni, Petrarca avrebbe potuto invertire la coppia iniziale (Drez et rayson) e questa svista potrebbe giustificare l’incipit di K, che dipenderebbe in tal modo da quello petrarchesco (91). Che la notorietà di questa canzone possa essere stata assicurata proprio dalla citazione in Lasso me non desterebbe sorpresa: in scala ridotta, si ripeterebbe quando è successo con la ciniana La dolce vista, divenuta la canzone più famosa del pistoiese grazie alla menzione che ne fa Petrarca (92).
Ma, dicevo, è ipotizzabile anche un secondo scenario, e cioè che la canzone dello pseudo-Arnaut sia capitata fra le mani di Petrarca in un periodo più recente di quello indicato da Perugi, in quegli anni, fra le fine del ’47 e il primo quinquennio dei Cinquanta, nei quali Petrarca si muove nell’area padana, venendo sicuramente a conoscenza, come almeno la postilla ad Aspro core ci attesta, di altri testi danielini. In questa seconda eventualità, la conoscenza della canzone potrebbe essere stata veicolata da una tradizione italiana, la stessa che è alle spalle di K (dove, sintomaticamente, al v. 25, il coms duzest di C diviene un marques dest), o, come accennerò più avanti, da K stesso. E questa sarebbe l’ipotesi più economica per spiegare la coincidenza di incipit fra K e Petrarca. Ripeto, comunque, che ogni ipotesi è legittima e che nessuna, per ora, ha più peso delle altre.
5. E la canzone a citazioni di Jofre de Foixà? Anche per essa, è ovvio, vale lo stesso discorso. Non intendo entrare nel merito dell’ipotesi di Perugi che la conoscenza delle due canzoni sia stata contemporanea o quasi, e soprattutto, sia avvenuta sulle pagine dello stesso libro, perché ci si muoverebbe su un terreno aperto in ogni direzione. Un elemento della ricostruzione di Perugi sollecita però qualche riflessione. Egli ritiene che su Petrarca abbia fatto una particolare impressione la forte coloritura danielina, manifesta sin nel primo verso, con aura in rima, della canzone di Jofre; anzi, proprio questa parola-rima avrebbe esercitato uno stimolo decisivo. A Valchiusa, si legge a p. 266 (o più precisamente, come è scritto a p. 238, «al momento di prender possesso del suo angolo in Valchiusa», e cioè nel 1337), Petrarca sfoglia un codice che gli era capitato fra le mani da poco: «Ci trova una canzone attribuita ad Arnaut Daniel accanto ad un’altra, nella stessa pagina o nella pagina successiva, dove legge in rima al primo verso la parola magica: aura. È probabile che a quest’epoca Arnaut sia per Petrarca già un mito; la canzone gli offre lo stimolo decisivo per conoscere più a fondo il suo modello...».
Che nel ’37 Arnaut fosse già un mito, è effettivamente probabile; anche se, come cercherò di dimostrare nelle pagine che seguono, doveva essere un mito fondato su una frequentazione abbastanza ristretta dei suoi testi. Del fatto che a quella data aura rappresentasse per Petrarca una «parola magica» mi permetto, invece, di dubitare. Nessun dubbio che lo fosse negli anni in cui, a mio parere, è composta Lasso me, vale a dire nei primi anni Cinquanta; la circostanza mi sembra assai meno sicura per gli anni nei quali la ritiene composta Perugi.
Il discorso richiederebbe una analisi minuziosa delle configurazioni diacroniche di quel fitto reticolo, di cui Segre ha recentemente tracciato le diramazioni (93), nel quale il nome di Laura si espande nel Canzoniere. Vi accennerò molto schematicamente. Le tre vie principali lungo le quali il nome dell’amata si diffonde nel macrotesto fanno capo alle equivalenze: Laura-lauro (alloro), Laura-auro, e infine, Laura-l’aura (brezza). Le prime due vie, con tutte le serie isotopiche connesse, ampiamente analizzate da Segre, inziano praticamente con l’inizio del libro e, soprattutto la prima, lo percorrono fittamente per intero. Quella che a noi più interessa, cioè l’equivalenza Laura-l’aura con i suoi derivati, stenta invece a presentarsi e ad assumere rilievo: nella zona compresa fra il sonetto proemiale e il gruppo di canzoni LXX-LXXIII, zona nella quale rientra sicuramente la maggior parte dei testi scritti durante gli anni avignonesi, il fenomeno si presenta una sola volta, e per di più in un testo, il madr. LII («ch’a l’aura il vago et biondo capel chiuda» v. 6), di cui abbiamo già rilevato la possibile eecentricità dal punto di vista cronologico. Per trovare la seconda occorrenza dobbiamo scendere sino al son. LXXIX («più non mi pò scampar l’aura né ’l rezzo» v. 3), che i primi due versi: «S’al principio risponde il fine e ’l mezzo / del quartodecimo anno ch’io sospiro» indicherebbero composto nel 1340. Altro dato di rilievo è che in testi databili (ma si tenga sempre conto che sono datazioni indiziarie) al primo soggiorno valchiusano, fra il ’37 e il ’41, le occorrenze, oltre a quella vista sopra, sono solo due (LXXX, 7; CIX, 9) (94). L’esiguità di questo dato emerge in tutta evidenza osservando che nei testi ‘in vita’ databili dopo il ’42 (e, sottolineo, solo in quelli databili) le occorrenze sono sedici: CXXVII, 83; CXXIX, 69; CXXXIII, 14; CXLII, 5; CXCIV, 1; CXCVI, 1; CXCVII, 1; CXCVIII, 1; CCXII, 2; CCXXVII, 1; CCXXXIX, 1, 16, 27, 36, 37; CCXLVI, 1. Non si può non concludere che di tutte le espansioni del nome amato, quella che fa perno su «aura», negli anni che siamo soliti chiamare giovanili, cioè prima del trasferimento a Valchiusa, e in quelli stessi del primo soggiorno valchiusano, è la meno attiva. È sintomatico che in un testo che si fa risalire ad uno dei viaggi compiuti per l’Europa negli anni Trenta, il son. XV, il motivo del vento che spira dal luogo dell’amata — motivo che è alla radice di quella configurazione della nostra isotopia che Contini ha battezzato «aura-situation» (95) — si dispieghi ampiamente senza alcuna apparizione della magica parola:
Io mi rivolgo indietro a ciascun passo
col corpo stancho ch’a gran pena porto,
et prendo allor del vostr’aere conforto
che ’l fa gir oltra dicendo: oimè lasso!
(1-4).
Sarebbe interessante seguire le epifanie dell’aura lungo la diacronia del Canzoniere, sino agli ultimi anni Sessanta, quando non solo si infittiscono, ma nella famosa serie CXCIV, CXCVI-CXCVIII, in parte rielaborata e in parte composta ex novo in quel periodo (96), toccano il loro vertice, ma non è questa la sede. Solo un punto mi preme di sottolineare: il quadro sopra tracciato dà netta la sensazione che agli inizi degli anni Quaranta sia intervenuto qualcosa a potenziare il gioco di significanti Laura-l’aura, certo già presente a Petrarca, ma sino ad allora mantenuto in secondo piano rispetto all’altro gioco, quello, prevalentemente semantico, fra Laura e lauro.
È noto che Contini distingue fra un’«aura-mot (o image)», dove l’aura è essenzialmente vocabolo allusivo del nome dell’amata, e nel cui ambito rientra la grande maggioranza delle occorrenze, e l’«aura-situation», che al valore fonico associa la funzione tematica, e che, a suo parere, si realizza nella serie CXCIV, CXCVI-CXCVIII e nella sest. CCXXXIX. La distinzione è ripresa dalla Spaggiari, che aggrega al complesso tematico dell’aura-situation anche CCXLVI, 1-4, CCLXXXVI, 1-4, CCCXX, 1-4, CCCXXVII, 1-4, CCCLVI, 1-4. Contini distingue poi due diverse tradizioni a cui farebbero capo le due configurazioni dell’aura, mostrandosi propenso a ritenere che il motivo dell’aura-mot possa essere stato desunto, o per lo meno favorito, dalla produzione del Boccaccio giovanile: tesi questa ripresa e rincalzata dalla Spaggiari, che anzi sembrerebbe fare derivare da Boccaccio non solo il motivo dell’aura (caratterizzato dalla presenza del senhal), ma anche il motivo strettamente connesso del vento che soffia dal luogo ove abita l’amata (97). L’ipotesi di Contini è verosimile anche da un punto di vista cronologico: tutti i testi da lui citati, ed anche quelli aggiunti dalla Spaggiari, si collocano, con la sola eccezione di CXCVI (98), ben dopo il 1350, anno dal quale si vuole che inizi la conoscenza delle opere di Boccaccio da parte di Petrarca (99). Ebbene, mi chiedo se quell’evento che sui primi anni Quaranta potrebbe avere favorito la diffusione del motivo dell’aura non sia stato proprio la lettura degli scritti di Boccaccio.
Ecco, in breve, alcune pezze d’appoggio:
1) la distinzione continiana fra mot e situation a me sembra meno netta di come è presentata (100); questo significa che l’influsso di Boccaccio potrebbe avere agito sull’intera configurazione dell’aura e non solo sul motivo tematico proprio dei testi più tardi;
2) se influsso di Boccaccio c’è stato, esso deve avere agito proprio in virtù del nome magico associato al motivo occitanico del vento: questo motivo, infatti, come il son. XV sta a dimostrare, era già noto a Petrarca sino dai primi anni Trenta (a meno di non ipotizzare, il che sembra improbabile, una datazione molto ‘bassa’ anche per XV);
3) il motivo dell’aura, come si è visto, è attestato solamente nelle opere napoletane di Boccaccio;
4) infine, come ho in precedenza accennato a proposito del son. XII, l’idea vulgata secondo la quale Petrarca diventerebbe lettore di Boccaccio solo dopo averlo conosciuto di persona, è una vera e propria petizione di principio. Tanto meno sostenibile, poi, se si ammette che già negli anni napoletani Boccaccio era venuto a conoscenza di scritti volgari di Petrarca (101).
È possibile, mi chiedo, che la mediazione di Sennuccio del Bene sia stata solo e sempre a senso unico e che gli amici napoletani di Boccaccio non abbiano parlato di lui e suscitato l’interesse di Petrarca intorno a questo suo concittadino? Insomma, un terminus post quem ragionevole per fissare la conoscenza petrarchesca del giovane Boccaccio mi sembra essere proprio il 1341, l’anno dell’esame presso re Roberto. Fin da quando Wilkins ha segnalato gli innegabili contatti fra il son. CXII del Canzoniere, rivolto a Sennuccio del Bene, e Filostrato V 54-5 (in particolare fra il v. 5 del sonetto «Qui tutta humile, et qui la vidi altera» e il distico finale dell’ott. 55 «colà la vidi altera, e là umile / mi si mostrò la mia donna gentile») (102), gli studiosi di Boccaccio, Wilkins compreso, concordano nel ritenere che il debito sia di Boccaccio nei confronti di Petrarca, e che il mediatore sia stato il destinatario stesso del sonetto, Sennuccio. Al punto che questa ‘imitazione’ boccacciana può essere assunta come elemento per fissare la cronologia del Filostrato (103). Perché la direzione dell’influsso sia quella fin qui data per certa, è tuttavia necessario ammettere che la composizione del sonetto petrarchesco sia anteriore almeno al 1340: questa circostanza non è però documentata in alcun modo e neppure sorretta da indizi di sorta. Anzi, i pochi elementi che consentono di formulare ipotesi di ordine cronologico, in particolare lo strettissimo legame con il son. CXIII, anch’esso indirizzato a Sennuccio (104), sembrerebbero semmai portarci al tempo del secondo soggiorno in Valchiusa, verso la primavera del 1342 (105). Una allusione al Boccaccio, che recupera anche il passo ovidiano (Fast. II, 771-4) soggiacente, ben si spiegherebbe allora in un componimento indirizzato all’amico a cui Petrarca doveva la conoscenza di quel giovanissimo autore. Si osservi inoltre che in CXII (v. 4) come in CXIII (v. 10) compare l’aura, quell’«aura o soave vento» che si legge nel Proemio del poema di Boccaccio (106). Acquista dunque credibilità l’ipotesi che la direzione dell’influsso vada invertita (107), e con ciò anche l’ipotesi che per l’appunto ai primi anni Quaranta risalga la lettura petrarchesca del Boccaccio napoletano.
Chiudo questa divagazione sull’aura ritornando al madr. LII Indipendentemente dalla sua collocazione cronologica, il madrigale potrebbe confermare la mia tesi che l’equivalenza Laura-l’aura sia sostanzialmente negletta dal Petrarca avignonese. Mi baso sul fatto che il v. 6 «ch’a l’aura il vago et biondo capel chiuda» in tutti i codici musicali presenta la variante: «ch’al sole e all’aura il vago capel chiuda», «variante che — a detta del Corsi (108) — è difficile attribuire ai copisti e che non è richiesta nella sua diversa forma dalla strattura musicale». Se questa dunque è una variante d’autore, potrebbe risalire al momento extravagante del testo e quindi confermare per altra via l’originaria estraneità del madrigale al ciclo laurano. I leggeri aggiustamenti apportati da Petrarca, forse quando decise di inserirlo nella redazione Correggio, e in particolare il «biondo capel», dando alla «pastorella» l’identità di Laura, verrebbero allora ad’introdurre in quella che, nella prima formulazione, sembrava una innocua coppia di sostantivi («al sole e all’aura») il doppio senso sul nome dell’amata, anticipando il gioco sull’aura che la raccolta comincerà a registrare solo più avanti.
6. Il secondo grande tema sul quale il libro di Perugi sollecita la riflessione è quello della presenza complessiva della poesia danielina nei Fragmenta e del diagramma cronologico lungo il quale quelle presenze si dispongono. Preliminare al discorso sui tempi è l’accertamento della consistenza e della distribuzione topografica dei lasciti danielini. In questo il lavoro di Perugi è utilissimo perché raccoglie, oltre a numerosi riscontri inediti, i materiali disseminati nella bibliografia precedente. Riunisco in una tavola il consistente gruppo di riscontri ricavabile dalle sue pagine (109):
1)
|
spero trovar pietà, non che perdono
|
I, 8
|
|
Merce dei trobar e perdo
|
VI, 8
|
2)
|
e ’l conoscer chiaramente
|
I, 13
|
|
Ar conosco ieu e sap mi bo
|
VI, 22
|
3)
|
I’ benedico il loco e ’l tempo et l’ora
|
XIII, 5
|
|
ora la vita breve e ’l loco e ’l tempo
|
CXLII, 34
|
|
Quando mi vène inanzi il tempo e ’l loco
|
CLXXV,1
|
|
Amors e jois e liocs e temps
|
XIV, 1
|
4)
|
lo mio fermo desir vien da le stelle
|
XXII, 24
|
|
del mio fermo voler già non mi svoglia
|
LIX, 3
|
|
Chi è fermato di menar sua vita
|
LXXX, 1
|
|
Et son fermo d’amare il tempo et l’ora
|
LXXXV, 5
|
|
né sì freddo voler, che non si scalde ( 110)
|
CCLXV, 14
|
|
Lo ferm voler qu’el cor m’intra
|
XVIII, 1
|
5)
|
..............in seca selva
|
XXII, 37
|
|
..............la secha verja
|
XVIII, 25
|
6)
|
ché tèn di me quel d’entro, et io la scorza
|
XXIII, 20
|
|
mos corts en lei com l’êcors’en la verja
|
XVIII, 32
|
7)
|
Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi
|
XXIX, 1
|
|
Er vei vermeilz vers blaus blans gruocs
|
XIII, 1
|
8)
|
ch’i’ fuggo lor come fanciul la verga
|
XXXIX, 3
|
|
plus que o fai l’enfas denan la verja
|
XVIII, 11
|
9)
|
et gran tempo è ch’i’ presi il primier salto
|
XXXIX, 4
|
|
.... par qu’eia pres un tom
|
XVII, 21
|
10)
|
... dove ’l voler non s’erga
|
XXXIX, 6
|
|
ond’io voglie et pensier’ tutti al ciel ergo
|
CCCXLVI, 3
|
|
creis ades e meillur e·m derc
|
XIV, 34
|
|
... cela cui m’aerc
|
XIV, 42
|
11)
|
...gli occhi miei son molli?
|
L, 62
|
|
con gli occhi di dolor bagnati et molli
|
LIII, 105
|
|
dagli occhi a’ pie’, se del lor esser molli
|
LXVII, 13
|
|
men gli occhi ad ognor molli
|
CXXV, 10
|
|
....gli occhi miei far molli
|
CXXVII, 47
|
|
dont sovent l’oil mi mueilla
|
II, 42
|
12)
|
ché, come suol pigro animai per verga
|
LXIII, 9
|
|
ove ’l gran lauro fu picciola verga
|
CLXXXVIII, 1
|
|
meilz son vol que hom forz defrevol verja ( 111)
|
XVIII, 24
|
13)
|
onde, come nel cor m’induro e ’naspro
|
LXX, 29
|
|
c’aissi s’empren e s’enongla
|
XVIII, 31
|
14)
|
O poggi, o valli, o fiumi, o selve o campi
|
LXXI, 37
|
|
que eu no vau cap vaus ni plas ni pueis
|
XV, 12
|
15)
|
lasso, cosi da prima gli avezzai!
|
XCVII, 8
|
|
ai, si no l’ai, las, tan mal m’aqeumors!
