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Beltrami, Pietro G. La canzone "Belhs m'es l'estius" di Jaufre Rudel. "Studi Mediolatini e Volgari", 26 (1979), pp. 77-105.

Postilla 2012.

262,001 - Jaufre Rudel de Blaja

Il testo di Belhs m’es l’estius ci è conservato da due soli manoscritti:

C = cod. fr. 856 (anc. 7226) della Bibliothèque Nationale di Parigi, XIV sec., studiato da JACQUES MONFRIN, Notes sur le chansonnier provençal C, in « Recueil de travaux ofiert à M. Clovis Brunel », Paris, 1955, pp. 292-312. Cfr. anche D’ARCO SILVIO AVALLE, La letteratura medievale in lingua d’oc nella sua tradizione manoscritta, Torino, 1961, p. 114 e passim. Vi si trovano le strofe I-VI a c. 214v.

e = cod. Barberiniano latino 3965 della Biblioteca Apostolica Vaticana, XVIII sec., compilato da Gioacchino Plà, prefetto della Biblioteca Barberiniana, per un’antologia trobadorica poi non stampata: cfr. D’A. S. AVALLE, Tradizione manoscritta, cit., p. 87, 88 e passim, e, dello stesso, l’ed. delle Poesie di Peire Vidal, Milano-Napoli, 1960, vol. I, pp. CXVI-CXVII. Contiene le sei strofe di C nello stesso ordine, completate con altre due strofe, per le quali è l’unico testimone,  alle pp. 174, 176 e 178. A fronte, alle pp. 175, 177 e 179, si trova la traduzione del Plà secondo il criterio seguito per gli altri testi raccolti in questo codice (1).

Considerando le varianti principali nel testo comune ai due mss., in nove casi la lezione di C pare preferibile:

 
C
e
2
quan l’auzelh
els auzels
11
ni non querrai
ni conquerrai
20
passat ai aquelh turmen
passatz sui d’a.t.
23
cui ieu n’ey obeditz
a cui non soi peditz
31
qu’anc no fui
car non soi
 
37-38
38-37
39
fuy assalhitz
soi assallitz
41
quar aissis
c’aisis
42
pantays
patais

 

Non fa testo l’omissione in e del v. 27, che doveva essere presente nell’antigrafo, perché se ne trova la traduzione corretta rispetto alla lezione di C.

Il ms. e ha tre lezioni preferibili rispetto a C:

 
C
e
22
mi
m’o
23
totz selhs
tug silh
35
amor
amors

 

I due mss. concordano infine nella lezione non accettabile escharzitz C (escarzitz e) al v. 29 (dò le necessarie giustificazioni in sede di commento).

C ha dunque, oltre il pregio dell’antichità, quello di una maggiore correttezza. e non è copia di C, come garantiscono le lezioni m’o contro mi e tug silh contro totz selhs; pur essendo complessivamente inferiore, non è da rifiutare in blocco, e sembra rappresentare una tradizione non lontana da C. Per la parte rudeliana nel suo insieme, e è infatti il solo con C a tramandare non solo questa canzone, ma anche Pro ai del chan essenhadors (III dell’ed. Jeanroy) e un’altra canzone erroneamente attribuita a Rudel in entrambi i mss., Lanquan lo temps renovela (PILLET-CARSTENS, n. 190, 1; l’autore si autonomina Grimoartz al v. 60. Ed. in ALFRED STIMMING, Der Troubadour Jaufre Rudel, cit. infra, p. 57).

Da Stimming in poi, gli editori hanno sempre stampato il testo in otto strofe, integrando C con la testimonianza di e, con una scelta che pare ancora corretta, ma che necessita di qualche osservazione.

1) La lunghezza della canzone non ci dice quasi nulla. Il solo testo di C consta di 42 versi come Quan lo rossinhols el folhos; con l’aggiunta di e (56 versi) si supera di poco la lunghezza di Lanquan li jorn (52 versi) e si pareggia, quanto ai versi, quella di Pro ai del chan essenhadors (che è però in sette strofe; inoltre la terz’ultima e l’ultima strofa sono di nuovo attestate soltanto in e). Ma soprattutto non pare lecito fondarsi su criteri statistici per una stagione trobadorica di cui ci sono rimasti così pochi testi.

2) Le due strofe conservate in e sono perfettamente regolari rispetto alla metrica delle altre sei; non soltanto sono mantenute le stesse rime, ma è osservato anche lo scambio, nel fronte, delle rime a con le rime b, secondo lo schema delle coblas doblas (in Pro ai del chan e « cambia » solo le rime di due versi, 38-39, da au in al, ma mal e cal sono agevolmente emendabili).

