I manoscritti si dividono in due gruppi principali: da un lato: ACDaHIKR e dall'altro Sa (2 irat a, iraz S; 5 cossenz, gariso; 6 com sia restauraz; 9, 15, 34, 35, 36, ecc. ecc.), ma dentro il primo gruppo si distinguono quattro sezioni: DaIK (p. es. v. 36 el se e per una maggiore parentela di IK, v. 8 del cor, v. 17 pel rei, ecc.), poi H (v. 6 cunca mai; 13 ecc.) e A (14 sa terra, 15 sil creire, 44 get ecc.) e infine CR (vv. 13, 27, ecc.). La migliore tradizione è rappresentata evidentemente dal primo gruppo e sopra tutto da CR e DaIK. Il ms. A, per questo componimento, mostra qua e là qualche ritocco di un copista, e H è meno buono. Vi si sente un poco l'influsso della tradizione rappresentata da Sa (v. 13 honratz reis, 24 mairel). Il «Blacatz», di cui è questione in questo prezioso componimento è il celebre protettore di trovatori (e trovatore, egli medesimo) che è stato fatto oggetto in questi ultimi tempi di molte ricerche, che qui ricordo: Schultz-Gora, in Zeitschr., IX, 131; De Lollis, Sord., pp. 37-39; O. Soltau, Blacatz, ein Dichter und Dichterfreund der Provence, Berliner Beiträge, XVIII. Rom. Abt. X, Berlin, 1898 e Soltau, Die Werke des Trob. Blacatz, in Zeitschr., XXIII, 201; XXIV, 33; Stroński, Notes sur quelques troubadours et protecteurs des troubadours, Montpellier, 1907, p. 24 (estr. dalla Rev. des lang. romanes, 1907). Lo Stroński ha mostrato che nel Febbraio del 1238, Blacatz era già morto e che la morte doveva essere avvenuta pochi mesi prima (dunque nel 1237). Il Fabre, come ho detto a p. 81, n. 2, ha sollevato alcuni dubbi sulla scoperta dello Stroński, proponendo di identificare con Blacasset il «Blacacius» del documento del 1238, ma non pare punto che egli abbia colto nel segno. Credo si tratti sicuramente, nell'atto citato, del celebre protettore dei trovatori. In quest'atto «ses trois fils Blacatz, B[ertrand] Blacatz et Boniface, assistés de leur mère Laure, que nous connaissons déjà si bien (Laura figura esplicitamente in un documento quale moglie di Blacatz: «Ego Blacacius, dominus de Almis, et ego Laura, ejus uxor» a. 1233), accordent le droit de dépaissance dans leurs domaines à Guillaume De Vevre, précepteur à l'hopital de Puimoisson (Stroński, p. 36)».
1. leugier so. Si allude qui alla melodia, che è detta leggera, cioè «facile». Vedasi De Lollis, Sord., p. 261. Cfr. i nostri testi: IV, 8; XXII, 1 e le rispettive note.
5. sospeisso significa «speranza» come ha veduto già il De Lollis (p. 262), il quale cita un esempio in Bertr. de Born. Altri esempi (in Elias de Barjols, A. de Belenoi, G. de Saint Leidier, R. Jordan, Uc de Sant-Circ) in Jeanroy-Salv. de Gr., p. 195. Si aggiunga: Raim. Miraval, Entre dos volers, str. II: q'en tal dompna ai sospeiso; Peire Vidal, Ajostar, v. 20: Mas no·n ai sopeisso.
8. pueys. Non intendo come il De Lollis (p. 262) possa vedere in questo pueys il senso di «poichè» con la comune elissi di «que». Il senso è qui ben chiaro: «poscia», cioè: dopo aver mangiato del cuore di Blacasso. A proposito di de cor pro, si noti che i mss. IK hanno del cor pro. Cfr. al v. 18: pro del cor.
