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Beltrami, Pietro G.; Santagata, Marco. "Razo e dreyt ay si·m chant e·m demori". Un episodio della cultura provenzale del Petrarca. "Rivista di Letteratura Italiana", 5, 1 (1987), pp. 9-89.

Postilla di Pietro G. Beltrami (2014).

233,004- Guillem de Saint Gregori

v. 1 L’incipit di C (1) è ora ben difeso da Perugi, p. 18. La forma realmente testimoniata da C non comporta così com’è una variazione di significato rispetto alla vulgata; ci si può però domandare se sim non sia corruzione per sieu.
L’incipit può essere antifrastico di Gran esfortz fai qui chanta ni·s deporta / e cuy amors no mante ni coforta. / Per mi·us o dic... di Salh d’Escola (fine del XII secolo; BdT. 430,1, ed. in Los trovadores, n. 127; si badi peròche l’incipit èin parte congetturale, v. anche CHABANEAU, XXV, p. 218), la cui canzone fornisce anche un riscontro ai vv. 53-4, vv. 13-4 quar plus s’empren amors quan recaliva, / e tug mais eyssamen (cfr. Perugi, p. 35). Il sirventese di Montan Sartre imitato da questa canzone, Coms de Tolsan, ja non er qu’ie·us o pliva (BdT. 307, 1, cit. da Perugi, pp. 36-7, datato da CHABANEAU, XXVII, p. 157 al 1215 circa) fornisce ancora le rime recaliva (detto della guerra), abriva, viva (nella prima strofa).
Da notare che il cod. Laurenziano Strozzi 178 del Canzoniere di Petrarca (2) porta Raison et dreç es quieu cian en demory, lezione intermedia fra C e K, che esiterei però a ritenere un semplice rovesciamento meccanico dell’incipit citato da Petrarca nella forma di K. Più probabilmente la canzone deve avere avuto circolazione come Razo e dreyt... anche al di fuori della testimonianza di C. Non è forse una pura coincidenza il fatto che sia proprio questo codice a fare il nome di Arnaut Daniel per la citazione petrarchesca.
 
v. 3 La lezione di K richiede solo, per essere accettabile, la correzione di iensser nom. in gensor  C obl.; ma la lezione ipometra di C nasconde forse un verso del tipo Dieu, pois l’amor que es gensor ampari, / m’es bel..,, dove sarebbe da ripristinare il nominativo di K. La commistione di C e K stampata da Perugi è ancora quanto di meglio si possa ricavare da un luogo non soddisfacente. Amparar (con l’opposto dezamparar) è il mediolatino amparare «tueri, protegere» (/desamparare «cedere, rem occupatam dimittere»; cfr. DUCANGE sotto le due voci). In particolare desamparare è usato nelle cessioni di beni. In Bertran de Born Ges no mi desconort (BdT. 80, 21, ed. APPEL n. 18) il desamparar di n’Aimar (vv. 74-5) è il tradimento del visconte nei confronti del trovatore; il quale invoca il sostegno di Dio, che lo aiuti a ottenere un bacio dalla sua dama: si Dieus e saintz m’ampar! (v, 82). Nel lessico amoroso amparar indicherà qui dunque, con molta proprietà nel contesto della strofa, il rifiuto di abbandonare l’amore della dama (meno pertinente per il caso specifico mi sembra il richiamo di Perugi, p. 202, n. 16, alla tecnica del partimen; è verosimile però che la rima ampari : dezampari nel partimen fra Guilhem de Murs e Guiraut Riquier, BdT. 226, 3 = 248, 36, Perugi, p. 202, sia un’eco di Razo e dreyt).
 
v. 5 Se si legge partisca (v. sopra), in rima equivoca con il v. 14, è da accettare in pieno l’opinione di Perugi, p. 20: «un glossema lessicalizzato, in sostituzione di un *parcisca (SW attesta anche parcir) ormai incomprensibile». m’en parc «me ne astengo» è in Bertran de Born, No puosc mudar (BdT. 80, 29), ed. APPEL, 28, v. 19.
Il «frammentato dialogo interno» suggerito dalla punteggiatura è quello stabilito da Perugi (cfr. p. 19), dopo un primo tentativo di Appel. Certo, come osserva Perugi, ci si aspetterebbe vuelh (o anche volh), che consentirebbe una sintassi più naturale: «... e non me ne voglio astenere: non lo farò...».
 
