La canzone è fra quelle analizzate da Locher 1980: la studiosa nota preliminarmente che «Though this song offers perhaps the least striking illustration of Folquet’s linking techniques, it may indicate how Folquet began to develop stanzaic continuity» (p. 195) e prosegue descrivendo il contenuto di ciascuna cobla, tutte disposte nello stesso ordine nei diversi mss., a sottolineare che «the order made sense to the scribes», collegando poi tale contenuto alle ripezioni morfemiche presenti nelle coblas e fra le coblas: «each stanza is intended as a discrete segment of thought than that each thought, regardless of where it is expressed, is meant to lead to the next. The macrostructure [...] results from both logical links and formal repetitive devices which interlace the entire poem» (p. 196). La conclusione dell’analisi sottolinea l’unità strutturale del componimento: «The individual stanza is not an autonomous unit to be appreciated in isolation or rearranged at will. Instead, each stanza seems an almost fortuitous subdivision in a continuous chain of thought running through the entire canso from beginning to end. The effect is surely to stress the unified structure of the canso. As the more elaborate complexities of other cansos by Folquet indicate, this one may represent an early attempt to attain continuity» (p. 197).
3. Cfr. su indicazione di Stroński (p. 83*) GrdoRos 240,5 (V), 25: «ni anc no vi erguelh que no dechaya».
5. Alla traduzione di Stroński: «...de m’avoir toujours montré orgueil outre mesure» (p. 128), qui accolta, Jeanroy 1913, p. 261 oppone: «vous avez opposé à ma modération une conduite orgueilleuse». Ma il verso presenta un problema ulteriore nel verbo reggente: commentando infatti il suo mostretz, dichiarato una 2ª pl. del perfetto nelle Additions et corrections, p. 270 (dove emenda mostratz, lezione di ABPSLN+OQUc, e cfr. mostras in J, messo per errore a testo), Stroński scrive che «le subj. mostres de la plupart des mss. a été attiré par qu’ancsem dans lequel les mss. voyaient qu’anc si·m; on pourrait, à la rigueur, interpréter mostres (= -etz) comme la 2 pl. pf., mais le présent est préférable» (p. 204). Al contrario, assumo proprio che mostres valga mostretz, così come al v. 42 saubes = saubetz.
7. per qu’es semblanz: recepisco nella sostanza la traduzione che Salverda de Grave 1911, p. 502 oppone a quella di Stroński: «c’est pourquoi il est problable (et non: “paraît-il”) que l’Orgueil tombera bas».
8. Altre occorrenze di questa espressione proverbiale sono in Cnyrim 1888, p. 36 (ni 419-24).
9. Traduco il verso seguendo l’osservazione di Jeanroy 1913, p. 261: «vos est un régime indirect, non un sujet», alla traduzione di Stroński: «Mais vous, il ne me paraît pas que vous puissiez commettre una faute» (p. 128).
15-16. Oltre che con Publilio Siro: «Multis minatur, qui uni facit iniuriam», Stroński (p. 79*) segnala un possibile rapporto con Ovidio, Epistulae ex Ponto, III, II, 9-10: «cum feriant unum, non unum fulmina terrent, / iunctaque percusso turba pavere solet».
15. Il gruppo α non è omogeneo nel tramandare la lezione che apre il verso: quella messa a testo, oltre che del ms.-base I, è in KL+Ols, ma PS+EU leggono que cel, N ca quel, AB+DcRc e cel, mentre D con car scels segue β. Quanto all’inizio del secondo emistichio, Stroński nello stampare «car cel reman e·il mala sospeissos», dove eil è lezione dei soli EJls, afferma che questi mss. «sont seuls à conserver la bonne leçon dans une construction obscure» (p. 204): anche in ragione di questa oscurità mi attengo alla lezione del gruppo α e della maggioranza dei testimoni. Su sospeisos si veda Cropp 1975, p. 198.
16. desmesura: mi attengo in sostanza all’interpretazione di Stroński che, a norma di SW, II, pp. 151-52, s.v. desmezurar, traduce «se conduit de façon démesurée» (cfr. anche Glossaire, p. 245, s.v. desmezurar), segnalando la proposta di Salverda de Grave 1911, p. 503: «traiter mal».
17. cela s’en: diverso, ossia cel asen, è lo scioglimento di Stroński («et chacune l’approuve», p. 128): per l’editore questa è infatti «la seule leçon possible» (p. 227), sebbene non possa produrre alcun passo parallelo per cel neutro, né, com’è ovvio, per l’hapax asentir. Accettano in sostanza tale lezione sia Salverda de Grave 1911, p. 503, sia Lewent 1912, col. 333 (che però collega cel a blasme); ma la contesta, a mio parere con ragione, Jeanroy 1913, p. 261 che propone la divisione delle parole qui adottata (per la sua traduzione si veda infra la n. 18). D’accordo con lui anche Schultz-Gora 1921, p. 143-44 che tuttavia rimarca «daß sé celar d’alc. re in dem Sinne ‘etwas verborgen halten’, ‘es nicht aussprechen’, den der Vers blasme n’a hom e chascun cela s’en erfordert, von den Wörterbüchern nicht verzeichnet wird» (p. 143), non trovando altro parallelo che l’afr. s’en cela nella varia lectio del Folque de Candie (v. 12556).
