Si deve a Stroński (pp. 15* e 157-58) l’ipotesi di uno stretto collegamento fra questa canzone e le due precedenti: nella seconda tornada, che solo una parte della tradizione conserva, il poeta ‘invia’ il testo a Montpellier con una richiesta di perdono per quel Guglielmo VIII che in FqMars 155,27 (X) aveva accusato di stoltezza per il ripudio dell’emperairitz Eudossia. Per Locher 1980 la canzone costituisce «The high point of Folquet’s efforts to use both theme and formal devices for unity [...]. Here the text is what it describes: the mental process inherent in the situation of unhappy lover who is expected to entertain his audience through joyful song is followed step by step throughout the canso» (p. 203). All’analisi, che valorizza le figure di ripetizione («Each stanza is constructed around a central antithesis; all but one contain an isolated, consistently developed image or conceit; syntactically, each stanza is one continuous complex sentence of coordinate clauses; enjambement further enhances continuity»), fa séguito un giudizio di valore estetico altamente positivo: «En chantan m’aven represents Folquet’s best talents. Viewed now in the light of his achievements in the canso’s structure, his medieval fame can be both understood and even appreciated by modern audiences. It is not improbable that the qualities uncovered in this study contributed to Dante’s admiration for Folquet. In our own era, these qualities surely suggest that Folquet deserves more prestige than has been accorded him» (p. 205); anche Sesini 1938, pp. 82 e 83-84, riconosce l’eccellenza della canzone sul piano ritmico-musicale.
5. plus, plus: che a questa lezione, già nello Choix, in Bartsch-Koschwitz 1904 e in Frank 1952, si debba preferire plus ... meils di EMRV Ols (cfr. versione β) è opinione non meglio argomentata di Stroński (cfr. p. 195).
6. ni ma boca: è il testo della redazione γ: diversa la scelta di Stroński che stampa: «que la boca» a partire dal v. di BOls (non trovo tuttavia giustificazione dell’intervento quen > que, né l’apparato aiuta a capire se si tratta di un refuso poiché l’editore segnala a sinistra della parentesi quadra la lezione più attestata, non quella a testo); «c’a la boca» si legge nelle due edizioni anteriori a quella di Stroński e in Frank 1952.
10. rason: la mia traduzione riprende quella di Frank 1952: «sujet» e Riquer 1975: «tema»; cfr. anche Maillard 1967: «inspiration». Stroński, ripreso alla lettera da Boni 1960-62, traduce con «sentiment».
12. cor: fra gli editori il solo Stroński scrive qui e ai vv. 16, 19, 20, 22, 25, 31, 32 «Cor» e «Cors» con la maiuscola, non seguito neanche da coloro che ricavano il testo dalla sua edizione; mantengo invece la maiuscola in «Merces» a v. 38.
13. que·us: «les trois leçons que·m, que·us, que·l sont également possibles et le classement des mss. n’y sert à rien, mais que·l a le moins de chances d’avoir été inventé par les copistes»: così Stroński a p. 218. La pari plausibilità delle varianti impone il mantenimento della versione-base; inoltre che le varianti dipendano non da ‘invenzioni di copista’, ma, per esempio, da differenti esecuzioni della canzone, è una possibilità che non modifica sostanzialmente il quadro.
16. cors: per il nom. sigmatico, già nello Choix e in Bartsch-Koschwitz 1904, si veda il Commento a FqMars 155,18 ( III), 23. La forma ‘regolare’ cor è comunque attestata da EQRV: la adottano Stroński e Frank 1952, che attua qui uno dei rari emendamenti al suo ms.-base A.
17. l’en: recupero la forma del nesso già nello Choix e in Bartsch-Koschwitz 1904 e poi in Frank 1952; Stron´ki ha invece «li·n» («li’n» in Riquer 1975).