v. 6 La lezione di C non richiede emendamento; bel C / ien (jen, gen) K è un’oscillazione sinonimica senza importanza. Perugi emenda K per ricavare uno iato: No faray yeu, que ab sol jen respondre.
 
v. 10 Sulla difficoltà di blasm’ez acori v. Perugi, p. 27, che traduce (p. 17) «se costei, per cui gemo e mi tormento». La traduzione «ciò per cui protesto e mi addoloro» è proposta dubitativa, che vuole recuperare un senso più normale per blasmar.
 
v. 12 piegz trac, so sai, qu’aysselh del sagitari / cayrel significa letteralmente «con peggior esito, lo so, scocco un dardo di quello del sagittario», o «dell’arciere» (o anche «scocco un dardo peggiore», Appel, che però parte da trai, «ella scocca»), dove «di quello del sagittario / arciere» può voler dire, a rigore, sia «di colui del sagittario» (escludendo il generico «arciere»: il personaggio identificato nel segno del Sagittario), sia «del dardo del sagittario / arciere» (con scelta da compiersi fra il personaggio zodiacale e un arciere generico, o più esattamente «l’arciere», identificato come ‘tipo’ dal ricorso all’articolo determinativo), piegz trac di per sé può voler dire «traggo vita peggiore», «vivo peggio» (l’espressione, con traire assoluto., è ampiamente documentabile), ma piegz esige un termine di confronto che non si può identificare, in questo caso, né nel fatto che il sagittario scocchi frecce, né nel numero, o nell’efficacia delle frecce di quello (a meno di intendere cayrelh come cong. pres. di un verbo caireihar, e sempre a prezzo di una comparazione in cui non è perspicuo il rapporto fra i termini comparati). Anche traire cairel è del resto espressione linguisticamente del tutto normale. Se si considera trai di K (con l’interpretazione di Appel) una banalizzazione, bisogna supporre una figura più complessa, ma non priva di efficacia: «se costei mi cambia in piombo l’oro [del dardo che io le scocco], con peggior esito dell’arciere, lo so, io scocco un dardo»: invece «quello che egli [l’arciere, secondo la lezione di C quel ma mes] mi ha messo in corpo» ha raggiunto il suo scopo, e soltanto la donna lo può levare senza che la punta (il «ferro») resti nella ferita. Se cosi è, l’arciere è Amore (il dart del plom, scoccato da Amor, è anche in Raimbaut d’Aurenga, BdT. 389, 15, ed. PATTISON XIII, v. 34, cit. da Perugi, p. 21). In ogni caso questa strofa (nella forma di C) appare in rapporto con quella della canzone Celeis cui am di Guiraut de Calanson citata da Perugi (p. 23 n. 4). Su quest’ultima, e sulle figurazioni di Amore, v, ora MARIA GRAZIA CAPUSSO, L’exposition di Guiraut Riquier sulla canzone di Guiraut de Calanson Celeis cui am de cor e de saber (I), «Studi mediolatini e volgari» XXX (1984), pp. 117-166; ... (II), ivi, XXXI (1985), pp. 5-189.
 
v. 15 for respondre «cavar fuori» è brillante interpretazione di Perugi, pp. 21-22. v. 19 Certamente la tradizione che porta a K aveva lunh o lunhs, da cui lis K; ma non si può dire se tale lunh fosse nell’originale, come opina Perugi, p. 23, o se sia stato sostituito, come forma alternativa, a nulhs testimoniato da C.
 
vv. 20-21 ausi è proposta di Perugi (p. 24) senz’altro da accettare per verosimiglianza linguistica oltre che per necessità metrica. Propongo in più no·l ausi, accettando il suggerimento di C laus, perché mi sembra più verosimile, data la situazione rappresentata da quan la guari, che il poeta voglia dichiarare il timore che lo prende davanti alla dama, tale da impedirgli di chiamarla per nome, piuttosto che affermare l’impossibilità di pronunciare quel nome in assoluto (ciò che sarebbe meno caratterizzante, dato che il codice amoroso prevede comunque il riserbo sul nome della dama). Inoltre, e soprattutto, legando quan la guari a no·l ausi dir piuttosto che ai vv. 22-23 si recupera il parallelismo fra quan la guari e quant ieu cug que·m jauzisca. Per no·l = no li, no lhi, cfr. per es, VINCENZO CRESCINI, Manuale per l’avviamento agli studi provenzali, terza ed., Milano, Hoepli 1926, p. 82.
 