|
XV, 32
|
16)
|
Mai non vo’ più cantar com’io soleva
|
CV, 1
|
|
D’autra guiza e d’autra razo
|
VI, 1-2
|
|
m’aven, a chantar que no sol
|
|
17)
|
il nostro esser insieme è raro et corto
|
CXXXIX, 14
|
|
fe’ mia requie a’ suoi giorni et breve et rara
|
CCCXLIV, 7
|
|
Nuilh jausimenz no·m fora breus no corz
|
XV, 22
|
18)
|
non edra, abete, pin, faggio o genebro
|
CXLVIII, 5
|
|
mas per s’amor sia lasu o genebres
|
XVI, 13
|
19)
|
...che ’n rime orno et celebro
|
CXLVIII, 8
|
|
che per te consecrato honoro et còlo
|
CCCXXI, 11
|
|
.... honors e selebres
|
XVI, 21
|
|
.... am e coli
|
X, 9
|
20)
|
di state un ghiaccio, un foco quando iverna
|
CL, 6
|
|
mi te chaut on plus iverna
|
X, 14
|
21)
|
Talor tace la lingua, e ’l cor si lagna
|
CL, 9-11
|
|
ad alta voce, e ’n vista asciutta et lieta,
|
|
|
piange dove mirando altri nol vede
|
|
|
estar mi fai temen Paors
|
VII, 13-6
|
|
la lenga, mas lo cor no vol
|
|
|
son, don dolen se sojorna,
|
|
|
qu’eu languis mas no s’en clama
|
|
22)
|
rompendo il duol che ’n lei s’accoglie et stagna
|
CL, 13
|
|
... estanc d’amor ...
|
XV, 28
|
23)
|
par ch’Amore et dolcezza et gratia piova
|
CLIV, 8
|
|
da’ begli occhi un piacer sì caldo piove
|
CLXV, 7
|
|
... se l’etterno Giove
|
CLXVI, 13-14
|
|
de la sua gratia sopra me non piove
|
|
|
vedi ben quanta in lei dolcezza piove
|
CXCII, 3
|
|
l’amor qu’inz el cor mi pluou
|
X, 13
|
24)
|
tanto gli ò a dir, che ’ncominciar non oso
|
CLXIX, 14
|
|
pois quan la vei non sai, tant l’ai, que dire
|
XV, 7
|
25)
|
.........contento
|
CCXII, 1-8
|
|
d’abbracciar l’ombre et seguir l’aura estiva,
|
|
|
nuoto per mar che non à fondo o riva
|
|
|
......................................................................
|
|
|
et una cerva errante et fugitiva
|
|
|
caccio con un bue zoppo e ’nfermo et lento
|
|
|
et col bue zoppo andrem cacciando l’aura.
|
CCXXXIX, 36-7
|
|
In rete accolgo l’aura...
|
|
|
vorre’ ’il ver abbracciar, lassando l’ombre
|
CCLXIV, 72
|
|
Eu son Arnauz c’amas l’aura
|
X, 43-5
|
|
e chas la leur’a lo buo
|
|
|
e nadi contra siberna
|
|
26)
|
Il cantar novo e ’l pianger delli augelli
|
CCXIX, 1-2
|
|
in sul dì fanno retentir le valli
|
|
|
e l baus dels aucels son’e tin
|
XIII, 3
|
27)
|
I’ vo pensando, et nel penser m’assale
|
CCLXIV, 1
|
|
Si tot vaus perdos aesdail,
|
II, 37-8
|
|
mon pensamen laivos l’assail
|
|
28)
|
se l’impreso rigor gran tempo dura,
|
CCLXV, 3-4
|
|
avran di me poco honorata spoglia
|
|
|
c’aissi s’empren e s’enongla
|
XVIII, 31
|
|
e s’ab joi l’ira non foreis
|
XIV, 21-2
|
|
tost m’auran mei paren faducs
|
|
29)
|
di madonna e d’Amor onde mi doglia
|
CCLXV, 8
|
|
d’ir ‘e de plor
|
II, 43-5
|
|
e de douzor
|
|
|
pro ai que eu·m dueilla
|
|
|
[pro ai d’amor qui·m dueilla, redaz. CDEHN]
|
|
30)
|
...rimembrando
|
CCLXV, 9-11
|
|
che poco humor già per continua prova
|
|
|
consumar vidi marmi et pietre salde
|
|
|
que l reproers c’auzi antan
|
XIV, 35-6
|
|
me dis que tan trona tra pluou
|
|
31)
|
Non è sí duro cor che, lagrimando,
|
CCLXV, 12-3
|
|
pregando, amando, talor non si smova
|
|
|
c’aman, preian s’afranca cor ufecs
|
XIV, 40
|
32)
|
veggio, et odo, et intendo ...
|
CCLXXIX, 7
|
|
....vede, ode et sente
|
CCXCV, 7
|
|
qu’en sola lei veg e aug e esgar
|
XV, 9
|
33)
|
chiaro mostrando al mondo sordo et cieco ( 112)
|
CCCXXV, 89
|
|
D’autras vezer soi secs e d’auzir sors
|
XV, 8
|
A questo elenco aggiungerei solo due altre occorrenze: per CXLVI, 13-4 «il bel paese / ch’Appennin parte, e ’l mar circonda et l’Alpe», pur tenendo conto della formularità dell’espressione, si potrebbe rinviare a A. D. VII, 18 cum mars terra guaranda. In CCIII, 2-3 Chiòrboli e Contini stampano «se non sola colei / che sovr’ogni altra, et ch’i’ sola, vorrei», intendendo: «tranne colei che più di ogni altra, anzi sola, io vorrei». Gli altri editori optano invece per la facilior «colei / ch’è sovr’ogni altra e ch’i’ sola vorrei», lezione che potrebbe avere l’avallo di A. D. XII, 15 per la bella que totas autras sobra.
7. Non tutti i riscontri elencati nella tavola sono a mio parere accettabili. Per quanto riguarda 3), ho già detto delle difficoltà che impediscono di attribuire ad Arnaut la responsabilità della coppia «il loco e ’l tempo» di XIII, 5. Il riscontro di CXLII, 34 è invece sorretto da quello del v. 19 con Lo ferm voler.
Perugi ritiene che «l’intento palinodico» comune al sonetto e al modello (p. 306) avvalori i riscontri fra il testo proemiale del Canzoniere (soprattutto quello relativo al v. 8) e A. D. VI [cfr. 1) 2)]. La suggestione è innegabile, ma è anche vero che sul verso si addensano numerose altre suggestioni, da Onesto da Bologna, Vostro saggio parlar 12 «spero trovar perdon del mio peccato» all’incipit di un sonetto di Dino Frescobaldi: «No spero di trovar giammai pietate» (113).
Indubbie mi sembrano invece le numerosissime tracce lasciate dal primo verso della sestina di Arnaut 4): è sintomatico che molte siano in sestine (XXII, LXXX, CXLII), arricchite per di più da altri arnaldismi (in modo particolare la XXII), o si trovino in un testo come il son. CCLXV, costruito programmaticamente sotto l’egida di Arnaut. Per quanto concerne poi la ballata LIX, si tenga presente che mentre il primo emistichio dell’incipit danielino echeggia nel v. 3, il secondo emistichio è dislocato al v. 7 «che mi passò nel core». Ciò detto, bisogna tuttavia sottolineare anche la possibilità di apporti concomitanti dall’ambito italiano, come versi danteschi — accostabili in modo particolare a LIX, 3 e LXXX, 1 — del tipo: «E io ’n cotal voler fermato fui» (Io sento sì d’Amor 39); «per ch’io son fermo di portarla sempre» (Io son venuto 51). Il metodo di accertamento dei riscontri seguito da Perugi solleva in effetti non pochi problemi del genere di quelli appena visti. Fino a che punto è lecito richiamarsi ancora ad Arnaut, se non come ad un lontano precedente ormai assorbito dalla langue poetica, in casi di presunta rammemorazione atomistica è lessicalizzata? E ancora: come distinguere, soprattutto quando si tratti di formule quasi grammaticalizzate, fra Arnaut e il Dante comico e petroso? Di questi aspetti problematici Perugi è consapevole e più volte ne avverte. Resta però il fatto che molti risontri elencati nella tavola vanno depennati o per l’uno o per l’altro motivo, o, molte volte, per entrambi. È il caso dei riscontri ai punti 6) 9) 10) 11) 22) 23). Per 11) è Perugi stesso a ritenere che non si possa prescindere «dal filtro dantesco» (p. 313); il fenomeno al punto 23) era già stato studiato in riferimento a Dante ancora da Perugi (114); e infine, per 26), Perugi avverte (p. 309) che «(Re)tentir o (re)tendir riferito a playssatz, bois, ribera e così via è modulo saldamente attestato nella lirica trovadorica». La citazione di Così nel mio parlar al v. 30 non lascia dubbi poi su quale temperie stilistica presieda al «m’induro e ’naspro» di LXX, 29 13).
Sarei cauto anche nell’affermare che LXXI, 37 «riproduce» A. D. XV, 12 14). Versi polinomici come questo risentono indubbiamente della lezione arnaldiana (una prova ne è CXLVIII, 5: cfr. punto 18) (115), ma è una lezione assorbita ormai senza residui, al punto da generare piccoli sotto-sistemi del tutto interni all’universo petrarchesco. Ed ecco che le postille ci consentono di cogliere Petrarca nel momento stesso in cui prende coscienza di un eccesso di automatismo nella composizione di versi così strutturati: sul Vat. lat. 3196, a c. 17v., accanto al v. 90 di T.C. Ili «Fonti, fiumi, montagne, boschi, e sassi», una postilla avverte attende similem pedem. in cantilena oculorum [per l’appunto il nostro LXXI, 37] et in illa .a la dolce ombra [CXLII, 25 «Selve, sassi, campagna, fiumi et poggi»] (116).
Confesso che a me il «debito» al punto 15) non appare «flagrante» (p. 309), così come non sono convinto dei riscontri riportati ai punti 20) 27) e, nonostante la minuziosa analisi delle pp. 309-10, 21). Per quanto riguarda 29) è Perugi (p. 305) ad indicare in Par. XV 10 «l’antecedente più diretto».
Compiute tutte queste detrazioni, la tavola dei riscontri si riduce sensibilmente. Anche dando credito a rispondenze a prima vista non del tutto convincenti, i testi del Canzoniere da prendere in considerazione per un discorso sui rapporti Petrarca-Arnaut sono in tutto 26; I, XXII, XXIX, XXXIX, LIX, LXIII, LXXX, LXXXV, CV, CXXXV, CXXXIX, CXLII, CXLVIII, CLXIX, CLXXV, CCXII, CCXIX, CCXXIX, CCLXIV, CCLXV, CCLXXIX, CCXCV, CCCVII, CCCXXI, CCCXXV, CCCXLIV. Ristretto è anche il numero dei testi di Arnaut che Petrarca mostra di aver conosciuto (o quanto meno utilizzato): II, VI, X, XIII, XIV, XV, XVI, XVIII. Se tenessimo conto di tutti quelli citati nelle tavole, e avremmo aggiungere VII e XVII; il totale supererebbe di poco la metà dei testi danielini a noi pervenuti.
8. Seguendo le impronte lasciate sul testo petrarchesco da quelli di Arnaut, Perugi viene a tracciare il diagramma cronologico lungo il quale si collocano la conoscenza e l’utilizzazione da parte di Petrarca dei testi danielini. Le prime esperienze risalirebbero agli anni avignonesi: lo proverebbero, come già abbiamo visto, le riprese incipitarie di XII e XXIX (pp. 237, 306, 309), il fatto che la conoscenza di Razo e dreyt sarebbe anteriore al ’37 (p. 237) e infine, le «tracce del canzoniere danielino senza dubbio già presenti nell’abbondante produzione» avignonese (p. 236 n.). Altra prova fornirebbe T.C. IV, che Perugi, sulla scorta di Wilkins, ritiene composto nel 1342, fissando l’inizio della composizione dei Trionfi al 1338. Il fatto che il catalogo dei poeti d’amore si apra col nome di «Arnaldo Daniello» (T.C. IV 40) è infatti interpretato «come il sigillo apposto a una frequentazione che con ogni probabilità risaliva a qualche anno addietro» (p. 236). Più avanti (p. 312) si sottolinea ancora che la menzione di Arnaut in testa al catalogo ribadisce «il giudizio implicitamente fermato in Lasso me», aggiungendo però che essa inaugura «col trovatore perigordino un fitto commercio, contesto di abbandoni e riprese». In più punti, in effetti, Perugi lascia intendere che l’«incontro decisivo [prima del ’37] era stato con un’opera posticcia» [cioè Razo e dreyt] (p. 312, ma cfr. anche p. 266) e che solo in seguito Petrarca ebbe una approfondita conoscenza del vero Arnaut. Conoscenza che sembrerebbe compiuta, o per lo meno approfondita, intorno al 1347, come attesterebbero le tracce del vero Arnaut nel sonetto proemiale e nella canz. CCLXIV, testi che Perugi ritiene composti a Valchiusa nel 1347 (pp. 306, 312). Se la constatazione che nelle rime ordinate nella ‘forma’ Correggio fra il ’56 e il ’58 la presenza di Arnaut è variamente attestata (p. 307) è di per sé abbastanza scontata e quindi poco significativa, potrebbe aprire strade nuove, che però Perugi non imbocca, l’avere notato che nei testi inseriti nella raccolta a partire dal 1366 hanno una particolare incidenza «tre canzoni danieline fra tutte», la VII, X e XVI (p. 309). Riprenderò fra poco questa osservazione. Nel complesso, come si può vedere, il diagramma non è sempre tracciato in modo limpido e non è esente da qualche contraddizione interna. Discutibile è, soprattutto, la volontà di ricondurre agli ambienti provenzali gli stimoli determinanti per l’approccio petrarchesco ad Arnaut; sintomatiche in tal senso sono le parole che chiudono il cap. XI e l’intera ricostruzione (pp. 313-4):
Si ha, insomma, di nuovo la netta impressione che le fonti trovadoriche del Petrarca — almeno per ciò che riguarda il singolo canzoniere danielino — risalgono, a differenza di quanto èra accaduto per Dante, direttamente ad ambienti transalpini. E questo vale tanto per il codice di respiro provenzale e provinciale che conteneva, a contatto di gomito, Razo e dreyt e la canzone del monaco di Foixà; quanto per l’altro manoscritto, o gli altri manoscritti, dove Petrarca imparò a conoscere l’autentico messaggio poetico di Arnaut Daniel.
Alcuni argomenti meritano di essere discussi. In primo luogo, quello della datazione dei primi capitoli dei Trionfi. Non intendo prendere posizione su questa questione complessa e, allo stato attuale, direi insolubile: non si può tuttavia non rilevare quanto sia rischioso abbracciare, con l’unico conforto del Wilkins della Vita, la tesi della datazione ‘alta’ dei primi Trionfi, senza neppure menzionare le numerose e autorevoli proposte di datazione assai più ‘bassa’ (117). Osservo solo, senza attribuire all’argomento nessun particolare valore per quanto riguarda la questione cronologica, che il riconoscimento della preminenza di Arnaut sugli altri rimatori di Provenza contenuto in T.C. IV 40-3 appare meglio motivato, anche alla luce di quanto verrò esponendo fra poco, in anni fra il ’51 e il ’52 di quanto lo sia dieci anni prima.
Assai più netto è il disaccordo sulla datazione di Voi ch’ascoltate e della canz. I’ vo pensando (CCLXIV). Fidando ancora una volta sul solo Wilkins, Perugi afferma che entrambi i testi sono stati scritti nel 1347 a Valchiusa (pp. 306, 312). Eppure esiste una ricca letteratura, soprattutto sul sonetto proemiale, portatrice di ipotesi cronologiche diverse. Stupisce soprattutto che non venga ricordato il saggio di Francisco Rico, che colloca, in modo convincente, la composizione del son. I «entre invierno y verano de 1350 o en días no muy distantes» (118). Le argomentazioni di Rico sono troppo note per doverle qui riportare: mi soffermo solo su un particolare, riagganciabile al discorso specifico su Arnaut. Rico indica nel frammento di sei versi contenuto a c. 13r. del Vat. lat. 3196, il cui primo verso suona «Che le subite lagrime ch’io vidi», il precedente diretto del primo sonetto, anticipato nei vv. 4 «chi prova intende» e 6 «pur chi non piange non sa che sia amore» (119). Il frammento è accompagnato da una postilla che, oltre a datarlo 30 novembre 1349, lo asserisce fictum residuum propter ultimum versum, cioè scritto in funzione dell’ultimo verso, allo stesso modo in cui la postilla del Casanatense riconosce nell’ultimo verso della canzone di Arnaut lo stimolo che ha generato l’intero sonetto Aspro core (120) (propter unum quod leggi padue in Cantilena arnaldi danielis...) Insomma, anche queste costanti nell’ordine dell’inventio alimentano l’aria di famiglia che aleggia, verso il 1350, intorno ai nostri testi.
Non esistono studi specifici sulla datazione della canz. CCLXIV. Mentre fra gli studiosi l’accordo è pressoché totale nel ritenere che essa sia entrata nella raccolta insieme col sonetto proemiale (ed anche Perugi, p. 312, sottolinea i legami fra i due testi), una grande disparità di vedute si riscontra intorno alla data di composizione (121): unico punto fermo sembra essere la convinzione che essa sia anteriore al 19 maggio del 1348, giorno in cui Petrarca apprese della morte di Laura. Sulle ipotesi di datazioine hanno esercitato una forte ipoteca gli indubbi legami che la canzone intrattiene col Secretum, tradizionalmente datato nel biennio 1342-3, e con l’epistola Ad seipsum (Epyst. I 14), che si riteneva scritta durante la peste del ’48, ma prima del maggio. Ora, la nuova datazione del Secretum al 1347-53 (ma si ricordi che la forma a noi pervenuta sarebbe quella degli anni Cinquanta) avanzata con solidi argomenti dal Rico (122), e quella dell’epistola agli ultimi mesi del ’48 o, più probabilmente, al ’49, sostenuta da Ponte (123), non solo consentono, ma, direi, impongono di abbassare anche la data della canzone, in perfetta sintonia, quindi, con il sonetto proemiale. Si aggiunga, a conferma, un ulteriore elemento marginale: i vv. 117-8 «Or ch’i’ mi credo al tempo del partire / esser vicino, o non molto da lunge» sono una variazione dell’espressione «non potest longe abesse» — desunta da Cicerone, De senectute XIX 68 — ricorrente in varie forme negli scritti petrarcheschi, ma sempre in testi posteriori al 1349 (124).
