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Del Monte, Alberto. Peire d'Alvernha, Liriche. Torino: Loescher-Chiantore, 1955.

323,010- Peire d'Alvernha

Lo ZENKER e il CHAYTOR interpretavano questa canzone come l’estremo saluto al mondo da parte del poeta prima del suo ritiro in un monastero. Lo SCHELUDKO (N. M., 38, 235) come un de contemptu mundi. La prima interpretazione si basa esclusivamente sulla strofa IX; la seconda ignora la strofa XI che la manderebbe in frantumi, interpretando tutte le altre in modo assai libero. Così, dallo Scheludko la II strofa è spiegata: Wer diese Welt nicht richtitg anfasst, fällt von oben nach unten; la III: leichtssennig ist der Christ, der sich selbst Schwierigkeiten mach; la IV: die Erfolge dieser Welt haben keinen Wert. Je mehr mahn hier gewinnt, um so weniger hat man. Ora è vero che questa è una tipica espressione del trobar clus, del poetare ermetico, ma l’esegesi dello Scheludko, nonché cogliere un senso simbolico, tradisce anche la lettera, negligendo tutto ciò che può infirmare la sua tesi. Il KÖHLER (R. F., 64, 79) crede che il componimento esprima il raccoglimento spirituale del poeta che ha scelto come via di salvazione quella dell’etica cortese, pur se non sia sicuro ch’essa sia la giusta. Ma anch’egli elude o violenta il testo. La canzone dev’essere interpretata nella sua integrità e anche nell’insieme della produzione poetica dell’Alverniate. Il tema della canzone appare allora l’abbandono degli amori empirici e la dedizione alla propria solitudine spirituale, all’amore per l’amore, come pura nostalgia, culto interiore e norma di vita. E appariràancor meglio dal commento alle singole strofe.
 
1-6. Il poeta è consapevole della singolarità della propria situazione sentimentale, della natura eccezionale della propria «rinuncia», del suo destino lirico. Perciò inizia con un programma di poesia «chiusa», inviolabile al volgo.
 
1-2. plazen e covinen: su simili coppie di sinonimi, cfr. SPITZER, Arch. Rom., 8, p. 64, n. 2.
 
3. ZENKER: qui s’aizina. È preferibile la lezione que hom (que comune ad a¹ e C e hom ad a¹ e m).
 
5. Cfr. DEL MONTE, Studi sulla poesia ermetica medievale, Napoli, 1953, p. 49 ss.
 
6. ZENKER: que om tem ja de vergonhar = die man zu verunstallen sich scheut. Ma in om no·ls, om ècomune ad a¹ e C, nols ad a¹ e m. Cfr. MARCABRU, ed. Dejeanne, 9, 4: si que autr’om no l’en pot un mot traire.
 
7-12. In a¹ questa strofa è la terza, la seguente la seconda, ma si nota in questa una maggiore specificazione dell’idea (Chi non ha misura nel vivere decade e ciò avviene a chi dalla misura eccede tanto da non poterla poi riconquistare) di quella; onde s’èpreferito l’ordine di C. È una condanna della dismisura: chi vi si abbandona non può poi riprendersi. È perciò che il poeta vuole ormai staccarsi  dalla realtà empirica, perché se tarda ancora, non potrà più farlo.
 
7. D’aut chai em bas: cfr. UC DE SAINT CIRC, ed. Jeanroy-Salverda De Grave, n. a 10, 19. ZENKER: Van (?) chai — haltlos sinkt.
 
8. per compas: cfr. JAUSEBRT DE PUYCIBOT, ed. Shepard, 15, 10; e cfr. PHILIPPE DE BEAUMANOIR, Jehan et Blonde, ed. Suchier, 299: a compas. Cfr. anche TOBLER-LOMMATSCH, Afr. W.: par compas.
 
9. lo segle demenar: menar la vita. Cfr. JAUFRE, ed. Brunel, 2587. La lezione ben no... menar di a¹ par dovuta alla zeppa di ben dopo la caduta d’una sillaba.
 
12. La lezione a temps comune ad a¹ e m s’impone su quella atras di C. Il mantenere la lezione noni di m evita lo iato puesca a. Per a temps = al bisogno, al momento opportuno, cfr. ELIAS DE BARJOLS, ed. Stroński, gloss. s. v. ops; e cfr. XVI, 42.
 
