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Bertoni, Giulio. I trovatori d'Italia. Modena: Editore Cav. Umberto Orlandini, 1915.

334,001- Peire de la Cavarana

Le lezioni dei mss. non sono state sinora date dagli editori precedenti con la necessaria esattezza. Sopra tutto le varianti (anche non grafiche) di I K sono state trascurate.
 
9. La lezione peiz er (ricostruita su peiz es di D e su peier di I K) accettata dal Crescini, Man. 2, 276 non mi accontenta appieno. Certo, essa sembra, di fronte al peier di I K, una «lectio difficilior» e quindi degna d'essere accolta nel testo; ma a ben guardare, il peiz es di D potrebbe anche provenire da una copia intermediaria scritta nell'Italia settentrionale, nella quale un peier fosse divenuto pezer, (o peizer), male interpretato poi per peiz es. E il mutamento potrebbe anche essere avvenuto nel solo ms. D. Il senso richiede piuttosto peier o peior che peiz (l’er diventa, in ogni caso, una particella inutile). La forma regolare sarebbe peior, e ho esitato a lungo se dovessi o no, introdurla nel testo. Poi, considerando che il nostro componimento ha tracce di gravi infrazioni alle norme della declinazione, mi sono risoluto a rispettare la lezione di I K. Si noti infatti compraz (obl.), mentre ci si aspetterebbe comprat, e si veda quanto ho avuto occasione di dire a p. 159 di questo volume (avars 12, Milans 40). La rima ha indotto il nostro poeta ad usare la forma dell'obliquo, poichè par difficile che compratz (come propone il Crescini in una nota aggiunta del suo Man. 2, p. XI) possa essere inteso per «schiavo» usato al singolare, riferendosi esso a più persone.
 
12. Vorremmo mostretz, anzichè mostraz, mostratz. Si tratterà d'un italianismo dovuto, se non all'autore, per lo meno a un copista. Vero è che talora in ant. provenzale un verbo all'indicativo occupa il posto di un verbo al soggiuntivo; ma ciò ha luogo in casi speciali, p. es. dopo enanz que. È noto un verso del componimento Bem platz, attribuito a Bertr. de Born (secondo altri, v. Lewent, Archiv, CXXX, 324-34 sarebbe invece di Guilh. de Saint Gregori) che suona (53): Enanz qu'usquecs no·us guerreiatz. Il Thomas (Bertr. de B., p. 135) notando che il componimento è anche ascritto a Lanfranc Cigala, sarebbe disposto ad attribuirlo a questo trovatore in grazia di questo solecismo; ma Daude de Pradas ha enans qu'om mi quier (10, 14) e Jordan Bonel (2, 2): enans que plus mi tays (cfr. Stimming 2, p. 213). Però il passo di Peire è di sintassi assai diversa e la forma non ha neppure la scusa di trovarsi alla rima. Nel nostro caso, dato il senso negativo della frase, ci si aspetterebbe certo il soggiuntivo. Cfr. G. de Bornelh, Si·us quer (Kolsen, p. 370), v. 3: no·l me vedetz (tre mss. soltanto hanno vedatz) e si veda questo vol. a p. 159, n. 1. — Avars. Ha qui il senso di «cupido, ingordo». Chi è avaro è anche «cupido», onde il passaggio di significato si presenta con sufficiente chiarezza. Vorremmo però avar (non avars). V. questo vol. a p. 159.
 
15. Il Restori (op. el. cit.) proporrebbe il mutamento di prendre in pendre, cioè «pendere». Come abbiamo prendre nella medesima strofa al v. 11, una correzione s'impone, a mio avviso; ma pendre non mi accontenta, non soltanto per ragione del senso, che non mi pare accordarsi troppo bene col verso seguente (v. 16), ma anche perchè sarebbe necessario correggere sil dei mss. in s'el (se egli, l'imperatore), o anche si ’l (si el). Il Restori ha, a torto, s·il, che traduce appunto per «se egli»; ma si·l, piuttosto s'il, non può andare. Insomma, il cangiamento in rendre mi pare migliore. Al v. 11, si tratta di prendre e qui è questione di rendre ciò che si è preso (1). Un copista dovè scrivere, forse prendre, anzichè rendre, in causa di quel pois che precede immediatamente e che avrà portato un p- sulla punta della penna al momento di scrivere rendre.
 
