POSTILLE ALLA TRADUZIONE
(a) Generalmente la perifrasi verbale viene tradotta alla lettera in quanto « voler dire » (con oscillazioni nella resa del modo e del tempo, in dipendenza del resto dagli usi sintattici nelle varie lingue moderne: cf. ad es. ERNST « möchte [...] erzählen », JEANROY « je veux enseigner », RIQUER « quisiera decir », JONES « I want to peak »), ma forse è sufficiente il semplice futuro indicativo: « dirò », dato il noto costrutto antico provenzale indicante futuro imminente; « volere » può inoltre fungere da verbo vicario (come notato da BERTOLUCCI, Suppl., p. 84, n. 79, e nel Glossario di GBerguedà, s.v. voler; cf. anche RBerbezilh, p. 127, n. 5 con riferimento al SW e PCardenal, 51, 19, indicazioni tutte reperibili nelle nostre note all'ed., nn. 60-61 e 495).
(b) Rimandando, per più puntuali considerazioni, ad un successivo paragrafo del nostro lavoro, ci limitiamo qui a segnalare l'illusoria facilità di traduzione dei due termini componenti la famosa antitesi (poi largamente utilizzata all'interno della Exposition), dato lo spessore ideologico (se non filosofico in senso tecnico) sotteso a ciascuno di essi. Meno problemi pone la resa italiana dell'a. prov. razos, identificabili entrambe nella ratio « quale risulta tradizionalmente definita dal pensiero medievale », da Isidoro di Siviglia a S. Tommaso: il ' discernimento razionale ' che permette di distinguere il bonum dal malum e il vero dal falso (RONCAGLIA, p. 229 n. 13, con rimando al volume di H. FLASCHE, Die begriffliche Entwicklung des Wortes ' ratio ' und seiner Ableitungen im Französischen bis 1500, Leipzig, 1936) e che risulta coordinatore di tutte le facoltà compresa la istintuale voluntas (da cui a.prov. voluntat). La resa di quest'ultima con «volontà» risultava decisamente fuorviante data la prevalente accezione intellettualistica del vocabolo in it.mod.: pur ripiegando sull'imparentato etimologicamente volere, la nostra scelta ha esitato fra termini svariati (concupiscenza, desiderio, appetito, ecc.) che semanticamente (e storicamente) apparivano ancora maggiormente idonei a designare quella che qui risulta la radice ultima della passio amorosa.
(c) Il soggetto, sottinteso fino al v. 25 (ela), risulta logicamente il menor tertz d'amor; grammaticalmente, dato l'uso del femminile, Amors medesimo (il « tutto » per la « parte »), nel genere che gli è proprio in a.prov. (cf. vv. 9 la, 25-33 ela, 46 nuda), ma che ha fatto sorgere problemi ai moderni traduttori del testo, aggirati per lo più con l'aggiunta di connettivi specificatori del tipo «Die Göttin» (DAMMANN), «la reine qu'on appelle 'troisième et moindre Amour'» (JEANROY-JUNG; anche NELLI-LAVAUD ricorrono allo stesso sostantivo «pour garder partout cette nuance »), oppure « la Dama Amor » (RIQUER), mentre altri preferiscono operare un sistematico metaplasmo in direzione del maschile (ANGLADE: « cet amour »). Sulla problematica « generica » posta dalla personificazione cf. inoltre quanto osservato in 1.2.
(d) Come osservava appropriatamente LEVY (SW II, p. 402 n. 7, con conclusione dubitativa: « So bietet die Deutung der Stelle Schwierigkeiten, die ich nicht zu lösen vermag »), nel presente contesto a s'emprendre può essere assegnato sia il significato ristretto di « accendersi, infiammarsi » (in FEW 9, 347 solo ess. a.fr., ma per l'a.prov. cf. la postilla a p. 352, seconda colonna) che quello più generale di «unirsi» (LEVY ib., n. 5: l'es, di BBorn, 34, 38, ivi cit., «E tuit aissilh qu'ab vos s'eran empres», dove parimenti ricorre la costruzione con ab, segnalata anche in Deux mss., Gloss., Add. et corr., p. 247; v. inoltre FMarseille, Gloss., s.v. emprendre: s'e. ab alcu « s'unir av. qu. », p.p. empres « uni », ecc). Dato che per la prima accezione non ci soccorrono (al momento) esempi di analogo costrutto con ab, preferiamo l'altra, in ciò confortati del resto dall'accordo dei moderni traduttori del testo (totale, a quanto risulta) e dalla stessa interpretazione riquieriana (per quanto non letterale) data in Exp., vv. 395-405.
