Davantal - Einführung - Analysis - Presentación - Présentation - Presentazione - Presentacion

Loporcaro, Michele. Due poesie di Guilhem de Saint Gregori (BdT. 233.2 e 233.3). "Medioevo Romanzo", XV (1990), pp. 17-60.

233,003- Guillem de Saint Gregori

 

DUE POESIE DI GUILHEM DE SAINT GREGORI

(BdT. 233.2 e 233.3).*

 

Sotto il nome di Guilhem de Saint Gregori sono traditi cinque componimenti poetici in lingua provenzale (BdT. 233.1-5) (1):

 

1. Be·m platz lo gais temps de pascor;

2. Ben grans avolesa intra;

3. Nueyt e iorn ai dos mals senhors;

4. Razo e dreyt ay si·m chant e·m demori;

5. Seigner Blacatz, de dompna pro.

 

Fra questi, solamente due si presentano nei canzonieri con attribuzione univoca a quel poeta: 233.5 è attribuito a Guilhem in DªIK, ed è anonimo in GQ (2); 233.4 è attribuito da C a Guilhem ed è anonimo in K (3). Nel caso degli altri componimenti, il nome di Guilhem de Saint Gregori concorre nelle rubriche con quello di altri trovatori più noti: il celebre sirventese 233.1 è generalmente attribuito a Bertran de Born, secondo l’indicazione di IKTa¹d; ABD lo ascrivono a Guilhem de Saint Gregori, PUV a Blacasset, Ce a Lanfranc Cigala, Sg a Pons de Capdueill ed infine M ad un Guillem (ms. Guiellm) Augier de Grassa (4). Anche per 233.2 e 3 l’attribuzione nei canzonieri è controversa (su questo punto cfr. infra).

Il carattere controverso delle attribuzioni, in concomitanza con l’assoluto silenzio di ogni altra fonte letteraria e non letteraria riguardo a Guilhem, ha indotto alcuni a dubitare dell’esistenza stessa del poeta. Carl Appel, sostenendo che Razo e dreyt sia da attribuire ad Arnaut Daniel, demolisce sistematicamente la figura di Guilhem de Saint Gregori: non si tratterebbe che di un Versteckname (5). Ma a ben guardare, tale posizione presenta implicazioni fortemente problematiche. Questo nome, vuoto di contenuto e non designante alcun personaggio storico, sarebbe scaturito poligeneticamente, in forma identica, in sei diversi canzonieri — ABC (due volte) D (tre volte) IK — alcuni dei quali, si osservi, solitamente considerati autorevoli in materia di attribuzioni. È difficile crederlo, e di fronte a questa semplice constatazione la soppressione di Guilhem de Saint Gregori si rivela per quel che è: un espediente adottato al fine di semplificare la questione attributiva di una canzone e di un sirventese (Razo e dreyt Be·m platz) che ebbero notevole successo, come attesta la loro tradizione diretta e indiretta (6), e che ai più ripugna attribuire ad un poeta sulla cui figura mancano affatto notizie storiche. Un poeta modesto, attivo alla corte di Blacatz, signore di Aups (7), principalmente come esecutore di testi altrui, che compose imitando lo stile, per quel che ci è noto, di Arnaut Daniel e Bertran de Born (8).

Si presentano qui edizione e commento della sestina e di Nueyt e iorn ai dos mals senhors, cui non è parso superfluo dedicare qualche cura testuale ed interpretativa, a distanza di molti decenni dalla loro prima pubblicazione (9).

 

(Cf. I. Ben grans avolesa intra.)

 

II. Nueyt e iorn ai dos mals senhors.

Rubriche: C G. de Sant Gregori, E Pons de la Gardia.

Metrica: a8 b8 b8 a8 c8 d8 d8 c8 c8 d8 (Frank 628.1).

Canzone, 5 coblas unissonans di 10 versi, 1 tornada di 3 versi (ccd). Rime ors, ar, ans, os.

 

Il testo di E si presenta in condizioni peggiori. Sono cadute la seconda metà della strofa III (vv. 26-30) e la tornada (vv. 51-53), si sono ingenerate ipermetrie (vv. 18, 35, 48), ipometrie (vv. 25, 34) e corruzioni di varia specie (vv. 9, 20, 23, 32). Anche quando le lezioni alternative offerte da E siano adiafore, sono perlopiù interpretabili come banalizzanti rispetto a C (cfr. vv. 5, 37, 50). La presente edizione prende dunque a fondamento il testo di C, come già quella dell’Appel. È noto come il testo di C sia sempre confezionato così da essere scorrevole (e adatto in particolare alla declamazione), ma, benché di ciò si sia consci, la povertà della tradizione non offre appigli per discernere se e dove la scorrevolezza nasconda interventi del copista-editore narbonese del primo Trecento (50). Sempre la povertà della tradizione preclude ogni speculazione stemmatica. Non paiono individuabili errori d’archetipo né prove certe di dipendenza di E da C:

 

 

Per decidere dell’attribuzione pochi sono gli elementi che si offrono. L’Appel annotava che, pur restando essa nel dubbio, il fatto che C conservi il testo di gran lunga migliore porta a dar maggior peso all’indicazione circa l’autore ivi contenuta. Nessun appiglio esterno è disponibile, mancando ogni riferimento ad avvenimenti o a personaggi storici, con l’unica eccezione della menzione di Berengario di Tours al v. 11, troppo ovvio terminus post quem. Si tenga inoltre presente che il repertorio del Frank non registra altri componimenti con il medesimo schema metrico il che, unitamente al fatto che non paiono ravvisabili nel testo puntuali riprese di altri luoghi trobadorici, rende difficile una precisa collocazione di questi versi anche in riferimento alla tradizione letteraria provenzale.