È un dato ormai pacificamente accolto che I’ vo pensando aprisse la seconda parte del Canzoniere già nella redazione Correggio (125), e che la prima parte di quella redazione fosse chiusa della sest. CXLII, A la dolce ombra de le belle fiondi. Tali circostanze sembrerebbero trovare ulteriore conferma dalla solida connessione che il v. 4 della canzone «ad altro lagrimar ch’i’ non soleva» instaura con il congedo della sestina, dominato dalla insistita ripetizione di «altro»:
Altr’amor, altre fronti et altro lume,
altro salir al ciel per altri poggi
cerco, ché n’è ben tempo, et altri rami.
E ancora, le «pietose braccia» del v. 14, con l’allusione al Crocefisso, rimandano agli «altri rami» della sestina nei quali già il Castelvetro, ripreso da Gorni (126), vedeva le braccia della croce. Ma forse ci si può spingere più avanti e ipotizzare che i testi di cornice della Correggio siano stati scelti non a posteriori, in virtù di certe caratteristiche e anche di alcuni tratti comuni, ma addirittura composti in vista di quella loro destinazione e in tempi ravvicinati. Il discorso, dopo quanto si è detto di I e CCLXIV, coinvolge la sest. CXLII (127). Si è spesso affermato che la sestina sarebbe un testo di anniversario, affermazione che non convaliderei mediante l’argomento dell’ambientazione primaverile, perché l’unica primavera a cui il testo fa riferimento è quella fatale dell’innamoramento, e nessun cenno invece è fatto ad una primavera presente, ma, semmai, appellandomi ai vv. 34-9, interpretabili alla luce della liturgia della Passione e della simbologia della croce. Un elemento decisivo per la datazione sarebbe allora fornito dal v. 34 «ora la vita breve e ’l loco e ’l tempo» se, col Daniello e col Gorni (128), potessimo intendere il «loco» come una allusione a Roma e il «tempo» come quello della settimana santa. Ma una settimana santa romana ci farebbe risalire ad una data troppo alta nella biografia petrarchesca per poterla riferire ad un testo in cui il ruolo di Laura viene descritto con una distanziazione («Un lauro mi difese allor dal cielo», v. 13) impensabile prima dell’evento fatale che ha radicalmente mutato il ritratto e la stessa funzione della donna amata. E tuttavia, non è possibile sottovalutare il significato forte che quel «luogo» e quel «tempo» hanno nel processo di redenzione che il testo prospetta (129). Allora, in parziale modifica dell’ipotesi del Daniello, si potrebbe pensare che il «tempo» sia quello del Giubileo del 1350, quando Petrarca si rese pellegrino a Roma nell’autunno inoltrato. Le pratiche penitenziali dell’anno santo potrebbero essere sostituite a quelle della settimana santa, mantenendo inalterato l’apparato simbolico degli ultimi versi e le relazioni che la simbologia della croce intrattiene con quella del lauro. Lo stanco Petrarca che compie quel pellegrinaggio, pochi mesi prima, in una città dell’Italia settentrionale, si era imbattuto in una canzone di Arnaut Daniel, che lo aveva impressionato al punto di ispirargli la composizione di un sonetto (Aspro core): è abbastanza credibile allora che l’incipit di quella canzone, con l’andamento palinodico rispetto ad un recente passato di dissennatezza:
Amors e jois e luecs e temps
mi fan tornar lo sen en derc
possa essergli riaffiorato alla memoria nel momento in cui metteva su carta la sua personale e ben più impegnativa palinodia:
ora la vita breve e ’l loco e ’l tempo
mostranmi altro sentier di gire al cielo ( 130).
A questo punto, riepilogando quanto si è osservato in questo paragrafo e ciò che in precedenza si è detto sulla data di composizione di Lasso me, è possibile fare un primo consuntivo che è anche, e soprattutto, una ipotesi di lavoro. L’ipotesi è che la postilla di Aspro core alla quale ho più volte fatto riferimento e che ora vale la pena di riportare integralmente (secondo la lezione del Casanatense 924, c. 101r.):
1350. Sept(embris) 21 martis hora. 3. die mathei ap(osto)li p(ro)p(ter) unu(m) quod leggi padue i(n) Cantilena arnaldi daniel(i)s. Aman prian(s) fafrancha cor suffers (131).
non sia che la punta di un iceberg. In effetti, si ha netta la sensazione che tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio del decennio successivo la produzione petrarchesca registri un sensibile incremento della presenza danielina e che all’incremento quantitativo si associ anche un allargamento dello spettro dei testi conosciuti. Si ricordi che fra il ’47 e il ’51 Petrarca si muove fra Parma e Padova, toccando numerose città padane, quelle stesse nelle quali più intensa era ancora la circolazione di canzonieri trobadorici. Durante questo periodo e più tardi, quando si fissa definitivamente nell’Italia settentrionale, le occasioni di leggere poesie trobadoriche devono essere state più numerose che nelle fasi precedenti della sua vita (132). Questa ipotesi di lavoro recepisce alcuni elementi della ricostruzione di Perugi (spostando un po’ di più verso il basso il baricentro cronologico), ma rispetto alle linee essenziali del suo discorso mette in secondo piano gli anni avignonesi per valorizzare invece l’ambiente italiano della piena maturità.
9. Riprendiamo i testi petrarcheschi elencati in chiusura del § 7. Alcuni di essi non consentono di formulare nessuna ipotesi di ordine cronologico: sono CXLVI, CXLVIII, CLXIX e CCIII. Molta incertezza, si è visto, suscita anche il XXIX. Al biennio ’49-50 sembrano invece assegnabili i nn. I, CXLII, CCLXIV, CCLXV. A dopo il ’50, ricordando tuttavia che gli indizi sono assai labili, potrebbe risalire il CLXXV. Si può invece stabilire con sicurezza che sono posteriori alla morte di Laura i nn. CCLXXIX, CCXCV, CCCVII, CCCXXI, CCCXXV e CCCXLIV. Per alcuni di questi testi è possibile delimitare meglio il perimetro cronologico: così, il CCLXXIX e il CCCXXI sembrerebbero risalire al soggiorno valchiusano del ’51-’53, mentre il CCXXV sembrerebbe avere proprio nel ’53 il termine post quem (133). Fra quelli collocati nella prima parte, e quindi riferiti a Laura viva, almeno altri tre testi, oltre ai già visti I, CXLII e CLXXV, potrebbero essere stati scritti o rivisti profondamente dopo il 1348: sono il CCXII, il CCXIX e il CCXXIX. Tutti e tre, fra l’altro, si riprendono a distanza attraverso connettori di vario tipo. L’incipit della sest. CCXXXIX «Là ver’ l’aurora, che sì dolce l’aura» ripropone l’identico gioco sull’aura e sulla variazione «Là ver’» (scritto LAUER) / «là ’ve» (scritto LAUE) che, attraverso una struttura ‘a quadrato’, unifica i vertici dell’ottava di uno dei più noti sonetti dell’aura, il CXCVII: «L’aura celeste che ’n quel verde lauro /.../ là ve sol perde, non pur l’ambra o l’auro». Di questo sonetto possiamo seguire la genesi, caso rarissimo, sulle carte del codice degli abbozzi (c. 2r.) nel 1368. Il senhal «Aurora», in congiunzione con «Laura» (cfr. vv. 8 e 23 della sestina) rimanda invece al sonetto legato al nome di Sennuccio, CCXCI: «Quand’io veggio dal ciel scender l’Aurora /.../... Ivi è Laura ora» (vv. 1-4), un sonetto che la postilla a c. 12v. del codice vaticano ci documenta scritto nel novembre del 1349 (134). Ma «aurora» ci indirizza anche ad un altro dei testi che qui ci interessano, al son. CCXIX, centrato sull’immagine dell’Aurora e di Titone (cfr. in part. il v. 9 «Così mi sveglio a salutar l’aurora»). Si osservi che il sonetto si apre su un paesaggio primaverile:
Il cantar novo e ’l pianger delli augelli
in sul dì fanno retentir le valli,
e ’l mormorar de’ liquidi cristalli
giù per lucidi, freschi rivi et snelli
molto vicino a quello descritto nei primi versi della sestina:
Là ver’ l’aurora, che sì dolce l’aura
al tempo novo suol movere i fiori,
et li augelietti incominciar lor versi,
sì dolcemente i pensier’ dentro a l’alma
mover mi sento..........................................................
Infine, gli adynata danielini (135) che chiudono la sestina («et col bue zoppo...») sono gli stessi che aprono l’altro testo che a noi interessa, il son. CCXII, Beato in sogno et di languir contento. L’ultima terzina:
Così venti anni, grave et lungo affanno,
pur lagrime et sospiri et dolor merco:
in tale stella presi l’ésca et l’amo
lo data al 1347. Ma questa stessa terzina suggerisce anche un’altra possibilità. L’ultimo verso, infatti, ricorda molto da vicino quello che sul codice degli abbozzi chiude il son. CCXI: «Lasso che inseme presi l’amo e l’esca». Questo verso, che nella versione finale suonerà «nel laberinto intrai, né veggio ond’esca», resiste dopo la trascrizione ‘in ordine’ del sonetto: Petrarca scrive in effetti la lezione definitiva sul Vat. lat. 3195, dopo aver eraso il verso sopra riportato, solo il 27 giugno del 1369 (136). Una oscurissimma postilla del Casanantense sembra riferirsi a questa operazione e lascia intendere che la sostituzione è stata fatta o per evitare la coincidenza con un verso preesistente o perché nel frattempo il verso di chiusura di CCXI era in parte trasmigrato in un altro componimento (137) (in un caso o nell’altro, il punto di riferimento sarebbe il v. 14 di CCXII). È plausibile che il rifacimento di CCXI, 14 sia dovuto alla volontà di evitare una concordanza che la collocazione a contatto aveva reso flagrante, nel qual caso, la cronologia di CCXII non verrebbe toccata; ma vi è anche qualche probabilità che l’ultimo verso di CCXII nasca a partire dall’ultimo di CCXI: in questo secondo caso, invece, la composizione di Beato in sogno sarebbe posteriore al 1351 (138). È comunque ragionevole concludere che il 1347 rappresenta un solido termine post quem per la serie CCXII, CCXIX e CCXXXIX, lasciando aperta la strada, soprattutto per CCXIX e CCXXIX, ad una possibile datazione più bassa.
I rimanenti testi ‘in vita’ del nostro elenco possono essere considerati, con un ampio margine di sicurezza, anteriori al 1348. Non è sempre possibile invece stabilire se essi risalgono agli anni Trenta o agli anni Quaranta: preferisco non avventurarmi lungo questa strada, accontentandomi di una cronologia di lungo respiro e fissando il discrimine al 1348 e agli anni ad esso immediatamente circostanti. Segnalo solo che il CXXXIX va collocato verso il limite inferiore della fascia cronologica, accettando con ciò l’interpretazione di Foresti, che lo vuole composto nel 1347 dopo una visita al fratello nella certosa di Montrieux (139).
10. Ricapitolo in una tavola, che allinea accanto a quelli petrarcheschi i testi di Arnaut implicati, le indicazioni sin qui emerse. Pur adottando le soluzioni più prudenziali (ad es. la canz. XXIX è schedata nel gruppo più antico), molto margine resta all’aleatorietà: in definitiva, la tavola fornirà delle linee di tendenza, senza pretendere una precisione puntuale, precisione che in materia di cronologia Petrarca non consente quasi mai.
|
R. v. f.
|
A.D.
|
1326-46
|
XXII
|
XVIII
|
|
XXIX
|
XIII
|
|
XXXIX
|
XVIII
|
|
LIX
|
XVIII
|
|
LXIII
|
XVIII
|
|
LXXX
|
XVIII
|
|
LXXXV
|
XVIII
|
|
CV
|
VI
|
|
CXXXV
|
XV
|
|
CXXXV
|
XV
|
1347-51
|
I
|
VI
|
|
CXXXIX
|
XV
|
|
CXLII
|
XIV, XVIII
|
|
CLXXV
|
XIV
|
|
CCXXII
|
X
|
|
CCXIX
|
XIII
|
|
CCXXXIX
|
X
|
|
CCLXIV
|
II, X
|
|
CCLXV
|
II, X, XIV, XVIII
|
|
CCCXXI
|
XV
|
|
CCCXXI
|
X
|
post 1348
|
CCXCV
|
XV
|
|
CCCVII
|
XVIII
|
|
CCCXXV
|
XV
|
|
CCCXLIV
|
XV
|
Dicevo che la tavola può segnalare solo linee di tendenza. Si può facilmente constatare, tuttavia, che alcune di queste sono nettamente marcate.
Un dato si impone con evidenza: per un lungo periodo di tempo Arnaut Daniel è stato agli occhi del Petrarca quasi unicamente l’autore di un solo testo, la sest. Lo ferm voler (XVIII). L’esiguità numerica degli altri suoi testi ricordati (VI, XIII, XV) e, soprattutto, la sporadicità con la quale riaffiorano rispetto al relativo addensarsi di echi della sestina, testimoniano un approccio del tutto unilaterale, e forse non sono che il segno di una scarsa dimestichezza con la produzione poetica del perigordino. Soprattutto negli anni Trenta — le canzoni CV e CXXXV sono in genere ritenute dei primi anni Quaranta —, nel periodo che, tenendo conto del ritardo con il quale si presenta il Petrarca lirico, potremmo chiamare di formazione giovanile, il maggior titolo di Arnaut è dunque legato ad una invenzione metrica: non a caso, sono sestine i nn. XXII e LXXX del primo gruppo di testi petrarcheschi, e i nn. CXLII, CCXXXIX del secondo. Quella metrica, o meglio, dell’eccentricità e della complicazione metrica, sembra essere proprio una delle chiavi principali con le quali interpretare il rapporto Petrarca-Arnaut per un lungo numero di anni. Si ripercorra l’elenco dei testi anteriori al ’47: troviamo due sestine, dunque, ma anche, e non a caso appaiata ad una sestina, la canzone unissonante Verdi panni (XXIX), il cui incipit rinvia, al di là di una generica impostazione provenzaleggiante, direttamente al magistero metrico arnaldiano. Nessun altro testo può essere ricondotto ad un precedente arnaldiano, eppure colpisce che la voce del trovatore riaffiori in un gruppo di testi tutti più o meno connotati dal punto di vista metrico. Solo due (XXXIX, LXXXV) sono i sonetti, per il resto, troviamo due ballate (LIX, LXIII) e due canzoni insolite. La CXXXV, Qual più diversa et nova, un componimento ‘difficile’ per l’organizzazione formale e tematica, e metricamente strutturato su uno schema anomalo, vagamente arcaicizzante, finalizzato a conseguire «un effetto di fissità e circolarità» (140), omogeneo negli esiti, se non nella tecnica, agli effetti ricercati nelle sestine e nelle stanze particolari di Verdi panni; e la CV, Mai non vo’ più cantar, il vero ‘monstrum’ metrico dei Fragmenta, forse il risultato più spinto di quella stessa vena sperimentale da cui nascono le sestine e, in ultima analisi, l’interesse per le testure metriche arnaldiane (141). Considerando che nessuna delle tre canzoni presenti in questo primo gruppo può essere assimilata alla canzone canonica petrarchesca, solo due sonetti rimangono a testimoniare l’ordinaria amministrazione metrica: nel dettato petrarchesco una sotterranea simpatia associa dunque Arnaut con l’eccentrico e con la deviazione (il «gran maestro d’amor» è pur sempre il poeta dal «dir strano e bello»). Deviazione è anche sinonimo di ‘errore’, e se errore, per il Petrarca della maturità, è qualunque legame sentimentale che si anteponga all’amore per il Creatore, per molti anni quel termine ha ‘definito una realtà più circoscritta, quella concezione sensuale del desiderio amoroso di cui, soprattutto nella produzione avignonese, Petrarca si mostra vittima e insieme partecipe. Di questa visione sensuale Lo ferm voler è un testo paradigmatico: certi ottativi vibranti di desiderio, come:
Del cors li fos, non de l’arma,
e cossentis m’a celat dins sa cambra
.....................................................................................
de lieis serai aisi cum carn e ongla
e non creirai castic d’amic ni d’oncle
(vv. 13-8)
si sono impressi nella memoria petrarchesca, che puntualmente li ripropone nelle sestine, là dove l’amore-passione, forte dell’autorizzazione di Arnaut e di Dante, prorompe con accenti di scoperta sensualità: «Con lei foss’io da che si parte il sole...» (XXII, 31 e ss.; si veda anche CCXXXVII, 31-6). E ben comprensibile allora che nella canz. LXX, progettata e composta per prendere le distanze dei cattivi maestri della gioventù, Arnaut, pur sotto mentite spoglie, occupi il posto d’onore: quel posto, a cui lo destinavano la cronologia e la storia, forse, come vedremo, enfatizza un poco il ruolo del trovatore, ma nella sostanza non travisa i dati della biografia culturale del poeta Petrarca.