10. emperaire de Roma. Federico II, che non riuscì mai a ridurre all'impotenza i Milanesi e che verso il 1237 (anno che par essere bene quello della morte di Blacasso e che pare quindi segnare il periodo di composizione del nostro «pianto») trovava in Lombardia, a malgrado delle sue minaccie, una forte resistenza (Schirrmacher, Kaiser Friedrich der Zweite, II, 347-8). Non saprei perciò se sia proprio nel vero il Raumer, Geschichte der Hohenstaufen, IV (1878), p. 408 quando scrive che nel 1237, o intorno a quell'anno, nessuno dubitava più della conquista di Federico II della Lombardia. La frase luy tenon conques va interpretata nel senso che i Milanesi, con la loro resistenza, tenevano «umiliato» l'imperatore. Scriveva Guilh. Figueira: malvat labor — Fan Lombart de l’emperador (Levy, G. Fig., p. 43) e Peire Guilh. de Luserna: Milan lo cuida conquerir (testo n. XXII, v. 31), usando conquerir con la sfumatura di «umiliare» (De Lollis, Sord., p. 40; Salverda De Grave, Bertr. d'Alamanon, p. 107). Nella espressione del v. 12 viu deseretatz vedrei volontieri un'allusione alle preoccupazioni che davano a Federico II, oltre al figlio, i signori di Germania. È questa, in fondo, anche l'opinione del De Bartholomaeis, Oss. sulle poesie prov. relative a Fed. II, p. 19, il quale, però, accetta come data del nostro «pianto» quella proposta dal Salverda De Grave, cioè il 1234 ( 1). Il De Lollis s'era dichiarato per l'anno 1240 circa, mentre già il Diez e poscia lo Schultz-Gora e lo Springer, Klagelied, p. 70 avevano proposto l'anno 1237, al quale noi, come si vede, ritorniamo, forti della data della morte di Blacasso.
13. lo Reys frances. È Luigi IX (1226-1270), il quale cominciò a regnare personalmente nell'a. 1236, poichè dapprima fu sotto la tutela della madre Bianca di Castiglia. Da Sordello sappiamo che egli si atteneva ancora, uscito di minorità, ai consigli di Bianca (vv. 15-16), poichè ha bene un siffatto senso l'osservazione che il cuore sarà da lui mangiato, soltanto nel caso che ciò non incresca alla madre. È questo un rimprovero? Tale fu ritenuto, a buon diritto, dai critici; e se la nostra interpretazione di a son pretz (con suo merito) è giusta (cfr. la locuzione a son tort nello stesso Sordello, ediz. De Lollis, VIII, 10), il rimprovero è espresso con una fine ironia ( 2). Il Diez tradusse (p. 475): denn wohl erkennt man an seinem Ruhme, dass er nichts thut, was sie missbilligt». E il Crescini ( A proposito di Sordello, p. 16): «chè ben pare a suo pregio di non far nulla che le incresca». Al v. 14, Sordello dice che se il re di Francia mangerà del cuore di Blacasso, potrà ricuperare la Castiglia. L'allusione si spiega in tal modo: Bianca di Castiglia era figlia di Alfonso III, il quale morì nel 1214 e lasciò, oltre a Bianca, sposatasi a Luigi VIII di Francia, e a Berengaria, moglie di Alfonso IX di Gallizia e di Leon, un figlio, Enrico, che morì in giovine età nel 1217. L'eredità della Castiglia sarebbe toccata, secondo il volere di Alfonso III, al figlio di Bianca, cioè al nostro Luigi IX, ma Berengaria, che era stata reggente pel giovinetto Enrico, chiamò alla successione il proprio figlio Ferdinando. Sordello rimprovera Luigi IX di rinunciare balordamente ( per nescies, v. 14) ai suoi diritti sulla Castiglia. Non sappiamo se veramente questa rinuncia gli sia stata consigliata dalla madre, come parrebbe dalle parole del poeta di Góito.