Facendo appello ai caratteri stilistici della canzone, sono state prodotte argomentazioni contrapposte ai fini dell’attribuzione. L’Appel, nella sua sistematica demolizione della figura di Guilhem de Saint Gregori, rivede il giudizio sulla paternità di Nueyt e iorn già formulato nell’edizione, concludendo: «Stil und Inhalt des Liedes würden auch der Art Pons de la Gardas, soweit wir sie kennen, nicht widersprechen» (51). Questa presa di posizione non è però argomentata, ed appare unicamente determinata dalla tesi che l’autore in quel luogo difende. Al contrario István Frank, curando l’edizione di Pons de la Guardia, seguendo Bartsch e Pillet esclude la nostra canzone dal novero delle autentiche: «Une simple lecture comparée de ce texte et de tous ceux que nous attribuons à Pons de la Guardia montre ... dès l’abord que ces décasyllabes [leggi octosyllabes] légers et coulants, les clichés élégants, les exempla littéraires des deux premières strophes, la rhétorique des oppositiones de la troisième strophe ... et de la dernière: tout cela tranche nettement sur le portrait stylistique que nous suggère la lecture attentive de ses chansons authentiques» (52). Il Frank osserva inoltre che, qualora si prestasse fede all’attribuzione di E, si avrebbe un caso affatto atipico nella tradizione di Pons de la Garda, per la quale E è di norma «bon manuscrit».

In conclusione, benché la certezza su questo punto sia difficilmente raggiungibile, l’attribuzione a Guilhem de Saint Gregori rimane la più probabile.

Nella canzone, che svolge il suo filo intorno al tema dell’amar dezamatz, vengono introdotti due exempla funzionali allo sviluppo dell’argomentazione. Al v. 11, Si fos vius Berenguiers de Tors, si fa riferimento a Berengario di Tours, arcidiacono di Angers (998-1088), condannato come eresiarca nel 1050 in quanto negatore della transustanziazione (53). Il motivo del richiamo in questo verso è certo rappresentato dalla abilità retorica di Berengario, che scrisse versi di argomento sacro ma era soprattutto noto come efficace predicatore. Nondimeno, questo il senso del Witz, pur con la sua abilità egli, redivivo, non saprebbe incantare sì soavemente come Madonna.

L’altro exemplum si trova due versi più in alto, in un passo di non facile interpretazione. La difficoltà traspare dallo stato della tradizione: la lezione palesemente deteriorata di E (que pos lo rei ha mercadans) è probabilmente corruzione di quella di C (mas per lo rey ormier de chans). L’Appel mette a testo quest’ultima che pertanto egli, che pure non ne fornisce la traduzione, avrà considerato dotata di significato. Il titolo rey lo induce a stampare Ormier con l’iniziale maiuscola, pur specificando in nota: «Wer dieser König ist, vermag ich nicht zu sagen». Chambers, Proper names cit., p. 201, considera evidentemente Chans come il nome d’una casata o d’un paese: «rey Ormier de Chans: Unknown».

È mio parere che la lezione di C vada mantenuta (54). Che essa dia senso può essere sostenuto anche appoggiandosi a quanto sappiamo circa la natura del canzoniere: preparando un testo atto ad essere declamato, il copista di C rifugge dal lasciare in testo delle cruces. Questo garantisce che almeno la sintassi del passo, e forse anche l’allusione ivi contenuta, dovessero risultare perspicui al pubblico coevo.

Si potrebbe essere tentati di dar ragione dell’oscurità del passo facendo generico appello a quel refugium peccatorum che è il temario dell’epica e del romanzo in lingua d’oc e d’oïl, e supponendo che fra i personaggi di quell’ambito letterario a noi oggi ignoti fosse presente un re Ormier che perdonò o fu perdonato di qualcosa (55). Alla sua vicenda, che dovremmo supporre ben nota, potrebbe qui riferirsi il trovatore (56). Credo tuttavia che, profittando delle indicazioni fornite dal contesto, si possa tentare, almeno in via d’ipotesi, un’altra e meno vaga interpretazione. L’andamento argomentativo della I strofa, culminante nel riferimento ad Ormier, può essere esplicitato come segue:

 

(vv. 1-4): sono servo di Madonna ed Amore, che mi maltrattano

(vv. 5-7): proprio in ragione del mio devoto servitium amoris:

(v. 8): so che l’amare devotamente mi è ascritto a colpa,

(vv. 9-10): ma posso citare a mia discolpa il caso, a tutti noto, del re O.

(II strofa): E dirò poi, proseguendo con esempi famosi, che il mio fallo è ancora minore poiché lei è più suadente di Berengario di Tours.

 

Contenuto del passo oscuro dev’essere dunque una giustificazione del servizio d’amore del poeta, resa necessaria dal presupposto retorico secondo cui esso è assimilato ad un misfatto (57). È ragionevole pensare, se così è, che l’exemplum riguardi un poeta famoso, le cui note vicende personali presentino una qualche analogia con la situazione dell’io narrante. Ed in effetti il sintagma nominale al v. 9 può ben essere inteso ‘O., re di canti’ (58). Se dunque non di un signore temporale è questione bensì di un poeta sommo, dietro il tràdito Ormier si potrebbe supporre si celi il nome di Omero (a. prov. e a. fr. Omers). Il senso di questi versi sarebbe quindi: «amo devotamente e ciò mi è ascritto a colpa; ma io sono poeta, e pertanto ho diritto al perdono di questa colpa: ricordate che Omero, grazie al proprio valore poetico, si fece perdonare una colpa ben più grave».

Ma perché questa ipotesi, a prima vista azzardata, possa ambire ad una qualche verosimiglianza, è necessario risolvere difficoltà di più ordini. In primo luogo fonetico-grafiche: in C leggiamo Ormier e non Omer. Dal punto di vista storico-letterario, secondariamente, induce a dubitare il fatto che il nome di Omero ricorra rarissimamente altrove in poesia trobadorica e comunque mai in una canzone, com’è 233.3. Infine, ammesso che qui si tratti di Omero, resta da chiarire a qual mai torto ed a quale perdono si possa fare riferimento.

Quanto al primo punto, non mi pare difficile vedere Omer dietro Ormier di C: ci soccorre E, la cui lezione corrotta (ha mer-) testimonia di un antigrafo senza dittongo e senza vibrante nella prima sillaba. Il dittongo in C non fa inoltre soverchia difficoltà: la oscillante fenomenologia della notazione grafica della dittongazione condizionata di Ĕ (come di Ŏ), notazione che, «assez tardive et demeurée virtuelle», crea il terreno per simili confusioni (59). Si tenga conto poi del fatto che C ha pressoché sempre il dittongo nei derivati di -ARIUM (> er > ier) (60): primier (e simili) potrebbe aver influenzato Ormier. Quanto all’inserzione di r, si può osservare almeno a titolo di curiosità che sono attestati casi di epentesi consonantica nel nome Omer. Nel Floriant Omer, castellano di Monréal, compare nella variante Osmer (61); in Chevalier, Sources biobibl., I 2170, si dà notizia di un vescovo Omer de Ripen «Homère, Ormer, évêq. d’Aalborg» (62). In conclusione, siamo autorizzati ad emendare in Omer sullascorta di E, senza che si possa del tutto escludere almeno il sospetto che la scrizione di C rimandi ad una qualche forma corrotta, sì, ma non del tutto isolata, di quel nome.