(e) Per quanto si riferisce a jazer, al senso vulgato di « riposare » (APPEL, ERNST, ANGLADE, RIQUER, ecc.) già DAMMANN preferiva «abitare, trovarsi» (p. 10: «bewohnt»), riproposto da JEANROY-JUNG («où elle tient son siège»), secondo una modalità di rappresentazione più adeguata al tono generalmente elevato di tutto il componimento (cf. qui avanti la postilla relativa al peiro); vai avrà valore puramente accessorio come al successivo v. 33. Per ulteriori precisazioni sullo spettro semantico originario di j. (« se trouver », da cui, per restringimento, « être couché »), cf. CROPP, pp. 372-6.
(f) E' possibile che la E iniziale di verso vada assunta in funzione avversativa (cf. JONES « but », JEANROY-JUNG « il vit au reste dans l'allégresse, celui qui peut y rester », ecc.), ma la scontata affermazione della perfetta felicità dell'amante (basti cf. Chastel d'Amors, c. 29 « Qi el chastel pot aver / Ostal o puosca caber, / Segur pot annar e jaszer; / E ja no li cal temer / Qe re per estraing poder / Lai perda de son gadanh ») non contrasta che apparentemente con la « prigionia » appena enunciata nel secondo emistichio di v. 27 (cf. poi Appendice). La consequenzialità logica è quindi conservata anche da traduzioni del tipo ANGLADE « quand on peut rester dans le palais, on y vit dans la joie », RIQUER « y con gozo vive el que allí puede quedarse », ecc.
(g) Le contraddittorie interpretazioni di cui è stato oggetto l'aggettivo les da parte moderna possono ricondursi alla due accezioni di base contemplate per il vocabolo a.prov. dal PD di LEVY, s.v. len: « lisse, doux; glissant » (manca registrazione corrispondente nel SW; cf. RAYNOUARD, Lexique, IV 44 s.v. len « lisse, doux, glissant, délicat » con citazione del nostro testo), le quali del resto rappresentano i principali sbocchi semantici assunti a livello galloromanzo in genere dal lat. LENIS (FEW 5 249). In effetti, ambedue risultano potenzialmente appropriati al contesto calansoniano, sia che si ponga l'accento sull'infida pericolosità di accesso al palais (DAMMANN ed ERNST « glatt », come già RAYNOUARD, op. cit., « moult glissants », e cf. ANGLADE, BARTSCH-KOSCHWITZ, ecc.), sia ammettendo che « l'auteur veut dire que l'accès est agréable et facile à tout homme courtois » (JUNG, p. 137, che come già JEANROY traduce « doux »; cf. APPEL, Gl. s.v. lê «sanft», RIQUER «suaves», JONES «polished» ecc.). Anche se una risposta decisamente univoca risulterebbe azzardata, trattandosi qui della zona di maggior difficoltà esegetica dell'intero componimento (sui problemi suscitati dal discusso valore allegorico dei gras torneremo a suo luogo), a noi appare tutto sommato più convincente la prima soluzione: gradini « lisci » ma in quanto tali « scivolosi », « difficoltosi », ecc., proposta sia da DAMMANN che da ERNST (e già implicitamente offerta dalla traduzione che di questi vv. dà il RAYNOUARD, Choix, II, pp. 252-3: « pénibles », oltre che, ben più a monte, dalla stessa Exposition di Riquier: vv. 555-565, cf. la nostra nota 563-5 ad elenegar). Circa l'etimo di les, sarebbe da controllare l'eventuale sovrapponibilità a LENIS di LENTUS, questo ultimo pure assai diffuso in area galloromanza e specificamente a.prov. (FEW V 253 n. 3; LEVY, SW, IV 361: sul passo di BVentadorn cit. ib. cf. l'ed. APPEL, 3, 10, pp. 18-19), partendo dalle constatazioni di J. RONJAT, A propos de « dégel », in «Archivum Romanicum », IV, 1920, pp. 362-375, a 366-8 (e partic. n. 1).