17. Del Rey engles. È Enrico III, il cui padre Giovanni Senza Terra aveva perduto sino dal 1204 alcuni possessi toltigli da Filippo II Augusto e rimasti al re di Francia. Invano Enrico III aveva tentato di riprendere i suoi dominî nel 1230. Il suo alleato reggente di Brettagna, Pietro Mauclerc (forse quel «coms de Bertagna» che scambiò con un Jauseume la tenzone Jauseume, quel vos est semblant Suchier, Denkmäler, p. 326) gli mancò e il tentativo andò a vuoto. Si noti la costruzione Del Rey engles me platz, in cui il soggetto della proposizione dipendente è messo in principio del periodo ed è preceduto da un «de» che ha il senso di «quanto a, in rapporto a» ecc. Si cfr. la nota al v. 8 del testo n. I.
21. lo Reys castelas. Il Re di Castiglia è Ferdinando (Ferdinando III), figlio, come abbiam detto, di Berengaria, sorella di Bianca. Di lui dice Sordello che ha due reami (quello di Castiglia e di Gallizia e Leon, sino dal 1230, dopo la morte del padre Alfonso IX). Era nelle mani della madre dell'arcivescovo di Toledo, Roderigo.
25. Del Rey d'Arago. Si tratta di Iacopo I, figlio di Pietro d'Aragona, ucciso nella celebre battaglia di Muret. L'onta di Marsiglia è costituita dall'inutile tentativo, fatto da Iacopo, di assicurare quella città al cugino Raimondo Berengario IV, conte di Provenza. Quanto allo scacco di Millaud, occorre sapere che codesta contea era garantita al conte di Tolosa, Raimondo VII, dal Re di Francia. Iacopo I vi aspirava invano e invano aveva tentato di impadronirsene con le armi. Un'allusione a ciò abbiamo nel serventese Un sirventes farai, in cui si legge (vv. 3-6)
. . . . . . . . . . . . . . . no me·n tenra paors
Qu'ieu non digua so qu'aug dir entre nos
Del nostre Rei, que pert tan malamen
Lai a Melhau, on solia tener,
Que·l coms li tolc ses dreg et a gran tort.
Questo componimento è stato attribuito a torto a Bertran De Born (cfr. Thomas, Bertr. de Born, p. 212). Notisi la frase l'anta... Que pren (vv. 26-27). Il De Lollis, Sord., p. 263 ha raccolto alcuni esempi in cui «prendre» è usato con la voce «anta» (p. es. Bernart De Rovenac: «Ni no·is venja de l'anta que i a preza» D'un sirventes, v. 27. Ediz. Bosdorff, p. 47) e ha il senso di «sopportare» (come in prendre dan). Altri esempi vedansi in Coulet, Montanhagol, p. 102 e in Bosdorff, op. cit., p. 58.
29. al Rey navar. Il re navarrino è Tebaldo I, già conte di Champagne. Sordello, dicendo che egli valeva più come conte che come re, allude forse a fatti avvenuti un anno prima, quando nel 1236 il re ebbe a lottare, alla testa di vassalli francesi, contro la regina Bianca, allora ancora reggente. Egli dovè ritrarsi e perdette alcuni castelli in Champagne. Quanto alla frase elittica valia mais coms (= quant era coms), cfr. De Lollis, Sord., p. 263.
33. Al Comte de Toloza. Il Conte di Tolosa è Raimondo VII, che aveva perduto una gran parte delle sue terre in seguito alla crociata degli Albigesi. Vero è che, nel 1237, molto era già stato ricuperato. A tempo del «pianto» di Sordello, egli giaceva sotto l'onta della pace di Meaux (1229), per la quale si era obbligato a dare la figlia Giovanna in isposa ad Alfonso di Poitiers fratello di Luigi IX, cedendole, come dote, Tolosa, se non avesse avuto figli maschi.