Veniamo ora alla seconda questione, se non sia arbitrario qui restituire congetturalmente un riferimento ad Omero dal momento che non si tratta certo di un personaggio di frequente ricorrenza in poesia trobadorica (63). Si tratterebbe dunque di postulare quasi un hapax tematico, per così dire, all’interno di questo sottosistema letterario. Ma se si considera la poesia trobadorica all’interno del più ampio sistema culturale in cui è inserita, la prospettiva muta necessariamente poiché dalla cultura medievale Omero non è assente, sebbene la sua presenza sia di tipo particolare.

Come è noto, l’Iliade e l’Odissea non erano lette nel Medioevo, ed il loro recupero data dall’età umanistica (64). Non è però coinvolta in quest’eclissi la figura di Omero il cui ricordo, mediato naturalmente dalla antichità latina, viene trasmesso al Medioevo. Nella trattatistica retorica medievale il nome del poeta greco è spesso richiamato, sia come astratta immagine di sommo letterato sia in concreto, come auctoritas compresa nel novero delle letture canoniche, nel qual caso si tratta naturalmente dell’Homerus latinus. Alcuni esempi: Walter von Speier, nel 975, legge a scuola Homerus, e così anche Corrado di Hirsau, nella prima metà del sec. XII (65). Aimericus, nell’Ars lectoria (1086) cita fra gli auctores Homerulus, in forma diminutiva (come Catunculus, i Disticha Catonis) perché usato a guisa di abbecedario (66). Nel XIII sec. Everardo il Tedesco (Laborintus, vv. 643 s.) include Homerus fra gli auctores del suo canone retorico (67), e Henri d’Andeli nella Bataille des set ars fa militare Omero sotto lo stendardo della Grammatica (con Virgilio, Lucano, Claudiano, Prisciano, Persio, Donato ecc.) contro i vessilliferi della Logica (Platone, Aristotele, Porfirio, Boezio ecc.) (68). Riferimenti al poetare di Omero, desunti da Orazio, si leggono nell’ars versificatoria di Matthieu de Vendôme (69).

Quanto alla poesia trobadorica, due menzioni del nome di Omero vi ricorrono in contesti fra loro analoghi. Si legge nell’incipit dell’ensenhamen di Arnaut de Maruelh in cui si sviluppa, adducendo autorità, il topos secondo cui il saggio non deve celare il proprio sapere:

 

Jal sen de Salamon,
Nil saber de Platon,
Ni l’engens de Virgili,
D’Omer ni de Porfili ...
No fora res presatz,
S’agues estatz selatz (70).

 

In Ascout qui vol auzir di Cerverí de Girona compare una simile enumerazione di grandi personaggi (pur se in diversa funzione), di cui cito il principio:

 

E d’aço trasch actors
reys e emperadors ...
Salamo e Vergili,
ed Omer e Porfili,
e David e Plato (71).

 

Il richiamo ad Omero citato come uomo dottissimo, gran poeta o comunque gran personaggio dell’antichità ricorre anche nella letteratura medievale in lingua d’oïl.Ad esempio nell’incipit del Roman de Thèbes, che sviluppa il medesimo topos d’esordio ora ricordato («Qui sages est nel deit celer», v. 1):

 

Se danz Homers et danz Platon
Et Vergiles et Ciceron
Lor sapience celissant,
Ja ne fust d’eus parlé avant (72).

 

Omero come grande poeta è citato incidentalmente nel Brut di Wace ed in Philomena di Chrétien de Troyes (73). Si allude ad Omero anche in un passo del Roman de la Rose (vv. 13587-90):

 

D’amer povre home ne li chaille,
qu’il n’est riens que povre home vaille;
se c’iert Ovides ou Homers,
ne vaudroit il pas .II. Gomers (74).

 

È significativo che mentre vengono impartiti precetti amatori Omero sia citato insieme ad Ovidio. Quest’ultimo, in quanto poeta dei dictamina amoris, ha più motivo di venir richiamato in un tale contesto. Ma per il Medioevo il nome di Omero, svuotato di contenuto storico e privo di specifici tratti distintivi dal punto di vista letterario, equivaleva alla designazione generica di un grande poeta. Con le parole del Curtius: «Homer als erlauchter Ahn war fürdas Mittelalter nicht viel mehr als ein großer Name» (75).

Quanto sinora osservato conforta a ritenere non arbitraria la supposizione avanzata: nessuna difficoltà di principio impedisce di ipotizzare una menzione di Omero, intenzionalmente peregrina, da parte di Guilhem de Saint Gregori in Nueyt e iorn.

Resta aperta la terza questione, se nella tradizione culturale cui poteva far riferimento un trovatore della prima metà del XIII sec. si narri di un misfatto di Omero che gli sia stato successivamente perdonato. II celebre esordio del Roman de Troie di Benoîtde Sainte-Maure, a mio parere, offre risposta a tale interrogativo. Questa, in sunto, la sua struttura tematica (vv. 1-144):

 

(1-32): Esposizione della causa dicendi: «chi è savio non deve tacere»

(33-44): dunque dirò della distruzione di Troia, volgendo in romanzo una storia latina

(45-74): vicenda di Omero

(75-92): Cornelio, nipote di Sallustio, trova in Atene il manoscritto di Darete sui fatti di Troia

(93-118): storia di Darete

(119-124): Cornelio tradusse in latino il manoscritto

(125-128): questa narrazione è più fededegna di quella di Omero, poiché Darete fu testimone oculare dei fatti narrati

(129-144): Benoît de Sainte-Maure volgerà fedelmente in romanzo, per la prima volta, l’intera storia (76).

 

Ed ecco i versi che Benoît dedica ad Omero (vv. 45-74).

