5–6. La Toscana era stata sistematicamente devastata, per ordine di Carlo d’Angiò, dopo che, all’annuncio dell’appressarsi di Corradino, quasi tutte le città si erano dichiarate per lui. Gli eccessi delle truppe francesi furono biasimati persino da Clemente IV, il quale scriveva a Carlo: «Serenitatem tuam rogandam duxinius et hortandam quatenus, in tuis actibus et tuorum crudelitatem evitans, victorem potius impleas quam ultorem et quieti provinciae consulens, diligi magis eligas quam timeri» (4 agosto 1267; POTTHAST, n. 20105). Quanto alla Lombardia, il JEANROY (p. 155) pensa che C. P. alluda alla campagna del 1265. La regione fu attraversata, allora, ne’ primi mesi dell’anno, dall’esercito francese comandato da Roberto di Béthune; e ricorda, fra l’altro, l’episodio di Capriolo, dove, essendo stato impiccato dagli abitanti un soldato francese, costoro furono tutti massacrati, compresi donne e fanciulli. Allo stesso trattamento fu sottoposta Montechiaro, nel Bresciano. «Comes [di Béthune] per vim transivit Olium flumen iuxta Palazolum et destruxit Castrum Caurioli et interfecti omnes fuerunt de dicto Castro, tam viri quam mulieres et pueri, eo quod suspenderant unum de militibus dicti Comitis. Et dictus Comes transivit iuxta civitatem Brixiae . . . et cepit et destruxit Montem Clarum, et postea venit Mantuam» (Memor. Potestatum Regentium, MURAT., Rer. Ital. Script., VIII, col. 1124).
7. Che gli affari del reame di Sicilia interessassero il Papato piú vivamente che quelli di Terrasanta, era opinione generale. Tuttavia c’è inesattezza ed esagerazione, giustificate del resto dalle circostanze, nelle parole di C. P. Non risulta infatti che, negli anni precedenti, la Chiesa abbia concluso o fatto concludere una tregua con le potenze mussulmane. Queste erano allora piú minacciose che mai: il celebre Bondocdar aveva devastato la Palestina e l’Armenia; Antiochia era caduta nelle sue mani; l’Europa era sotto il colpo d’una invasione tartara. Clemente IV tendeva a riaccendere lo zelo de’ principi spagnoli, e, nel 1268, aveva iniziato da gran tempo, con Luigi IX e i suoi fratelli, i negoziati che dovevano conchiudersi con la fatale spedizione del 1270 (26 gennaio, 13 giugno, 7 luglio 1268; v. POTTHAST, nn. 20245, 20384, 20425–7). Tutti però vedevano quali sforzi la Chiesa facesse per sostenere Carlo d’Angiò e come si stornassero a favore di lui, sempre a corto di moneta, i fondi destinati alla guerra contro gl’infedeli. Tali le giuste osservazioni che sopra questo passo fa il JEANROY, p. 150.
12. A Cremona, dominata da’ Ghibellini, era stato mandato come legato pontificio «per ricondurli all’unità della Chiesa» il vescovo di Betlemme, (25 gennaio 1268) allorché, in seguito alla scissione de’ due capi, Boso di Dovara e Uberto Pelavicini, quest’ultimo fu espulso dalla città, dopo esserne stato podestà sette volte. Grazie all’intromissione del Legato e di Amatino degli Amati, podestà de’ mercanti, pur egli sollecitato dal Papa, fu proclamata un’amnistia, e i Guelfi esiliati poterono rientrare. Ma, poco dopo, in seguito a una sedizione provocata artificiosamente, anche Boso fu costretto, a sua volta, ad uscire da Cremona (v. FRANC. PIPINI Chron., in MURAT., Rer. Ital. Script., IX, col. 709). Boso, intorno al quale v. n. CLIV, piange, nell’Inferno di DANTE, fra’ traditori, «l’argento de’ Franceschi» (Inf. XXXII, 115). Il vescovo legato, nominato con la semplice iniziale del suo nome, G., ne’ brevi di Clemente IV (in MARTÈNE e DURAND, Thesaurus Anecdotorum, II, 569–70) è Galhardo d’Oursault, domenicano (v. GAMS, Series Episcop., p. 516). Non si sa, e non ha potuto appurarlo nemmeno il JEANROY (p. 153 nota), di quale profezia si tratti al v. 14.