34. Sol tener. Sol ha qui il solito senso di perfetto. De Lollis, Sordello, pp. 263-4. Sarebbe facile aumentare la lista degli esempi. Basterà un caso: P. Vidal, Ges car estius, vv. 6-7: Car cela·m torn'en non caler, — Qui·m sol honrar e car tener. In ant. franc. Chev. Lyon, 5395: n'aimment mais si com il suelent; Rom. u. Past. (Bartsch): Or n'amerai je plus la ou je sueil. Tobler, Verm. Beitr., V, 365; Levy, Zeitschr., XXII, 254.
37. Coms proensals. È Raimondo Berengario IV, alla cui corte trovavasi probabilmente Sordello quando componeva il suo «pianto». Succeduto giovanissimo nel 1209 ad Alfonso II, Raimondo Berengario rimase in Aragona sino al 1217 presso lo zio Pietro II, che governò per lui. Dal 1217 in poi, si diede a ricuperare i suoi stati, che agognando all'indipendenza s'erano dichiarati liberi. La città che più gli si oppose fu Marsiglia, e Sordello, con la sua allusione al «diseredato», che nulla vale (v. 38), si riferisce verisimilmente alle ultime resistenze delle sue terre e insieme, forse, al modo mite e blando, col quale il Conte aveva condotto la guerra. Salverda De Grave, Bertr. d'Alam., p. 102 osserva che già nel 1230 Raimondo era stato riconosciuto dai Marsigliesi, sicchè il «pianto» non dovrebbe essere di molto posteriore a questa data; ma si noti che con la dedizione di Marsiglia non finirono punto le ostilità e, infine, che al v. 37 il poeta dice: si·l sove, sicchè si tratta di un ricordo, a risvegliare il quale concorrevano le cose presenti. In un altro serventese di Sordello, scritto parecchi anni prima del «pianto», il Conte di Provenza è detto deseretatz, per ragione della resistenza di Marsiglia (ediz. De Lollis, n. IV). Raimondo sposò, come è noto, la figlia di Tommaso di Savoia, Beatrice (1219, cfr. a p. 4) ed ebbe tre figliuole, delle quali l'ultima, Beatrice, sposò Carlo d'Angiò, a cui, alla morte di Raimondo (1245) toccò la Contea di Provenza. La musa provenzale si vestì a lutto, nel 1245, per la morte di Raimondo IV, principe d'animo dolce e amante della poesia. Vedasi: Bertoni, Il pianto in morte di Raimondo Berengario conte di Provenza, in Scritti varii.... in onore di R. Renier, Torino, 1912, p. 249. Il Jeanroy ritiene che si riferisca anche a Raimondo Berengario un altro «pianto» da me edito in Studi lett. e linguistici dedicati a Pio Rajna, Firenze, 1911, p. 593 (cfr. Romania, XLI, 110); nel che non oso contraddirlo, ma mi restano sempre parecchi dubbi, sopra tutto per ragione dell'attribuzione del componimento, nell'unico ms. che ce lo ha conservato, a Richart de Berbezil.
44. Belh Restaur. È probabilmente il «senhal» di Guida di Rodez. Cfr. questo vol. a p. 79.
Questo «pianto», che va fra le liriche provenzali più importanti, che ci siano rimaste, ottenne certo un grande successo. Fu imitato da Bertran d'Alamanon, che invitò le dame a dividersi il cuore di Blacasso (vedansi le edizioni di Springer, Altprov. Klagelied, p. 96 e di Salverda De Grave, Bertr. d'Alam., p. 95) e da Peire Bremon Ricas Novas, che convocò vari popoli a dividersi il medesimo cuore del prode barone morto (ediz. Springer, op. cit., p. 100). Cfr. pure questo vol. a p. 81.