23. Il ms. D ha de nos; ma poichè I e K hanno de uos, bisognerà accogliere quest'ultima lezione. Se però il ms. D avesse ragione, si avrebbe una ragione di più per ritenere italiano il nostro Peire, il quale verrebbe a dirsi, egli medesimo, lombardo.
 
27. ia sa. I mss., checchè appaia dalle precedenti edizioni del testo, hanno ia soa. La correzione ia sa compaigna (Crescini 2, 277) si presenta però ovvia e soddisfacente, poichè con essa si evita di avere il tonico soa senza articolo e di avere nel verso un soa d'una sola sillaba. Ma non sarà anche questo un italianismo dell'autore? In questo caso, ia soa potrebbe essere accettato.
 
29. Car cor. Tutti e tre i mss. hanno car cor, che si potrebbe facilmente emendare in c'al cor (con anticipazione di -r), se qualche scrupolo non intervenisse a fermare la mano del correttore. L'interpretazione car cor per «perchè il cuore» urta contro la mancanza dell'articolo (cor per cors, sopratutto in un testo come il nostro, sarebbe invece ammissibile). D'altronde, accettando c'al cor, la locuzione fai laigna rimane alquanto sospesa. Darle come soggetto un la gentz, ricavato dal v. 25, è cosa possibile, ma la costruzione ne risulta forzata; prenderla quasi impersonalmente, è altresì cosa possibile, ma assai ardita. Lascio dunque nel testo car cor. Si potrebbe pensare che l'autore avesse scritto cal cor (cioè ca·l cor[s] facendo uso di un ca (quia) dialettale. Se non si voglia arrivare sino all'autore, il quale però ha usato un verbo come sargotar (v. 30, v. la nota), basterà pensare che cal sia stato introdotto da un copista a sostituire un originario quel (2). Eppoi, questo cal potrebbe essere stato cambiato in car. Congetture, si dirà, ma congetture non inutili, se non m'inganno. A mantenere la lezione del ms., mi conforta poi anche un poco un passo di Peire Vidal, Amors pres sui, vv. 26-27: Quar cors qu'es plens d'aziramenFai ben falhir boca soven (ediz. Anglade, p. 99), sebbene la mancanza dell'articolo sia qui spiegabile grazie al senso indeterminato di cors. Il ms. D (c. 27b) ha invece in questo passo del Vidal (il che non è senza importanza per noi): Qe·l cors q'es plens ecc.
 
30. sargotar. È il solo esempio che si abbia di questo verbo, che par vivere nel moderno prov. sargotar «tirailler, houspiller, chiffonner, en Langedoc; secouer, cahoter, ébranler» (Mistral). Dico: par vivere, perchè il senso è alquanto diverso; ma non si può però negare che fra «secouer, ébranler», ecc. e il parlare con difficoltà o con brutta pronunzia esista qualche rapporto (cfr. l'emil. parlär a spintón, tintunnär, cianciugliare, «tentonnare»). L'ital. ha «ciangottare» ed io mi chieggo se in esso non si nasconda un ciargottare con influsso di «cianciare». Curioso è che del parlare dei tedeschi in polacco si dica tszwargotaic' e nei dial. svergotac', sfargotac' (il verbo significa anche «parlare una lingua straniera, incomprensibile» e si adopera altresì per la lingua degli Ebrei e per il parlare dei fanciulli). La voce polacca non pare essere però d'origine slava. Compare nella letteratura polacca soltanto nella seconda metà del sec. XVIII e non saprei però dire se provenga dal termine romanzo. Anche non so se vada col pure pol. s'wiergotac' (detto della lingua dei bimbi e degli uccelli), perchè la forma primitiva di questo verbo era s'wiegotac' modificatosi sul finire del sec. XVIII in s'wiergotac' per influsso di tzwargotac'. La questione è ardua e la lascio insoluta. Ricordo, invece, perchè la cosa non è per noi senza importanza, che Pons de Capduolh ha un'allusione al parlare dei Tedeschi (ediz. Napolski, p. 79, vv. 20-21): Qu'ieu non enten plus que selhs d'AlamanhaQui parl'ab me.
 