25–6. Ironico il «talento» di condurre la crociata, che san Bernardo aveva predicata nel 1147.
33. Il 5 aprile 1250, a Mansurah (JOINVILLE, § 226 sg.; Acta Sanct., XXV aug., p. 421; S. STERNFELD, Karl von Anjou, p. 48 sg.).
37. Saint Eler] Il ms. ha «saint cler»; la restituzione è dovuta al JEANROY, il quale vi coglie l’allusione al massacro de’ Ghibellini fiorentini, rifugiati nel castello di Sant’Ellero, dopo l’entrata de’ Francesi in Firenze (17 aprile 1267). «I Fiorentini guelfi v’andarono ad oste» scrive G. VILLANI (col. 244); «le due sestora, e andovvi il maliscalco del re Carlo [Guido di Monforte] con tutta la cavalleria de’ Franceschi ch’erano con lui, e per battaglia ebbono il detto castello nel quale avea rinchiusi bene ottocento uomini che la maggiore parte furono morti o tagliati e parte presi». (Vedi anche DE CHERRIER, III, p. 209).
41 sgg. La spiegazione delle allusioni contenute in questa cobbola ha dato molto da fare a’ miei predecessori, i quali non sono riusciti a trovarla. Non vi sono riuscito nemmeno io. Restano pertanto oscuri i seguenti punti: 1.) chi sia l’arcivescovo «compare» di Carlo d’Angiò, che si sarebbe reso spergiuro di un solennissimo giuramento; 2.) chi sia il siniscalco, il quale, dopo aver giurato sull’anima del Re di salvare la vita ad alcuni conti, li avrebbe poi fatti massacrare a tradimento; 3.) quando seguirono i fatti predetti.
49 sgg. Don Enrico di Castiglia, poeta in gallego e in italiano, fratello di Alfonso X, è celebre nella storia. È ricordato in un sirventese anonimo del 1257 (Ja non cugei qe m’aportes ogan; GRÜTZMACHER, in Archiv di Herrig, XXXIII, p. 311), e in un altro di Raimon de Tors di Marsiglia (Per l’avinen pascor; MAHN, Ged. 1058), mentre, esule, guerreggiava in Tunisi. Intorno a lui mi basti rinviare alla monografia di G. DEL GIUDICE, Don Arrigo di Castiglia (negli Atti della Società Reale di Napoli, vol. II, p. 153 sgg.), e alle Randglossett di CAROLINA MICHAELIS DE VASCONCELLOS (Zeitschrift für Roman. Philol., 1903, p. 153 sgg.). Parente di Carlo, gli aveva prestato forti somme per l’impresa del Reame, sperandone l’appoggio per ottenere l’investitura della Sardegna. Eletto senatore di Roma (1266) e vedute frustrate le sue speranze, passò alla parte Ghibellina e divenne uno de’ piú efficaci ausiliari di Corradino, dopo che questi fu apparso in Italia. Una sua canzone italiana allude alla mancata restituzione del danaro da parte di Carlo:
Mora, per Deo, chi m’à tractato a morte
E chi tiene lo mio acquisto in sua balia
Come Giudeo!
Essa termina:
Alto giardin di loco Ciciliano,
Tal giardinero t’à preso in condutto
Che ti darà gioia di ciò c’avei lutto,
E gran corona chiede da Romano.
(testo in E. MONACI, Crestom. Ital., p. 272). Il «giardiniere» è Corradino. (V. i nn. CLXX, CLXXI, CLXXVII).