Approfittiamo di questa sede per segnalare la ricorrenza di len (in contesto presumibilmente analogo) in quel vers di BPanassac glossato da Cornet di cui ci occuperemo meglio in un capitolo successivo: v. Deux mss., p. 58, vv. 17-20 dove viene evocato un palaytz con minuzioso elenco delle difese strategiche (« de .VII. murs / Grans e sobriers es veramen totz claus, / E de valatz mals e larcx sobre caus / Ab estreg pon, qu'es lens e mot escur »), chiosato poco perspicuamente dal Cornet almeno per quanto riguarda l'aggettivo in questione (Gloza, v. 86: « mot prion »). Da cf. ib., p. 151 n. 20 la dubbiosa interpretazione degli editori Noulet-Chabaneau (« Faut-il entendre ' qu'on traverse avec lenteur '? », ecc., riproposta nella ristampa antologica data da NELLI, Écrivains, II, pp. 313-14). Che len qui risulti connotativo della difficoltà di percorrimento del ponte appare certo per più ragioni, sia specificamente contestuali (il coordinamento dell'aggettivo ad escurs, oltre alla prima determinazione di estreg) che più generalmente rapportabili alla carica simbolica inerente al pons medesimo (per il livello escatologico — il « cammino pericoloso », la « porta stretta », ecc., che metaforizzano l'arduo passaggio nell' ' altro mondo ' — cf. I. P. CULIANU, « Pons subtilis ». Storia e significato di un simbolo, in « Aevum », a. LIII, 1979, fasc. 2, pp. 301-312, e fra i trovatori le note in PCardenal, LXXII 31-36, p. 481, e Gavaudan, X 47-48, pp. 415-16; la metafora della via estrecha, o della salvezza cristiana, in opposizione all'amples camis della perdizione, risulta ben utilizzata dal medesimo Riquier: Exp., vv. 132-135 e nostra nota; vers, XVIII 41 ss. e XXIII 37 ss. con ulteriori rimandi).
(h) Non sarà del tutto superflua qualche considerazione relativa a questo elemento architettonico (di dislocazione comunque esterna al palais, come invita a intendere l'avverbio fors assunto a testo da Dammann ed Ernst). Anzitutto un riepilogo delle principali proposte: la prima, dovuta al DAMMANN (p. 10: « Steinbank zum Niederlassen », vale a dire « panca » o « sedile » di pietra), probabilmente suggestionata dalla vulgata accezione del termine in sede epica (per questo ambito già di per sé composito cfr. R. LOUIS, De l'histoire à la légende, Girart, comte de Vienne, dans les chansons de geste [...], II, Auxerre, 1947, pp. 216 ss.), era accantonata come impropria nella recensione ZENKER (pp. 327-8), con rimando sostitutivo a « steinerne Vorbau mit Freitreppe vor dem Portal des Schlosses, wo man wohl bei gutem Wetter zu sitzen und die frische Luft zu genießen pflegte » in base alla documentazione storica offerta da A. SCHULTZ (Das Höfisches Leben zur Zeit der Minnesinger, Leipzig, 1889², I, pp. 57 ss.) e in buona congruenza, del resto, alla chiosa che del p. darà Guiraut Riquier (Exp., vv. 628 ss.: cf. le nostre note all'ed.). Convalide esplicite si ebbero poi da parte di ERNST (p. 373) ed APPEL (Gloss. s.v. peirô: « erhöhter Platz aus Stein vor dem Hause »), nonché LEVY, SW (VI 184 n. 1: riprodotta la su citata definizione Appel, come seconda accezione del termine si dà « Freitreppe »). Quest'ultima (la « scalinata », cioè, fondamentale struttura di collegamento fra salone