I. Quando la rosa fiorisce e s’appressa la dolce stagione, m’è grato, per il dolce canto dell’usignuolo che odo cantare nella notte oscura per i giardini e le siepi, fare una canzone alla mia ventura, della quale vivo in incertezza.
II. Re, per Cristo! ormai non ci abbandonare, perché i Maomettani ci son superiori: conte né duca cinge cintura che ferisca di lancia meglio di voi; mi duole per l’imperatore che manca a molte genti: ne piange tale che ne ha gioia.
III. Il vostro coraggio s’illumina, perché ne avete buona speranza; cavalcate senza timore sui pagani, gente miserabile; prenderete per primo Labadol, e se andate dritto fino al Marocco, faranno lamenti.
IV. Vedo che ribassa il proprio pregio chi distrugge la gioia della vita; è figlio di malvagia creatura, che mal si comporta: e tuttavia non china il collo! Poiché non è curato, sta meglio tra i miserabili...
V. Non dico per me, tanto mi piace di vedere assai grande allegrezza: l’amore esige che duri a lungo. [Pure] l’uomo non può avere garanzia, se non vuole l’amore carnale; perché vedo che il corpo non ha cura se non di un signore che ingrassa.
VI. Cantore, vi termino la canzone: apprendete l’inizio. Marcabru con gran rettitudine poetò in egual maniera, e tutti lo tengono per un folle che non conosca la natura e non si ricordi perché si nasce.