NOTA SULLE POESIE DI SORDELLO
Faccio seguire qualche osservazione ad alcuni altri testi di Sordello, quali sono stati ricostruiti dal De Lollis. Non insisto molto sui passi esaminati dal Mussafia («Sitzungsberichte» di Vienna, CXXXIV, Abh. IX), dallo Schultz-Gora (Zeitschr., XXI, 245-259) e dal Levy (Zeitschr., XXII, 251-258).
I, 6. La correzione del Mussafia De la galta no ll’ en fezez, ecc., con la soppressione di que, è accettabilissima; nè vale punto a scuoterla la debole obbiezione del GUARNERIO, Giorn. stor. della lett. ital., XXVIII, 399. Del resto, quasi tutte le proposte di emendamenti ai testi, fatti dal Guarnerio, valoroso cultore della dialettologia italiana, in questa sua recensione, sono inaccettabili.
II, 5. Il ms. ha non di fo de mort e il D. L. sopprime, per la misura, il di e ha ragione. Può essere, certo, che il di stia per li e sia un errore di copia, come, a quanto pare, pensa il D. L., p. 259; ma potrebbe trattarsi anche qui di un italianismo dovuto a un amanuense: non di sarà nondi (nonde) cioè: «non inde». Si legga, perciò, sopprimendo di, no·n o no'n.
II, 8 pois noi [v]e sanc. Credo che, nel ms., e (che il D. L. corregge in [v]e) sia un italianismo di un copista per a. Al v. 6, sel qe·l penchenet deve essere colui che inferse il colpo. Cfr. LEVY, Zeitschr. XXII, 251.
IV, 26-30:
Dison encar, si bel desplatç:
«Beu sire, per qe vos conortatç?»
Al conort del salvagie
Li coms qi gia fon ducs clamas,
Mas non es entier[s] lo comtatç.
Ben a ragione, lo SCHULTZ-GORA, Zeitschr., XXI, 248 e il LEVY, Zeitschr., XXII, 252 hanno chiesta una nota a questi versi. Il primo propone di leggere: «Beu sire, per qe vos conortatç Al conort del salvagie?», ma riconosce che il v. seguente rimane campato in aria. Credo che si possa accogliere l'interpunzione del De Lollis. Li coms (meglio: Lo coms) è naturalmente soggetto ed è lui che ha il conort del salvagie, che si rallegra cioè quando avrebbe ragione d'essere triste, come l'«uomo selvaggio» che canta e ride in tempo di pioggia. Il «coms» si rallegra sebbene il suo «comtatç» non sia «entier[s]». Sulla espressione conort del salvagie, oltre alla nota del De Lollis e alle linee dello Schultz-Gora (p. 249), rimando a un mio studiolo, in cui ho tentata la soluzione del problema: Servâdzo, in Étrennes helvétiennes offertes à M. H. Schuchardt, Zurich, 1913, p. 34. Cfr. anche JEANROY, Romania, XLIII, 458.
IV, 36 per que n'es seçatç. La voce sezat si trova anche nel Documentum honoris (v. 309). Vedasi ora LEVY, Suppl.-Wb. VII, 639.
IV, 41 lo desonor. Pare impossibile anche a me, come al LEVY, Zeitschr. XXII, 252, ammettere che Sordello abbia potuto adoperare un masch. desonor. Ritengo che il lo, per la, sia dovuto al copista italiano di T che scrisse anche mon dolor, invece di ma dolor nel comp. Ben farai di Peire Bremon Ricas Novas (v. 48). APPEL, Prov. Ined., p. 216. Vedasi questo vol. a p. 196.
VI, 27 Nis pliu en lui: ges no ve be ni au. Verso difficile. Propongo, in via provvisoria, di correggere ges in qe: «o si fida in lui, che non vede nè ode il bene». Forse un copista scrisse qes invece di qe (adoprando erroneamente la forma qes dinanzi a consonante) e un altro copista ne ricavò un ges. Ciò non è impossibile, ma però alquanto improbabile. Al v. 10, il ms. D porta, per essere esatti: dels cortes (non descortes) e al v. 11 ha uestra (A: uistra); al v. 17: Quill. Al v. 21 D legge: sgon (non segon); al v. 23, D ha: nol garia (A: ja nol garra). La lezione tan del v. 24 non appartiene ad A, ma a D.