3) Con la strofa VIII la canzone ha un vero e proprio congedo, del tipo metricamente pari ad una strofa. C termina invece con i versi totz temps n’aurai mon cor dolen, / quar aissi·s n’aneron rizen, / qu’enquer en sospir e·n pantays. Delle altre canzoni di Rudel, II termina con un congedo uguale ad una strofa, ma nettamente caratterizzato (tramet lo vers... a·n Hugo Bru per Filhol); V e VI hanno un congedo metricamente identificabile, di tre e di due versi rispettivamente; I termina in forma sentenziosa (qu’ieu sai e crei, mon escien, / que selh qui Jhesus ensenha / segur’escola pot tener), e così III, se si accetta l’ultima strofa data da e (bona es l’amors e molt pro vau (ms. pervau) / e d’aquest mal mi pot guerir / ses gart de metge sapien). Che questa chiusa di e debba essere accettata è giustificato dal fatto che altrimenti la canzone si chiuderebbe con il discorso diretto dell’amigua, dall’iniziale per so e dalla citazione guglielmina (metge querrai al mieu albir, v. 21 del devinalh). Stando alla testimonianza degli altri testi di Rudel (e qui il rilievo non è solo statistico, ma investe il tono e lo stile personali) il testo di Belhs m’es l’estius dato da C potrebbe considerarsi concluso soltanto invertendo le strofe V e VI, e facendolo terminare con i versi plus savis hom de mi mespren, / per qu’ieu sai ben az escien / qu’anc fin’amors home non trays.

4) Sintatticamente l’inizio della strofa VIII, con l’enunciazione nel primo verso e la dichiarativa che la spiega nel terzo verso, introdotta dalla congiunzione iniziale di verso, ricalca quello della strofa IV, data da entrambi i mss. Il tipo di frase sentenziosa contenuta nei vv. 47-49 si accosta molto bene, pur non ricalcandolo, a quello delle due contenute nei vv. 12-14 e 33-35.

5) Il congedo (et aprendetz lo, chantador!) può parere strano, in quanto riprende inizialmente i modi dell’esordio primaverile (El mes d’abril e de pascor...); ma ciò è giustificabile come una duplicazione voluta, come già accennato nella premessa.

Resta da avvertire che nessuna di queste osservazioni ha valore decisivo; ma mi sembra che nel complesso la presunzione di autenticità delle ultime due strofe sia sufficiente per ritenerle appartenenti alla nostra canzone.

 

Nota:

(1) La trascrivo rispettandone grafia e punteggiatura: « [p. 175] 1 Bella m’è l’estate, e ’l tempo fiorito, / E gli augei che cantano sotto ’1 fiore; / Ma io tengo l’inverno per più gentile, / Chà più di gioia mi è desiro. / E quando uom vede ’l suo godimento, / E ben ragione, ed avvenente, / Che sia cortese, e gaio. / 2 Or haggio io gioia, e sono gaudente, / E ristorato nel mio valore, / E non andrò giammai altrove, / Né conquisterò l’altrui conquiste; / Ch’ora so ben à sciente, / Che quegli è savio, che attende, / E quegli è folle, che troppo s’adira. / [p. 177] 3 Lungo tempo sono stato in dolore, / E di tutti miei affari smarrito, / Che anco non fui si forte indormito, / Che non mi risvegliasse di paura. / Mà ora veggio, e penso, e sento, / Che passato son da quel tormento, / E non ci voglio tornar giammai. / 4 Molto mel tengon a grande onore / Tutti quei, à cui non sono noioso, /’ Perche alla mia gioia son ritornato, / E ne laudo Dio, e lei, e loro, / Ch’or hanno lor grato, e lor presente; / E che che io mi andasse dicendo, / Là mi rimango, e là m’appago. / 5 Mai per ciò mene sono privato; / Gia no crederaggio ’l lusingatore, / Chà non son tanto lontano d’amore, / Ch’or non sia salvo, e guerito. / L’uom più savio di me misprende; / Perch’io saccio bene di certo, / Ch’anco fino amor l’uomo non tradisce. / 6 Meglio mi fora giacere vestito, / E vene posso trarre autore, / Che spogliato sotto coverta / La notte, quando io sono assalito. / Sempre n’aurò ’l mio cuor dolente, / Che così n’andaron ridendo, / Ch’ancor en sospiro, e ’n patisco. / 7 Mà d’una cosa sono in errore, / E ne sta ’l mio cuor rallegrato, / Che tutto quanto ’l Frate mi disdice / Audo otriar alla Sorore. / E null’uomo non ha tanto di senno, / Che possa avere comunalmente, / Che ver qualche parte non torca. / [p. 179] 8 Il mese d’Aprile, e di Pasqua, / Quando gli augei movon lor dolce grido, / Allor voglio ’l mio canto sia udito. / Ed apprendetel cantatori, / E sacciate tutti comunalmente, / Ch’io mi tengo per ricco, e per pregiato, / Chà son di folle fascio scaricato ». ()

 

 

 

 

 

 

 

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