vv. 22-23 angel (con rima atona) è lezione per la quale anche Perugi dichiara la propria simpatia (p. 24), pur preferendo K («per quanto lambiccato possa apparire... »). A me sembra più facile il passaggio (possibile paleograficamente, per la prima parola, nei due sensi) da angel del cel a agnel del sen, che fornisce una rima regolare. Probabilmente la ristrutturazione di K (o della tradizione che vi fa capo) è dovuta alla mancata percezione di jauzir transitivo, «dare gioia», «rendere gioioso», «concedere il joi», alquanto prezioso, ma ben documentato da SW s. v. jauzir 2; valga in particolare l’esempio di Cercamon (ora ed. TORTORETO, IV) Ab lo temps qe fai refreschar, vv. 29-32: Anc ieu de lei non volc clamar, / q’enqer, si·s vol, me pot jauzir, / et a ben poder de donar ! d’aqo on me pot enrequir. A SW si può aggiungere un esempio di uso al passivo dall’ensenhamen di Garin Io Brun (GIUSEPPE E. SANSONE, Testi didattico-cortesi di Provenza, Bari, Adriatica 1977, pp. 53-74), vv. 625-29: S’uns cavalers valenz / se part de vos iausenz, / toz tems mais a sa vida / serez per lui iauçida.
Una rima atona è nell’ed. EUSEBI di L’aur’amara di Arnaut Daniel: roma «imperativo di romaner», v. 102 in una serie di rime in -oma: mas sai m’an clamat: roma!; Perugi nella sua ed. (voi. II, p. 317) la dice «inaudita», e traduce roma parossitono, non senza difficoltà, con il dispregiativo «schiuma». Si può dire almeno che la forma era in ogni caso interpretabile come una rima atona, dato il contesto (si oppone a: c’anc nen estei / jorn d’Arago que·l saut / n’i volgues ir, ed. PERUGI, vv. 99-101). Casi più antichi di rima atona sono stati indicati da CARL APPEL, Raïmbaut von Orange (Berlin 1928), rist. Genève, Slatkine 1973, pp. 88-9, nella canzone di quest’ultimo Cars, douz e fenhz (BdT. 389, 22): pliura v. 16, reviura v. 61 e 69, esquiura v. 65 futuri (come tali tradotti anche da PATTISON, I, pp. 65 ss., tranne il primo, però tradotto a senso) in una serie di rime in -iura parossitono,
 
v. 25 Il problema fonetico posto da Appel (p. 216) contro l’esito Uzest da UCETIA è implicitamente reso irrilevante da Perugi (p. 26), che cita la rubrica di C 333v, dove Uzest designa inequivocabilmente Uzès. Sull’identificazione di questo conte torno più avanti.
 