Sia sul versante dello sperimentalismo metrico che su quello tematico-ideologico Arnaut ha un potente alleato nel Dante delle petrose. Più che di un alleato, in realtà, si tratta di un concorrente e talmente forte da surclassare senza esitazioni, agli occhi del Petrarca, l’antico maestro. È noto quale ruolo preminente spetti alle rime petrose, in simbiosi con il linguaggio della Commedia, nella formazione dell’ideologia amorosa e dello stesso linguaggio poetico del giovane Petrarca (142). Nei testi della prima parte del Canzoniere la simbiosi Dante-Arnaut è talmente completa che, possiamo esserne certi, persino Lo ferm voler sarebbe rimasta inoperante senza la mediazione di Al poco giorno. In particolare, in quel gruppo di testi anteriori al ’47 nei quali risuona, molte volte fiocamente, la voce di Arnaut, la presenza dei temi, del linguaggio, del tono stesso delle petrose è massiccia, con una preponderanza che non può essere trascurata (143). Due aspetti colpiscono: la mancanza di autonomia di Arnaut rispetto al mediatore, e la vitalità del sostrato petroso paragonata all’esilità, quasi di graffito, dell’apporto arnaldiano. Apporto di pochi testi, e anche questi pochi riversati in formule fisse, in automatismi tematici e linguistici. Credo sia lecito concludere che per un lungo periodo l’Arnaut di Petrarca è stato Dante: l’Arnaut storico è rimasto sullo sfondo, elemento, mitico forse, di un paesaggio culturale adibito per interposta persona, una sorta di Omero romanzo in attesa del suo Leonzio Pilato. È vero che Lasso me lo inserisce nel catalogo dei poeti eccellenti, e quel che più interessa, di poeti che hanno contato nella formazione petrarchesca, ma si tenga presente che la testimonianza di quella canzone, scritta negli anni Cinquanta, è per così dire postuma rispetto ai tempi «de la prima etade» e al reale rapporto allora instaurato col trovatore. È significativo al riguardo che nella canz. XXIII, scritta per l’appunto negli anni a cui la LXX fa riferimento, e che nei fatti, attraverso la concreta presenza nel tessuto linguistico della voce dei singoli autori, costituisce il catalogo più attendibile dei maestri del Petrarca avignonese, Arnaut non sia rappresentato (144). L’omaggio ad Arnaut, anche in questo caso, verrà reso a posteriori: ordinando la redazione per Azzo da Correggio Petrarca avrà cura infatti di fare precedere la canzone dalla prima sestina della raccolta (XXII), rinviando in tal modo il lettore a colui che di quel metro era stato il primo artefice. Ma siamo oltre la metà degli anni Cinquanta; nel frattempo qualcosa deve essere intervenuto a dare sostanza al mito del «miglior fabbro».
Osservando i testi databili fra il ’47 e ’51 si ha veramente la sensazione che qualcosa sia intervenuto. Non solo si allarga lo spettro dei testi danielini allusi o echeggiati, ma è più vario e direi fantasioso anche il modo con il quale quei testi sono adibiti: alla fissità un più stereotipa che caratterizzava il ricorso alla sestina, subentra un approccio più visibile e nello stesso tempo più duttile. Arnaut, insomma, prende il suo posto fra gli altri poeti e come gli altri viene trattato (si noti che, a parte l’ovvia persistenza della sestina, gli altri testi non presentano particolarità metriche di rilievo). Il concorrere di dati esterni (la composizione di Laso me, la postilla ad Aspro core) e di indicazioni fornite dall’analisi dei testi suggerisce che quell’elemento nuovo di cui si parlava sia una migliore e più estesa conoscenza della poesia arnaldiana. Un ampliamento che i dati esterni ed interni convergono a fissare a cavallo fra il Quaranta e il Cinquanta.
Il primo effetto di questa più approfondita conoscenza è che Arnaut si svincola dalla tutela di Dante ed agisce in proprio sul dettato petrarchesco (145). Sarebbe interessante analizzare a fondo che cosa rappresenti per Petrarca questo Arnaut emancipato. Toccherò brevemente alcuni punti che a me sembrano significativi. Innanzi tutto, Arnaut non è un poeta per tutte le stagioni: la sua voce, a differenza di quanto avviene con lo stesso Dante petroso, che può insinuarsi anche nel dettato delle rime ‘in morte’, resta sostanzialmente legata al mito giovanile dell’amore-passione. È sintomatico che l’unico testo ufficialmente legato al suo nome (Aspro core) sia un componimento in vita scritto oltre tre anni dopo la morte dell’amata; del resto, parecchi altri testi indiziati di amaldismo che supponiamo composti dopo il ’48 ignorano, apparentemente, il trauma della perdita di Laura.
Dal punto di vista propriamente stilistico, l’adibizione petrarchesca è caratterizzata da una sostanziale continuità con le linee di fondo della sua scrittura: da una fedeltà a se stesso e ai maestri che comporta una neutralizzazione delle punte del trobar clus arnaldiano. L’accettazione degli adynata del congedo di Ab gai so cuindet e leri è il punto estremo a cui Petrarca può spingersi; ma anche in questa direzione in realtà Petrarca non fa altro che sviluppare tendenze già presenti nella sua scrittura. Dal Dante di Al poco giorno aveva appreso e messo in pratica la connessione adynata-sestina (salvo poi rinfrescare i suoi irnpossibilia con il ricorso alle fonti classiche), dal modello provenzale apprende, in anni più tardi, ad uscire dal cerchio della sestina, riversando quelle figure in sonetti e canzoni: la continuità della lezione è tuttavia indubbia. Risponde invece ad esigenze più intimamente petrarchesche la tendenza a cogliere nei versi arnaldiani più la figuralità di superficie, legata in sostanza alla scansione ritmico-sintattica del verso, che le impegnative invenzioni metaforiche o linguistiche. Un Arnaut petrarchizzato e quindi attratto in un universo di scrittura retto dalla dualità. La coppia, quasi sempre in posizione clausolare, è il luogo canonico dei prelievi petrarcheschi: sia coppie sostantivali (Amors e jois e liocs e temps XIV, 1; laus o genebres XVI, 13) che aggettivali (breus no corz XV, 22) e verbali (am e coli X, 9; honors e selebres XVI, 21). Altre volte ad attirare l’attenzione petrarchesca sono versi organizzati in strutture duali: Merce dei trobar e perdo VI, 8; Ar conosc ieu e sap mi bo VI, 22; D’autras vezer soi secs e d’auzir sors XV, 8. Rientrano nella stessa temperie stilistica anche le strutture versali caratterizzate dalla presenza di strutture interative, del tipo c’aman preian s’afranca cor ufecs XIV, 40, o di trycola (qu’en sola lei veg e aug e esgar XV, 9), nucleo originario di quei versi polinomici al cui fascino Petrarca è particolarmente sensibile (Er vei vermeilz vers blaus blans groucs XIII, 1).
11. A questo punto stabilire quando Petrarca conobbe Razo e dreyt perde notevolmente di importanza, poco più che una legittima curiosità. Nel § 4 ho proposto due possibili scenari: uno dei due ipotizzava che l’incontro con quel testo potesse essere avvenuto in una città della Valle padana, fra il ’49 e il ’51 o anche in anni più tardi. Penso che le considerazioni qui fatte possano avvalorare l’ipotesi. Anzi, ci si potrebbe spingere addirittura oltre: se è vero infatti che la datazione della mano che ha trascritto Dreg e razos sull’ultima carta di K può essere fissata circa alla metà del Trecento (146), tenendo conto della datazione bassa di Lasso me che io propongo, Petrarca potrebbe aver avuto la possibilità di leggere la canzone proprio su quel codice. La citazione della canz. LXX sarebbe, allora, nata a ridosso di una freschissima lettura. Tutto ciò, naturalmente, va preso per quello che vale. Eppure, confesso, l’ipotesi è suggestiva, venendo ad affiancare K al canzoniere T, il codice sul quale, con molta verosimiglianza, nel settembre del 1350 Petrarca leggeva Amors e jois (147).
Non è una curiosità, invece, chiedersi se l’approfondimento della conoscenza di Arnaut che avviene a partire dalla fine degli anni Quaranta si accompagni ad un ampliamento della conoscenza della tradizione lirica occitanica nel suo complesso. Finché non disporremo di una indagine a tappeto — condotta sui testi e sui canali di trasmissione — dei rapporti fra Petrarca e i Provenzali, questa domanda resterà senza risposta. È possibile solo svolgere alcune considerazioni dall’esterno, utili, al più, per indicare alcune vie alla ricerca.
Tra la fine del ’47 e l’estate del ’51 e poi, in forma stabile, a partire dalla metà del ’53, Petrarca entra in contatto in maniera assai più stretta di quanto non gli fosse successo in precedenza con un mondo per lui nuovo, quello degli stati signorili e delle corti (gli Scaligeri, i Carraresi, gli Este, i Gonzaga, i Visconti). Fino ad allora, sia in Provenza che in Italia, aveva frequentato ambienti di altro tipo, quasi sempre, per un verso o per l’altro, legati ad Avignone e alle famiglie cardinalizie. Ambienti che lo avevano favorito al massimo livello, come le ricerche di Billanovich mostrano (148), nello stringere rapporti culturali e nella ricerca bibliografica in quel settore che si sarebbe chiamato umanistico, ma ambienti nei quali la poesia lirica non era di casa. Quella di Avignone era una corte ‘umanistica’, non, mi si passi il bisticcio, una corte ‘cortese’. Il lirico in volgare era dunque sostanzialmente solo, sperimentando una condizione del tutto insolita per un poeta romanzo, che costituzionalmente si nutre di scambi sociali. Particolarmente solo poi negli Elicona di Valchiusa e di Selvapiana, nei quali Petrarca viene modellando non solo una nuova figura di intellettuale, ma anche una nuova figura di poeta: un lirico senza pubblico. È forse questa condizione di isolato al centro del mondo culturale per altri versi più progredito del tempo che spiega, ad esempio, l’attaccamento ad uno stanco epigono dello stilnovismo fiorentino qual è Sennuccio del Bene. In effetti, quali altri interlocutori in rima gli si offrivano? Ritengo che spesso si sia scambiato per una forma di aristocraticismo un po’ sdegnoso l’impossibilità pratica di Petrarca di avere interlocutori. I pochi dati a disposizione ce lo mostrano, al contrario, disponibile ai contatti, e alle letture di poesia contemporanea, neppure della più eccelsa: dall’Acerba all’Intelligenza, a Nicolò de’ Rossi, forse conosciuto ad Avignone fra il ’38 e il ’39 (149). È anche tenendo presente questo quadro che, a mio avviso, si può ipotizzare una lettura precoce del Boccaccio napoletano. Il mondo delle corti dell’Italia settentrionale apre invece al poeta un palcoscenico dove la poesia volgare recita un ruolo di assoluta preminenza (150). Certo, Petrarca non accetta parti di primo piano, ma sarebbe assurdo ritenere che egli si sia tenuto sempre e rigorosamente in disparte (non a caso un rimatore ‘professionista’ e alla moda come Antonio da Ferrara prende il posto, nella corrispondenza, che fu del colto, ma poeta dilettante Sennuccio). Anche solo stando alla finestra, non poche suggestioni potevano venire da quel mondo variegato. Una di queste, legata agli aspetti più nuovi, in sostanza alle forme di avanguardia nelle quali veniva modellandosi il connubio fra spettacolo e poesia, cioè la polifonia profana, con ciò che essa significava in termini di occasionalità e di destinazione galante dei testi, il pur elitario Petrarca la assume decisamente. Un secondo aspetto dell’universo cortigiano che avrebbe potuto influenzarlo era per l’appunto legato alla tradizione della poesia di Provenza. Da tempo esaurita in patria, ancora alla metà del Trecento otteneva consensi e stimolava raccolte in questo mondo che si riproponeva come erede di quella civiltà cortese. Stimoli ambientali e facilità di reperire canzonieri possono dunque sottostare ad una ‘riscoperta’ di quella tradizione anche da parte di Petrarca. In tal modo si aggiungerebbe un’altra pennellata al ritratto dell’esule perenne, del «peregrinus ubique», che di sé egli amava diffondere: fra le molte contraddizioni di questo intellettuale bisognerà forse annoverare anche la doppia attività, diremmo oggi, di italianista in Provenza e di provenzalista in Italia.
Note:
*. MAURIZIO PERUGI, Trovatori a Valchiusa. Un frammento della cultura provenzale del Petrarca, Padova, Antenore [Studi sul Petrarca, 18] 1985, pp. VIII + 332. (↑)
1. CARL APPEL, Petrarka und Arnaut Daniel, «Archiv für das Studium der neueren Sprachen und Literaturen» CXLVII (1924), pp. 212-35. (↑)
2. Sigle di BARTSCH codificate in ALFRED PILLET-HENRY CARSTENS, Bibliographie der Troubadours, Halle (Saale), Max Niemeyer 1933 (d’ora in poi BdT.). C è il fr. 856 della Bibliothèque Nationale di Parigi; Razo e dreyt vi è trascritta da c. 352v col. 2 a c. 353r col 2. In K, che è il fr. 12473 della stessa biblioteca, Razo e dreyt è scritta, come è ben noto, in appendice da una mano diversa e posteriore alla compilazione del canzoniere, a c. 18Sv. [Sulla datazione della mano che integra K leggo a lavoro concluso l’opinione di CORRADO BOLOGNA, Tradizione testuale e fortuna dei classici italiani, in Letteratura italiana. VI. Teatro, musica, tradizione dei classici, Torino, Einaudi 1986, p. 457, che la colloca alla metà circa del Trecento.] — Per semplicità cito le edizioni trobadoriche e alcuni strumenti in forma abbreviata, rimandando la citazione completa all’elenco posto in fondo all’articolo. (↑)
3. C.A.F. MAHN, Gedichte der Troubadours in provenzalischer Sprache, Zweiter Band, Berlin, Duemmler 1862, p. 116 (n. 437). (↑)
4. Perugi corregge le seguenti letture di Appel (derivate da Mahn): C v. 5 APPEL en men partisca per e no me(n) p.; v. 10 APPEL blasmesacori (MAHN blasmes acori) per blasmezacori; v. 46 APPEL Simbreu per Simbrem; K v. 9 APPEL vais lai e non per vais leis non; v. 14 APPEL leis que per leis qui; v. 21 APPEL vestirai per vestirei, e capulari per scapulari. (↑)
5. Questo tipo di salti da un verso di una strofa al verso successivo della strofa seguente si può esemplificare con sorprendente abbondanza nella tradizione di Lanquan li jorn di Jaufre Rudel, come si vede dall’ed. di RUPERT T. PICKENS, The songs of J.R., Toronto, Pontifical Institute of Medieval Studies 1978, più facilmente che da quella di GIORGIO CHIARINI, Il canzoniere di J.R., L’Aquila, Japadre 1985. Vero è che lì il salto è facilitato dalla parola rima lohn al secondo e quarto verso di ogni strofa. (↑)
6. Nel testo pongo in parentesi quadre gli interventi congetturali; in apparato pongo in parentesi acute le aggiunte interlineari di K. Prendo come base la grafia di C, ma nel quarto verso di ogni strofa preferisco -el a -elh (come Perugi), perché -elh è probabilmente un vezzo grafico di C e, per questo testo, non è nemmeno costante. (↑)
7. L’attribuzione di Appel ad Arnaut non è presa in considerazione dalle due ultime edizioni arnaldiane, di Perugi e di Eusebi. Gianluigi Toja (Arnaut Daniel, Canzoni, Firenze, Sansoni I960, p. 110) dichiara «questione ormai risolta» che il testo sia di Guilhem de Saint Gregori, secondo l’attribuzione di C. (↑)