principale del castello, spesso sopraelevato per ragioni di sicurezza, ed esterno: v. anche PASTOUREAU, pp. 62-3) ricorre tuttora in alcune traduzioni moderne della canzone (da CRESCINI, Gloss. s.v. peirô «gradinata (per cui si saliva alla gran sala del castello)», a SANSONE, Allegoria, p. 253, ecc.) e noi stessi abbiamo ripiegato su di essa in mancanza di un corrispettivo italiano più esatto dall'a.prov. p. (che anzi eravamo tentati di lasciare nella veste linguistica originale, data la sua irriproducibile tecnicità). « Scalinata », « scalone » e simili non danno infatti che un'idea parziale del p., sia medievalmente che modernamente inteso, dato che esso risulta constare di due elementi distinti per quanto strettamente interrelati (come esplicitano le definizioni lessicografiche del fr.mod. perron: cf., ad es., HATFELD-DARMESTETER-THOMAS, Dictionnaire général de la langue française, t. II, s.v. perron: «Escalier de quelques marches construit devant la façade d'une maison et terminé par une plate-forme sur laquelle s'ouvre l'entrée principale », da cui, per specificazione metonimica, « la plate-forme » medesima; v. anche E. LITTRÉ, Dict. de la langue franç., t. III, Paris, 1874, s.v.). A livello medievale, l'indecidibilità latente fra elemento montante e piano sopraelevato cui il primo dà accesso è segnalata, per l'a.fr., nel FEW (VIII 322 n. 8); quanto all'oc, il campionario di esempi risulta ancor meno istruttivo per la sua ridotta consistenza. Tra questi segnaliamo la Chanson de Sainte Foy, par E. HOEPFFNER, Paris, 1926, t. I, p. 330, v. 550 e Gloss. pedrun (' banc ou escalier de pierre '); GBornelh, 54, 26 e Gloss. (« erhöhter Platz aus Stein vor dem Hause », ecc.); inoltre GRoussillon, ed. W. M. HACHETT, III, Paris, 1955, Gloss. s.v. perron (tra l'altro « terrace? », secondo quanto suggerito anche da RAYNOUARD, Lexique, IV 532 n. 2 dove si cita il passo calansoniano dando l'accezione « balcon », ripresa dagli anglofoni HILL-BERGIN « terrace » e JONES « porche »).
Che nel nostro caso per p. si debba intendere un « balcon ou galerie ouverte sur le dehors, accessible [...] par un escalier extérieur » (P. HÉLIOT, Sur les résidences princières bâties en France du Xe au XIIe siècle, in « Moyen Age », t. LXI, 1955, pp. 27-61, a 30-31) pare richiesto perspicuamente dal contesto calansoniano medesimo: nessun stallo più appropriato, infatti, per la personificazione di Amore onnipotente, che la sommità del p., « emblème du lieu élévé où se tiennent et d'où descendent les races conquérantes et supérieures », divenuto poi, a un preciso momento storico, simbolo architettonico del potere politico-giuridico del castellano (VIOLLET-LE-DUC, Dict. raisonné de l'architecture française du XI au XVI siècle, Paris, 1854-1868, t. I, pp. 115-121: « il est peu de dispositions adoptés dans la construction des châteaux du moyen âge qui se soient perpétuées plus longtemps »; « ces degrés extérieurs étaient considérés comme la marche visible d'un pouvoir seigneurial »). Ultima notazione: le fonti documentano circa l'uso di disporre sulla superficie culminante del p. mobili o arredi tra cui in particolare tavole (VIOLLET-LE-DUC, p. 118; per tale elemento v. Postilla seguente).
