I mss. si lasciano dividere in due gruppi principali DcFIK, con cui si posson mettere Me, e CR com'è mostrato da alcune lezioni (3 Per sso [so, zo], 13 qar tot aissi, ecc.; e per CR: vv, 17 l'estela, 18 lo mar, 39 larma, 41 Na grazida), ma M, e, C, e R, hanno anche una loro personalità, per la quale occupano ciascuno un posto a parte. Così M, che in più punti si accorda bene con e (p. es., 28 am, 37 a doncs per qe (que) mi fai mal ni mel ditz), si stacca dal suo gruppo DcFIK per queste ed alcune altre lezioni meno importanti, ed e se ne stacca altresi per altre ragioni, p. es. v. 44 (E tan plazenz). Le lezioni dei vv. 10 (temps), 22, 36, 38, 45 ci mostrano C allontanarsi da R e accamparsi solo contro gli altri mss. Ed R sta pure da solo per le lezioni dei vv. 10 (falhir), 11, 12, 28, 29, 45 e per altre ancora. La divisione, dunque, in due gruppi, con M e nel primo di essi, va intesa con discrezione. Il componimento dovè passare, a giudicare dalle varianti dei mss. a noi conservati, attraverso a moltissime copie. Esso è, per vero, uno dei più belli e forti di Sordello e si capisce che abbia ottenuto molto favore.
1-8. Si noti il giuoco sulle parole vida e viure che abbiamo in tutta la prima strofa. Su viure e vida giuoca anche Peire Vidal, S'eu fos en cort, v. 20: si tot me viu, mos viures no m'es vida. Uc de Saint-Circ si rivolge, in una dansa (Una danseta, Jeanroy-Salv. de Grave, p. 100) ad un personaggio che chiama Ma Vida e che può ben essere Sordello, tanto più che nel componimento troviamo tracciato una specie d'itinerario, che pare essere quasi a puntino quello del poeta di Góito dal Veneto alla volta della Provenza, secondo la biografia più estesa: Verona, Ceneda, Treviso, Provenza. Nella dansa: Verona, Treviso, Ceneda, Vicenza, Provenza. Ritengo che il «senhal» Ma Vida gli sia stato fornito dalla nostra strofa (Bertoni, in Romania, XLII, 110), poichè accadeva che i trovatori si punzecchiassero l'un l'altro per le particolarità della loro lingua.
8. ten a vida. Si noti tener a col senso di tener en, mentre in generale significa «considerare come, tenere per» (p. es. Folq. de Mars. Per Dieu, v. 40: per q'ieu m'o teing a gran bonaventura).
10. Il De Lollis accoglie, anzi che tem, la lezione temps di C; ma la tradizione manoscritta sta contro questa lezione. Inoltre, essa è manifestamente una «lectio facilior» cioè una sostituzione di un copista, forse dello stesso copista di C. L'Appel accetta tem, ma legge faill' cioè faill( a), ammettendo che il verbo sia al soggiuntivo, del che non c'è proprio bisogno. Il senso di questo falh è, come risulta dalla mia traduzione, quello di «fallire, peccare» ( 1), e avrei tradotto a dirittura «temo di non pensare a lei con abbastanza purezza di intendimenti», se a farmi preferire il termine «raccoglimento» non avesse contribuito quel ioy, che abbiamo al v. 27. Anche il non pensare con la necessaria intensità alla donna amata era per i poeti un mancamento, un fallo. Tuttavia, si può pensare che ioy nel nostro testo non abbia il senso ben noto, che ha presso i trovatori in simile congiuntura, e significhi soltanto «corrispondenza di sensi amorosi», ma la cosa è alquanto dubbia, sebbene Sordello non abbia sdegnato cantare, in un periodo della sua vita, l'amor fino o ideale. Vedasi questo vol., a p. 152. Abbiamo poi nello stesso verso, nueyt e iorn, cioè «notte e giorno» dunque: sempre, ognora. È un'espressione corrente in antico franc. e provenzale. Con lo stesso senso, si hanno altre locuzioni, come: mattino e sera; in inverno e in estate; dormendo e vegliando. Binet, Le style de la lyrique courtoise en France, p. 73. Cfr. XXXIII, 10: chant clar et d'invern e d'estiu.