vv. 28 ss. no·m tori per C no(n) tori (la lezione di K è inservibile) è frutto dell’intuizione di Perugi. Scartata la traduzione dello stesso, che dipende dall’errore di lettura de lom v. 29 (v. 11 della sua edizione), mi pare bene applicabile al nostro caso il senso di torar attestato nella Gesta Karoli cit. in SW s. v., anche se il testo è più tardo del nostro (testo latino dei primi del XIII sec., trad. prov. in mss. del XIV): E Karles am la sua espasa... feric Fureum per mieg loc de l’elme e torec li tot lo cavai per mieg.., (lat. scindit), e così nel secondo esempio ivi citato. Si esprime con questo verbo la conseguenza di un colpo tanto forte da dividere in due l’uomo o l’animale su cui cade. Qui no·m tori, certamente prima pers. sing., andràcollegato con bat, morfologicamente ambiguo fra prima e terza pers. sing., e che sarà quindi prima pers.: il personaggio che dice «io» percuote se stesso, ma il colpo non ha il potere di spezzarlo, cioè di ucciderlo o, metaforicamente, di spezzare la sua determinazione (cfr. forcar rifl. in Arnaut Daniel, Si·m fos Amors, ed. PERUGI XVII, vv. 17-8: ...cuias que s’esparja / mos deziers ni que·s forc ni esbranc?, e la nota di P. a p. 595).
lo ramsè la dama in Folchetto, Mout i fetz gran pechat Amors (STROŃSKI, VIII), vv. 18-20: pero·l mals mi fora doussors, / sol l’aut ram a qu’era·m sui pres / mi plejes, merceian, merces (il prestito è reso probabile dalla coppia doussors-ram a fronte di dous-rams); con una certa audacia metaforica la ‘donna-ramo’ è il ramo (la verga di Arnaut Daniel, probabilmente) con cui il poeta si percuote, vale a dire la dama aspirando alla quale egli procura a se stesso il proprio male. Poiché il rams è dous, e il poeta non è ucciso dal colpo (l’idea estrema si trova invece all’inizio della strofa V), egli vuole che sia portata alla sua dama la poesia che egli ‘intaglia’ (giusta il luogo parallelo di Cerverí citato da Perugi, pp. 187-8, che agisce per noi da interpretante, anche se non si tratta di una citazione) perché ha fiducia di non trovarsi alle prese con un signore che intenda distruggere i suoi vassalli oltre che metterli alla prova (un luogo parallelo è in Blacatz, Lo bels douz tems, BdT. 97, 6, ed. SOLTAU, IX, vv. 20-24:... Per vos, dompna, morrai. / Car me trobatz verai / Vos i prendetz lo dan; / E non es benestan / C’om eis los sieus aucia - sul valore «temporal-conditional» di pus v. FREDE JENSEN, The Syntax of Medieval Occitan, Tübingen, Max Niemeyer 1986, par. 1071; l’esempio da Perdigon: qal d’aqels deu amar enan donna, pos la destrenh amors?): in quest’ultimo caso ‘intagliare una poesia’ gli sembrerebbe una cosa priva di senso. Al tempo stesso egli non vuole presentare la sua poesia di persona (così come non osa chiamare la dama per nome), e perciò rifiuta gli strumenti, finché si trovi nella presente situazione. In questo modo i vv. 34-36 sono correlati con il v. 29 e con l’inizio del v. 30 nella forma congetturata.
S’intende che la congettura ha la funzione di dimostrare la verosimiglianza complessiva della forma di C, non la pretesa di recuperare in modo certo l’originale. L’intento della ricostruzione è di fornire un senso e di giustificare per quanto possibile anche la lacuna di C, che nell’ipotesi sarebbe dovuta alla parziale sovrapponibilità dell’inizio del v. 30 con il v. 29. Mentre il senso mi pare così sostenibile (che il v. 30 debba contenere un sinonimo di ‘poesia’ pare anche a Perugi, p. 28 e p. 188 n. 40, dove ipotizza un vers, chantar oppure sonet per sanare una lacuna che egli giustamente ritiene non sanabile con certezza), sul dettaglio non possono mancare dubbi; in particolare per do·l = don li «per cui a lei» mi soccorre solo un esempio, foneticamente, ma non morfologicamente analogo, in Arnaut Daniel, Chanzo don·l mot son plan e prim (ed. PERUGI, II, v. 1), do·ill mot nell’ed. EUSEBI (II, v. 1); nei mss. anche dol GHIK (e nel nostro testo, se si ammette l’interpretazione, si può anche decidere di emendare do·ill). C’è però un’altra possibilità, a partire dalla stessa congettura: intendere al v. 28 do·l om = don l’om (accostandosi morfologicamente all’esempio arnaldiano), e al v. 29 do·l = do·ill «dia a lei», e so = «ciò», sempre riferito alla poesia. In questo caso sarebbe da porre un punto e virgola alia fine del v. 27: «Dolce è il ramo con cui mi percuoto, ma non mi fendo; dunque le si dia ciò che intaglio...».
Si noti infine che la grafia dogl di K potrebbe essere il riflesso italianizzante di un precedente dolh = do·lh.
 
v. 33 Su blahir «ardere» (che rende verosimile, nel binomio, fondre «rovinare, andare in rovina», parola anche del lessico militare dell’assedio da ricollegarsi, come campo semantico, al v. 42), v. Perugi, p. 29.
 
v. 36 Sull’interpretazione di de sai dec v. Perugi, p. 30.
 
v. 40 Sulla traduzione di irnel v. Perugi, p. 31.
 
v. 41 Perugi traduce «non ho angolo in terra che mi sopporti», ma v. per la traduzione che mi sembra preferibile SW aver loc, s. v. loc 13 (e FRANÇOIS RAYNOUARD, Lexique roman, rist. Heidelberg, Carl Winter 1909, IV, 88, 11° e 12° es. s. v. loc, cui SW rimanda integrando la documentazione), e se sofrir «sich aufrecht halten» s. v. sofrir 11.
 
vv. 49-50 Un cotel tronc non è, come credeva Appel, «un coltello che non taglia», ma certamente, come ha chiarito ora Perugi, una tunica corta o scorciata. Sulle conseguenze di questa traduzione torno più oltre. Come sostiene giustamente Perugi, il modello più prossimo di questa scena di monacazione ipotetica (il topos risale alla chansoneta nueva di Guglielmo d’Aquitania) è una strofa di Raimbaut d’Aurenga (BdT. 389, 8, PATTISON, XIX, vv. 50-6), che (con l’eccellente correzione di Perugi a Pattison, v. 55 serai per gent quereliva al posto diserai (tot per gent, geliva)), suona così:
 
E s’ieu en fauc semblan guay
ni·m depenh cueynhdes e vas,
si tot m’ai bos ermitas
estat et enquar ploros;
e bos hom religios
serai per gent quereliva
tostemps, si·l cor no m’en tray.
 