8. ALESSANDRA SISTO, Figure del primo francescanesimo in Provenza. Ugo e Douceline di Digne, Firenze, Olschki 1971, p. 91. Nel volume sono ripubblicate le opere di Ugo di Digne: Expositio Hugonis super Regulam Fratrum Minorum (pp. 159-324); De finibus paupertatis (pp. 325-40; ripete l’edizione di CLAUDIA FLOROWSKI, «Archivum Franciscanum Historicum» V, 1912, pp. 277-90); Disputatio inter zelatorem paupertatis et inimicum domesticum eius (pp. 341-70). Si vedano inoltre: ROSALIND B. BROOKE, Early Franciscan Government. Elias to Bonaventure, Cambridge, at the University Press 1959, pp. 248-9; P. GRATIEN (des Frères Mineurs Capucins), Histoire de la fondation et de l’Evolution de l’Ordre des Frères Mineurs au XIIIe siècle, Paris — Gembloux, Soc. et Lib. S. François d’Assise - J. Duculot 1928, p. 234. Citano l’episodio anche Tommaso di Eccleston (Tractatus fr. Thomae vulgo dicti de Eccleston de adventu Fratrum Minorum in Angliam, ed. ANDREW G. LITTLE, Paris, Fischbacher 1909, p. 90), la cui opera fu terminata secondo Little verso il 1258-9, e Pellegrino da Bologna (Chronicon abbreviatum de successione Ministrorum Generalium, in app. a Tommaso di Eccleston, Tractatus... p. 142), che scrive nel 1305 (Little); però né l’uno né l’altro fornisce il particolare delle tonache scorciate, che è invece proprio della Chronica Generalium Ministrorum Ordinis Fratrum Minorum (ed. in Analecta Franciscana..., t. III, Ad Claras Aquas (Quaracchi), ex Typ. Collegii S. Bonaventurae 1897, pp. 1-575), p. 263. I documenti che seguono permettono di lasciare agli studiosi di cose francescane il problema se la Chronica, composta in massima parte entro il 1369, e continuata fino al 1378 (ivi, pp. VIII-IX), non aggiunga il dettaglio sotto l’influsso di questioni più recenti; da notare comunque, in nota al luogo in questione, lo scetticismo dei curatori su tutto l’episodio. (↑)
9. Secondo la Sisto la Expositio, che utilizza la precedente Expositio Quatuor Magiagistrorum super Regulam Fratrum Minorum, è precedente alla Ordinem vestrum (14 novembre 1245) perché la ignora su alcuni punti essenziali (diverso il parere dello Oliger, editore della Exp. Quat. Mag., che ritiene presente nel testo di Ugo anche la Ordinem vestrurn). La Sisto ritiene di individuare nella Expositio di Ugo anche alcune allusioni alla persecuzione di Crescenzio di Jesi contro gli Spirituali anconitani (p. 96). (↑)
10. P. LIVARIUS OLIGER O. F. M., Expositio Quatuor Magistrorum super Regulam Fratrum Minorum, Roma, Storia e Letteratura 1950; il passo citato dal cap. II della Expositio è a p. 136; per la datazione v. p. 15. (↑)
11. Sacrorum Conciliorum nova, et amplissima collectio etc., a c. di GIOVANNI DOMENICO MANSI, Venezia, Zatta 1778, vol. XXII (= Mansi XXII). (↑)
12. Sulla data cfr. l’Art de vérifier les dates, III ed., Paris, Alexandre Jombert Jeune 1783, t. I p. 194. (↑)
13. Si veda in Hist. Lang. IV, p. 227 e ss., la n, LII, con la riserva finale degli ultimi revisori. (↑)
14. Leggo il testo del trattato e dei suoi preliminari (in entrambi i testi si parla genericamente di un «fratello del re») in Hist. Lang. vol. V (1842), pp. 650-5; cfr. nello stesso volume le pp. 364-71. Uzès fu posta sotto la giurisdizione del siniscalco di Beaucaire e Nîmes (p. 365). (↑)
15. Raimond Decan appartiene al settore non ben documentato della genealogia; ma il punto essenziale è che la moglie di Alfonso Jordan appartenesse comunque alla famiglia dei signori di Uzès. (↑)
16. Non credo che possa essere il conte in questione, ma è legato con Uzès in questo periodo (e fino al 1245) un altro conte, quello di Provenza: Alfonso II dal 1196, dal 1193 marito di Garsenda di Forcalquier, che era per parte di padre una Sabran di Uzès; Raimondo Berengario V dal 1209 al 1245, il quale dalla madre Garsenda ereditava i diritti che costei ereditava a sua volta dal nonno materno, Guglielmo di Forcalquier, sulla contea di Forcalquier. (↑)
17. Hist. Lang. vol. VI (1843), p. 148. (↑)
18. BdT. 434a, 20 (Frank 882: 3), edito da MARTÍN DE RIQUER, Obras completas del trovador Cerverí, Barcelona, Instituto Español de Estudios Mediterráneos, 1947, n. XXXIV, e ora riedito da Perugi nel cap. III. Si vedano: ISTVÁN FRANK, La chanson «Lasso me» de Petrarque et ses prédécesseurs, «Annales du Midi» LXVI (1954), pp. 259-68, a p. 260 n. 1; per la data M. DE RIQUER, Para la cronología del trovador Cerverí, in «Estudios dedicados a Menéndez Pidal», III, Madrid, C.S.I.C., 1952, pp. 361-412, alle pp. 374-5; per la formula sillabica SERGIO VATTERONI, Rima interna e formula sillabica: alcune annotazioni al Répertoire di I. Frank, «Studi Mediolatini e volgari» XXIX (1982-3), pp. 175-82, alle pp. 179-80. (↑)
19. Sulla materia cfr. FRANK M. CHAMBERS, Imitation of Form in the Old Provençal Lyric, «Romance Philology» VI (1952-3), pp. 104-20; J. H. MARSHALL, Pour l’étude des contrafacta dans la poésie des troubadours, «Romania» CI (1980), pp. 289-335. Fatta salva ogni cautela, non mi sembra comunque facilmente smentibile il principio enunciato da quest’ultimo a p. 292; «... il est normal que ce soit une composition courtoise (canso ou, au douzième siècle, vers) qui fournisse le modèle d’un sirventes ou d’une tenson ou d’une cobla esparsa; le contraire serait un cas anormal qu’il faudrait prouver avec une certitude absolue...». Va appunto sottolineato, però, che il vers (delle origini o tardo) va da questo punto di vista insieme con la canzone, non con il sirventese; e bisogna badare al fatto che Frank tende a chiamare sirventesi, nelle sue schede, delle poesie che sono in realtà dei vers. (↑)
20. Su Guiraut Riquier, il cui rifiuto del sirventese perché genere minore si colloca nello stesso periodo, ampiamente inteso, di cui si parlerebbe, cfr. VALERIA BERTOLUCCI PlZZORUSSO, Il canzoniere di un trovatore: il «libro» di Guiraut Riquier, «Medioevo Romanzo» V (1978), pp. 216-59, alle pp. 249-50; sulle vicende e sulla posizione del sirventese per quanto ci riguarda sono illuminanti le pp. 153-65 di DIETMAR RIEGER, Gattungen und Gattungsbezeichnungen der Trobadorlyrik, Tübingen, Max Niemeyer 1976. (↑)
21. CAMILLE CHABANEAU, Les biographies des Troubadours en langue provençale (Toulouse 1885), rist. Genève-Marseille, Slatkine-Laffitte 1975, pp. 151-2. (↑)
22. Hist. Lang. VIII, col. 518; per l’identificazione della località v. l’Index Geographicus, col. 2290. (↑)
23. CLOVIS BRUNEL, Les plus anciennes chartes en langue provençale, Supplement, Paris, Picard 1952, p. 55, n. 415. (↑)
24. Hist. Long. VIII, col. 400; nell’Index Onomasticus, col. 2195, si precisa: preceptor militie Templi. (↑)
25. CLOVIS BRUNEL, Les plus anciennes chartes en langue provençale, Paris, Picard 1926, p. 211, n. 224. (↑)
26. ISTVÁN FRANK, Pons de la Guardia, troubadour catalan du XIIe siècle, «Boletín de la Real Academia de Buenas Letras de Barcelona» XXII (1949), pp. 229-327 (la cit. a p. 233). Il testo in questione è pubblicato da CARL APPEL, Provenzalische Inedita, Leipzig, Fues’s Verlag 1890, p. 152. (↑)
27. In un lavoro di seminario condotto nella primavera 1986 dal quale potrà risultare un contributo a stampa, Elena Benaglia, Michele Loporcaro e Claudia Vecchi hanno confermato con argomenti di critica testuale l’opinione di KURT LEWENT («Archiv für das Studium der neueren Sprachen und Literaturen» CXXX, 1913, pp. 325 ss.) che il congedo in cui si nominano Papiol e Oc e no, tramandato da SgTV, ha ben poche probabilità di essere autentico. (↑)
28. L’identificazione è data per sicura da CHABANEAU, Poésies inédites, pp. 234-5, il quale ritiene perciò la strofa spuria, perché contrastante con la sua attribuzione del testo a Bertran de Born. Gli editori fino a Gouiran hanno lasciato questa Beatrice nel mistero, e così è anche per FRITZ BERGERT, Die von den Trobadors genannten oder gefeierten Damen, Halle a. S., Max Niemeyer («Beihefte zur Zeit. f. rom. Phil.», 46) 1913, p. 43. GOUIRAN (pp. 724-25) tenta dubitativamente alcune identificazioni compatibili con la sua attribuzione a Bertran de Born, ed esclude Beatrice di Savoia sempre a causa di tale attribuzione. Su Beatrice di Savoia v. BERGERT, Die von den Trobadors..., pp. 43-7. Sulla data del matrimonio (tra la fine del 1219 e l’inizio del 1220), v. l’ed. STROŃSKI di Elias de Barjols, p. 87. (↑)
29. La strofa non è riportata da Appel; dò il testo secondo l’edizione qui tutt’altro che convincente di GOUIRAN, vol. Il, p. 734, ma ritengo ben fondata l’ipotesi testuale di PERUGI nei Prolegomeni alla sua edizione di Arnaut Daniel, vol. I, Prolegomeni, p. 26: Pros comtessa per la meillor / que hom puesca el mon chausir / vos ten hom, e per la genssor / que anc se mires ni se mir. (↑)
30. Non risultano poesie di Blacasset di datazione sicura anteriori al 1233: si veda la scheda di MARTÍN DE RIQUER, Los trovadores, vol. III, pp. 1288-9; non è comunque impossibile che Blacasset, del quale non si conosce poesia databile dopo il 1242, fosse in grado di comporre un sirventese intorno al 1220. L’aggancio di Be·m platz con questo ambiente potrebbe comunque spiegare anche l’attribuzione a Lanfranco Cigala, che appare in rapporti con Blacatz in un frammento di canzone (BdT. 282, 11, ed. BRANCIFORTI, XXXI; cfr. pp. 26-8) databile fra il 1220 e il 1228, fu ambasciatore nel 1241 presso Raimondo Berengario V (G. BERTONI, I Trov. d’It., p. 577; sui rapporti di Blacatz con il conte v. oltre), e a Raimondo si rivolge fra il 1244 e il 1245 in un canto di crociata (BdT. 282, 23, BRANCIFORTI, XX). (↑)
31. Edita e commentata da GIULIO BERTONI, La «sestina» di Guilhem de Saint Gregori, «Studj romanzi» XIII (1917), pp. 31-39. (↑)
32. Hist. Lang., V (1842), pp. 535-6 (in praesentia testium, E. Valentinensis praepositi etc.). (↑)
33. Cfr. ALFRED JEANROY-J. J. SALVERDA DE GRAVE, Poésies de Uc de Saint-Circ, Toulouse, Privat 1913, nota al n. VI, Servit aurai longamen (BdT. 457, 34). La tenzone è pubblicata da ADOLF KOLSEN, Dichtungen der Trobadors (Halle a S., Niemeyer 1916-9), rist. Genève, Slatkine 1980, pp. 14-21. Sulle date dell’attività poetica di Savaric si veda H. J. CHAYTOR, Savaric de Mauleon, Baron and Troubadour, Cambridge, C. University Press 1939. Al prebost de valensa la prima tavola di C attribuisce indebitamente Si tot ses fortz ma volontatz fellona (c. 11r della prima num.; l’attribuzione della seconda tavola e del testo è a Guiraut de Calanson; si tratta di BdT. 245, 1, di Guiraut de Luc, ediz. in Los trovadores, n. 99) e Anc mays aissi finamen non amey (c. 14r della stessa num.; seconda tavola e testo sono per Jordan de Cofolen; BdT. 273, 1a). (↑)
34. Condivido l’opinione di Perugi, p. 40 n. 5 che Appel avanzi fuori di proposito, sia pure dubitativamente, la candidatura di Bertran; la riprova che il ragionamento di Appel era, senza volere, funzionale al suo proposito di attribuire Razo e dreyt ad Arnaut si ha nella sua edizione di Bertran de Born, dove di questa poesia non è traccia alcuna. Ora l’ed. PADEN la attribuisce a Bertran de Born sulla base del solo fatto che nel 1189, data del documento in cui compaiono insieme Aimar e il Prevosto, Bertran era certamente attivo. (↑)
35. Si veda per esempio Gerra mi play quan la vei comensar (BdT. 96, 6), ripubblicato in Los trovadores, vol. III, n. 259. Si noti che questo sirventese non solo imita da vicino la maniera di Bertran de Born (compreso il modo di elevare lo stile del discorso inserendo alla fine una strofa di argomento amoroso), ma lo fa in modo vicinissimo a quello usato in Be·m platz lo gais temps de pascor. (↑)
36. Non soltanto No puosc mudar un chantar non esparga (BdT. 80, 29), che Dante cita nel De vulgari eloquentia come esempio della poesia delle armi di Bertran, riprende schema metrico e rime di Si·m fos Amors de joi donar tan larga di Arnaut (BdT. 29, 17), ma appare evidente fra i due testi una fitta rete di relazioni. (↑)
37. La potente e ramificata famiglia dei Sabran non era nuova al vituperio: dev’essere il fratello minore del Guglielmo di Sabran cui mi riferisco il Giraudetz Amics, Giraud Amic de Sabran signore di Tor, contro cui scrive Raimbaut de Vaqueiras nel suo Leus sonetz (BdT. 392, 22) nel 1189: si veda la nota ai vv. 35-6 di JOSEPH LINSKILL a p. 95 della sua ed.; inoltre JOSEPH LINSKILL, An enigmatic poem of Raimbaut de Vaqueiras, «Modem Language Review» LIII (1958), pp. 355-63, a p. 357. Per la verità la ricostruzione di Linskill non coincide con quella di EUGÈNE DUPRAT, Testament de Giraud Amic, «Annales d’Avignon et du Comtat Venaissin» I (1912), pp. 151-67. Questa è la genealogia secondo Linskill: Giraud Amic¹ (figlio, secondo Duprat, di Rostanh de Sabran e di Costanza figlia di un altro Giraud Amic) > Giraud Arnic², che sposò dopo il 1152 Alice di Forcalquier e morì circa nel 1209 > [Guglielmo di Sabran e] «the youn ger son» Giraud Amic³, noto come signore di Tor, nato forse intorno al 1172, morto nel 1222, che sposò Tiburge figlia di Guglielmo di Baux principe d’Orange. Secondo Duprat Giraud Amic³ è invece figlio di Giraud Amic¹ e di Galburge. La genealogia più recente a me nota (RENÉ BORRICAND, Nobiliaire de Provence, II, Aix, Borricand 1975), conferma Linskill per quanto ci riguarda; Giraud Amic¹ per Borricand è figlio di Guglielmo II di Sabran, e fratello da un lato del Guglielmo III da cui discende il ramo dei connestabili di Tolosa (e il Rostanh de Sabran cui avrò modo di alludere), dall’altro del Rostanh de Sabran da cui discendono i Sabran di Uzès (e la madre di Raimondo Berengario V). Galburge è per Borricand la moglie di Giraud Amic¹. Contro lo stesso Giraud Amic³ è rivolto un sirventese di Duran de Carpentras (BdT. 126, 2, ed. in app. all’ed. BOUTIÈRE di Peire Bremon Ricas Novas) scritto nel 1215 circa, secondo la datazione di Linskill (An enigm., p. 357). Guglielmo di Baux, suocero di questo Giraud Amic de Sabran, fu tra coloro che tentarono di profittare dell’assenza di Raimondo Berengario V (si veda p. es. la Chronologie historique des Comtes de Forcalquier nell’Art de vérifier les dates, vol. X, 1818, pp. 430-2). (↑)
38. La sintesi migliore sulle vicende qui accennate è quella di STANSILAW STROŃSKI, Notes sur quelques troubadours et protecteurs de troubadours célébrés par Elias de Barjols, «Revue des langues romanes» L (1907), pp. 5-44, p. 36 n. 2 e pp. 66-7 dell’ed. di Elias de Barjols. (↑)
39. STROŃSKI, Notes ..., p. 23. (↑)
40. Sulla storia tribolata di questa successione (che non fu intera, perché Guglielmo IV modificò le proprie decisioni attribuendo una parte anche all’altra nipote, Beatrice), v. per es. FERNAND BENOIT, Recueil des actes des Comtes de Provence appartenant à la maison de Barcelone, Monaco - Paris, Imprimerie de Monaco — Picard 1925, t. I, pp. XXVIII-XXIX. (↑)
41. V. F. BENOIT, Recueil ..., pp. XXVII-XXVIII. (↑)
42. O piuttosto alla fine del 1216, v. STROŃSKI, Notes, pp. 19-20. Sulla tutela di Sancho vedi anche STROŃSKI, Elias de Barjols, p. 66, che a p. 67 cita il passo della cronaca di Giacomo il Conquistatore che racconta questa fuga. (↑)
43. BdT. 132, 1, ed. STROŃSKI, VII. Si noti che anche questa è una canzone d’amore, e che non vi manca qualche punto di contatto con Razo e dreyt, particolarmente nella strofa III: Qu’ieu fatz semblansa de mut, / quan vei son bel cors avinen / de la bella en cui m’enten; / si·l tenc mon cor escondut / qu’ieu no l’aus dir per temensa / co·l sui francs e fis e leials... — Alla stessa circostanza è dedicata la canzone di Aimeric de Belenoi Pos Dieus nos a restaurat / lo pro comte proensal (BdT. 9, 17, ed. DUMITRESCU, VIII), che pure, dopo l’iniziale dichiarazione politica, prosegue come una canzone d’amore. (↑)
44. Leggo il testo di questo accordo in HONORÉ BOUCHE, La Chorographie ou description de Provence et l’Histoire chronologique du mesme pays, Aix [-en-Provence], Charles David 1664, t. I, pp. 853-5 (delle vicende in questione Bouche si occupa nel t. I, pp. 852-5, e nel t. II, pp. 204-7). (↑)