14. sos genz cors ben aibit. Abbiamo qui il solito uso di cors per la locuzione pronominale o per la persona («Umschreibung der Personbezeichnung»), uso illustrato, come si sa, dal Tobler, Vermischte Beiträge, I, pp. 30-36. Abbiamo già avuto occasione di parlarne.
16. e·lh caramida. Il De Lollis, Sord., p. 277 scrive: «il senso dovrebb' essere: così come la stella del nord guida la nave in mare e la calamita [attrae] il ferro», ma egli stesso nota che la lezione dei codici si oppone a siffatta interpretazione. L'imagine della calamita che attira il ferro è certo comune nell'antica lirica cavalleresca (p. es. Folq. de Marseilla: Qu'eissamens com l’azimans — Tira·l fer e·l fai levar; Aim. de Peg. (10, 24): Eissamen com l’azimanz tira·l fer e·l trai vas se; De Lollis, p. 278 e aggiungasi agli esempi anche questo: «Mare amoroso» vv. 199-200 ediz. Monaci, Crest., II, 323: Perciò in voi si trae ciaschun chore — Sichome il ferro inver la chalamita), ma qui non l'abbiamo. Io traduco e·l fers e·lh caramida per «magnete». Mi chieggo, però, in via di congettura, se tramontana non sia qui esclusivamente il «vento» (anzichè l'estela tramontana), e se caramida non indichi propriamente la «stella polare». Si cfr. un passo della celebre lauda veronese del sec. XIII (Pellegrini, Giorn. stor. d. lett. ital., XXIII, 159, vv. 17-19): O priçiosa malgarita, [che] sovra l’auto çelo si’ scrita, vui si’ stela ca[lami]ta, k’[a] l’om[o] mostra la via drita. Tuttavia, è più probabile che fers e caramida siano espressioni che si riattacchino l'una e l'altra a conoscenze o credenze scientifiche medievali, che ci sfuggono in tutti i loro particolari, e che la versione per «magnete» o anche per «bussola» sia migliore. Bernardino Baldi, che riteneva inventore della bussola Flavio Gioia, secondo una ben nota leggenda (T. Bertelli, Discussione della leggenda di Fl. Gioia inventore della bussola, in Riv. di Fisica, Matem. e Scienze naturali, Pavia, giugno 1901; G. Canevazzi, L'invenzione del bossolo da navigare di B. Baldi, Livorno, 1901, p. xxi), chiamava calamita non altro che il magnete o l'ago della bussola, e non la pietra da calamitare l'ago o l'intera bussola. Contro l'interpretazione del De Lollis, che cioè qui si abbia la nota imagine della calamita che tira il ferro, sta anche il fatto che, come ha veduto il Mussafia («Sitzungsberichte» dell'Accad. di Vienna CXXIV, n. IX, p. 8) «nur von guitz e guidar die Rede ist und der Magnet wohl das Eisen zieht, es aber nich führt (oder: leitet)». Chissà, infine, che in questo guitz e guidar non si abbia a vedere un'allusione, nascosta entro un giuoco di parole, a Guida di Rodez, a cui il componimento pare essere stato indirizzato?
17. ferm' estela. Il De Lollis (pp. 178, 278) legge guid' al ferm l’estela e considera ferm quale aggettivo sostantivato «il cui significato si coglie preciso sol che si pensi a quel di ferma nell'espressione terra ferma». Nessun ms. permette, però, questa lettura, mentre l'espressione ferm' estela (e non occorre, a parer mio, interpretare ferm(a) quale «zuverlässig» o «sicher» (Mussafia, op. cit., p. 9, n. 3 e Appel, Prov. Chrest. 4, gloss. s. ferm; ma semplicemente: fissa, chè tale si mostra la stella che guida le navi) accontenta egregiamente quanto al senso e quanto alla tradizione manoscritta.
18. Da notarsi, nelle varianti, lo mar dei mss. CR. Si hanno alcuni pochi esempi di mar usato come maschile in provenzale. Levy, V, 117.
20. Certo, come ha veduto il De Lollis, il poeta giuoca sull'equivoco o il bisticcio fra la mar e l'amar. Folquet de Lunel 5 dice: Suy ieu intratz en auta mar (e intende forse en aut amar) e Peire Cardenal (Bartsch, Denkm., p. 141): E si vol passar la mar, — Pren' un tal governador. — Que sapcha la mar (l'amar) major. Altri esempi in De Lollis, p. 278. Che profondamens sia a suo posto con la voce mar, è inutile dire. Cfr. F. de Lunel, I, 13-14: E quant es en mar prionda.