(i) Taulier « tavolo da gioco » (come propongono ad es. ANGLADE, p. 117 « table de jeu », NEUMEISTER, p. 83 n. 164 « Spieltisch », HILL-BERGIN, « gaming table », ecc.), valido quindi per più tipi di intrattenimento « da tavolo » (la traduzione troppo specializzata « échiquer » di JEANROY viene rilevata da JUNG, p. 137, n. 41, ed ERNST, pp. 373-4; sulle numerose altre assunzioni semantiche del termine cf. LEVY, SW VIII, p. 85 con rimando al Lexique di RAYNOUARD, V, 308). E' ampiamente noto, del resto, che gli scacchi costituivano « le jeu de société par excellence, celui sur lequel les auteurs sont intarissables » (PASTOUREAU, p. 139); sui rapporti gioco-destino nelle loro espressioni letterarie, cf. P. JONIN, La partie d'échecs dans l'épopée médiévale », in « Mélanges [...] Frappier », I, Genève, 1970, pp. 483-497, oltre alle indicazioni del già cit. PASTOUREAU (p. 224). Tra i rimandi possibili al campo didattico-allegorico, citiamo qui il Fablel dou dieu d'Amors, ed. Lecompte, c. 91 (nel palazzo d'Amore, « gentil maisnie / de damoysiaus » gioca con le proprie « mies » « [...] de legerie; / d'esquiés, de table[s] »: sui vari giochi a base di ' tavole ' dà informazioni J. VERDON, Les loisirs au Moyen Age, Paris, 1980, pp. 197-206).
Sulla «partita» e il gioco d'amore v. anche il blando intervento di M.R. BLAKESLEE, Lo dous jocx sotils: la partie d'échecs amoureuse dans la poésie des troubadours, in «Cahiers de civilisation médiévale» XXVIII (1985), pp. 213-22 (citazione di Celeis cui am a p. 219).
(j) La traduzione più congrua appare ancora oggi quella di Dammann ed Ernst, efficacemente trasposta in NELLI-LAVAUD, p. 653: « mais que tout maladroit qui a le tort / De mal jouer se garde d'y toucher » (dove si annota quanto segue: «mespres, en faute, de mesprendre, faillir»). Troppo sintetica anche se fondamentalmente corretta quella di ANGLADE (« les joueurs discourtois et les tricheurs »), mentre un po' devianti, a nostro avviso, JEANROY e JUNG (« les malappris, accoutumés aux jeux brutaux »).
Per envidat, che risulta termine tecnico del linguaggio del gioco (più generalmente inteso), v. la nostra nota al testo di R (canz., V 40: revidat).
(k) Come invitano a supporre le traduzioni moderne (cf. ad es. DAMMANN, ERNST « gegossen », ANGLADE « coulé », JEANROY-JUNG « filé », RIQUER « fundido », JONES « molded » ecc.) a trasgitat pare da sottendere un'accezione tecnica assai precisa che peraltro risulta scarsamente documentata in ambito a.prov.: accanto all'esempio calansoniano, solo un altro veniva prodotto nel Lexique di Raynouard (III 471 n. 11 s.v. trasgitar « barioler, entremêler »), e precisamente il v. 551 dell'ensenhamen di Arnaut Guilhem de Marsan, Qui comte vol apendre (cf. ora l'ed. SANSONE, Testi, II, pp. 109 ss., che traduce i « bels sonalhs trasgitatz » appunto con « fusi », a p. 144, e cf. nota a p. 178 con riferimenti anche all'a.fr.).
Già il Levy (SW VIII, 386-7), oltre ad arricchire le poche attestazioni prodotte dal Lexique di Raynouard, ed a citare testo calansoniano e Exposition di Riquier (vv. 693 ss.), poneva ipoteticamente il quesito (se t., cioè, potesse alludere ad « eine besondere Technik des Gießens »): ne risulterebbe spia (attendibile data la vicinanza cronologica) la stessa Exp., che definisce, ai vv. appena citati, veyre t. quello che serve in specifico alla fabbricazione degli specchi (« en que hom miran / pot vezer son semblan »). Per il resto, la scarnissima rete dei riscontri in ambito a.prov. offre ben pochi appigli, dato il deciso prevalere dell'accezione psicologico-comportamentale (PCardenal, p. 212, n. a XXXIV 21: « agité et allègre, folâtre, plein de trémoussement et de gaîté »; cf. anche BERTOLUCCI, Suppl. 582 e Decl. 155 per trasgitars « giochi di prestigio » e tragitador « prestigiatori » e APPEL, Chrest. Gloss.; per i proseguimenti in prov.mod., si rimanda a FEW V, p. 21).