 

Omers, qui fu clers merveillos
E sages e esciëntos,
Escrist de la destrucion,
Del grant siege e de l’acheison
Por quei Troie fu desertee,
Que onc puis ne fu rabitee.
Mais ne dist pas sis livres veir,
Quar bien savons senz nul espeir
Qu’il ne fu puis de cent anz nez
Que li granz oz fu assemblez:
N’est merveille s’il i faillit,
Quar onc n’i fu ne rien n’en vit.
Quant il en ot son livre fait
E a Athenes l’ot retrait,
Si ot estrange contençon:
Dampner le voustrent par reison,
Por ço qu’ot fait les damedeus
Combatre o les homes charneus.
Tenu li fu a desverie
E a merveillose folie
Que les deus come homes humains
Faiseit combatre as Troïains,
E les deuesses ensement
Faiseit combatre avuec la gent;
E quant son livre reciterent,
Plusor por ço le refuserent.
Mais tant fu Omers de grant pris
E tant fist puis, si com jo truis,
Que sis livres fu receüz
E en autorité tenuz (77).

 

Facendo la storia dei precedenti letterari della propria opera con un’ampiezza non usuale nei proemi dei romanzi coevi (78), Benoît, chierico coltissimo ed un po’ pedante, fiero di ostentare la sua scienza (79), si sforza di riunire insieme tutti quanti i dati di cui è a conoscenza riguardo alla figura del poeta antico. Egli dà corso al suo proposito con meticolosità ed impegno, ma l’impresa non è facile poiché la vulgata culturale del Medioevo tramanda al proposito elementi contraddittori. Omero è grandissimo poeta, apprezzato dagli esperti di retorica e tenuto in conto di auctoritas. Ed è anche, teste una lunga tradizione, πολυμαθής,maestro di tutte le arti: di ciò si legge, nel proemio, ai vv. 45 s., 71-74 (80).

D’altro canto, una tradizione non meno affermata è fortemente critica nei confronti del poeta greco: egli, facendo intervenire gli dèi nelle vicende umane, da una parte commise empietà e dall’altra perse ogni credibilità di storico (81). Leggiamo dunque in Benoît che il poeta fu dichiarato folle e condannato in Atene per aver fatto combattere uomini e dèi a Troia (vv. 57-70), e che il suo racconto non è fededegno in quanto egli non presenziò direttamente agli accadimenti della guerra (vv. 51-56).

Benoît de Sainte-Maure dispone dunque di dati eterogenei. Una facile soluzione sarebbe quella di allinearsi pedissequamente a Darete, l’immediato modello latino (82), presentando Omero in luce esclusivamente negativa com’è costume nella letteratura medievale d’argomento troiano: così ad esempio Guido dalle Colonne non ha che espressioni di biasimo per Omero, il quale «puram et simplicem veritatem in versuta vestigia variavit» (83). Ma il chierico, che si picca di scrivere una «storia vera», in un luogo caratterizzante qual è il proemio è più che mai «fier d’étaler sa science» e non rinuncia a riportare ad onor del vero ogni notizia a lui nota, nonostante le patenti contraddizioni. Gli elementi contrastanti, che sono in tal modo giustapposti nel testo, reagiscono fra loro e trovano collocazione soddisfacente organizzandosi in una successione diacronica che, sola, ne permette la razionalizzazione. Si materializza allora motu proprio, per così dire, la vicenda di Omero (con una conclusione che Benoît non legge nelle fonti latine) dapprima condannato come falsario empio e folle e poi riabilitato e ricevuto nel novero degli auctores, grazie alle sue alte qualità poetiche (84).

Un enorme successo arrise immediatamente al Roman de Troie, composto probabilmente fra 1165 e 1170 e dedicato ad Eleonora di Aquitania (85). E può considerarsi certo, data la coincidenza cronologica, che ad esso siano attinte le citazioni di materia troiana che si leggono nella lirica trobadorica a partire dall’ultimo quarto del secolo (86). Non è dunque azzardato supporre che anche il nostro trovatore, attivo nel primo trentennio del secolo seguente, conoscesse tale opera e che dal suo proemio potesse trarre un exemplum alludendo ad un perdono ottenuto da Omero grazie al suo grant pris di letterato. Credo di poter concludere questa digressione col rivendicare una certa verosimiglianza all’ipotesi interpretativa proposta per il passo di Guilhem de Saint Gregori.

 

 

Note:

*Quest’articolo è stato presentato come seminario a Pisa (maggio 1987) nel quadro del corso di Filologia romanza del prof. P. G. Beltrami. ()

1. BdT. = A. Pillet e H. Carstens, Bibliographie der Troubadours, Halle (Saale), Niemeyer 1933. Altre abbreviazioni correnti usate nel seguito sono: LR = F.-J.-M. Raynouard, Lexique roman, Paris 1836-1845 [rist. Heidelberg, Winter]; SW = E. Levy, Provenzalisches Supplement-Wörterbuch, Leipzig, Reisland 1894-1924. ()

2. Edito in O. Soltau, «Die Werke des Trobadors Blacatz», ZRPh 23 (1899), pp. 201-48 (v. p. 237) e 24 (1900), pp. 33-60 (v. p. 47). ()

3. Edizioni: C. Appel, «Petrarka und Arnaut Daniel», ASNSL 147 (1924), pp. 212-35; M. Perugi, Trovatori a Valchiusa. Un frammento della cultura provenzale del Petrarca, Padova, 1985; P. G. Beltrami, «Appunti su Razo e dreyt ay si.m chant e.m demori», Rivista di letteratura italiana 5 (1987), pp. 9-39. ()

4. Il sirventese si trova edito insieme alle opere di Bertran de Born, talora incluso nella sezione dei versi di dubbia attribuzione: cfr. C. Appel, Die Lieder Bertrans von Born, Halle (Saale) 1932, num. 40, pp. 92 ss. (fra i componimenti dubbi); G. Gouiran, L’amour et la guerre. L’oeuvre de Bertran de Born, Aix-en-Provence 1985, num. 37, pp. 723-45 [Gouiran¹]; G. Gouiran, Le seigneur-troubadour d’Hautefort. L’oeuvre de Bertran de Born, seconde édition condensée, Aix-en-Provence, Publications de l’Université de Provence 1987, num. 37, pp. 515-27 [Gouiran²]; W. D. Paden Jr., T. Sankovitch e P. H. Stäblein, The Poems of the Troubadour Bertran de Born, Berkeley-Los Angeles-London 1986, num. 30, pp. 334 ss. In SMV 34 (1988), pp. 27-68, ho tentato di mostrare come da una razionalizzazione dei rapporti stemmatici l’attribuzione a Guilhem risulti corroborata a scapito di quella usuale a Bertran de Born. ()