21. esvaratz. Cfr. Stichel, Beitr. z. Lexicogr. des altpr. Verbums, p. 57.
25. Dura merces. Per l'accoppiamento dell'agg. dur con merce, si cfr. Uc de Saint-Circ, VI, 7 e G. de Saint Leidier, Ben m'estera, str. IV (ms. A, n. 376).
28. Da notarsi la concomitanza dei due gerundi: sirven aman. Il De Lollis li separa per mezzo di una virgola, ma essi vanno strettamente collegati. I gerundi, così riuniti, possono essere persino tre, p. es.: cazen feren levan, Granet, Comte Karle, str. V, ms. C, c. 353. Per questa colleganza e per molti esempi in ant. prov., cfr. Schultz-Gora, Zeitschr., XVI, 515.
32. La morte, dice il poeta, non subisce la ferita d'amore. Se essa viene in me, non avrò neppur io codesta dolorosa ferita; ond'essa ben venga. Essa giova al mio dolore.
37. ni·l me ditz. Notisi la variante dei ms. M e: ni me·l ditz e si veda questo vol. a p. 161.
40. Non ho certo bisogno di osservare che qui partir ha il noto senso di «cessare d'amare». Lo traduco però con «partire» per mantenere nella mia versione il bisticcio con partida del verso precedente.
41. cim' e razitz. Locuzione ben nota. Si cfr. Bert. Zorzi VII, 53-55: Et amors cim' e razitz — De maintz affars cabalos.
NOTA SULLE POESIE DI SORDELLO
Faccio seguire qualche osservazione ad alcuni altri testi di Sordello, quali sono stati ricostruiti dal De Lollis. Non insisto molto sui passi esaminati dal Mussafia («Sitzungsberichte» di Vienna, CXXXIV, Abh. IX), dallo Schultz-Gora (Zeitschr., XXI, 245-259) e dal Levy (Zeitschr., XXII, 251-258).
I, 6. La correzione del Mussafia De la galta no ll’ en fezez, ecc., con la soppressione di que, è accettabilissima; nè vale punto a scuoterla la debole obbiezione del GUARNERIO, Giorn. stor. della lett. ital., XXVIII, 399. Del resto, quasi tutte le proposte di emendamenti ai testi, fatti dal Guarnerio, valoroso cultore della dialettologia italiana, in questa sua recensione, sono inaccettabili.
II, 5. Il ms. ha non di fo de mort e il D. L. sopprime, per la misura, il di e ha ragione. Può essere, certo, che il di stia per li e sia un errore di copia, come, a quanto pare, pensa il D. L., p. 259; ma potrebbe trattarsi anche qui di un italianismo dovuto a un amanuense: non di sarà nondi (nonde) cioè: «non inde». Si legga, perciò, sopprimendo di, no·n o no'n.
II, 8 pois noi [v]e sanc. Credo che, nel ms., e (che il D. L. corregge in [v]e) sia un italianismo di un copista per a. Al v. 6, sel qe·l penchenet deve essere colui che inferse il colpo. Cfr. LEVY, Zeitschr. XXII, 251.
IV, 26-30:
Dison encar, si bel desplatç:
«Beu sire, per qe vos conortatç?»
Al conort del salvagie
Li coms qi gia fon ducs clamas,
Mas non es entier[s] lo comtatç.
Ben a ragione, lo SCHULTZ-GORA, Zeitschr., XXI, 248 e il LEVY, Zeitschr., XXII, 252 hanno chiesta una nota a questi versi. Il primo propone di leggere: «Beu sire, per qe vos conortatç Al conort del salvagie?», ma riconosce che il v. seguente rimane campato in aria. Credo che si possa accogliere l'interpunzione del De Lollis. Li coms (meglio: Lo coms) è naturalmente soggetto ed è lui che ha il conort del salvagie, che si rallegra cioè quando avrebbe ragione d'essere triste, come l'«uomo selvaggio» che canta e ride in tempo di pioggia. Il «coms» si rallegra sebbene il suo «comtatç» non sia «entier[s]». Sulla espressione conort del salvagie, oltre alla nota del De Lollis e alle linee dello Schultz-Gora (p. 249), rimando a un mio studiolo, in cui ho tentata la soluzione del problema: Servâdzo, in Étrennes helvétiennes offertes à M. H. Schuchardt, Zurich, 1913, p. 34. Cfr. anche JEANROY, Romania, XLIII, 458.
