Tipologicamente il componimento è una canzone di donna che, a differenza delle canzoni d'amore composte dalle trobairitz, appartiene al registro popolareggiante ( 1). La protagonista femminile è una nobildonna (v. 23), proprietaria di un paveillon (v. 40) e di una camera encortinaa e ben doraa (vv. 41, 43), eppure non sposata (le trobairitz di solito lo sono), una condizione ben diversa dall'io lirico femminile dei testi di stile elevato. Allontanano inoltre da un ambito cortese la presenza di un ritornello interstrofico, le rime ripetute (vv. 18-21, 26-31), e la circostanza che la canzone inviata come messaggero dalla donna innamorata all'amato è messa in relazione ( membres 38) con l'aria intonata da quest'ultimo ( song 38) durante un incontro galante: molto probabilmente la melodia di Quan vei les praz verdesir non era originale.
Per la lingua, cfr. l'analisi di Mölk 1991, p. 380; le rime endormia, garria, iornaa, contraa, con la caduta della - t- intervocalica latina, potrebbero essere forme dialettali caratteristiche del nord-occitano (cfr. Billy 1995, pp. 120-21); per le forme miste in - ea, cfr. § 3.3.5; secondo Marshall 1982, p. 86 il componimento sarebbe stato acriticamente accettato come provenzale sulla base dell'edizione normativa di Bartsch 1904, coll. 249.
1. Quan vei les praz verdesir: Quan vei reverdir les jardis è l'incipit della rotrouenge di Gaucelm Faidit in lingua d'oïl, ma non mancano analoghi esempi provenzali (Pos vezem de novel florir GlPeit 183, 11; Quan vei lo temps camjar e refreidir GlBerg 210, 16; Quan vei lo dous temps venir GlAug 205, 4b; En aquel temps que vezem verdezir An 461, 103a).
2. parens: Bartsch 1904 pareis.
flor granea: 'fiore appena sbocciato', da granar 'mettere dei grani; germogliare, fiorire; sbocciare', come mi pare suggerisca l'esempio "Quan la freidors/ irais/ l'aura doussana, | sui ieu d'amors/ plus gais/ que quan flors grana" ElCair 133, 10, 1-2 e la frequente dittologia florir e granar ("qu'ades vey granar e florir" Marcabr 293, 34, 9; "Lai on pretz floris e grana" GrBor 242, 4, 50; "vostre ric pretz e granar e florir" GcFaid 167, 60, 62 ecc.: per la coppia verbale florir / granar, cfr. anche Pasero 1973, p. 229).
L'interpretazione del sintagma dà adito ad alcune incertezze. Credo tuttavia che non possa trattarsi del 'melograno', come hanno suggerito alcuni interpreti, tanto più che i fiori rosso-arancio di questo arbusto compaiono solo in giugno. Meno opportuno mi sembra anche ricondurre granea a grenat, granat 'di colore rosso intenso, rosso scuro' (come quello del granato, la pietra preziosa, in a. prov. s. f granada), e quindi tradurre 'fiore rosso' (quello della rosa canina, come suggerisce Bec 1995?).
4. m'a 'legrea: per m'a alegrada, con malcelata ironia. La forma potrebbe anche non essere aferetica: cfr. legretatz UcSt-C 457, 8, 33; legreza An 461, 195a, 20; legro ibid., 75; "de lui servir a legrança"An 461a, 7, 62 (E. Levy, Poésies religieuses provençales et françaises du manuscrit extravagant 268 de Wolfenbüttel, RLR, 31 (1887), pp. 278-80).
La situazione ('legrea / tuea) è vagamente accostabile a quella dell'innamorato felice e sofferente ad un tempo (cfr. ad es. "Entr'ira et alegrier | m'estau, rizen e ploran, | si cum selh que mor aman" RmCast 396, 4, 1-3; e cfr. anche il motivo del poeta disperato fatto "morire" da una fonte di allegria esterna: "et eu, que chantar solia, | mor d'enoi e de pezansa, | can au joi ni alegransa" BnVent 70, 45, 12-14), mentre non ho trovato altri casi analoghi al nostro (amore che rallegra al punto da uccidere).
Mölk 1991 propone la lettura mal agrea per mal agrada, 'che soddisfa, ricompensa così male il servizio d'amore'; questo senso di agradar, non attestato altrove in a. prov., è invece frequente in a. fr. a partire dal XIII sec. (cfr. ad es. agreer in Godefroy 1937, I, p. 165: “donner satisfaction, satisfaire”; TL 1925, I, col. 211). La congettura sarebbe supportata dal fatto che [a] provenzale tonica e protonica spesso compare nel manoscritto W come [e]. La lezione m'a lograda 'mi ha vinto' di Bartsch era già stata contestata da SW 1904, IV, p. 427, sulla base del fatto che lograr < LUCRARE non esiste in a. prov. (cfr. anche FEW 1950, V, p. 438 < LŬCRUM), dove compare invece il verbo luirar; in alternativa Levy propone logar 'ricompensare', per cui cfr. SW 1904, IV, p. 426; cfr. inoltre loirar 'illudere, ingannare' in FEW 1959, XVI, p. 485 < a. frk. *LÔPR).