In ogni caso, la specializzazione in direzione tecnico-artigiana del termine è, a livello romanzo, ampiamente verificabile: per il fr. cf. T.-L., fasc. 87, 1976, cc. 605 ss. con indicazioni bibliografiche, oltre a FEW V, p. 21 h (terjetter « vider dans les pots à cueillir la matière propre à faire le verre, qui a été mise en parfaite fusion»); per l'it. è probabile l'influsso oitanico (DEI V 3853 s.v. tragettare « gettare il metallo fuso nella forma » — XIVº sec. — e « gettare la pasta del vetro dopo la fusione in grandi conche di terra piene d'acqua », con richiamo all'a.fr. tresgeter). Per il consolidamento dell'accezione in epoca posteriore, cf. TOMMASEO-BELLINI, Dizionario della lingua italiana, vol. IV pt. II, s.v. tragittare n. 2 e G. GHERARDINI, Voci e maniere di dire italiane additate a' futuri vocabolaristi, vol. II, Milano, 1840, p. 660 s.v. tragettare n. 2 (« Tragettare in acqua — T. de' Vetray »: in ambo i casi viene prodotto lo stesso esempio, seicentesco, riferito alla lavorazione del cristallo).
(l) La pudibonda localizzazione dell'orfres, compiuta con morigerata titubanza da Guiraut Riquier (Exp., vv. 790 ss.), risulta certo adeguata al quadro disegnato da Calanson (scarsi nonostante ciò gli appigli desumibili dall'iconografia tradizionale delle divinità amorose, per cui è ricorrente la completa nudità; essa risulta pienamente accetta nel Fadet joglar, dove Amors compare infatti « nuda ses vestir »: PIROT, p. 254, v. 204).
Il ventaglio di accezioni semantiche possibili è peraltro alquanto vario, come addita lo studio di E. R. LUNDQUIST, La mode et son vocabulaire. Quelques termes de la mode féminine au moyen âge suivis dans leur évolution sémantique, Göteborg-Lund, 1950, pp. 14, 20-21, 76, 167: ragionevole supporre una dilatazione dall'originario significato etimologico di « ricamo d'oro » a quello di « banda, guarnizione » e simili (FEW I 183; E. GAMILLSCHEG, Etymologisches Wörterbuch der Französischen Sprache, Heidelberg, 1966-67, II, cc. 660b - 661a s.v. orfroi; RAYNOUARD, Lexique, II 144) fino ad approssimarsi a quello di « Art goldzer ziertes Stoff » (APPEL, Gloss., cf. RAYNOUARD loc. cit. « frange d'or », « drap d'or » e LEVY SW III 597 s.v. fres), per giungere a denominare con o. il capo di vestiario impreziosito e personalizzato dal ricamo, di variabilissima foggia e funzione, e proprio sia dell'abbigliamento maschile che di quello femminile. Le oscillazioni delle traduzioni moderne della canzone sotto questo aspetto sono quindi comprensibili: dalla generica « veste » di DAMMANN (p. 10 « Goldschurz ») ed ERNST (p. 341 « Goldborte ») alle altre specificazioni successive (ANGLADE e NELLI-LAVAUD « une légère ceinture d'orfroi », JEANROY « un lambeau d'orfroi », RIQUER « un galón de oro », JONES « a few rich bands wich she wears as a belt », ecc. ecc.). Del resto, lo stesso assetto fonico del sostantivo (con monottongo da AU latino) rimanda, più che all'oc (dove le attestazioni scarseggiano) al ben più fornito terreno d'oïl: basti il rimando a T.-L., V 1249 s.v. orfroi(s).