 
Questa poesia e l’altra di Raimbaut d’Aurenga (BdT. 389, 41, PATTISON, V) che contiene come questa la rima nominativa danno le rime viva (V, v. 6, XIX., v. 6), nominativa (V, v. 48, XIX, v. 60), recaliva (XIX, v. 20), abriva (V, v. 20, XIX, v. 48), e inoltre que·m caliva «for it is important to me», che rappresenta il pendant metaforico di qu’encaliva, v. 44.
 
v. 50 Sulla traduzione di layssar mala gisca v. Perugi, p. 34.
 
vv. 51-2 L’allusione alla tonsura in contesto amoroso è ripresa da Granet in un testo (BdT. 189, 4, cit. da Perugi, pp. 165-6) che AMOS PARDUCCI (Granet, Trovatore Provenzale, estr. da «Miscellanea di letteratura del medio evo», Roma, Società Filologica Romana 1929, pp. 7-8) data agli anni 1250-3 presso la corte provenzale di Carlo d’Angiò.
 
vv. 53-4 Perugi (p. 18 e nota pp. 34-6) traduce «se pur non ho una ricaduta nel male, cioè nell’amore che non riesco a ottenere», con ottime ragioni; tuttavia l’uso transitivo di recalivar, meno normale di quello assoluto, ma testimoniato in Flamenca, vv. 2672-6 (ed. Las novas de Guillem de Nivers, a c. di ALBERTO LIMENTANI, Padova, Antenore 1965: que·l rescaliu / las plagas d’amor, cit. anche da Perugi), consente di attribuire al testo una sintassi molto più naturale.
 
v. 56 Che en Sanguiniers sia la firma dell’autore, come ipotizza Perugi (p. 51), è solo possibile; in questo caso sarebbe anche da osservare che l’uso di autochiamarsi con la particella onorevole esiste (lo fa per esempio Grimoart), ma non si può considerare normale. Il nome, pseudonimo nell’interpretazione di Perugi di Guilhem de Murs, sarebbe da. connettere con la terra de Sanguin nominata da Guilhem Rainol d’At (BdT. 231, 1) in un contesto tale da indicare «a nord di Avignone, l’area del Vaucluse bagnata dall’affluente del Rodano reso illustre dalla presenza di Laura» (pp. 51-55, a p. 55). Insomma en Sanguiniers dovrebbe essere traducibile con «il signor Valchiusano», «il signore di Val di Sorga», o con qualcosa del genere; ciò che comporta la necessità di accettare un etnico in -ier, che comunque dovrebbe essere considerato molto raro, dato che il lavoro di ADAMS sulla formazione delle parole in provenzale non registra neanche un caso del genere (3). In realtà neanche le ipotesi sostituibili a questa sono davvero convincenti. Sanguiniers potrebbe essere collegato con sanguine, il colore o la stoffa di tale colore, facendone un (improbabile, comunque non attestato) nome di agente dei tipo olier «mercante d’olio» (che esiste come nome (4)), lanier «mercante di lana» (già meno normale). Oppure Sanguiniers può essere un epiteto, «sanguinario», «il signor Sanguinario»; ma ci si aspetterebbe piuttosto la forma dotta sanguinari, e ci si dovrebbe ancora domandare di chi si tratti (se fosse la firma dell’autore, bisognerebbe anche vederci una buona dose di autoironia). Infine Sanguiniers può essere una neoformazione in -ier su un nome come Seguin, Sanguin, o anche su Sancho, se vale il riscontro con una Sangua citato «per scrupolo» da Perugi a p. 55, n. 15 (5). In assenza di un riscontro chiaro ed immediato, un’interpretazione ipotetica di questo senhal dipenderà dall’idea che ci si può fare dell’autore e delle circostanze in cui questi abbia composto il suo testo.
 
v. 57 Purtroppo non è possibile stampare C secondo l’uso moderno mantenendo l’ambiguità fra sabra son pec «saprà il suo peccato» e Sabra son pec «i Sabran sono biasimevoli». Se il significato è il primo, le lezioni di C e di K sono adiafore (Perugi sceglie conos di K, integrando una s, sulla base di un riscontro con Marcabruno, BdT. 293, 32, vv. 64-5). Scelgo come ipotesi di lavoro la seconda possibilità, assumendo che, come non è insolito, e come l’espressione qui que sai rest fa sospettare fortemente, la tornada contenga un’allusione concreta a qualche fatto, sulla natura del quale è lecito almeno interrogarsi. Il fraintendimento di K sarebbe in questo caso del tutto naturale.
 