5. Cfr. Appel, «Petrarka und Arnaut Daniel» cit. Questo parere è seguito dal Perugi, Trovatori cit., p. 40, che però attribuisce la canzone a Guilhem de Murs. ()

6. Circa la nota ripresa da parte del Petrarca, che chiude la prima strofa di Lasso me (LXX, 10) con l’incipit di Razo e dreyt («Drez et rayson es qu’ieu ciant e.m demori»), cfr. Appel, «Petrarka» cit.; Perugi, Trovatori cit.; Beltrami, «Appunti» cit., e soprattutto M. Santagata, «Petrarca e Arnaut Daniel (con appunti sulla cronologia di alcune rime petrarchesche)», Rivista di letteratura italiana 5 (1987), pp. 40-89. Si è ipotizzato che Be.m platz (vv. 9 s. «qan vei per campaigna rengatz | cavalliers e cavals armatz») sia riecheggiata in RVF CCCXII, 3 «né per campagne cavalieri armati»; cfr. M. Scherillo, Il canzoniere di Francesco Petrarca, Milano, Hoepli 1908², p. LXIII, n. 2 e F. Suitner, «Due trovatori nella Commedia (Bertran de Born e Folchetto di Marsiglia)», Atti Accad. Naz. dei Lincei, s. VIII, vol. 24 (1980), pp. 575-645 (alla p. 590), il quale argomenta inoltre che Dante, in Inf. XXVIII, descrivendo la pena cruenta dei seminatori di discordia fra cui è Bertram del Bormio, abbia presente Be.m platz (p. 594). ()

7. L’aver tenzonato Guilhem con Blacatz (BdT. 233.5) permette di situare cronologicamente la sua produzione poetica. Blacatz morì nel 1236 e, fra i suoi versi, quelli databili si collocano fra il penultimo decennio del sec. XII (1190-95: BdT. 97.3 e 97.4) ed il terzo decennio del secolo successivo (1221 per 97.1 e 1220-28 per 97.2) secondo O. Soltau, «Die Werke des Trobadors Blacatz», cit. ZRPh 23, pp. 216 ss. Nello stesso periodo va collocato Guilhem de Saint Gregori: cfr. C. Chabaneau, Les biographies des troubadours en langue provençale, Toulouse 1885, pp. 151 s. ()

8. Questa la tesi sostenuta da K. Lewent, «Zur provenzalischen Bibliographie (Gr. 461,165 und Gr. 233,1)»,ASNSL 130 (1913), pp. 324-34, secondo cui, anzi, Guilhem sarebbe stato presente nella cerchia di Blacatz in qualità di giullare. Recentemente Pietro G. Beltrami ha dedicato due studi ai versi ed alla figura del trovatore, dando corpo all’ipotesi del Lewent: «Appunti» cit. e «Remarques sur Guilhem de Saint Gregori», relazione inviata al II congresso AIEO, Torino 1987 (che leggo in dattiloscritto). Ad essi si rimanda per ogni ulteriore dettaglio circa le opere di Guilhem (questioni di attribuzione, collocazione cronologica, ecc.). ()

9. Nel caso della sestina si dispone di due edizioni recenti che non costituiscono però complessivamente un significativo progresso, rispetto all’ed. Bertoni, né sotto il profilo testuale né per quanto concerne il commento. ()

* * *

50. Si vedano le osservazioni in J. Monfrin, «Notes sur le chansonnier provençal C (Bibl. Nat., ms. fr. 856)», in Recueil de travaux offert à M. Clovis Brunel, Paris 1955, pp. 292-312, che documenta queste caratteristiche di C mostrando come la frequente rappresentazione grafica dei fenomeni di sandhi esterno vada interpretata alla stregua di guida per il declamatore. Si ha così assimilazione del luogo di articolazione della nasale (em podersom pro), costante registrazione della sonorizzazione in ET prevocalico (sempre scritto ez), rappresentazione dell’elisione di -a finale davanti ad e- col digramma æ, ricorrente con la medesima funzione nei canzonieri DMR, come osserva F. Zufferey, Recherches linguistiques sur les chansonniers provençaux, Genève 1987, p. 137. In C è graficamente notata anche l’aferesi: p. es. limblei (= li emblei) ecc. (ivi, p. 150). ()

51. Appel, «Petrarka und Arnaut Daniel»cit., p. 222. ()

52. I. Frank, «Pons de la Guardia, troubadour catalan du XIIe siècle», Boletín de la Real Academia de Buenas Letras de Barcelona22 (1949), pp. 229-327, cfr. p. 233. ()

53. Cfr. Encicl. Cattol. II 1376 s.; U. Chevalier, Répertoire des sources historiques cit., biobibl., I 538. L’identificazione è ovvia, nonostante F. M. Chambers, Proper names cit., p. 72, consideri «Unidentified» il personaggio menzionato in questo passo. ()

54. Ogni altra strada mi pare infruttuosa. In linea di principio, infatti, si potrebbe supporre di trovarsi in presenza di una diffrazione. Il testo del verso, in C ed E, ha alcuni elementi comuni: (a) -ans in rima che è evidentemente nella collocazione originale; (b) identico computo sillabico; la corruzione non ha dunque ingenerato ipometrie od ipermetrie, ma ha avuto luogo in forma di (quasi perfetta) permutazione di sillabe, dal momento che (c) il materiale fonetico del secondo emistichio, pur variando la sua disposizione, è quasi identico in CE: C or.mier.de.chans, E ha.mer.ca.dans. Ma non mi pare che, a partire da questa constatazione, si possa congetturare alcuna lezione soddisfacente dalla quale sia C che E si sarebbero discostati. Vera e propria diffrazione si è avuta, ritengo, solo per quanto riguarda il nome proprio contenuto nel verso. ()