32. Granoglas. Correzione del Levy, Literaturblatt, XVI, 231 e dello Schultz-Gora, Zeitschr., XXI, 129. Il Canello aveva proposto la correzione Can engles che accontenta molto meno.
 
33. Broder è attestato, si può dire, dai manoscritti, in quanto D ha broder e I K hanno border, ed è certo più accettabile del Brod et del Canello. Quanto a guaz (che cosa?), dirò che io medesimo non sono contento della mia proposta, la quale tuttavia ha per lo meno altrettanto diritto d'essere presentata, quanto quella del Canello, che in questa oscura voce vedeva nientemeno «Wasser». Altri ha proposto (cfr. Nickel, Sirventes und Spruchdichtung, Berlin, 1907, p. 22): bruoder (congettura del Roethe, con la quale ci incontriamo), ma in guaz ha voluto vedere, non capisco come, un guot. Ben a ragione lo Schultz-Gora, Literat., XXIX, 323 non ha fatto buon viso a questo guot. La mia correzione ho messa innanzi, per la prima volta, nel mio volume L'Elemento germ. nella lingua ital., p. 247. S'io ho ragione, si avrebbe un'assonanza, al qual proposito noto che un altro caso di assonanza si ha nel nostro medesimo testo, al v. 36.
 
36. Abbiamo qui un'assonanza. Data la forma del componimento (sirventese a retroensa), non mi pare impossibile che si trovasse già nell'originale. Quanto poi all'imagine del «cane», si cfr. Peire Vidal, Bon' aventura, vv. 9-12: Alamans trob deschauzitz e vilans; — E quand negus si feing esser cortes, — Ira mortals cozens et enois es; — E lor parlars sembla lairar de cans.
 
40-42. Sulle forme Milans e Mantoans, vedasi a p. 159.
 
47. Malgrat-de-toz Il Gaspary, Zeitschr., VI, 163 pensò a Guglielmo Malaspina. Ogni congettura presentasi alquanto gratuita.
 
48. regna. Inutile citare molti esempi di renhar col senso di «comportarsi, condursi». Basti questo: Quar qui'n amor ben s'enten — Non pot far que pueis mal renh (Montanhagol, Ar ab lo coinde, vv. 19-20; ediz. Coulet, p. 70).
 
50. no·s segna. Locuzione abbastanza usata «non si segna, non può segnarsi» perchè non esiste, non vi è. Basterà un esempio, fra i parecchi che si potrebbero citare: Arn. Catalan (Amors ricx): Genser dona no·s senh (Raynouard, Lex., V, 227).
 
52. Saill. In lat. esiste il n. pr. Salius. Cfr. Chabaneau, Rev. d. lang. rom., 5, III, vol. XI, p. 218, n. 1. Chi sia il personaggio citato dal nostro trovatore, non si sa, poichè è inaccettabile una congettura del Canello che si tratti di un certo Cozo o Gozo, giudice veronese, che firmò per la sua patria la pace di Costanza. (Riv. cit., 3 e Fiorita p. 154).
 
 
 
Note:
 
1) Lo Jeanroy, Ann. du Midi, XII, 124 vorrebbe dare a prendre il senso di «ricevere colpi», senso che il verbo pare realmente avere avuto anche usato solo, senza colp o colps (p. es. Bern. de Ventad. Que fols no tem tro que pren). Il significato sarebbe: «mais si plus tard il vous bat, ces dons vous seront amers». Dubito, però, molto che in questo passo si possa prendere il verbo nel senso voluto dallo Jeanroy. ()
 
2) La cong. ca (quia) sarebbe potuta cadere facilmente dalla penna di un copista veneto; e si noti che i mss. DIK sono stati tutti e tre, con ogni probabilità, trascritti nel veneto. Ca si trova nel celebre ms. Hamilton di testi antichi alto-italiani e, come ricordo, anche in documenti ferraresi del sec. XV. ()

 

 

 

 

 

 

 

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