IV, 36 per que n'es seçatç. La voce sezat si trova anche nel Documentum honoris (v. 309). Vedasi ora LEVY, Suppl.-Wb. VII, 639.
IV, 41 lo desonor. Pare impossibile anche a me, come al LEVY, Zeitschr. XXII, 252, ammettere che Sordello abbia potuto adoperare un masch. desonor. Ritengo che il lo, per la, sia dovuto al copista italiano di T che scrisse anche mon dolor, invece di ma dolor nel comp. Ben farai di Peire Bremon Ricas Novas (v. 48). APPEL, Prov. Ined., p. 216. Vedasi questo vol. a p. 196.
VI, 27 Nis pliu en lui: ges no ve be ni au. Verso difficile. Propongo, in via provvisoria, di correggere ges in qe: «o si fida in lui, che non vede nè ode il bene». Forse un copista scrisse qes invece di qe (adoprando erroneamente la forma qes dinanzi a consonante) e un altro copista ne ricavò un ges. Ciò non è impossibile, ma però alquanto improbabile. Al v. 10, il ms. D porta, per essere esatti: dels cortes (non descortes) e al v. 11 ha uestra (A: uistra); al v. 17: Quill. Al v. 21 D legge: sgon (non segon); al v. 23, D ha: nol garia (A: ja nol garra). La lezione tan del v. 24 non appartiene ad A, ma a D.
VII, 7 leggi: qui qe·l retraja. Al v. 5, il ms. D ha faz (A: faich) e al v. 12 dreiz (dreich), e 14 faiz. V. 18 Il secondo autre manca in D. V. 22 guiardon D. 25 affachar D. V. 29 no crei D. 30 Ves D. 40 al re D. 43 la faig adaut D. 45 Leggi: Mas el non tem vergoigna ni s'esmaja; chè tale parmi dover essere, con lo SCHULTZ-GORA, Zeitschr. XXI, 250, l'interpunzione del passo. In D si hanno cinque linee bianche dopo l'ultima strofa.
X, 4 Pero el miez totz temps volri' estar. Credo anch'io, con il Mussafia (p. 3), che el miez sia «in illo medio», ma non penso che il poeta voglia dire ch'egli intende «nur eine Strecke Weges die Kreuzfahrer begleiten». Qui non deve esserci questione di viaggi, nè di una parte di viaggio in Terra santa. Sordello non vuol muoversi; ma dichiara che, se non avesse paura del mare, accompagnerebbe i crociati. Sta dunque «nel mezzo», fra un'opinione e l'altra.
X, 10 Si tot lai gen sui nuiritz. Vi si deve nascondere un'allusione ad amar ricavato, per via di bisticcio, da la mar del v. precedente. Vedasi la nota al testo XXVII, 20.
X, 14-16:
Q'eu tem tant fort la mar, qan mals temps es,
Q'oltra non posc passar, per re zom pes,
El coms non deu voler qu'eu mora ges.
Il Mussafia (p. 3) ha giustamente interpunto il v. Q'oltra non posc passar per re, zom pes. Non si capisce come il GUARNERIO, Giorn. stor. cit., p. 387, n. 1 possa obbiettare: «a me pare poco naturale, perchè in tal caso il «per re sarebbe andato altrimenti collocato». Qualsiasi provenzalista accoglierà la proposta del Mussafia.
X, 27. Realmente salvamen non va ed ha ragione lo SCHULTZ-GORA, Zeitschr., XXI, 251, di notare che c'è presso che contradizione nella strofa. Egli propone perdemen e per quanto la correzione appaia forte, bisognerà rassegnarsi e accettarla.