7. colea: 'colpo di spada o di pugnale sul collo' e, per estensione, tutti i tipi di ferite. Cfr. colada in LR 1836, II, p. 436 n. 3; colée in Godefroy 1938, II, p. 180 e TL 1925, II, col. 558.
8. senes colp: identico sintagma al v. 29.
9. et veill: per esigenze di rima Bartsch - Koschwitz 1904 correggono ine·m pes; Mölk 1991 propone invece e·m ves 'e tormenta', con un verbo vesar < VEXARE, che, pur non essendo usato da altri trovatori, compare in altri testi in a. prov. (LR 1843, V, p. 532 vexar; SW 1924, IX, p. 701; FEW 1961, XIV, p. 366); un copista avrebbe poi sostituito questa forma con la più comune velh, spesso associata a sospirar, sospir ("Era n'ai vergonh' e paor | e·m n'esvelh e·n planh e·n sospir | e·l somnhe tenh a gran folor | e no cut posch' endevenir" GrBorn 242, 51, 31-34; "amors, per cui plaing e sospir e veill" RbVaq 392, 2, 2; "per que·l ser velhan sospir, | e dezir | vezer l'alba" GrRiq 248, 3, 28-30 ecc.). Tutti questi interventi mi sembrano tuttavia troppo invasivi e preferisco lasciare la rima irrelata.
11. veiaire: Mölk 1991.
12. se: Bec 1995 me.
resia: cfr. residar in LR 1843, V, p. 221 n. 22 e reisidar in SW 1915, VII, p. 194.
13. seria: Mölk 1991 serai.
17. qui'n amor s'aten: s'atendre en o a è costruzione molto diffusa (cfr. Mölk 1991, p. 382), mentre il verbo riflessivo s'atendre non mi pare attestato in a. prov. con l'oggetto diretto nel significato di 'attendersi qsa'; qui amors aten Bartsch - Koschwitz 1973.
19. ades: l'avverbio è coordinato a puis anche in "qu'ades pass'om primiers per lo follage | e pueis tainh be qu'om s'an reconoissen" Jordan de l'Isla de Veness (?) 276, 1, 31-32 (testo edito da Paolo Squillacioti, BdT 276, 1 Longa sazon ai estat vas Amor, RST (2000), II, pp. 185-215).
la: il pronome, come al v. 20, non si riferisce a donna, ma ad amor 17.
20. folaie: nella poesia provenzale la follia consiste sostanzialmente in una trasgressione morale che conduce a dimenticarsi del proprio dovere; foleiar indica di per sé un comportamento riprovevole in quanto designa il venir meno ai doveri cortesi per eccesso di passione, quasi un sinonimo di desmesurar.
Sulla "follia", qualità necessaria al vero amante cortese che si abbandona del tutto all'amore, cfr. invece la nota di Asperti 1990, p. 404 sgg. n. 25, che ne ripercorre l'evoluzione dalla posizione oltranzista di Bernart de Ventadorn alla "follia assennata" o "cosciente" dei trovatori dell'ultimo quarto del XII sec.; tale orientamento sarebbe accolto dai trovatori delle generazioni successive in termini di "follia ragionevole" o "controllata", ben diversa dall'autentica "follia senza misura" caratteristica dei lauzengiers.
26. no n'aia: cfr. anche v. 31.
27. pon: 'punge', per cui cfr. LR 1842, IV, p. 597 n. 11.
ui: 'oggi'; hui in RbAur 389, 32, 39; BertZorzi 74, 3, 52; An 461, 211, 5; huy in Cerv 434, 15, 25.
29. fai mort et plaia: con hysteron proteron.
30. garra: fut. III sg., come in "ja no·l garra totz l'aurs de Monpeslier" Sord 437, 28, 23; quest'ultima forma si legge in A 209r, mentre l'altro testimone D 140r, a conferma dell'incertezza che si poteva avere tra i due tempi, riporta, come il nostro W, il condizionale garria.
Bartsch - Koschwitz 1973 garira. Mölk 1991 garra.