52. «Le trait est plus spirituel que l’accusation n’est justifiée», dice il JEANROY, p. 160. Il quale ricorda come il conte di Fiandra fosse allora quel Guido di Dampierre che doveva precisamente la sua vittoria e il riconoscimento de’ suoi diritti all’intervento di Carlo d’Angiò. Il debitore era dunque il Conte di Fiandra, non Carlo, che si era limitato a far pagare un po’ cari i suoi servigi e la sua rinuncia alla Contea di Hainaut, di cui era stato provvisoriamente investito. Del resto, Guido di Dampierre riconosceva cosí bene questo debito che aveva consentito al matrimonio di suo figlio Roberto con una figliuola del Re di Sicilia. Sopra la guerra del Hainaut (1253–56), v. S. STERNFELD, Karl von Anjou, p. 94 sgg.
57. Il poeta non si esprime con perfetta esattezza qui, dove dice che né Greci né Latini possono trovare presso il Pontefice pace o tregua. Anche in questo caso però egli esprime un sentimento generalmente diffuso e ben giustificato: senza dubbio egli vuol dire che il Papa si disinteressa del regno Latino di Costantinopoli e di que’ Greci che potevano seguire la fortuna, allora traballante, di quel regno (A. JEANROY, p. 151).
58 sgg. Nel momento che il poeta scriveva, i Saraceni di Lucera erano in piena rivolta, e Carlo si disponeva ad assediare, ovvero assediava già, questa città. Infatti, invitato da Clemente IV (28 marzo) a soccorrere il Reame, devastato da’ Saraceni, Carlo dalla Toscana corse nel Mezzogiorno e pose, il 20 maggio, l’assedio a Lucera (BÖHMER-FICKER, Regest. Imp., V, p. 2077), che non abbandonò se non per marciare all’incontro di Corradino. La menzione di una pace o di una tregua co’ Mussulmani la si cerca invano nei cronisti. C’è soltanto una lettera di Clemente IV, scritta alcuni giorni dopo la battaglia di Benevento, nella quale il Pontefice annuncia a uno de’ suoi legati essersi i Saraceni di Lucera rimessi, corpi e averi, al beneplacito del Re di Sicilia («Saraceni Luceriae civitatem, personas et bona Regis eiusdem beneplacito subiecerunt»; 11 marzo 1266; MARTÈNE, Ampl. Coll., II, 312). ANDREA UNGARO (Descriptio victorie, in Mon. Germ. Hist., Script., XXVI, p. 580) dà qualche particolare: «Nuceria vero . . . se cum toto thesauro Manfredi . . . regi Karolo absque belli strepitu reddiderunt [i Saraceni]. Qui, iubente Rege, muros omnes . . . destruentes . . . ad obtinendam gratiam regiam miserunt ei auri et argenti donaria pretiosa, reddentes se in manus . . . regis Karoli, tantummodo vita salva et quod fidem ritumque suum non compellerentur per violentiam demittere, nisi per praedicationem verbi Dei». Ma le promesse non erano state mantenute, e le muraglie di Lucera non furono abbattute. È probabile che, dopo la vittoria di Benevento, ci sia stato un tacito accordo fra il Re, che ormai aveva tutto un regno da organizzare, e i Mussulmani, a’ quali egli poté avere accordato il libero esercizio del loro culto. L’avere poi il Papa consentito a una tale transazione è una manifesta esagerazione di C. P. (A. JEANROY, p. 169). Secondo il DE CHERRIER (III, p. 188), i Saraceni, dopo Benevento, avendo chiesto di capitolare, Carlo ne volle la intiera sottomissione, che fu da loro promessa. Alcune schiere di loro furono mandate ad inseguire que’ Tedeschi e que’ Ghibellini che erano riusciti a sottrarsi alle spade de’ Francesi. |