 
Note:
 
1. L’attribuzione delle due tavole di C è rispettivamente Guillem de sanh gregori (c. 15r della prima numerazione) e Guille(m) de san gregori (c. 29r della stessa numerazione). Per ragioni che non conosco GIULIO BERTONI, Le postille del Bembo sul cod. provenzale K, «Studi romanzi» I (1903), pp. 9-31 a p. 12 e I Trovatori d’Italia, Modena, Orlandini 1915, pp. 17-18 dà come attribuzione di C Guilhem de Saint Leidier. ()
 
2. SANTORRE DEBENEDETTI, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento, Torino, Loescher 1911, pp. 7-8; Perugi pp. 39-40. La scheda del Bandini (Bibliotheca Leopoldina Laurentiana seu calalogus manuscriptorum... ANGELUS MARIA BANDINIUS... recensuit, illustravit, edidit, suppl., t. II, Florentiae typis Regiis 1792, col. 582s.; v. però: Biblioteca Medicea-Laurenziana, Mostra di codici petrarcheschi Laurenziani, Firenze, maggio-ottobre 1974, Firenze, Olschki 1974, p. 55, n. 67) va così corretta nella prima parte: a c. 4r, dopo l’indice, comincia sotto il titolo Petrarcha laureatus flor. la canzone O aspetata in cielo beata et bella, con abbondanti note marginali; il testo finisce a c. 5v, seguito dal commento, che comincia La matera di questa canzone e questa Il re philippo... e finisce al termine di c. 7r ...africano primo di chui scrisse la Africa et p(er)o dice no(n) pu(r) sotto le bende. A c. 7v. comincia Italia mia, con abbondanti note marginali; il testo finisce a c. 8v, con lunghe note marginali che occupano però anche una buona parte della pagina, sotto l’ultimo verso; il commento comincia a c. 9r Italia mia etc. In questa canzone p(ro)cede l’autore p(er) solenne modo..., e finisce a c. 15r Idio metta pace p(er) tutto amen. Fine a la dispositione della canzone di Italia. — Lasso me è trascritta alle cc. 28v-29r all’interno di un gruppo di canzoni (la precedono, fra l’altro, alcune sestine), in una zona del codice libera da note marginali; accanto all’ultimo verso di ogni stanza la stessa mano che ha scritto fin qui testi, note e commenti ha indicato i nomi delle fonti: Arnaldo (o espunta) danielli, Guido chavalcanti, damte, Cino da pistoia, petrarcha Ia(m) (Nel dolce tempo è nel codice la seconda canzone dopo le due commentate).4. E il caso del trovatore Johan Esteve Olier de Béziers: si veda ora SERGIO VATTERONI, Le poesie del trovatore Johan Esteve, Pisa, Pacini 1986, pp. 3-7. ()
 
3. EDWARD L. ADAMS, Word-Formation in Provençal, New York, McMilìan 1913, rist. New York, Johnson 1967. Si può però citare (come mi suggerisce Aurelio Roncaglia) il nome dei Franchi Ripuarii. ()
 
4. E il caso del trovatore Johan Esteve Olier de Béziers: si veda ora SERGIO VATTERONI, Le poesie del trovatore Johan Esteve, Pisa, Pacini 1986, pp. 3-7. ()
 
5. Si tratta di un testo pubblicato da ALBERTO VÀRVARO nella sua edizione di Rigaut de Berbezilh, pp. 245-52. Sangua è la forma di C, che attribuisce la poesia a un Peire de Cols d’Aorlac, mentre f la attribuisce a Rigaut. Pensare però che Sanguiniers alluda ad un Sancho, magari attraverso un diminutivo, pone un problema di fonetica che renderebbe quasi indispensabile un emendamento in Sanchiniers; e non mi pare che le nostre conoscenze sulle «ragioni» di questo testo siano sufficienti per osarlo. ()

 

 

 

 

 

 

 

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