(m) Per parentat, vocabolo in sé di normale uso in ambito galloromanzo (le accezioni convergono in « lignage, famille ; les parents et alliés d'une personne »: FEW VII, 642 ss. s.v. parens, e cf. RAYNOUARD, Lexique, IV 396 nonché LEVY, SW, VI 72) la difficoltà sta nel centrare il più appropriato ambito metaforico verso cui dirigere la lettera del testo calansoniano (nei vv. 47-8 di complessiva scarsa perspicuità: cf. la seg. postilla su assemblat). La più articolata e conseguente risulta a nostro avviso la proposta Dammann, secondo cui nel p. di Amore vanno riconosciuti « alle die amor verwandten Gefühle und Empfindungen, alle die Tugenden und Guten Eigenschaften die von den Troubadours so oft als ein Ausfluss dieser Liebe besungen werden [...] welche also dieser letzteren ihre Entstehung verdanken [fin'amor], nur durch sie entstehen können, gleichsam ihre Form gewinnen durch die Liebe, welche wie ein Feuer den ganzen Menschen ergriffen hat und durchglüht » (p. 85; cf. traduzione diretta dei vv. 47-8 a p. 84: « und ihre ganze Verwandtschaft entsteht aus einem Feuer von dem sie geformt wird », ecc.). L'immagine è di per sé ben congruente ai coevi paradigmi poetici, soprattutto per la riscontrabile tendenza a moltiplicare prosopopee di entità morali il cui raggruppamento in « campi » si presta a interessanti considerazioni (cf. la formalizzazione avviata da J. BATANY, Paradigmes lexicaux et structures littéraires au Moyen âge, in « Revue d'histoire littéraire de la France », a. LXX, 1970, n. 5-6, pp. 819-35). I raffronti in territorio occitano sono poi particolarmente vicini al nostro testo (v. i compagni di viaggio del dio di PGuillem, i personaggi della Cort d'Amor, ecc.); un più diretto richiamo alla « generazione » ( parentat) è espresso dalla varia proliferazione « arborea » dell' amor de mascle ab feme nel Breviari.
Per il resto, registrato l'abbastanza consueto allineamento a Dammann di ERNST (pp. 374-5, n. 48: v. anche qui avanti), circa le altre traduzioni moderne si può solo segnalare la (del resto quasi obbligata) vaghezza, in quanto ricorrenti in genere ai corrispettivi dell'it. « parenti » (che quasi ovunque implicano consanguineità sia ascendente che discendente: cf. RIQUER ' parientes ', JONES ' kindred ', HILL-BERGIN, Gloss., ' relation ', e in ambito francofono tendono a restringersi al primo campo e nella specifica accezione di « genitori »). Rilevata l'aporia, in NELLI-LAVAUD si propone, per ovviarvi, di identificare nel p. non tanto le sensazioni e i sentimenti di origine comunque amorosa (= DAMMANN, appena citato), quanto « les êtres en qui elle [Amors] s'incarne et elle vit et qui forment ' ses parentés ' » (p. 652, n. 3; a ciò invita la stessa Exposition di Guiraut Riquier, partic. ai vv. 838-41, come vedremo meglio nella Appendice, dedicata alle peculiarità redazionali di R² che hanno il suo riflesso sulla resa del commento riquieriano).
(n) Da DAMMANN in poi, assemblar = « sie geformt werden », « ähnlich machen, nachbilden, bilden, formen » (pp. 11 e 84, cf. ERNST, pp. 374-5, APPEL, Gloss. s.v. assemblar «ähnlich gemacht werden» e LEVY, SW, I 88-89 n. 3, ecc.), ricondotto quindi al lat. SIMILARE (FEW XI 627, con rimandi all'a.prov. asemblar « sembler », «comparer», «rendre semblable», ecc.); in effetti questa appare la direzione semantica più idonea al contesto, anche se non l'unica possibile, v. ad es. la differente traduzione proposta da NELLI-LAVAUD, p. 652 n. 4: « Litt.: [feu] par qui ils sont assemblés (unis) », che si rifà evidentemente all'omografo derivato di ASSIMULARE (REW 731, FEW I 159, e cf. APPEL, Gl.).