45. Restar è anche verbo tecnico per designare la mancata partenza per la crociata: cfr. Bertran de Born, BdT. 80, 3 (Gouiran, 31), vv. 24-6 ... Ab que sai no rest! / Sieus seria, si·s n’anava / lai, Roais...; Aimeric de Belenoi, ma probabilmente Folchetto di Marsiglia, BdT. 9, 10 (ed. STROŃSKI di Foichetto, XXVII, cfr. pp. 131-5* e 18-20*), vv. 57-60 ...e greu n’aura Dieus membransa / d’aquelhs per cui es oblidatz, / que reston a sa pezansa / per mal far e non ges per patz. (↑)
46. Nella Chorographie..., p. 207. (↑)
47. STROŃSKI, Notes..., cit., pp. 8-9 e n. 1 a p. 9 (PAPON, Histoire générale de Provence, t. II, Paris, Moutard 1778, pp. 280-1 segue la versione di Bouche. Alla lettera citata dev’essere contemporanea un’altra lettera di Innocenzo III a Raymond d’Agout perché consigli il conte a partire per la crociata. Raymond d’Agout, nota Stroński, p. 9, morì nel 1203). È però vero che Guglielmo di Sabran subì un interdetto nel 1211 per l’usurpazione di Pertuis contro i monaci di Montmajour, e fu costretto, insieme con la madre, a riconoscere i diritti dell’abbazia nel 1212 (la contesa andò avanti per decenni, con nuove usurpazioni; v. L’Abbaye de Montmajour, étude historique d’après les manuscrits de D. Chantelou... par F. DE MARIN DE CARRANRAIS, Marseille, Marius Olive 1877, pp. 53-4 e 57). Non sarebbe del tutto impensabile, quindi, un richiamo ironico al dovere di redimersi con la crociata, per un atto di non poca risonanza, a censurare il quale si era mosso Innocenzo III sollecitando l’arcivescovo di Aix e il vescovo di Cavaillon. (↑)
48. BdT. 156, 4, ed. ZENKER, X. Sul viatge di Blacatz (peraltro lezione congetturale: Zenker, p. 69 e p. 88) cfr. BRANCIFORTI, L. Cigala, pp. 27-8; sulla datazione della cobla di Folquet a Blacatz (tra 1220 e 1228) v. Zenker, pp. 22-3. (↑)
49. Se invece si preferisce pensare che qui que sai rest si riferisca proprio al viatge non compiuto da Blacatz, il biasimo rivolto ai Sabran potrebbe essere motivato, mi pare con minore verosimiglianza, da un episodio del 1226: durante l’assedio di Avignone, Rostanh de Sabran (del ramo della famiglia che discende dal fratello maggiore del Giraud Amic¹ sopra nominato, secondo R. BORRICAND) prestò omaggio al re di Francia abbandonando il conte di Tolosa (Hist. Lang. VIII, col. 851-2): «Omnibus ad quos presentes littere pervenerint Rostanus de Sabrano salutem. Noveritis me fecisse homagium domino regi Francorum Ludovico ligium contra omnes homines... Actum in obsidione Avinionis, anno Domini Mº CCº XXº VIº. mense junii». Risulta però più difficile, allora, dare un senso all’insieme del congedo. (↑)
50. Cfr. M. G. CAPUSSO, L’exposition..., I, pp. 129-30. (↑)
51. Echi di Razo e dreyt e della lettura da parte del suo poeta di Arnaut Daniel (e talvolta piuttosto di Arnaut che di Razo e dreyt) sono fittamente documentati da Perugi nella produzione tardoduecentesca e trecentesca di cui egli si occupa in buona parte del volume, così come nelle trecentesche Leys d’Amors. (↑)
52. C. APPEL, Petrarka und Arnaut Daniel, «Archiv für das Studium der neueren Sprachen und Literaturen», CXLVII (1924), pp. 212-35. (↑)
53. In verità Appel cita i sonetti LXVII e LXVIII, non LXXVII-LXXVIII (e sarebbe stato anche giusto precisare che l’Epyst. I 7, citata da Appel secondo la numerazione dell’ed. Rossetti, viene oggi numerata I 6). Purtroppo, gli errori di stampa, le imprecisioni e le sviste di vario tipo non sono rari in questo libro, a volte anche con effetti di non poco conto. Ne segnalo alcuni: errore di stampa è la data 1328 invece di 1338 apposta al son. XL (p. 246). Svista tipografica sarà anche la resa Daniels, in luogo di Danielis, nella trascrizione della postilla relativa a CCLXV del ms. Casanatense (c. 101r.), mentre questa attenuante non può essere invocata per la divisione A man, in luogo del corretto Aman, nella medesima postilla, dal momento che è lo stesso Perugi a certificare la cattiva lettura col sostenere che «A man, così segmentato, doveva certo essere inteso come ‘a molti’» (p. 298). Si aggiunga ancora che Frasso (Studi su i ‘Rerum vulgarium fragmenta’ e i ‘Triumphi’. I Francesco Petrarca e Ludovico Beccadelli, Padova, Antenore 1983) a p. 114 non fornisce, come è detto da Perugi a p. 320, la lezione dello Harleiano, ma dell’incunabolo londinese (che peraltro Perugi riproduce da Frasso a p. 297). A p. 236 n. 19 si legge che, «come suggerisce in forma emblematica la preistoria, fotografata nelle postille vaticane, di Aspro core e della canzone CCVII, il rapporto [di Petrarca] con Arnaut individua un diagramma caratterizzato da impennate periodiche»; a parte la scarsa perspicuità del discorso (la canz. CCVII non presenta alcuna postilla che si riferisca, anche indirettamente, ad Arnaut, così come non ha versi indiziabiii di arnaldismo), non si può non rilevare che le postille del son. CCLXV (Aspro core) non sono contenute nel ms. vaticano, bensì in alcuni altri testimoni, fra i quali il ms. Casanatense (si veda al riguardo il cap. XI del libro di Perugi); ed anche per quanto concerne CCVII, bisogna almeno avvisare che è questo uno dei pochissimi casi in cui le informazioni cronologiche delle autografe postille vaticane si rivelano erronee, o per una imprecisione mnemonica del Petrarca o per errore materiale (si vedano le osservazioni di A. PETRUCCI, La scrittura di Francesco Petrarca, Città del Vaticano 1967, p. 111 e ancora F. PETRARCA, Epistole autografe. Introduzione, trascrizione e riproduzione a cura di A. PETRUCCI, Padova, Antenore 1968, p. 7). Concludo con la svista più dannosa: Bertoni non sostiene, come si dice a p. 43 e si ripete a p. 239, che la mano a cui si deve la trascrizione di Dreg e razos sull’ultima carta scritta di K sia quattrocentesca, ma la attribuisce al sec. XIV (G. BERTONI, Le postille del Bembo sul Cod. provenzale K, «.Studj romanzi» [non «Studj di filologia romanza» come inavvertitamente cita Perugi], I, 1903, p. 12). Tornerò più avanti su questo punto. (↑)
54. Si vedano le osservazioni di H. GRUBITZSCH-RODEWALD, Petrarca und Arnaut Daniel, Petrarcas Imitationstechnik in der Kanzone «Verdi panni», «Arcadia», 7 (1972), pp. 135-57. (↑)
55. I. FRANK, La chanson «Lasso me» de Pétrarque et ses prédécesseurs, «Annales du Midi», LXVI (1954), pp. 259-68; ulteriori attestazioni di questa tecnica di composizione offre ora C. CIOCIOLA, Reliquie di un’antica pastorella anglonormanna in un «bastardello» toscano del Quattrocento, «Studi Medievali», 3ª s., XXVI, II (1985), pp. 721-80. (↑)
56. Altre sollecitazioni gli sarebbero venute dall’ambiente avignonese, e in particolare dalla produzione innodica, comprendente un inno a citazioni ambrosiane, di Jacopo Stefaneschi (morto nel 1343): lo stesso Perugi avverte però che non si conoscono rapporti diretti fra Petrarca e lo Stefaneschi (pp. 242-4). (↑)
57. L’Isle-Jourdain era feudo della moglie di Stefano Colonna il Vecchio, cioè della madre del card. Giovanni e del vescovo Giacomo. L’ipotesi del ritrovamento in quel luogo nasce da una duplice considerazione: da un lato, dal fatto che l’Isle-Jourdain era una delle corti che gravitavano intorno al centro culturale di Rodez, dall’altro, perché consente di ipotizzare un coinvolgimento del clan dei Colonna anche in questo episodio minore della biografia intellettuale petrarchesca. Va detto tuttavia che la parte relativa al ruolo dei Colonna è forse quella più debole di tutto il libro, perché, nonostante le cautele esibite da Perugi, è sempre incombente il rischio di romanzare un po’ vicende personali e intrecci interpersonali che ci sono sostanzialmente ignoti. Da questo punto di vista, è opportuno segnalare come l’importante libro di GIUS. BILLANOVICH, La tradizione del testo di Livio e le origini dell’Umanesimo. I Tradizione e fortuna di Livio tra Medioevo e Umanesimo, Padova, Antenore 1981, libro su cui si fondano le ricostruzioni di Perugi, possa dare adito a semplificazioni e banalizzazioni: ad es., come potevano «echeggiare» nella memoria di Petrarca ritirato a Valchiusa «le dotte e vivaci conversazioni scambiate ad Avignone, magari con l’amico Colonna» [cioè Giacomo Colonna, come conferma l’indice dei nomi] (p. 266), se questi in quegli anni ha sempre risieduto a Roma? (↑)
58. Cfr. APPEL, Petrarka..., p. 227. (↑)
59. Si consideri anche quest’altro aspetto: i versi della canz. XXIX citati sopra, nei quali Laura assume le fattezze della salvatrice, sono immediatamente preceduti da un brano nel quale la durezza della donna, che spoglia il poeta «d’arbitrio, et del camin de libertade / seco lo tira» (vv. 5-6), porta il narratore a vagheggiare addirittura il gesto insano di Didone: «Da me son fatti i miei pensier’ diversi: / tal già, qual io mi stancho, / l’amata spada in se stessa contorse» (vv. 36-8). Ebbene, questa stessa rapida successione da una condizione di acuta disperazione alla celebrazione delle virtù salvifiche della donna, ha riscontro proprio nelle canzoni degli occhi. Mentre nella LXXI, pervasa da una concezione pessimistica ed angosciosa dell’amore, il poeta può spingersi ed evocare l’idea del suicidio: «Ma se maggior paura / non m’affrenasse, via corta et spedita / trarrebbe a fin questa aspra pena et dura; / et la colpa è di tal che non à cura» (vv. 42-5), all’inizio della LXXII quella stessa donna «che non à cura» viene apostrofata in questi termini: «Gentil mia donna, i’ veggio / nei mover de’ vostr’occhi un dolce lume / che mi mostra la via ch’al ciel conduce; /.../ Questa è la vista ch’a ben far m’induce, / et che mi scorge al glorioso fine» (vv. 1-8). Non si dimentichi che le canzoni degli occhi vanno considerate un unico poema unitario. (↑)
60. Si aggiunga, fuori clausola come in XIII, «come huom ch’a nocer luogo et tempo aspetta» (II, 4). (↑)
61. Cfr. le osservazioni di M. PASTORE STOCCHI, Sonetti III e LXI, in Lectura Petrarce 1981, Padova 1982 [= «Memorie della Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti», XCIII, 1980-1], pp. 5-7. (↑)
62. Amaturo non contesta la data, ma ritiene probabile «un restauro in età più tarda» (R. AMATURO, Petrarca, in La letteratura italiana. Storia e testi, II. t. primo, Bari, Laterza 1971, p. 255). (↑)
63. Il riscontro si deve a N. GIANNETTO, Il motivo dell’«amata incanutita» nelle rime di Petrarca e Boccaccio, in AA. VV., Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca. Il Boccaccio e dintorni, Firenze, Olschki 1983, p. 33. (↑)
64. Per una analisi, di questi fenomeni cfr. M. SANTAGATA, Dal sonetto al Canzoniere, Padova, Liviana 1979. (↑)
65. Un paio di esempi: i legami fra i sonetti CXCI-CXCII-CXCIII sono talmente fitti e stringenti da indurre D. DE ROBERTIS, Contiguità e selezione nella costruzione del Canzoniere Petrarchesco, «Studi di filologia italiana», XLIII (1985), p. 53 a parlare di connessione «costitutiva, e si direbbe originariamente, della serie». Ebbene, l’apertura di CXCI: «Sì come eterna vita è veder Dio» si ispira al Vangelo: «haec est autem vita aeterna ut cognoscant te solum verum Deum» (17,3) e alla prima Epistola di Giovanni: «hic est verus Deus et vita aeterna» (5,20), così come l’incipit di CXCII «Stiamo, Amor, a veder la gloria nostra» si rifà a Paolo «vos enim estis gloria nostra et gaudium» (I Th 2,20). Il riferimento al Nuovo Testamento prosegue in CXCIII, 7: «rapto per man d’Amor, né so ben dove», «dove risuona, a conferma di una comune matrice, il triplice ‘nescio’ del raptus Pauli, 2 Cor. XII 2-3» (DE ROBERTIS, Contiguità..., p. 53). Si aggiunga ancora che CXCII, 4 «vedi lume che ’l cielo in terra mostra» ha come illustre precedente il «e par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare» di Tanto gentile 7-8, esattamente come CXCIII, 11 «che pensar nol poria chi non l’à udita» rimanda a «una dolcezza al core, / che ’ntender no la può chi no la prova» di Tanto gentile 10-1. Altro gruppo di testi sicuramente fra loro connessi in fase di elaborazione è quello costituito dai sonetti CCCXXI-CCCXXII e dalla canz. CCCXXIII. Si veda come sia persistente nella serie il ricordo del quinto canto dell’Inferno; in CCCXXI, 5 è (a clausola «prima radice» che rimanda al v. 124 del canto dantesco: «Ma s’a conoscer la prima radice»; in CCCXXI, 7 è l’emistichio «onde Morte dipartille» a richiamare «ch’amor di nostra vita dipartille» di V 69; e infine, CCCXXIII, 9 «che ’n poco tempo la menaro al passo» allude scopertamente a «menò costoro al doloroso passo» di V 114. (↑)
66. A questo proposito è opportuno ricordare altre due circostanze: in primo luogo, che la situazione immaginata nel son. XII ritornerà in un trittico (CCCXV-CCCXVI-CCCXVII) ascrivibile con discreta sicurezza agli anni 1351-2; e poi che già da alcuni anni Vittore Branca aveva ipotizzato che il sonetto petrarchesco potesse dipendere da due sonetti del Boccaccio napoletano (XLVIII, L’alta speranza, che li mia martiri; XLIV, S’egli avvien mai che tanto gli anni miei), sonetti che Petrarca potrebbe avere letto dopo lo stabilirsi di un rapporto di amicizia con Boccaccio a partire dal 1350 (cfr. V. BRANCA, Implicazioni strutturali ed espressive fra Petrarca e Boccaccio e l’idea dei «Trionfi», in Atti del Convegno Internazionale «Francesco Petrarca» [24-28 aprile 1974], Roma, Accademia Naz. dei Lincei 1976, pp. 141-61; in part. p. 155). Va detto però che la cronologia dei sonetti boccacciani è tult’altro che certa, così come non è obbligatorio che una eventuale conoscenza da parte di Petrarca debba essere posteriore al ’50 (già dopo il primo viaggio a Napoli nel ’41 Petrarca potrebbe avere avuto fra le mani qualche scritto del futuro amico). Di recente la questione è stata ripresa dalla GIANNETTO, Il motivo..., pp. 23-8, senza però approdare a conclusioni in un senso o nell’altro. Si esprime invece nettamente a favore di una dipendenza di Boccaccio da Petrarca P. TROVATO, Dante in Petrarca. Per un inventario dei dantismi nei «Rerum vulgarium fragmenta», Firenze, Olschki 1979, p. 24. A complicare ulteriormente la situazione, si aggiunga che il nome di Boccaccio è stato fatto proprio in relazione a XIII: la prima quartina del suo son. XX «Sì dolcemente a’ sua lacci m’adesca / Amor, con gli occhi vaghi di costei, / che, quanto più m’allontano da lei, / più vi tira ’l desio e più l’invesca» ricalca infatti la prima quartina del sonetto petrarchesco (TROVATO, Dante in Petrarca..., p. 24). Ora, mi chiedo, senza naturalmente avere una risposta: alla luce delle incertezze riguardo alla cronologia di XIII e stando al fenomeno appena esaminato dell’accostamento di testi che denuncino una fonte comune, non potremmo pensare ad una inversione della direzione di influsso? Come dicevo, non ho la risposta: ancora una volta però l’invito alla cautela è d’obbligo. (↑)
67. Per esempio, non tutti i sonetti del ‘prologo’ saranno forse da ascrivere agli anni in cui viene ideato il primo canzoniere vero e proprio, come vorrebbero Chiòrboli, che indica il biennio ‘48-49, e Rico, che indica invece il ’49-50 (cfr. E. CHIÒRBOLI, I sonetti introduttivi alle «Rime sparse», in AA.VV., Studi petrarcheschi. Omaggio di Arezzo al suo poeta nel MCMXXVIII, Arezzo, Editoriale italiana contemporanea, pp. 65-77; in part. p. 75. e F. RICO, «Rime sparse», «Rerum vulgarium fragmenta». Para el título y el primer soneto del «Canzoniere», «Medioevo romanzo», III [1976], pp. 101-38; in part. p. 107), ma possiamo essere sicuri che almeno il III è posteriore alla morte di Laura (cfr. PASTORE STOCCHI, Sonetti III e LXI..., pp. 19-22). E ancora, il son. X è collocato vicino a testi anteriori al ’32 (come il son. VII) e precede testi databili con sicurezza al ’33-34 (son. XXVII e canz. XXVIII), eppure la sua composizione, come mostrerò in un prossimo lavoro, si situa durante il primo soggiorno a Valchiusa, probabilmente nella seconda metà del ’37. (↑)