55. Vedremo nel seguito come al sintagma per lo rey vada attribuita la funzione di complemento di vantaggio, nonostante la presenza del verbo a diatesi passiva orienti a tutta prima ad intenderlo come agente. Benché quest’ultima accezione di per sia più frequente, anche l’altra è normale ed è registrata dai lessici: cfr. LR IV 507 per ‘pour’; C. Appel, Provenzalische Chrestomathie, Leipzig 1930, p. 287, per ‘für (zum Vorteil von)’. ()

56. Così, ad esempio, a proposito dei due amanti per noi non identificabili citati a mo’ di exemplum da Arnaut Daniel X, 41 s. (c’anc plus non amet un ou | cel de Moncli n’Audierna), si è detto debba trattarsi di una coppia celebrata nell’epica o nella leggenda popolare (cfr. le edizioni Canello, p. 227, e Toja, p. 281). Il Perugi, Le canzoni di Arnaut Daniel cit., vol. II, p. 346, non si pronuncia a questo riguardo. ()

57. Si tratta di una variazione sul modulo frequente secondo cui la dama è irritata dal servizio amoroso del poeta: cfr. p. es. F. Catenazzi, L’influsso dei provenzali sui temi e immagini della poesia siculo-toscana, Brescia 1977, p. 111. In verità, quanto al significato letterale, il v. 7 potrebbe anche interpretarsi come un rimprovero ai «dos mals senhors» per il misfatto commesso facendo soffrire l’amante, secondo un altro modulo esordiale ricorrente: v. p. es. BdT. 366.14, 15 s. «bos m’es lo mals qu’ieu trai | mas ill n’a pechat gran» (Peiroltroubadour d’Auvergne, ed. S. C. Aston, Cambridge 1953, nº VIII, p. 66). Secondo questa interpretazione non saprei però trovare al passo nel suo insieme un significato soddisfacente. ()

58. L’iperbato non fa soverchia difficoltà, tenendo conto del fatto che la posizione di chans è obbligata per la rima. ()

59. Zufferey, Recherches cit., p. 313. E si tratta di una fenomenologia grafica che poteva ben coinvolgere, in quanto forma non popolare (cfr. it. Omero) l’esito di HŎMĒRUS, a dispetto della Ē originaria. ()

60. Cfr. Monfrin, art. cit., p. 305; Zufferey, Recherches cit., p. 137. ()

61. Cfr. L. F. Fluire, Tables des noms propres avec toutes leurs variantes figurant dans les romans du Moyen Age écrits en français ou en provençal et actuellement publiés ou analysés, Poitiers 1962, s.v. Omer. ()

62. Si tratta di un vescovo danese (1178-1204), nativo di Ripen (Ribe, lat. Ripa Cimbrica). ()

63. La voce Omero manca in Chambers, Proper names cit. e dagli articoli dedicati dallo Scheludko all’indagine dei rapporti dei trovatori con la classicità risulta che Omero è affatto assente da tale orizzonte letterario: D. Scheludko, «Beiträge zur Entstehungsgeschicte der altprovenzalischen Lyrik. Klassischlateinische Theorie», AR 11 (1927), pp. 273-312 e «Ovid und die Trobadors», ZRPh 54 (1934), pp. 129-74. Dei riferimenti alla materia troiana nella poesia dei trovatori — che però con Omero non hanno a che vedere — si accennerà più oltre. Beninteso, dicendo di Omero è fatta in questa sede astrazione dalla questione omerica, sopita nel medioevo latino. ()

64. Per pochissimi autori medievali, in Europa occidentale, è stata talora supposta — pur fra molti dubbi — una qualche conoscenza diretta dei poemi omerici. Si veda a questo proposito G. Finsler, Homer in der Neuzeit von Dante bis Goethe, Leipzig 1912, pp. 1-14. Per la problematica in generale, cfr. naturalmente E. R. Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern 1948; G. Martellotti, «Dante e Omero», in Id., Dante e Boccaccio, e altri scrittori dall’Umanesimo al Rinascimento, Firenze 1983, pp. 51-60, ed il recente W. Kullmann, «Einige Bemerkungen zum Homerbild des Mittelalters», in Litterae Medii Aevi, Festschrift J. Autenrieth, Sigmaringen 1988, che non ho potuto vedere. La storia della riacquisizione dei testi omerici al patrimonio culturale occidentale inizia con le traduzioni in latino richieste dal Petrarca al calabrese Leonzio Pilato. Precedentemente la materia omerica era nota attraverso compilazioni latine di età imperiale in prosa ed in versi: il contenuto dell’Iliade e dell’Odissea si trova brevemente riassunto, libro per libro, nelle Periochae Homeri dello pseudo Ausonio. All’età neroniana risale l’Ilias latina, in 1070 esametri, circolante sotto il nome di Homerus latinus o anche di Pindarus Thebanus. A partire dal I sec. a.C. la materia troiana costituisce l’oggetto di numerose trattazioni romanzesche greche in prosa di cui è pervenuta notizia ma che non si conservano: cfr. M. J. Wolff, «Der Iügner Homer», Germanisch-Romanische Monatsschrift 20 (1932), pp. 53-65, 312 (alle pp. 57 ss.). A queste opere greche dichiarano di rifarsi gli autori di due compilazioni latine in prosa destinate ad assurgere a grande importanza nella tradizione culturale del Medioevo: l’Ephemeris belli Troiani, che un sedicente Lucio Settimio redige nel IV sec. d.C., e la De excidio Troiae historia di anonimo, del V o VI sec. d.C. L’autore della prima opera dice di aver ridotto in latino un diario del cretese Ditti, che fu alla guerra di Troia e redasse «Phoeniceis litteris» le proprie memorie, tradotte successivamente in greco per ordine di Nerone. Che il romanzo latino fosse in effetti una traduzione, benché naturalmente non di un diario di guerra bensì di un romanzo greco probabilmente del I sec. d.C, è stato dimostrato da una fortunata scoperta papiracea, pubblicata nel 1907, che ha restituito un frammento di tale originale greco seguito dal traduttore, databile entro la prima metà del III sec. d.C; giungeva poi a conferma la scoperta di un secondo frammento papiraceo, di data pressappoco coincidente, pubblicato nel 1966: cfr. Dictys cretensis, ed. W. Eisenhut, Leipzig 1958, p. vii, e W. Eisenhut, «Spätantike Troja-Erzählungen, mit einem Ausblick auf die mittelalterliche Troja-Literatur», Mittellateinisches Jahrbuch 18 (1983), pp. 1-28, alle pp. 14 s., 22 ss. Anche l’anonimo autore della De excidio Troiae historia asserisce di tradurre dal greco il diario di Darete Frigio: il nome è quello di un troiano sacerdote di Efesto menzionato in Omero (Il. V, 9 ss.). Il manoscritto, finge l’anonimo, sarebbe stato ritrovato in Atene da Cornelio Nepote che ne dà notizia a Sallustio in un’epistola premessa al testo. Ditti Cretese e Darete Frigio furono ben noti nel Medioevo (cfr. p. es. Finsler, loc. cit.; Curtius, op. cit.), e ad essi (al secondo in particolare) si rifanno tutti i componimenti epici medievali che trattano di materia troiana: cfr. J. Stohlmann, Anonymi Historia Troiana Daretis FrigiiUntersuckungen und kritische Ausgabe, Düsseldorf 1968, pp. 151 ss., e, più di recente, Eisenhut, «Spätantike Troja-Erzählungen» cit., pp. 2 ss. ()