Il fuoco, dunque, « rende simile », quindi « forgia », « modella » — quasi in concorrenzialità semantica con il derivato di AD-EXEMPLARE, che in a.prov. risulta esemblar, esemplar (RAYNOUARD, Lexique III, p. 240 n. 3 « imaginer, créer un type, modeler », ecc., e cf. LEVY, SW III p. 211: per la pregnanza del vocabolo in ambito it.ant., riferibile all'attività sia scrittoria che pittorica, v. D'A. S. AVALLE, Principi di critica testuale, Padova, 1978, p. 92) — la propria discendenza o mesnee (parentat: v. Postilla precedente). Si sarebbe qui tentati di visualizzare la rappresentazione, sulla scorta delle interessanti note di Friedman sull'iconografia di Venere nel Medioevo in quanto « déesse planétaire » esercitante i suoi potenti influssi sulle persone nate sotto il suo segno: « En accord avec ceci, on la peignait souvent personnifiée, entourée des mortels en son pouvoir, ses « enfants » en quelque sorte, nés alors que son signe était dominant » (pp. 63-4, con riproduzione del « plateau de bois peint » — it., 1300 — dove Venere compare come « une belle femme nue qui projette des rayons depuis son sexe dans les yeux de ses enfants », tutti « amants célèbres » fra cui Tristano e Lancillotto).
(o) Data la riconosciuta difficoltà di assegnare un univoco statuto identificatorio al « secondo terzo » (cf. qui addietro al paragrafo precedente), ci si limita, in traduzione italiana, al prudenziale ricalco dei termini a. prov. Franqueza e Merces, l'uno e l'altro assumibili con un discreto ventaglio di sfumature semantiche all'interno della comune riconducibilità al codice della socialità cortese (si è già rimandato, ib., n. 33, al ragionato repertorio THIOLIER-MÉJEAN, ma basta partire da LEVY, SW III 590 e V 229, coi rispettivi rimandi al Lexique del Raynouard). Quanto agli altri moderni traduttori del testo, converrà rilevare la diffusa resa del primo elemento della diade con « nobiltà » (es.: ANGLADE « noblesse et pitié », JEANROY « Noblesse et Merci », ERNST « Edelsinn und Gnade », ecc.), in rispondenza cioè a quello che risulta il significato originario del termine (THIOLIER-MÉJEAN, pp. 76-77) che qui converrà piuttosto assumere in senso traslato: « nobiltà d'animo », quindi « bontà » (NELLI-LAVAUD: « bonté et merci »), « generosità » (JONES « magnanimity »), ecc., in rapporto di discreta sinonimia con merce, seconda componente del dittico.
(p) Non del tutto perspicua l'interpretabilità morfo-sintattica della l che segue fai (attestata, del resto, solo in R'R²; cf. apparato della qui seguente ediz.), in genere trattata dagli editori moderni (ad eccezione di APPEL, Chrest.: fa·il, cf. la reprimenda di ERNST, p. 375, n. 53) come forma elisa in proclisia rispetto ad auzir e identificata in le < ILLUD, pronome personale neutro prolettico dell'oggettiva del v. 54 (ERNST ib.), oppure in una forma aferetica del dativo, da ILLI (LEWENT, rec. cit., p. 433). A noi risulta anzitutto più convincente assumere la predetta subordinata come dichiarativo-causale piuttosto che semplice oggettiva (a ciò confortano del resto tutte o quasi le più recenti traduzioni, da JEANROY, rigettato da ERNST l. cit., a RIQUER, JONES, ecc.), dato che le nobili qualità del marchese Guglielmo non costituiscono il « contenuto » della appena enunciata canzone, ma piuttosto le ragioni di assumerlo a competente destinatario (e quindi uditore) di quanto esposto. Fai l'auzir potrebbe quindi tradursi « fai ascoltare ciò », con le non tanto prolettico quanto riassuntivo dell'iter poetico esposto; semplificante, ma non escludibile a priori, riconoscere in l' l'articolo determinativo maschile riferito ad auzir sostantivato (« rendi il (tuo) ascolto piacevole », « fatti ascoltare di buon grado »), con un più spiccato straniamento fra poeta e canzone resa messaggera di se stessa, topico peraltro della zona di tornada. |