68. Sequenza per altro largamente diffusa, con varianti che non ne modificano la sostanza, negli studi petrarcheschi: si veda, per esempio, A. FORESTI, Dalle prime alle «seconde lagrime». Un capitolo della storia dell’amore di Francesco Petrarca, «Convivium», XII (1940), pp. 8-35. (↑)
69. Cfr. M. SANTAGATA, Il giovane Petrarca e la tradizione poetica romanza: modelli ideologici e letterari, «Rivista di letteratura italiana», I (1983), pp. 11-61; in parlo pp. 58-61. (↑)
70. Cfr. G. CAPOVILLA, I Madrigali (LI, LIV, CVI, CXXI), in Lectura Petrarce, III, 1983, Padova 1984 [= Memorie della Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti, XCV, 1982-1983], pp. 5-40. (↑)
71. Che, in ogni caso, è quella suggerita da Petrarca in fase di ordinamento dei microtesti, visto che il madrigale è preceduto a poca distanza dalle canzoni L, Ne la stagion, che sembrerebbe risalire per l’appunto al primo viaggio a Roma (e che per di più si apre col paragone con una «vecchiarella pellegrina», v. 5) e LIII, Spirto gentil, dedicata a quanto pare ad un Senatore romano. (↑)
72. Il Neri ritiene che questo madrigale e il LII lascino «intravvedere una poesia giovanile (verisimilmente anteriore al canto per Laura)» (cfr. il commento al Canzoniere di Ferdinando Neri in F. PETRARCA, Rime, Trionfi e poesie latine, a c. di F. NERI, G. MARTELLOTTI, E. BIANCHI, N. SAPEGNO, Milano-Napoli, Ricciardi 1951). (↑)
73. La si può leggere in Su le «Poesie volgari» del Petrarca. Nuove ricerche di G. A. CESAREO, Rocca S. Casciano, Cappelli 1898, p. 225 e in CAPOVILLA, I Madrigali..., pp. 36-7. (↑)
74. Cfr. P. PETROBELLI, «Un leggiadretto velo» ed altre cose petrarchesche, «Rivista italiana di Musicologia», X (1975) [In onore di Nino Pirrotta], pp. 32-45; in part. pp. 35-40. Indipendentemente da Petrobelli, anche Battisti fissa la composizione del madrigale nel 1350, a Verona (cfr. E. BATTISTI, Non chiare aeque, in Francis Petrarch, Six Centuries Later. A Symposium, Ed. by A. scaglione, Un. of North Carolina, Chapel Hill 1975, p. 308). Chi scrive aveva invece avanzato l’ipotesi, ripresa poi da CAPOVILLA, I Madrigali..., p. 12, che Non al suo amante fosse anteriore alla canz. XXIII e in particolare all’ultima stanza della canzone (cfr. M. SANTAGATA, Canzone XXIII, in Lecture Petrarce, 1981, Padova 1982 [= Memorie della Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti, XCIII, 1980-81], pp. 60-1). (↑)
75. Per una prima informazione si veda PETROBELLI, «Un leggiadretto velo»..., pp. 42-5. (↑)
76. Per quanto riguarda CVI, Contini, pur osservando che «l’arcaismo stilnovistico del linguaggio [...] può, ma non necessariamente, significare data antica», rileva come «il componimento sia estraneo all’affabulazione generale del Canzoniere», confermando in tal modo la vocazione ‘occasionale’ di questo genere (cfr. G. CONTINI, Letteratura italiana delle Origini, Firenze, Sansoni 1970, p. 594). Il CXXI entra nella raccolta solo nella forma Malatesta, cioè presumibilmente verso la fine del ’72, collocandosi fra gli attuali CCXLII e CCXVIII; solo l’anno successivo, nella cosiddetta Quiriniana, andrà ad occupare l’attuale posizione sostituendo la ballata Donna mi vene spesso ne la mente. Un ingresso tardivo non significa di per sé composizione tardiva (il 1358 proposto da AMATURO, Petrarca..., p. 285 scaturisce da una inesatta ricostruzione delle vicende redazionali del testo); gli stretti rapporti fra i vv, 4-6 «Tu se’ armato, et ella in treccie e ’n gonna / si siede, et scalza, in mezzo i fiori et l’erba, / ver’ me spietata, e ’ncontra te superba» e la raffigurazione di Laura contenuta nell’ultima stanza della canzone ‘delle visioni’ (CCCXXIII, 61-5): «Alfin vid’io per entro i fiori et l’erba / pensosa ir sì leggiadra et bella donna, / che mai nol penso ch’i non arda et treme: / humile in sé, ma ’ncontra Amor superba; / et avea indosso si candida gonna», rapporti sottolineati da F. CHIAPPELLI, Studi sul linguaggio del Petrarca. La canzone delle visioni, Firenze, Olschki 1971, p. 142, potrebbero però essere assunti anche come indicatori cronologici (si ricordi che quella stanza della canzone risale ad un periodo compreso fra il 1365 e il 1368: cfr. R. BETTARINI, Postille e varianti nella canzone delle visioni, «Studi petrarcheschi», n.s. II, 1985, pp. 159-84). (↑)
77. FORESTI, Dalle prime alle «seconde lagrime»..., p. 18 assegna al «volge» del v. 9 il valore di ‘incomincia’ invece che di ‘si compie’; per questo motivo il testo sarebbe del ’37, in Roma. (↑)
78. Si veda C. CALCATERRA, Feria sexta aprilis, in Nella selva del Petrarca, Bologna, Cappelli 1942, pp. 209-45 [pubblicato come saggio nel 1926]. (↑)
79. B. MARTINELLI, «Feria sexta aprilis». La data sacra nel ‘Canzoniere’ del Petrarca, in Petrarca e il Ventoso, Bergamo... Roma, Minerva Italica 1977, pp. 103-48 [pubblicato come saggio nel 1972]. (↑)
80. È la tesi adombrata da PASTORE STOCCHI, Sonetti III e LXI..., pp. 19-23. (↑)
81. Cfr. PASTORE STOCCHI, Sonetti III e LXI... p. 22. (↑)
82. La datazione si deve a Billanovich: in particolare si veda GIUS. BILLANOVICH, Petrarca e il Ventoso, «Italia medievale e umanistica», IX (1966), pp. 389-401. (↑)
83. Il riscontro, assai più pertinente di quelli addotti da MARTINELLI, Petrarca e il Ventoso..., p. 131 con le preghiere contenute nel Parigino lat. 2201: «dirige gressus meos in viam pacis» (del 1 giugno 1335) e «gressus meos dirige in viam salutis eteme» (del 10 luglio 1338) e da M. CASALI, Petrarca «penitenziale»: dai «Salmi» alle «Rime», «Lettere italiane», XX (1968), p. 381 con Ps. pen. III 10 «Reduc me in vias tuas ante solis occasum», si deve a BILLANOVICH, Petrarca e il Ventoso..., p. 397. (↑)
84. Cfr. FORESTI, Dalle prime alle «seconde lagrime»..., p. 19. (↑)
85. Si veda anche l’ultima terzina di CI: «La voglia et la ragion combattuto ànno / sette et selle anni; et vincerà il migliore, / s’anime son qua giù del ben presaghe» (il sonetto sembra composto nella seconda metà del ’41; cfr. F. RIZZI, Francesco Petrarca e il decennio parmense (1341-1351), Parma 1934, p. 74). (↑)
86. Si osservi inoltre che l’espressione «L’aspetto sacro de la terra vostra [Roma] /.../... la via de salir al ciel mi mostra» (vv. 1-4) consuona strettamente con quelle, già viste in precedenza, in testi, sicuramente posteriori al ’48, o comunque indiziati di esserlo, nei quali Laura assume il ruolo di guida al Cielo. Vedremo più avanti che l’espressione «ora la vita breve e ’l loco e ’l tempo / mostranmi altro sentier di gire al cielo» di CXLII, 34-5 (ribattuta al v. 38 «altro salir al ciel per altri poggi») può anch’essa essere riferita a Roma, forse in occasione del giubileo del 1350. (↑)
87. Cfr., da ultimo, U. DOTTI, Vita di Petrarca, Bari, Laterza 1987, p. 63. (↑)
88. Si veda A. ROMANO, Il codice degli abbozzi (Vat. Lat. 3196) di Francesco Petrarca, Roma, Bardi 1955, pp. 114-7. (↑)
89. La dimostrazione si deve a E. H. WILKINS, The Making of the «Canzoniere» and other Petrarchan Studies, Roma, Ed. di Storia e Letteratura 1951, pp. 157-8, 337-8 e a PETRUCCI, La scrittura...,p. 112; cfr. anche PETRARCA, Epistole autografe...,pp. 7-8. (↑)
90. Cfr. SANTAGATA, Il giovane Petrarca..., pp. 50-6. (↑)
91. Anche Perugi (p. 239) scorge un legame di dipendenza fra il testo di K (che egli ritiene trascritto da mano quattrocentesca) e la citazione petrarchesca: è difficile però seguirlo quando interpreta il Franceschin del congedo di K come un «omaggio», nella persona di Franceschino degli Albizzi, «al precedente petrarchesco». (↑)
92. Si veda al riguardo D. DE ROBERTIS, Per la storia del testo della canzone «La dolce vista e ’l bel guardo soave», in Editi e rari. Studi sulla tradizione letteraria tra Tre e Cinquecento, Milano, Feltrinelli 1978, pp. 11-2 [pubblicato come saggio nel 1952]. (↑)
93. C. SEGRE, Les isotopies de Laure, in Exigences et perspectives de la sémiotique. Recueil d’hommage pour A. J. Greimas, eds. H. PARRET e H. G. RUPRECHT, Amsterdam/Philadelphia, J. Benjamins Publishing Co. 1985, pp. 811-26. (↑)
94. Le date proposte per il son. XC, Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, sono comprese fra il ’39 e il ’42. Problemi di datazione pongono anche i sonn. CXII e CXIII a Sennuccio del Bene, collocabili quasi certamente a cavallo fra gli anni Trenta e Quaranta, ma in un periodo non meglio circoscritto. Ritornerò comunque più avanti su di loro. (↑)
95. Cfr. G. CONTINI, Préhistoire de l’aura de Pétrarque, in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi, Torino, Einaudi 1970, pp. 193-9 [il saggio è del 1955]; un’ampia ricostruzione della storia del motivo dell’aura è ora disponibile grazie a B. SPAGGIARI, Il tema «west-östlicher» dell’aura, «Studi Medievali», 3ª s., XXV, II (1982), pp. 2-110. (↑)
96. Si vedano al riguardo C. SEGRE, I Sonetti dell’aura, in Lectura Petrarce, III, 1983, pp. 57-78 e DE ROBERTIS, Contiguità e selezione..., pp. 57-60. (↑)
97. I luoghi di Boccaccio allegati dalla SAPGGIARI, Il tema «west-östlicher»..., pp. 57-8 sono: son. LXII, Filostrato Proemio 13-14; V, 70; VII, 65, Filocolo II, 25, Teseida IV, 32, Amorosa visione XXXII, 67. (↑)
98. L’affermazione di CONTINI, Préhistoire..., p. 194 (che si ritrova, in forma più sfumata, anche in Segre, I Sonetti dell’aura..., p. 60) che gli abbozzi testimonino la nascita dell’intero gruppo di sonetti dopo la morte di Laura nasce infatti da una cattiva lettura di WILKINS, The Making..., p. 172, il quale invece per CXCVI e CXCVIII accetta la datazione tradizionale 1342-3 (per CXCVIII tuttavia la datazione al 1368 sembra più probabile, cfr. almeno A. NOFERI, Da un commento al Canzoniere del Petrarca, «Forum italicum», VIII, 1974, p. 504; SEGRE, I Sonetti dell’aura..., pp. 60, 67 e la posizione più prudente di DE ROBERTIS, Contiguità e selezione..., p. 56). Una datazione più alta non inficia tuttavia l’ipotesi continiana, dal momento che l’influsso di Boccaccio agirebbe sui primi due versi del son. CXCVI, su lezioni sostitutive, quindi, introdotte in fase di revisione nel 1368. (↑)
99. L’ipotesi è contestata a A. BALDUINO, Boccaccio, Petrarca e altri poeti del Trecento, Firenze, Olschki 1984, p. 236 «dati cronologici alla mano», ma è una contestazione infondata: Balduino infatti parla di diffusione giovanile del tema dafneo, cioè dell’equivalenza Laura = lauro, che è altra cosa da quella Laura = l’aura che qui interessa. (↑)
100. È sintomatico che SEGRE, Les isotopies...,non la utilizzi, riconoscendo invece sempre una connessione fra il sostantivo aura e il tema della brezza. (↑)
101. Cfr. almeno GIUS. BlLLANOVICH, Petrarca letterato. I Lo scrittoio del Petrarca, Roma, Ed. di Storia e Letteratura 1947, pp. 81-3. (↑)
102. Cfr. E. H. WILKINS, Notes on Petrarch, «Modern Language Notes», XXXII (1917), pp. 193-200, poi in The Making..., pp. 300-1. (↑)
103. Si veda BALDUINO, Boccaccio..., pp. 231-47. (↑)
104. La pretesa anteriorità di CXIII, sostenuta da FORESTI, Dalle prime alle «seconde lagrime»..., pp. 26-7 in considerazione del fatto che in CXIII Petrarca si rivolge a Sennuccio con il «voi» e in CXII con il «tu», è implicitamente negata da R. BETTARINI, Perché «narrando» il duol si disacerba. (Motivi esegetici dagli autografi petrarcheschi), in AA.VV., La critica del testo. Atti dei Convegno di Lecce 22-26 ottobre 1984, Roma, Salerno Ed. 1985, p. 310. (↑)
105. Si rilegga, con la precisazione fatta nella nota precedente, FORESTI, Dalle prime alle «seconde lagrime»..., pp. 26-7 e soprattutto si veda il commento di Chiòrboli a CXIII (F. Petrarca, Le «Rime sparse», commentate da E. CHIÒRBOLI, Milano, Trevisini 1924). (↑)
106. Si tenga presente che Sennuccio del Bene è il rimatore vivente con il quale più intensi sono stati i rapporti, anche poetici, di Petrarca. L’insieme della produzione petrarchesca legata al nome di Sennuccio colpisce, oltre che per la quantità (i nn. CVIII, CXII, CXIII, CXLIV, CCLXVI, CCLXVIII, CCLXXXVII, CCXCI del Canzoniere, ai quali BETTARINI, Perché «narrando»..., pp. 309-10 propone di aggiungere CXLIII; più le Disperse XXX, XXXI, XXXII dell’ed. Solerti), per l’importanza di alcuni di questi testi (CCLXVIII è la grande canzone in morte di Laura) e per il fatto che essi delineano un sistema omogeneo di temi, immagini e stilemi (alcune osservazioni al riguardo di BETTARINI, Perché «narrando»..., pp. 308-14 e in J. A. BARBER, Il sonetto CXIII e gli altri sonetti a Sennuccio, Lectura Petrarce 1982, Padova, 1983, pp. 21-39). Uno dei motivi centrali è proprio costituito dal nome di Laura e dalle isotopie che esso genera. Oltre alle formulazioni della canzone CCLXVIII, 49-50 «[i]l suo chiaro nome, / che sona nel mio cor sì dolcemente» e 76 «la voce al suo nome rischiari» (riecheggiami ancora in CCXCI, 14 «né di sé m’à lasciato altro che ’l nome»), è significativo il fatto che per ben due volte in testi inviati a Sennuccio la donna sia nominata esplicitamente; «et dico sospirando: Ivi è Laura ora» (CCXCI, 4), «e parmi Laura in quell’atto vedere (Disp. Sì mi fan risentire 12). Numerose poi sono le occorrenze delle serie isotopiche generate dalle note equivalenze: CCLXVI, 12 «un lauro verde, una gentil colonna» (a cui Sennuccio risponde coti Oltra l’usato modo si rigira, v. 2 «lo verde lauro»), CXII, 4 «l’aura mi volve», CXIII, 10-11 «onde nacque l’aura dolce et pura / ch’acqueta l’aere», CXLIII, 9 «Le chiome a l’aura sparse», Dips. «Sì mi fan risentire a l’aura sparsi / i mille e dolci nodi in fin a l’arco» (vv. 1-2). Al nome di Sennuccio si legano anche le sole attestazioni in ambito lirico (cfr. T. M. II 7) del senhal Aurora; in CCXCI, Quand’io veggio dal ciel scender l’Aurora, il senhal si accompagna alle altre manifestazioni del nome: «Ivi è Laura ora» (v. 4), «dolce alloro» (v. 7) [per il gioco «aurora» — «l’aura / Laura» cfr. CCXXXIX, 1 «Là ver’ l’aurora, che sì dolce l’aura»], come in parte anche nella Disp. Si come il padre del folle Fetonte, v. 9 «Così son vago de la bella Aurora» («alloro» in rima al v. 3) [Sennuccio replica con La bella Aurora nel mio orizonte]. È un dato di fatto, dunque, che i testi per Sennuccio sono particolarmente proclivi ad accogliere le manifestazioni del nome amato, e in particolare proprio nella forma dell’aura. Non intendo, trarne alcuna illazione: sottolineo solamente che l’intreccio biografico Petrarca — Sennuccio — Boccaccio trova nel motivo dell’aura un corrispettivo testuale. (↑)
107. È quanto ha sostenuto in una conferenza tenuta all’Università di Pisa il 4 maggio 1987 Giuseppe Velli, studioso sia di Petrarca che di Boccaccio. (↑)
108. Cfr. Poesie musicali del Trecento, a c. di G. CORSI, Bologna, Commissione per i testi di lingua 1970, p. 57. Segnalo però che CAPOVILLA, I Madrigali..., p. 37 non è persuaso dagli argomenti del Corsi. (↑)
109. Riparlo i testi di Arnaut nella forma e secondo la lezione con le quali sono citati da Perugi. (↑)
110. Si aggiunga CXLII, 19 «Però più fermo ognor di tempo in tempo». (↑)
111. Pertinente mi sembra il rinvio a CCCXII, 5-6 «più lento et frale / d’un picciol ramo». (↑)
112. Si aggiunga CXXXV, 42 «voler ch’è cieco et sordo». (↑)
113. Cfr. M. SANTAGATA, Prestilnovisti in Petrarca, «Studi petrarcheschi», n.s. II (1985), pp. 102-3. (↑)
114. Cfr. M. PERUGI, Arnaut Daniel in Dante, «Studi danteschi», LI (1978), p. 81. (↑)