VII, 7 leggi: qui qe·l retraja. Al v. 5, il ms. D ha faz (A: faich) e al v. 12 dreiz (dreich), e 14 faiz. V. 18 Il secondo autre manca in D. V. 22 guiardon D. 25 affachar D. V. 29 no crei D. 30 Ves D. 40 al re D. 43 la faig adaut D. 45 Leggi: Mas el non tem vergoigna ni s'esmaja; chè tale parmi dover essere, con lo SCHULTZ-GORA, Zeitschr. XXI, 250, l'interpunzione del passo. In D si hanno cinque linee bianche dopo l'ultima strofa.
X, 4 Pero el miez totz temps volri' estar. Credo anch'io, con il Mussafia (p. 3), che el miez sia «in illo medio», ma non penso che il poeta voglia dire ch'egli intende «nur eine Strecke Weges die Kreuzfahrer begleiten». Qui non deve esserci questione di viaggi, nè di una parte di viaggio in Terra santa. Sordello non vuol muoversi; ma dichiara che, se non avesse paura del mare, accompagnerebbe i crociati. Sta dunque «nel mezzo», fra un'opinione e l'altra.
X, 10 Si tot lai gen sui nuiritz. Vi si deve nascondere un'allusione ad amar ricavato, per via di bisticcio, da la mar del v. precedente. Vedasi la nota al testo XXVII, 20.
X, 14-16:
Q'eu tem tant fort la mar, qan mals temps es,
Q'oltra non posc passar, per re zom pes,
El coms non deu voler qu'eu mora ges.
Il Mussafia (p. 3) ha giustamente interpunto il v. Q'oltra non posc passar per re, zom pes. Non si capisce come il GUARNERIO, Giorn. stor. cit., p. 387, n. 1 possa obbiettare: «a me pare poco naturale, perchè in tal caso il «per re sarebbe andato altrimenti collocato». Qualsiasi provenzalista accoglierà la proposta del Mussafia.
X, 27. Realmente salvamen non va ed ha ragione lo SCHULTZ-GORA, Zeitschr., XXI, 251, di notare che c'è presso che contradizione nella strofa. Egli propone perdemen e per quanto la correzione appaia forte, bisognerà rassegnarsi e accettarla.
XI, 7 no lo 'n deuria. Il ms. ha nolon dorria. Certamente, lo 'n lascia sospeso lo studioso (SCHULTZ-GORA, Zeitschr., XXI, 251 propone non lo deuria). Propongo con molta esitazione: non o deuria, ovvero: no m'o deuria (o è meglio a suo posto; ma anche lo può stare). Il LEVY, Zeitschr., XXII, 255 accetterebbe la lezione del ms. no lo·n). S'intende che l'emendamento di dorria in deuria (o douria per influsso di «dovere», poichè il testo è unicamente in P, ms. pieno di italianismi) è sicuro.
XI, 11. Mais fol[s] es e ennojos e es plens de follia. Fol[s] e follia sorprendono alquanto, perchè sono una brutta tautologia. Il LEVY, Zeitschr. XXII, 255 si domanda: «Ist für follia ein anderes Wort einzusetzen?» Il pensiero corre a falsia.
XII, 12. Qe cor no pot far boca ver dicen. Verso oscuro, che interpreterei così: «il cuore (cor o cor[s]) non può fare che la bocca dica il vero», in quanto il cuore [dei baroni] è menzognero. Abbiamo forse un'allusione molto vaga e oscura, per via di contrapposto, al biblico: «la bocca parla dell'abbondanza del cuore». I versi seguenti confermano, pare a me, questa interpretazione.