65. Curtius, op. cit., pp. 56 ss. ()

66. Ivi, pp. 460 s. ()

67. Cfr. E. Faral, Les arts poétiques du XIIe et du XIIIe siècle. Recherches et documents sur la technique littéraire du Moyen Age, Paris 1958, pp. 358-60. ()

68. Cfr. Curtius, op. cit., p. 64, e G. Paré, Les idées et les lettres au XIIIe siècle. Le Roman de la Rose, Montréal 1947, p. 16. ()

69. Cfr. Faral, op. cit., pp. 146 e 180. ()

70. Cfr. M. Eusebi, «L’Ensenhamen di Arnaut de Mareuil», Romania 90 (1969), pp. 14-30 vv. 5 ss. Considerazioni su questo motivo esordiale in E. R. Curtius, «Mittelalter-Studien. XVIII», ZRPh 63 (1943), pp. 225-74, a p. 249, ed in Id., Europäische Literaturcit., pp. 95 s. Cfr. anche, in riferimento ai romanzi d’argomento classico (Troie, Thèbes), M. Zink, «Une mutation de la conscience littéraire. Le langage romanesque à travers des exemples français du XIIe siècle», CCM 24 (1981), pp. 3-27, alle pp. 9 ss. ()

71. Cfr. M. de Riquer, Obras completas del trovador Cerverí de Girona, Barcelona 1947, nº 115, pp. 323-46, vv. 611 s., 621 ss. ()

72. Ed. L. Constans, Le Roman de Thèbes, 2 voll., Paris 1890, vv. 5-8. ()

73. «Dunc esteit Samuel prophetes | E Homer ert preisiez poëtes», v. Wace, Le Roman de Brut, ed. I. Arnold, 2 voll., SATF, Paris 1938-40, vv. 1448-9; «ne la langue Platon | ne la Omer ne la Caton | qui mout furent de grant savoir», cfr. Chrestien de Troyes, Philomena, ed. C. De Boer, Paris 1921, vv. 131-3. ()

74. G. de Lorris et J. de Meun, Le Roman de la Rose, publ. par F. Lecoy, II, Paris 1966, p. 163. ()

75. Curtius, op. cit., p. 26, a commento dell’apparizione di Omero nella Commedia dantesca. Osservazioni analoghe sulla memoria del nome di Omero nel Medioevo in Wolff, art. cit., p. 62. ()

76. Un’analisi tematica di questo proemio si legge in Zink, art. cit., pp. 11 ss., in cui la critica delle fonti operata da Benoît viene ricondotta alla volontà di presentar se stesso come storico attendibile. Cfr. anche P. Sullivan, Translation and Adaptation in the Roman de Troie, in G. S. Burgess e R. A. Taylor (a cura di), The Spirit of the Court, Cambridge 1985, pp. 350-59. L’esordio del Roman de Troie è molto studiato ed è citato di frequente (cfr. p. es. il recente M. L. Meneghetti (a cura), Il romanzo, Bologna, Il Mulino 1988, passim). Sviluppo nondimeno le brevi osservazioni che seguono perché non mi risulta che sia stato fatto oggetto di attenzione specifica quel che di Omero racconta Benoît (aldilà dell’ovvia constatazione che al poeta greco vien negata fiducia come storico, in linea con una affermata tradizione). ()

77. Ed. L. Constans, Le Roman de Troie, par Benoît de Sainte-Maure, 6 voll., Paris 1904-1912. ()

78. L’originalità di Benoît de Sainte-Maure rispetto ai modelli all’epoca correnti — originalità che si esplica pur sempre entro il ben definito orizzonte ideologico dei romanzi di materia antica: il romanziere si propone come garante di verità storica e non ancora (lo farà in forma compiuta Chrétien de Troyes) come autonomo inventore di finzioni letterarie (cfr. Zink, art. cit.) — risalta dall’esame della dettagliatissima storia del testo inserita nel proemio, che non si limita a riprodurre come d’uso ma rielabora attivamente le informazioni fornite dalla fonte latina, nonché dalle osservazioni, cui pure è dedicato spazio considerevole, sul metodo da seguirsi nel tradurre (cfr. Sullivan, art. cit., p. 351 s.; Zink, art. cit., p. 11). ()

79. Secondo la definizione di P. Zumthor, Histoire littéraire de la France médiévale (VIe-XIVe siècles), Paris 1954, p. 192. Le informazioni su cui Benoît imbastisce il proemio saranno attinte a reminiscenze d’erudizione scolastica, anziché frutto di diretta compulsazione ad hoc d’altre fonti; così come dalle sue «Schuler-kentnisse und [...] Erinnerungen aus seiner Lektüren» ritiene derivino Ph. A. Becker, «Der gepaarte Achtsilber in der französischen Dichtung», Abhandl. d. Sächs. Akad. d. Wiss., phil.-hist. Kl. 43 (1934), pp. 1-117, a p. 52, alcuni dei dettagli di cui Maistre Beneeit infiora la materia troiana offertagli da Darete, che trovano talvolta riscontro in Ovidio o in Igino. ()