115. Ma anche una serie come «fior’, frondi, herbe, ombre, antri, onde, aure soavi / valli chiuse, alti colli et piagge apriche» (CCCIII, 5-6) potrebbe essere confrontata con analoghe di Arnaut, ad es. Er vei vermeills, vertz, blaus, gruocs, / vergiers, plais, plans tertres e vaus (vv. 1-2). (↑)
116. Cfr. ROMANO, Il codice degli abbozzi..., p. 263. (↑)
117. La tesi accolta da Perugi è formulata nelle sue linee essenziali da C. CALCATERRA nel cap. La prima ispirazione dei «Trionfi» di Nella selva..., pp. 145-208 e perfezionata da E. H. WILKINS, Studies in the Life and Works of Petrarch, Cambridge (Mass), 1955, pp. 254-72; più recentemente è stata ripresa da E. FENZI, Per un sonetto del Petrarca; R.V.F. XCIII, «Giornale storico della lett. italiana», CLI (1974), pp. 494-519 (in part. pp. 499-509) e da DOTTI, Vita di Petrarca..., pp. 70-4. L’ipotesi tradizionale, che fissa la composizione intorno al 1351-2, è stata ripresa e molto consolidata da Vittore Branca e Giuseppe Billanovich: si vedano almeno, del primo La genesi dei Trionfi, «La Rinascita», IV (1941), pp. 681-708 e del secondo il vol. Petrarca letterato...,pp. 167-76. (↑)
118. Cfr. RICO, «Rime sparse»... (la cit. a p. 110). La datazione del sonetto proemiale comporta naturalmente una presa di posizione anche sui tempi della formazione del Canzoniere. Dopo l’intervento di Rico appare ormai un dato consolidato il fatto che il Canzoniere-romanzo nasce dopo la morte di Laura e che tutta la prospettiva del libro è segnata da quell’evento: per questo, il semplice rinvio a Wilkins per la discussione «sulla consistenza e il significato da attribuire alla bipartizione del canzoniere» di p. 301, appare del tutto insufficiente. (↑)
119. Lo si legge nella sezione Frammenti, a c. di N. SAPEGNO di PETRARCA, Rime Trionfi..., p. 581 e, insieme alla postilla che cito più avanti, in ROMANÒ, Il codice degli abbozzi..., p. 220. Il confronto di Rico è alle pp. 115-6 dell’articolo citato sopra. Non vi è accordo nell’individuare la forma metrica del frammento: mentre Romanò parla di stanza di canzone e Sapegno di canzone o ballata, Chiòrboli e Contini ritengono che i sei versi siano la sirma di un sonetto (cfr. E. CHIÒRBOLI, Il pianto di Laura, «Studi petrarcheschi», I, 1948, p. 61 e G. CONTINI, Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare [1943], ora in Varianti..., p. 20). (↑)
120. Il collegamento, giànotato da Appel (cfr. C APPEL, Zur Entwickelung Italienischer Dichtungen Petrarcas, Halle, Niemeyer 1891, p. 130), è sottolineato da CONTINI, Saggio..., p. 20 e da RICO, «Rime sparse»..., p. 116. (↑)
121. La rassegna delle varie proposte in R. S. PHELPS, The Earlier and Later Forms of Petrarch’s Canzoniere, Chicago, Un. of Chicago Press 1925, pp. 150-7, nel commento di Chiòrboli e in E. H. WILKINS, On Petrarch’s «Ad seipsum» and «I ’vo pensando», in Studies on Petrarch and Boccaccio, ed. by A. S. BERNARDO, Padova, Antenore 1978, p. 68 [pubblicato come saggio nel 1957]. (↑)
122. Cfr. F. RICO, Vida u obra de Petrarca. I Lectura del «Secretum», Padova, Antenore 1974: si vedano anche le obiezioni di B. MARTINELLI, Il «Secretum» conteso, Napoli, Loffredo 1982 e la risposta di RICO, Sobre la cronología del «Secretum»: las leyendas y el fantasma nuevo de un lapsus bíblico, «Studi petrarcheschi», n. s. I (1984), pp. 51-102. (↑)
123. G. PONTE, Datazione e significato dell’epistola metrica petrarchesca «ad seipsum», «La Rassegna della lett. ital.», 65 (1961), pp. 453-63. (↑)
124. Cfr. i riscontri addotti da RICO, Vida u obra..., pp. 102-3 e, dello stesso Rico, Escolios a una lectura del «Secretum» petrarquesco, «Anuario de estudios medievales», IX (Barcelona, 1974-79), pp. 507-10; in part. p. 508. (↑)
125. In verità WILKINS, The Making..., pp. 150-3 ritiene che la canz. CCLXIV fosse già presente, nella medesima posizione, in quella che egli considera la seconda forma del canzoniere, ordinata fra il ’47 e il ’50; gli studi di Rico ed una analisi intema dell’evoluzione ideologica della poesia petrarchesca inducono però ad escludere che quella forma sia mai esistita. È molto probabile che il primo vero Canzoniere petrarchesco, ideato negli anni fra il ’49 e il ’50, abbia assunto una prima stabile sistemazione proprio nella forma Correggio, fra il 1356 e il ’58. (↑)
126. G. GORNI, Metamorfosi e redenzione in Petrarca. Il senso della forma Correggio del Canzoniere, «Lettere italiane», XXX (1978), pp. 4-13; in part. p. 10. Gorni analizza anche gli stretti rapporti di solidarietà e di opposizione fra la sestina e il primo sonetto. (↑)
127. Il testo di chiusura della raccolta sarebbe il son. CCXCII. In molti hanno notato la consonanza fra il v. 12 «Or sia qui fine al mio amoroso canto» e un passo della postilla del 3 novembre 1357, relativa alla trascrizione ‘in ordine’ dei sonn LXXVII e LXXVIII, che suona dum volo his omnino finem dare (Vat. lat. 3196, c. 7r.), ricavandone l’impressione che la composizione del sonetto possa essere concomitante alla formazione della raccolta Correggio. (↑)
128. Cfr. Sonetti Canzoni e Triomphi di M. Francesco Petrarca, con la sposizione di Bernardino Daniello da Lucca, In Vinegia per Pietro et Gioanmaria Fratelli de Nicolini da Sabio, MDXLIX, p. 89 e GORNI, Metamorfosi e redenzione..., p. 9; anche lo scrivente aveva fatto sua l’ipotesi del Daniello (cfr. SANTAGATA, Il giovane Petrarca..., p. 61). (↑)
129. Sottovalutazione a cui si espone l’ipotesi di Foresti che la sestina sia da mettere in relazione con la visita a Montrieux nel ’47 e con le meditazioni del De otio (A. FORESTI, Un saluto e un sospiro alla Certosa di Montrieux, in Aneddoti della vita di Francesco Petrarca. Nuova edizione corretta e ampliata dall’autore, a c. di A. TISSONI BENVENUTI, Padova, Antenore 1977, p. 202 [pubblicato come saggio nel 1918]). (↑)
130. Ben poco si può dire sulla cronologia dell’altro testo che, secondo Perugi, conterrebbe una eco di questo incipit arnaldiano, il son. CLXXV. Ponte ritiene che sia «da riferire agli anni 1342-47, considerando l’allusione all’età di Laura e l’accostamento a uno spunto del Secretum» (F. PETRARCA, Rime sparse, a c. di G. PONTE, Milano, Mursia 1979). A me l’accostamento non sembra stringente: ma se così fosse, in base alla nuova cronologia del dialogo, potremmo abbassare la data dei sonetto a dopo il ’50, convalidando il riscontro con Arnaut. (↑)
131. Nel Parmense 1636, c. 48r. e nell’incunabolo londinese (f. 13r.) in luogo di padue si legge pridie: osserva Perugi (p. 298 n.) che «l’abbreviazione comune, alla quale si deve far risalire questa oscillazione, dovrà riferirsi a pridie piuttosto che a padue. Senza contare [...] che il Petrarca, nel secondo caso, avrebbe più probabilmente scritto Patavii». Ai fini del mio discorso interessa più la data che il luogo, perché in ogni caso la lettura della canzone di Arnaut deve essere avvenuta in una città padana. (↑)
132. Si veda, per esempio, G. FRASSO, Petrarca, Andrea da Mantova e il canzoniere provenzale N, «Italia medioevale e umanistica», XVII (1974), pp. 185-205. (↑)
133. La data più probabile è quella dell’estate del 1351. La datazione del CCCXXI è fornita dal CCCXX, al quale lo avvicinano una tale quantità di tratti tematici e linguistico-stilistici che SEGRE, I Sonetti dell’aura..., pp. 70-1 ha potuto parlare di «partogenesi» (si prenda nota però, a parziale correzione della tesi di Segre, che CCCXX non figura sul codice degli abbozzi). (↑)
134. La postilla suona 1349, novembris. 28. Inter primam et tertiam. videtur nunc animus ad hec expedienda pronus propter sonitia de morte sennucij [CCLXXXVII] et de Aurora [CCXIX] que his diebus dixi et erexerunt animum. (↑)
135. Si veda al riguardo B. SPAGGIARI, «Cacciare la lepre col bue», «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», Classe di lett. e filos., s. III, XII (1982), pp. 1333-403. (↑)
136. Dalla postilla, di difficile lettura, del Vat. lat. 3196, c. 5r., si ricava che, dopo avere trascritto il sonetto su un foglio di questo codice (probabilmente nei primi mesi del 1359; cfr. WILKINS, The Making..., pp. 158-60), Petrarca lo rifiutò (e infatti esso non figura nella redazione Chigi), per recuperarlo molto più tardi, il 22 giugno del 1369. Il 27 di quel mese, quando il testo era già stato copiato sul Vat. lat. 3195, intervenne di nuovo portando alcune modifiche alla parte finale (i vv. 10, 11, 12 e 14 sono scritti su rasura). Per queste vicende si veda ROMANÒ, Il codice degli abbozzi..., pp. 100-1. (↑)
137. Riporto la postilla, situata a c. 82r. del Casanatense 924, così come è trascritta dal Mestica Rescripsi hoc quia removj de tras . quia videtur ee alibi m. (↑)
138. La terzina finale di CCXI fornisce le esatte coordinate temporali del primo incontro con Laura, in perfetta coincidenza con quelle, relative al momento della morte, fornite da CCCXXXVI, 12-4 (coincidenza sottolineata, come è risaputo, dalla nota obituaria sul Virgilio Ambrosiano): anche senza accedere alla tesi di Martinelli sulla manipolazione delle date effettuata da Petrarca (cfr. MARTINELLI, «Feria sexta aprilis»... ), è assai probabile che egli sia venuto a conoscenza dei particolari relativi alla morte dell’amata solo dopo il ritorno in Provenza nell’estate del ’51, e che pertanto le indicazioni cronologiche che ruotano intorno a quell’evento siano posteriori al suo rientro (per la data della nota sul Virgilio, cfr. M. FEO, Inquietudini filologiche del Petrarca: il luogo della discesa agli inferi (storia di una citazione), «Italia medioevale e umanistica», XVII, 1974, p. 121). (↑)
139. Cfr. FORESTI, Un saluto..., p. 196. (↑)
140. Cfr. C. BERRA, L’arte della similitudine nella canzone CXXXV dei «Rerum vulgarium fragmenta», «Giornale storico d. lett. ital.», CLXIII (1986), pp. 161-99; la cit. a p. 172. (↑)
141. Per apprezzare la novità del testo di Petrarca, si tenga presente che prima del suo esperimento di incrocio tra frottola e canzone ci è noto un solo esemplare di frottola, tràdito dalla Summa di Antonio da Tempo: cfr. G. CAPOVILLA, I primi trattali di metrica italiana (1332-1518); problemi testuali e storico-interpretativi, «Metrica», IV, p. 129. (↑)
142. La bibliografia comincia ad essere abbondante; si veda almeno il notevole saggio di D. DE ROBERTIS, Petrarca petroso, «Revue des études italiennes», n.s. XXIX (1983) [ma uscito nell’’84], pp. 13-37. (↑)
143. Fornisco una rassegna dei riscontri più corposi rintracciabili nei testi petrarcheschi anteriori al ’47 e in quelli non datati, esclusi perciò dalla tavola riassunta ma che si possono presumere anch’essi anteriori alla morte di Laura (riconosco qui, una volta per tutte, i debiti particolare con il saggio di De Robertis citato sopra e con il libro di TROVATO, Dante in Petrarca...). La sest. XXII, come era logico attendersi, è il testo più disponibile: la seconda stanza si apre col modulo avversativo («Et io...») che ricorre in ogni decimo verso di Io son venuto; il v. 8 «a scuoter l’ombra intorno de la terra» rimanda all’incipit della sestina dantesca («Al poco giorno e al cerchio d’ombra»); l’ottativo del v. 28 «vedess’io in lei pietà» ricorda l’analoga movenza di Così nel mio parlar 53 «Così vedess’io lui»; infine, lo scatto sensuale dell’ultima stanza, oltre che ad Arnaut, è rapportabile a Così nel mio parlar 66-71. Per XXIX, 3-4 «Né d’òr capelli in bionda treccia attorse / sì bella come questa che mi spoglia» sono convocabili numerosi passi petrosi: «perché si mischia il crespo giallo e ’l verde / sì bel, ch’Amor lì viene a stare a l’ombra» (Al poco giorno 15-6), «sì è bella donna / questa crudel» (Io son venuto 25-6), «se mai fu bella donna / nel mondo come questa acerba donna» (Amor, tu vedi ben 59-60). XXXIX, 8 «lassando come suol me freddo smalto» richiama Io son venuto 59 «la terra fa un suol che par di smalto», mentre i «biondi capelli» di LIX, rinviano a quelli di Così nel mio parlar 63. Arnaut e Io son venuto 51 «per ch’io son fermo di portarla sempre» si fondano inestricabilmente in LXXXV, 5 «Et son fermo d’amare il tempo et l’ora». Più di un accostamento offre la canz. CXXXV: per «così in su la cima / de’ suoi alti pensieri» (vv. 10-1) con Così nel mio parlar 17 «così de la mia mente tien la cima», per il «cor di marmo» del v. 71 con Io son venuto 71-2 «Saranne quello ch’è d’un uom di marmo, / se in pargoletta fia per core un marmo», e infine, per la clausola del v. 89 «così gli occhi miei piangon d’ogni tempo», con quella di Amor, tu vedi ben 32 «mi ghiaccia sopra il sangue d’ogne tempo». L’ultimo riscontro significativo è fra CXLVI, 5-6 «sparse in dolce falda / di viva neve» e Io son venuto 20-1 «e cade in bianca falda / di fredda neve». Si tenga conto che questa mia rassegna tralascia fenomeni non meno importanti, come le riprese di rime o di parole in rima. (↑)
144. Cfr. SANTAGATA, Il giovane Petrarca..., pp. 12-30. Ho già detto che non mi persuade il riscontro addotto da Perugi fra XXIII, 20 e A. D. XVII, 32: in ogni caso, ancora una volta resteremmo entro i confini della sestina e ancora una volta con una rammemorazione atomistica. (↑)
145. Da un esame di tutti i testi posteriori al ’46 risulta che la presenza petrosa si riduce sensibilmente rispetto al gruppo considerato in precedenza: se escludiamo la sest. CXLII, i riscontri significativi mi sembrano solo tre (su un insieme di tredici componimenti): fra CCXXXIX, 16-7 (si noti che è una sestina) «l’aura / dolce, la qual ben move fiondi e fiori» e Al poco giorno 8-11 «ché non la move, .../ il dolce tempo che riscalda i colli /.../ perché li copre di fioretti e d’erba» (ma è più che altro una suggestione atmosferica), fra CCLXV, 6 «quando è ’l dì chiaro, et quando è notte oscura» e Amor, tu vedi ben 46 «che chiamo di notte e di luce», è infine fra CCXXV, 73-4 «una nube lontana mi dispiacque: / la qual temo che ’n pianto si resolve» e Io son venuto 20-2 «e poi si solve, e cade in bianca falda / di fredda neve ed in noiosa pioggia, / onde l’aere s’attrista tutto e piagne». L’unica vera eccezione è rappresentata dalla sest. CXLII, che invece è fittamente intessuta di elementi petrosi: si confrontino i vv. 1, 4-6, 11, 15 con Al poco giorno 1, 10-2, 37, 21; il v. 2 con Così nel mio parlar 4-6 e con Amor, tu vedi ben 36; il 19 con Io son venuto 51; il 39 con Amor, tu vedi ben 52. (↑)
146. Secondo la perizia riportata da C. BOLOGNA, Tradizione testuale e fortuna dei classici italiani, in Letteratura italiana VI Teatro, musica, tradizione dei classici. Torino, Einaudi 1986, p. 457.(↑)
147. L’ipotesi, avanzata da G. BERTONI, I Trovatori d’Italia (Biografia, testi, traduzioni, note), Modena, Orlandini 1915, pp. 196 e ripresa con cautela, fra gli altri, da G. FOLENA, Tradizione e cultura trobadorica nelle corti e nelle città venete, in Storia della cultura veneta, 1 Dalle origini al Trecento, Vicenza, Neri Parra 1976, pp. 463-4, appare solo parzialmente verisimile, a Perugi (p. 300), che, fedele alla sua tesi della preminenza della tradizione d’oltralpe, individua in un affine di ψ il codice letto da Petrarca. (↑)
148. Cfr. soprattuto La tradizione del testo di Livio... (↑)
149. Non disponiamo di studi specifici sui rapporti di Petrarca con la poesia contemporanea: alcune rapide indicazioni in TROVATO, Dante in Petrarca..., p. 21; per Cecco d’Ascoli si vedano ora i cenni di M. CAMUFFO, Presenze dantesche nell’«Acerba» di Cecco d’Ascoli, in questo fascicolo pp. 91-100. (↑)
150. Sull’enorme espansione della pratica poetica, soprattutto lirica, nel Trecento si vedano le pagine di. A. BALDUINO, Premesse ad una storia della poesia trecentesca, «Lettere italiane», XXV (1973), ora in Boccaccio..., pp. 13-55. (↑) |