13-18. In a¹ è la seconda strofa (cfr. nota alla II strofa), in m la quarta, ma la concordanza di a¹ e C nell’avere al quarto posto la strofa seguente induce, oltre tutto, a mantenere l’ordine. Alla condanna della dismisura in generale, segue quella della dismisura verbale, poetica: alla sua moderazione spirituale corrisponde la brevità, la concisione, l’essenzialità ermetica del discorso poetico.
 
15. Appar migliore la variante ia nems di m; che non v’è nel tema qui svolto il concetto di vanità (a¹ envan) ma quello di eccesso, mentre la lezione el mezeis di C è deteriore rispetto a quelle di m e a¹.
 
16 ss. L’immagine, presa dal costume giullaresco, è di quelle fra astratte e grottesche predilette dai seguaci del trobar clus. Si preferisce la variante leva di C a quella cargar di a¹ perché rende più varia (rispetto al precedente encombrar) e più espressiva la metafora. Per cais, cfr. GIRAUT DE BORNELH, ed. Kolsen, n. a 29, 58.
 
19-24. In m questa è la terza strofa (cfr. nota alla strofa precedente).
 
19. sai è comune ad a¹ e m contro il cug di C. Da notare anche l’allitterazione sai sen.
 
20. mon escien: con certezza; cfr. LEVY, Pet. Dict., s. v. escien.
 
21. e di a¹m, qui e al v. 24, è da preferire rispettivamente a ieu ed en di C. BERTONI: a totz (ma en concorda in a¹ e m). L’emendamento en tot (a¹ m en totz) è suggerito dal MONTEVERDI.
 
23. Fra a¹ trop, m ben e C mot preferisco quest’ultimo per l’allitterazione mot mens.
 
25-30. Il trapasso dal tema della dismisura al tema centrale è segnato da questa opposizione del poeta, che aspira a un possesso piccolo ma sicuro, agli altri, che ambiscono cose grandi ma illusorie. Per lo SCHELUDKO l’ort serrat e fort è la salvezza dell’anima; ma in tal caso che significa che «non gliene si può rubar nulla»? Hortus nell’esegesi biblica, simboleggia la società (cfr. RABANO MAURO, De universo, P. L., 111, 530), il che può indurre a credere che il poeta alluda qui alla classe aristocratica, alla società cortese, contrapposta al volgo. Ma è preferibile pensare che esso simboleggi la realtà sentimentale del poeta nella sua solitaria interiorità, dalla quale nessuno può sottrarre nulla e ch’è più vera degl’ingannevoli possessi nella realtà esteriore.
 
25 ss. Cfr. MARCABRU, ed. Roncaglia (Studi Med., 17, 46): Mos alos esen tal devesres mas ieu no s’en pot jauzir:aissi l’ai clausde pens venausque nuills no lo·m pot envazir.
 
27. La lezione adottata è quella comune ad a¹ m contro C.
 
31-36. In m e z occupa l’undicesimo posto nell’ordine delle strofe; ma, mentre là non ha alcun nesso con quanto precede e segue, qui significa: infatti ognuno deve stare col suo pari, quindi il poeta deve staccarsi dagli amori non consoni a lui e stare con se stesso, raccogliersi in amorosa solitudine.
 
34-35. Ric e mendic sono da intendersi in senso etico.
 
35. Il poeta non termina il secondo termine del proverbio, con sprezzatura, per evitare di banalizzarlo, e passa alla conclusione.
 
36. L’emendamento quecx è proposto dal MONTEVERDI.
 
37-48. Il poeta dichiara di voler distaccarsi dagli amori empirici, in cui ha peccato di dismisura e da cui non ha avuto vera gioia.
 
37. Si preferisce la lezione a¹ per evitare, adottando quella m, la ripetizione col v. 39 (so quei), assai rozza e quindi improbabile.
 
40. re: persona, creatura. Innumerevoli gli esempi: cfr. oltre SW; s. v., APPEL, Chrest., 28, 30; 55, 2; AUDIAU-LAVAUD, Nouv. Anth., p. 60, 9; KOLSEN, Beiträge zur apr. Lyrik, Firenze, 1939, 22, 56; PEIRE RAIMON, ed. Cavaliere, 1, 11; 2, 12; PEIRE BREMON, ed. Boutière, 4, 21; RIGAUT DE BARBEZIEUX, ed. Chabaneau-Anglade, 1, 24; ecc.
 
