5. Intorno a Barral prima del 1265, v. S. STERNFELD, Karl von Anjou als Graf von Provence, passim. Egli entrò in Italia con l’esercito angioino: nel 1265 fu nominato podestà di Milano (v. GUALVANEI FLAMMAE Manip. Flor., in MUR., Rer. Ital. Script., XI, col. 693). Nel novembre del 1266, è investito da Carlo della carica di maestro giustiziere del regno di Sicilia (v. MINIERI-RICCI, De’ grandi Uffiziali del Regno di Sicilia dal 1265 al 1285, p. 94). Il suo testamento, scritto negli ultimi giorni della sua vita, è datato dal 31 luglio 1268 (v. P. DURRIEU, Les Archives Angevines de Naples, II, p. 192).
8. Bertran, figlio di Barrai, non sappiamo quando precisamente sia passato in Italia. Nel 1268 fu capitano delle truppe nella Campania, poi, sino al 1271, vicario del Re di Sicilia in Roma. Nel 1272, ebbe da Carlo la contea di Avellino e la qualifica di cugino del Re (v. DURRIEU, op. cit., II, p. 280). Morí nel 1305 (v. DE MAS-LATRIE, Trés., p. 2165).
12. Non si tratterà certamente delle aspirazioni di Carlo d’Angiò all’Impero d’Oriente, le quali si manifesteranno pubblicamente più tardi, sí bene di quelle all’Impero Romano, cui la Provenza apparteneva di diritto. È noto come, appunto in virtù di tal diritto, buona parte de’ Provenzali, osteggiassero l’insediarsi de’ Francesi nelle loro contrade (cf. n. XCII). Il trovadore ha l’aria di dire: adesso ai partigiani dell’Impero vien meno un motivo di opposizione a Carlo, giacché, grazie a lui, essi son tornati ad esser sudditi dell’Impero. Era questa una opinione volgare, che persona meglio informata delle condizioni poste dalla Curia Romana a Carlo, e da questo giurate, per le quali si vietava la riunione del Reame di Sicilia all’Impero, non avrebbe espresso.
23. Sopra le relazioni di Raimondo Berengario IV con Sordello, v. C. DE LOLLIS, Sordello, p. 35 sg. Notevole il fatto che P. de C. attribuisce a Sordello una parte rilevante nell’impresa dell’Angioino: piú rilevante di quella che apparrebbe da’ documenti letterari; dandogli per di piú la qualifica di «monsignore». Le parole dell’A. trovan però riscontro con quelle che si leggono nel breve di papa Clemente IV, del 22 settembre 1266 (in C. DE LOLLIS, op. cit., p. 323), a Carlo d’Angiò: «Languet» scriveva il Pontefice al Re «Novariae miles tuus Sordellus qui emendus esset immeritus nedum pro meritis redimendis».
28–45. L’A. vuole ammonire, in sostanza, i signori ad affezionarsi i loro servitori, trattandoli da amici e facendosi trattare come tali da essi, per amore, non per moneta. E adduce l’esempio del Re di Puglia, il quale perse la battaglia perché i suoi lo servivano da gente pagata, non da amici. Egli non è esatto nell’affermare che Manfredi sia stato preso, né che i Tedeschi combattenti per lui lo abbiano tradito. Sta di fatto che i Tedeschi, a Benevento, si batterono bene e lealmente: sleali furono gl’Italiani, proprio quelli che da Manfredi avevan ricevuto i migliori beneficî. Scrive SABA MALASPINA: «cum nonnulli de Regno, qui quosdam falsos comites cum quibus miser Manfredus, sub colorato patrimonialis successionis titulo, dividisset Regni spolia, sequebantur, ingredi noluissent bellum, sed proditores abscessissent, Manfredus cum reliquis, mori potius eligens, &c.» (MUR., Rer. Ital. Script., VIII, col. 827). Il mercato o la fiera, di cui il trovadore parla metaforicaniente a’ vv. 37–45, sarà dunque lo sfacelo delle persone e delle cose seguito davanti a Benevento, la sera del 26 febbraio 1266.
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