XI, 7 no lo 'n deuria. Il ms. ha nolon dorria. Certamente, lo 'n lascia sospeso lo studioso (SCHULTZ-GORA, Zeitschr., XXI, 251 propone non lo deuria). Propongo con molta esitazione: non o deuria, ovvero: no m'o deuria (o è meglio a suo posto; ma anche lo può stare). Il LEVY, Zeitschr., XXII, 255 accetterebbe la lezione del ms. no lo·n). S'intende che l'emendamento di dorria in deuria (o douria per influsso di «dovere», poichè il testo è unicamente in P, ms. pieno di italianismi) è sicuro.
XI, 11. Mais fol[s] es e ennojos e es plens de follia. Fol[s] e follia sorprendono alquanto, perchè sono una brutta tautologia. Il LEVY, Zeitschr. XXII, 255 si domanda: «Ist für follia ein anderes Wort einzusetzen?» Il pensiero corre a falsia.
XII, 12. Qe cor no pot far boca ver dicen. Verso oscuro, che interpreterei così: «il cuore (cor o cor[s]) non può fare che la bocca dica il vero», in quanto il cuore [dei baroni] è menzognero. Abbiamo forse un'allusione molto vaga e oscura, per via di contrapposto, al biblico: «la bocca parla dell'abbondanza del cuore». I versi seguenti confermano, pare a me, questa interpretazione.
XV, 23 quel paucs el trops, l’uns e l'autre pejura (ms. pegura). La proposta del Mussafia (p. 4) di leggere que·l paucs e·l trops l’un e l'outre pejura deve essere accolta. Ha certamente torto il GUARNERIO, Giorn. stor. cit., p. 399 di opporsi a una si evidente correzione.
XXI, 20 tenc chascun en men. La correzione del Mussafia en nien (a nïen) deve essere accolta. A torto, senza alcun dubbio, la combatte il GUARNERIO, Giorn. stor. cit., p. 400.
XXV, 19-21:
Per queus prec, bels cors plazentiers,
Qe pauc ni gaire ni mija
Don fassatz de re queus dija.
La proposta del Mussafia (p. 16) di correggere Don in Non (v. 21) è eccellente. Il lungo discorso del GUARNERIO, Giorn. stor., p. 400 per combatterla, è, mi dispiace doverlo dire, un equivoco.
XXVII, 33 m'a legor. Il Mussafia ha proposto giustamente m'alegor; nè si capisce come mai il Guarnerio (p. 400) possa tentare una difesa della interpretazione troppo forzata del De Lollis.
XXXIV, 43. Q'eu nos sial mercejar. Il De Lollis vede, a torto, in mercejar una riduzione di mercejaire. È strano che il GUARNERIO, Giorn. stor., p. 400 lo segua per questa via, dopo che il Mussafia (p. 18) ha proposto l'evidente correzione: no·s (= no·us) si' al mercejar. Il Guarnerio aggiunge che siffatta costruzione riesce ostica; ma essa è, per contro, la vera costruzione, propria dell'ant. prov. e francese.
XL, 457. Non è ben chiaro se il ms. abbia maior o non piuttosto maier. 510 Q[ue]. 625 borges è scritto sul rigo. 1083 Il ms. ha esgard. 1233-1286 Leggere, accettando una trasposizione segnalata nel ms.:
Qu'om pot tal re perdr' az un lanz
Que no·s restaura entre cent anz;
E pretz de dopna no·s restaura
Perdutz, de blanca ni de saura.
Il ms. ha E pretz nel penultimo di questi quattro versi (non Car pretz). Notisi, infine, che al v. 1226 il ms. ha Querietamenz (da correggersi, naturalmente, in Que netamenz).
Er encontra·l temps de mai (BERTONI, Giorn. stor. d. lett. ital., XXXVIII, 286). V. 16 viure. Vv. 23-24. Correggerei non soltanto: on peigz en trac, mos maltragz m'es conortz (cfr. Zeitschr., XXVI, 386), ma anche, al v. 23, am (ms. a) totz bos aibs. Nel comp. di Blacasset (Giorn. cit., p. 29), v. 30 totz ovvero: tost; v. 48 forse, invece di format, come ha il ms., bisognerà leggere, con una lieve correzione: fermat.
Nota:
1) Scrive il Levy, III, 401-402 a proposito di questo verso di Sordello: «Ist der Sinn: «ich fürchte, nicht genug an sie zu denken» d. h. nicht so oft wie es meiner Liebe und ihrem Werthe entspricht? Aber wie passen die Anfangsworte dazu?». (↑) |