80. Dell’inclusione di Omero nel novero delle auctoritates poetico-retoriche si è già detto. Quanto alla πολυμάθεια, essa è affermata da una lunga tradizione che, come mostra Curtius, pp. 209-11, prosegue ininterrotta dal V sec. a.C. sino all’età moderna. Tale concezione, originata nell’antichità greca come reazione alla critica antiomerica di matrice filosofica (cfr. la nota seguente), opponeva alla svalutazione di Omero in quanto empio e bugiardo un’interpretazione allegorica dei poemi tesa ad evincere l’υπόνοια, il significato profondo — altissimo ed esteso all’intero scibile — in essi celato. ()

81. La critica ad Omero nella Grecia antica prese spunto dalla rappresentazione degli dèi omerici. Critici verso il poeta furono, a motivo di questa rappresentazione, numerosi filosofi: da Eraclito di Efeso e Senofane di Colofone fino ad Epicuro ed al suo discepolo Metrodoro di Lampsaco. Il culmine della polemica filosofica antiomerica è costituito dalla condanna pronunziata nella Repubblica di Platone, che bandisce il poeta dallo stato ideale per l’inutilità della sua opera. La critica platonica ebbe vasta risonanza (cfr. S. Weinstock, «Die platonische Homerkritik und ihre Nachwirkung», Philologus 82 (1926), pp. 121-53), e la condanna del poeta, mentitore per antonomasia, divenne luogo comune anche nella tradizione cristiana e medievale. Ad esempio, secondo Prudenzio Omero non rappresentò che «inania rerum somnia»; cfr. Wolff, art. cit., p. 62; Curtius, op. cit., pp. 209 s. L’accusa di scarsa veridicità è anch’essa antica, risalendo alla sofistica. Già nell’età periclea si era generalmente imposta la convinzione che Omero fosse vissuto molti secoli dopo la guerra di Troia. Anche a questo proposito si sviluppò una serrata critica ad Omero che ricevette particolare enfasi nella Roma imperiale a causa della proclamata discendenza troiana dei romani (cfr. Wolff, art. cit., p. 56). Benoît legge queste accuse in Darete Frigio, fonte diretta sua e della gran parte degli autori che nel Medioevo trattarono la materia troiana. L’epistola premessa alla De excidio Troiae historia, che reca l’iscrizione «Cornelius Nepos Sallustio Crispo suo salutem», termina con queste parole: «utrum verum magis esse existiment, quod Dares Phrygius memoriae commendavit [...] anne Homero credendum, qui post multos annos natus est quam bellum hoc gestum est. de qua re Athenis iudicium fuit, cum pro insano haberetur, quod deos cum hominibus belligerasse scripserit» (ed. F. Meister, Leipzig, Teubner 1872, p. 1). Sulla derivazione da Darete del materiale tematico del Roman de Troie cfr. R. Jäckel, Dares Prygius und Benoît de Sainte-More, diss. Breslau 1875; Stohlmann, op. cit., pp. 166-72; Constans, ed. Troie cit., VI, pp. 192 ss. Nel Medioevo latino cristiano Darete era annoverato fra gli storici e considerato la fonte più attendibile riguardo ai fatti di Troia. In Isidoro di Siviglia si legge che il primo storico fu Mosè cui seguirono, fra i pagani, Darete e poi Erodoto (cfr. Curtius, op. cit., p. 450). Everardo il Tedesco (Laborintus, vv. 641 s.), come molti altri autori medievali, include Darete nel canone degli auctores: «Dat Frigius Dares veraci limite causam |excidii Troiae, seditionis onus» (Faral, loc. cit., pp. 146 e 180; Curtius, op. cit., p. 58). ()

82. Oltre a Darete Frigio, sola fonte dichiarata nell’incipit, Benoît de Sainte-Maure utilizza l’Ephemeris di Ditti a partire dall’episodio del tradimento di Antenore e di Enea (vv. 24395). ()

83. Guido de Columnis, Historia destructionis Troiae, ed. by N. E. Griffin, Cambridge (Mass.) 1934, p. 4; Wolff, art. cit., p. 63. ()

84. Questa pur scrupolosa opera di compromesso non impedirà all’autore dell’Ovide moralisé di criticare, narrando le vicende troiane, li clers de Sainte More perché «il Homers osa desdire | Ne desmentir ne contredire» (XII, vv. 1725s.). Benoît viene accusato di non aver colto l’υπόνοιαnel «deüst avoir repris, | Quar trop iert Homers de grant pris, | Mes il parla par metaphore» (XII, vv. 1731-3). Cfr. Ovide moralisé, Poème du commencement du quatorzième siècle, ed. C. De Boer, 5 voll., Amsterdam 1915. ()

85. Il Roman de Troie veniva datato agli anni 1155-60 dal Constans, op. cit., vol. VI, pp. 182-91, ma è oggi passata in giudicato la datazione al periodo 1165-70 proposta da Ph. À. Becker, «Die Normannenchroniken: Wace und seine Bearbeiter», ZRPh 63 (1943), pp. 481-519, p. 486 (una datazione 1160-70 era stata proposta dallo stesso Becker, «Das gepaarte Achtsilber» cit., p. 51): cfr. p. es. Zumthor, loc. cit.; G. Angeli, L’Eneas e i primi romanzi volgari, Milano-Napoli 1971, p. 155. Esso valse a Benoît così vasta notorietà da indurre Enrico II d’Inghilterra ad affidargli il posto di storiografo di corte già ricoperto da Wace; cfr. Stohlmann, op. cit., pp. 151 ss.; Constans, op. cit., VI, p. 190. Sulla fortuna e sulla diffusione del Roman de Troie, cfr. anche J. L. Levenson, «The Narrative Format of Benoît’s Roman de Troie», Romania 100 (1979), pp. 54-70, alle pp. 67 ss. ()

86. Queste le conclusioni di F. Pirot, Recherchescit., pp. 528-31, che riafferma l’opinione vulgata respingendo le critiche contro di essa sollevate da Keller. Sulle allusioni alla materia troiana nei trovatori (in Bertran de Born, Arnaut Daniel, Giraut de Bornelh ed in molti altri più tardi) cfr. già Constans, op. cit., vol. VI, pp. 346-52, la cui enumerazione non contempla alcun passo cronologicamente anteriore all’apparizione del romanzo di Benoît de Sainte-Maure. ()

 

 

 

 

 

Institut d'Estudis Catalans. Carrer del Carme 47. 08001 Barcelona.
Telèfon +34 932 701 620. Fax +34 932 701 180. informacio@iec.cat - Informació legal

UAI