XV, 23 quel paucs el trops, l’uns e l'autre pejura (ms. pegura). La proposta del Mussafia (p. 4) di leggere que·l paucs e·l trops l’un e l'outre pejura deve essere accolta. Ha certamente torto il GUARNERIO, Giorn. stor. cit., p. 399 di opporsi a una si evidente correzione.
XXI, 20 tenc chascun en men. La correzione del Mussafia en nien (a nïen) deve essere accolta. A torto, senza alcun dubbio, la combatte il GUARNERIO, Giorn. stor. cit., p. 400.
XXV, 19-21:
Per queus prec, bels cors plazentiers,
Qe pauc ni gaire ni mija
Don fassatz de re queus dija.
La proposta del Mussafia (p. 16) di correggere Don in Non (v. 21) è eccellente. Il lungo discorso del GUARNERIO, Giorn. stor., p. 400 per combatterla, è, mi dispiace doverlo dire, un equivoco.
XXVII, 33 m'a legor. Il Mussafia ha proposto giustamente m'alegor; nè si capisce come mai il Guarnerio (p. 400) possa tentare una difesa della interpretazione troppo forzata del De Lollis.
XXXIV, 43. Q'eu nos sial mercejar. Il De Lollis vede, a torto, in mercejar una riduzione di mercejaire. È strano che il GUARNERIO, Giorn. stor., p. 400 lo segua per questa via, dopo che il Mussafia (p. 18) ha proposto l'evidente correzione: no·s (= no·us) si' al mercejar. Il Guarnerio aggiunge che siffatta costruzione riesce ostica; ma essa è, per contro, la vera costruzione, propria dell'ant. prov. e francese.
XL, 457. Non è ben chiaro se il ms. abbia maior o non piuttosto maier. 510 Q[ue]. 625 borges è scritto sul rigo. 1083 Il ms. ha esgard. 1233-1286 Leggere, accettando una trasposizione segnalata nel ms.:
Qu'om pot tal re perdr' az un lanz
Que no·s restaura entre cent anz;
E pretz de dopna no·s restaura
Perdutz, de blanca ni de saura.
Il ms. ha E pretz nel penultimo di questi quattro versi (non Car pretz). Notisi, infine, che al v. 1226 il ms. ha Querietamenz (da correggersi, naturalmente, in Que netamenz).
Er encontra·l temps de mai (BERTONI, Giorn. stor. d. lett. ital., XXXVIII, 286). V. 16 viure. Vv. 23-24. Correggerei non soltanto: on peigz en trac, mos maltragz m'es conortz (cfr. Zeitschr., XXVI, 386), ma anche, al v. 23, am (ms. a) totz bos aibs. Nel comp. di Blacasset (Giorn. cit., p. 29), v. 30 totz ovvero: tost; v. 48 forse, invece di format, come ha il ms., bisognerà leggere, con una lieve correzione: fermat.
Note:
1) È vero che nel 1235 la rivolta del figlio dell'imperatore, Arrigo, era stata sedata, ma restavano pur sempre dei malumori presso alcuni grandi feudatari. (↑)
2) SALVERDA DE GRAVE, Bertr. d'Alamanon, p. 109 scrive: «On sait du reste que Blanche «l'étrangère» était antipathique aux grands seigneurs et qu'ils voyaient d'un mauvais œil que l'enfant, devenu jeune homme, ne manifestait de volonté que pour conserver l'exercice du pouvoir à sa mère». MARTIN, Hist. de France, IV, p. 145. E già il CANELLO, Fiorita, p. 156. «Tutti sanno poi quanto Bianca di Castiglia, anche dopo che il figlio fu maggiorenne, sapesse tenerselo soggetto. Essa giungeva fino a non permettere che Luigi IX si trovasse, quando meglio gli convenisse, con la moglie Margherita di Provenza (sposata nel 1234), della quale era gelosa». (↑) |