32. s'amors: la lezione del manoscritto (se mors), che nasce forse da un facile cortocircuito con mort 29, è troppo "moderna" (la morte agognata come unica soluzione alle pene d'amore) e va corretta. La lettura di Bartsch - Koschwitz 1904 e Mölk 1991 si appoggia al topos dell'amore come giusta medicina a ogni tormento: secondo le teorie della medicina antica e medievale (Avicenna, Arnaldo di Villanova ecc.) il rimedio efficace per la malattia d'amore è appunto l'appagamento della passione stessa. M. Ciavolella, La malattia d'amore dall'antichità al medioevo, Roma, 1976 offre a proposito alcuni esempi tratti da varie letterature, citando Il collare della Colomba di Ibn Hazm, il Lay Guigemar di Marie de France, Flamenca, il Decameron di Boccaccio.
Su questo topos ironizza Guglielmo IX in "Malautz soi e cre mi morir; | e re no sai mas quan n'aug dir. | Metge querrai al mieu albir, | e no·m sai tau, | bos metges er, si·m pot guerir, | mor non, si amau" GlPeit 183, 7, 19-24; mentre Jaufre Rudel intreccia il motivo malattia / cura ("Bon' es l'amors e molt per vau, | e d'aquest mal mi pot guerir | ses gart de metge sapien" JfrRud 262, 4, 54-56) con la sua personale concezione dell'amore distanza / presenza ("Amors de terra lonhdana, | per vos totz lo cors mi dol. | E no·n puosc trobar meizina| si non vau al sieu reclam | ab atraich d'amordoussana | dinz vergier o sotz cortina | ab dezirada companha" JfrRud 262, 5, 8-14); cfr. inoltre "mas ieu no·m duelh d'aital clavelh, | ans sent al cor un dous cairelh, | don fin'Amors m'es guerizos" DPrad 124, 10, 37-39.
Il medico in grado, se lo volesse, di curare il poeta è invece per traslato l'amata in "Ben m'a nafrat en tal vena | est'amors qu'era·m refresca, | don nuls metges de Proensa | ses lei no·m pot far garensa" RbAur 389, 41, 22-25 (Milone 1998); "Mas ges no·s pot de me partir | us dezirs que·m lassa e·m pren, | que totz mos coratges m'enpen | vas selieys que·m pogra guerir; | e, s'ilh non a de me merce, | pot saber que murai de se, | que tant es mos mals perilhos | que autres metges no m'es bos" GcFaid 167, 1, 9-16; "ar ai ben d'amor apres | cun sap de son dart ferir, | mas cum pueys sap gent guerir | enqueras no sai ieu ges. | Lo metge sai ben qui es, | qui·m pot sols salut donar, | mas que·m val, s'ieu demostrar, | ia non l'aus ma mortal playa?" PRmTol 355, 3, 1-8 ecc.
34. gran iornaa: 'durata di una lunga giornata di viaggio', per cui cfr. SW 1904, IV, p. 272 n. 5.
38. membres: cong. impf. che esprime eventualità e reiterazione attraverso il tempo, 'ogni volta che io possa ricordarmi'.
41. chambre encortinaa: riecheggia il luogo dove avviene il bacio di Cercamon ("non la puesc baizar e tenir | dinz cambra encortinada" Cercam 112, 1b, 48-49); cfr. inoltre "Ab atraich d'amor doussana | dinz vergier o sotz cortina | ab dezirada companha" JfrRud 262, 5, 12-14; "c'asatz fauc meils mon talant | quan l'ai despoillada | sotz cortin'obrada" BnMart 63, 3, 43-45.
Sulla tipologia dei luoghi di incontro, cfr. Katharina Städtler, En cort, en cambra o dinz vergier: Überlegungen zu einer historischen Antropologie der fin'amor, in Okzitanistik, Altokzitanistik und Provenzalistik. Geschichte und Auftrag einer europäischen Philologie, a c. di Angelika Rieger, Frankfurt am Main, Lang, 2000, pp. 217-30.
Nota
(1) Cfr. Pierre Bec, Trobairitz et chansons de femme. Contribution à la connaissance du lyrisme féminin au Moyen Âge, CCM, XXII (1979), pp. 235-62, poi in Id., Écrits sur les troubadours et la lyrique médiévale (1961-1991), Caen, Paradigme, 1992, pp. 283-310. Secondo altre interpretazioni si tratterebbe invece di un componimento ibrido, una "cansó-dansa" (Bec 1995) o una “kanzonenartige dansa” (Rieger 1991), che, pur con qualche peculiarità, combinerebbe i tratti dei due generi: alle topiche del canto cortese (inizio primaverile, pene e insonnia d'amore ecc.) si unisce infatti la presenza di un ritornello interstrofico (ridotto però a tre sillabe e non modellato, come di solito nella dansa, sugli ultimi versi della strofa). (↑)
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