41. BERTONI: ni autr’e me.
 
42. Si adotta la lezione m cug e quella a¹ lonhar per evitare, come sopra, la ripetizione col v. 45, dove vuelh s’impone perché comune a C e a¹ e layssar è dato da tutti e tre i mss.
 
49-54. Secondo lo SCHELUDKO il poeta si riferisce a Dio. Ma la sua interpretazione è già risultata precaria. In vero, il poeta allude a se stesso, alla propria interiorità, in cui vuol chiudersi e rifugiarsi.
 
49. BERTONI: car ai (?).
 
55-60. In m questa strofa è posposta alla successiva. Ma C e a¹ concordano nell’ordine delle strofe IX e X che non deve quindi mutarsi. Strofa assai tormentata: ZENKER confessa di non capirla; SCHELUDKO non se ne preoccupa; CHAYTOR intende: Se me ne viene male (per il mio ritiro dal mondo), credo (che avverrà) sempre per l’esser stato folle durante la mia vita; dopo la mia morte (morte rispetto al mondo dopo la chiusura nel chiostro) non mi rimproverate ecc. Ma non si capisce come le trascorse follie possano provocare danno al poeta dopo il pentimento e la monacazione; l’interpretazione simbolica di mort non persuade; i vv. 5-6 son tradotti in modo arbitrario. KÖHLER, liberamente, non preoccupandosi del v. 55: Ma forse è proprio la sua ragione a farlo fallire nella vita, facendogli eleggere la moralità cavalleresca. In vero il poeta ha un momento d’esitazione: io posso anche sbagliare per la stessa mia saggezza che m’induce alla solitudine amorosa e, se fosse cosi, renderò folle la mia vita, dimenticherò cioè la mia saggezza, mi dedicherò al «folle amore», contrapposto al «fino amore»; e, tuttavia, dopo la mia morte non mi dovrete rimproverare di ciò ch’io debbo dimenticare della, mia vita terrena, cioè, di quella vita che ogni uomo deve dimenticare dopo la morte. Infatti, dirà nella strofa successiva, io tento di comportarmi nel migliore dei modi, in quanto, pur potendo avere molti amori, preferisco averne uno solo. Si potrebbe anche interpungere e intendere in modo diverso: Si mal m’en pren,per eys mon sencug a ma vida folleyar: anche se (per si concessivo cfr. SW, s. v.) me ne nasce male, penso per il mio stesso senno di render folle la mia vita. Cioè: benché possa averne dolore, è proprio la mia saggezza a suggerirmi di vivere in modo da apparire folle agli altri; e quindi: dopo la mia morte non mi si condanni per questo.
 
58. Ancora una volta l’accordo di Ca¹ decide fra due varianti egualmente accettabili.
 
61-66. Questa strofa che da sola basterebbe a demolire le interpretazioni date dallo ZENKER allo SCHELUDKO, non contraddice invece a quella qui proposta, in quanto la fin’amor come nostalgica solitudine e vagheggiamento del sentimento per se stesso, implica tuttavia il riferimento a una donna, anzi a volte nella lirica trovatorica non esiste distinzione fra il riferirsi alla «amor» e il riferirsi alla «domna»: questa è come un fittizio incarnarsi di quella. Il poeta dice, dunque, che, per quanto possa avere molti amori empirici, egli tuttavia se ne distacca, per isolarsi nel culto di un solo amore, sentito come perpetua nostalgia nella propria segreta intimità.
 
61. daus è lectio difficilior rispetto a da.
 
62. Letteralmente: sarebbe un affare.
 
64. parvenz (a¹ parnenz); l’emendamento è dovuto al BERTONI.
 
70-72. Il MONTEVERDI nota che né l’ultima strofa di a¹ né l’ultima di mz hanno a suo luogo la rima peculiare alla tornata (-onh) e che, per di più, non v’è nessun’altra strofa, in nessun ms., che presenti questa rima; onde deduce che i mss. non abbiano tramandato l’ultima stanza della canzone. Ma i tre versi, se considerati come tornata, non danno un senso soddisfacente, sicché si può anche supporre che essi, non che essere una tornata, facciano parte dell’ultima (o neanche?) strofa della composizione, pervenuta frammentaria, mutila di tre versi.
 
70. amors de lonh: cfr. nota a VII, 9. L’invocazione all’ «amore di lontano», un amore sognato e inattingibile, conferma l’interpretazione qui data.

 

 

 

 

 

 

 

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