I. Non ho bisogno che altri mi insegni a fare un nuovo sirventese, perché ben conosco l’arte e la maniera di dire il male e il bene. Ne ho vedute e apprese tante delle azioni di un vile potente, che non posso piú tacere. E potrei io fare altro? Mi è di grande fastidio il cantare di lui.
II. Ma l’ira mi forza e mi costringe a farmi cantore del nostro Imperatore che annulla ed estingue il pregio, e che anzi si sforza, per quanto può, di disonorarsi. Perciò mi sembra che egli regni troppo a lungo, le sue opere essendo vituperevoli a volerle riferire.
III. I migliori competenti biasimano il suo modo di agire; io però non lo voglio biasimare, bensí lo chiamo signore vile e querimonioso, cupido e avaro, tale che non ha punto vergogna o timore delle malefatte che possa dire o commettere.
IV. I nobili baroni di Oltremare lo hanno ben conosciuto, quando si studiò di seminar zizzania fra loro: egli tentò di spossessare de’ loro beni il signore di Beiruth e gli altri; ma non poté venirne a capo, perché Iddio, per grazia sua, gli si pose di contro.
V. Ora fa appello da ogni parte che lo si aiuti, perché, passato questo marzo, vuol mostrare il suo scudo a Milano; io però non lo ritengo tanto audace da osare di trarsi avanti, per quanto egli lo abbia promesso, perché è vile, codardo e debole guerriero.
VI. E pensa di sottomettere al suo comando tutti i Lombardi. E allora perché se ne va a caccia per boschi e per campi con cani e con leopardi? E perché si trae dietro l’elefante? È ben matto l’Imperatore, sciocco e imbecille, se si illude di trarre a capo quel che si è proposto.
VII. Non trarrà, per san Giovanni, quest’anno a capo tutto ciò che disegna o millanta; ciò io vi assicuro e vi faccio conoscere. Allora che sta tanto a pensare? Una cosa egli pensa e un’altra finisce per fare. E chi pensa da sciocco si procura facilmente il danno e finisce male, mentre se ne potrebbe esimere facilmente.
VIII. Mando a dire ciò a Manfredi Lancia che conosce e sa qualcosa delle faccende di lui.