18. Il verso di Stroński, «per qu’es l’enganz, e n’es plus galiatz» da ABUc+DNPS (e cfr. Gf), tradotto a p. 128: «parce que c’est une tromperie et [...] en est plus trompé» – nonostante l’aggiustamento di tiro nella traduzione di Salverda de Grave 1911, p. 503: «ce n’est pas l’homme à qui s’adresse la tromperie (qui en est la victime) qui en a le blâme, tout le monde est de cet avis, et celui qui fait la tromperie est dans une plus mauvaise condition que celui est trompé» – non appare adeguato a Jeanroy 1913, p. 261: questi propone di assumere la lezione qui accolta (o in alternativa «Per qu’es en eis l’engan plus galiatz» di FaLMVls+Kp), ricevendo la conferma di Schultz-Gora 1921, p. 144. Riporto la traduzione di Jeanroy dei vv. 17-18: «L’homme jusque-là irréprochable qui a failli (v. 10-16) encourt le blâme, mais chacun le dissimule (dissimule la mauvaise opinion qu’il a de lui), et voilà pourquoi celui qui a trompé autrui est plus trompé que sa victime». Cfr. Pist 372,5 (VIII), 23-24: «e tals cuj’ autruy galiar / que si mezeys lass’ e repren». Stroński (p. 79*) segnala inoltre due possibili fonti in Cicerone e Seneca.
21. Il motivo è topico: Stroński (p. 83*) cita a mo’ d’esempio RbVaq 392,17 (VIII), 41-44: «Car ai proat d’amor tot son mestier: / c’aisill que son camjador e leugier / son meils amat, e qui la serf es mortz, / per qu’ieu soi ricx, quar ieu li soi estortz»; quest’ultimo verso, secondo Linskill 1964, p. 137 «appears to be a reminiscence» della cobla V di questa canzone, ma un confronto più preciso può esser fatto con il v. 37 del testo folchettiano (sui rapporti di RbVaq con FqMars cfr. parte I, § 3.2.1.2.5).
25. Secondo Stroński «la leçon avec Fols en tête est juste: Fols est repris du dernier vers de la strophe précédente et doit être souligné (cf. Blasme au v. 17 qui est repris du v. 14)» (pp. 204-205): per quanto non sia sufficiente a far postulare l’erroneità, l’osservazione stilistica è interessante; si portà inoltre aggiungere che con fols a inizio verso i primi tre versi della cobla acquistano una notevole simmetria (riporto la versione β, evidenziando in corsivo gli elementi correlabili):
25 |
Fols fuy ieu be que mis lo cor e·l sen: |
26 |
sens non fon ges enans fon gran foldatz, |
27 |
car sel es fols que cuja esser senatz |
Segnalo infine l’articolata analisi di Perugi 1978, I, pp. 193-94 a supporto della ricostruzione: «Eu fui fols, qe·i mis lo cor e·l sen».
26-27. Cfr. PVid 364,46 (VIII), 9: «E folls, quan fai foldat, cuja far sen».
34. Una costruzione simile è in BnVent 70,15 (XV), 29-30: «En agradar et en voler / es l’amors de dos fis amans».
riquesa e: segnalo l’errore (refuso tipografico?) di Stroński che mette a testo «riquess’ o», lezione di EG, estesa indebitamente a L (cfr. anche riqesa au in Q) per poi tradurre secondo la lezione maggioritaria «la richesse et la pauvreté» (p. 129): l’apparato, nel quale l’editore usa indicare a sinistra della parentesi quadra la lezione più attestata piuttosto che quella a testo, non consente ulteriori verifiche.
34-36. Concetti analoghi nella tradizione classica sono segnalati da Stroński a p. 79*: Publilio Siro: «Is pauper est qui sibi videtur indiges» e «Is minimo eget mortalis, qui minimum cupit»; e inoltre Seneca, Epistulae ad Lucilium, 2,6: «non qui parum habet, sed qui plus cupit, pauper est».
35. Cfr. RmJord 404,1 (I), 19-20: «...don me tenc per paguatz / d’un ardimen qu’ai endreit vostr’amor» e i rimandi bibliografici di Asperti 1990, p. 161.
41. L’efficace identificazione, in un verso esemplarmente gnomico, fra due elementi costitutivi del sistema ideologico trobadorico come ‘cortesia’ e ‘misura’, è utilizzata fra gli altri da E. Köhler in Observations historiques et sociologiques sur la poésie des troubadours, CCM, VII (1964), pp. 27-51, a p. 39 (la prima parte del saggio è trad. in it. col titolo La piccola nobiltà e l’origine della poesia trobadorica in Sociologia della fin’amor. Saggi trobadorici, traduzione e introduzione di M. Mancini, Padova, Liviana 1987², pp. 1-18, a p. 16; la seconda è trad. alle pp. 19-37); cfr. anche J. Wettstein, «Mezura», l’idéal des troubadours, son essence et ses aspects, Zurich 1945, p. 55 (cito dal reprint di Slatkine, Genève 1974). Si noti comunque che qui l’identificazione viene opposta ad Amore: la questione meriterebbe un approfondimento ulteriore, ma in questa sede mi limito confrontare il passo con BnVent 70,16 (XVI), 31-32: «car, qui en amor quer sen, / cel non a sen ni mezura». Segnalo inoltre fra i precedenti Marcabr 293,15 (XV; Roncaglia 1965), 13-14: «De cortesia·is pot vanar / qui ben sap mesur’esguardar»; e fra i paralleli BtBorn 80,45 (XXX), 14-16: «Mas, ses mesura, non es res: / aisel que·s vol desmesurar / no pot sos faitz en aut poiar» e PVid 364,30 (XXXIV), 46: «que mesura d’amor fruitz es».
44. c’al major briu: per Stroński l’espressione significa «qu’avec le plus grand effort» (p. 129 e cfr. Glossaire, p. 241, s.v. brui), ma è più letterale Lewent 1912, col. 333: «beim heftigsten Ansturm (meines Grolles)»; cfr. PVid 364,9 (II), 39: «Mas pueis remas lo mals crims e·l fals brius». |