18. lo·us: si noti la diffrazione, provocata forse da un dubbio sul referente del nesso: il gruppo conservativo sarebbe θ, che attesta lo·us (scelta di Stroński, ma già nello Choix) in NQ e leus in LUc+W (così ls, ma si già detto della mancata segnalazioni delle varianti dal canzoniere di Bernart Amoros); anche D legge lous, ma fra u e s pare di scorgere una -l- sotto una rasura; e loil è la lettura di IP, anch’essi, come D, appartenenti al gruppo γ (K legge lou, con velarizzazione o ricorso a una fonte θ), loill di E, lol di V; «n’offre aucun sens» secondo Stroński (p. 218) lo di ABO M, già adottato da Bartsch-Koschwitz 1904 e poi da Frank 1952. Ancora diversa la lezione di mss. innovativi come C (los) e R (lom) o corrotti come T (loi); esitante infine la lettura di G: uos el con uos cassato dal correttore.
19. e per so: che la lectio singularis di C empero sia quella buona e che le altre (e per so DEGIKLMNPRTUc [+ls], et per oc W, per aiço Q, puix V [con recupero sillabico con l’aggiunta di dôpna dopo faitz], pero ABO [con cesura regolare per lo scambio faitz del cors > d. c. f. e recupero sillabico nel secondo emistichio con queus > que uos])ne siano una deformazione è un’idea di Stroński che trova un ostacolo nella ben nota natura innovativa del testimone: si vedano qui le altre singulares di cui è latore ai vv. 15, 18, 22, 23, 33, 36, 37, 38, 50. Comunque la scelta dell’editore era già nello Choix e in Bartsch-Koschwitz 1904, mentre Frank 1952 stampa la versione a.
21. ten tan car: su car tener cfr. Cropp 1975, pp. 405-406 e in partic. l’esemplificazione nelle note 78-79.
26-30. Il topos della perdita delle capacità sensoriali per effetto dell’amore è in BnVent 70,36 (XXXVI), 19-22: «Empero tan me plai / can de leis me sove, / que qui·m crida ni·m brai, / eu no·n au nula re»; GcFaid 167,53 (XVI), 37-39: «Maintas sazos s’esdeve / qu’en pens tant fort e cossire, / qe non auch qui parl’ ab me»; Peirol 366,18 (XXV), 9-12: «Qu’ieu n’ai tan / de mon talan / e n’estauc soven / qu’ieu non aug ni sen»; AimBel 9,3 (V), 25-26: «Tan m’es el cor qe, can de lei consir, / cels qui parlon ab mi ges no·ls enten»; anche Asperti 1990, pp. 275-76 (in relazione a alla lezione dei mss. DIK [Aa] di RmJord 404,4 [IV], 34-36: «qu’endreich mi / non au ni enten / precs d’amic ni de paren») cita la cobla III della canzone folchettiana come esempio del motivo «dell’incapacità di sentire e di prestare attenzione dell’amante rapito nel suo amore», insieme con i luoghi di GcFaid e di AimBel ricordati qui sopra e con Caden 106,11 (X), 59-60: «qu’om enamoratz no ve / ni au ni enten fort be».
31. L’intervento editoriale di Stroński, facendo perno su mas ia (ges V) lo cors nos deu di CV, dà origine a un testo composito: «Pero lo Cors no·s deu...». Diversa la mia analisi: a inizio verso si possono allineare due versioni contrapposte, Perol dei gruppi α e γ + EMR e E ja·l del gruppo γ, e una lezione innovativa, appunto Mas ia (ges V) lo di CV, dove il passaggio ial > ia lo è indotto da quello anteriore di no si a nos, comune a CV e LN (cfr. no U e nous c); si recupera così un’ipometria conservata da L e sanata da NUc con l’introduzione di ges fra deu e blasmar. La presunta superiorità di questo rimante, tràdito dai mss. coinvolti nelle innovazioni e da GQ, rispetto clamar di α e γ + EMR, asserita da Stroński a p. 194, risulta ancora meno fondata. Metto a testo la versione γ, già nello Choix, mentre Bartsch-Koschwitz 1904 e Frank 1952 privilegiano la lezione di α + EMR.
35. non-fe: a testo la lezione del gruppo γ + Uc con esplicitazione della nasale, come nello Choix e in Bartsch-Koschwitz 1904: ma la negazione va riferita, più che a trobav(a), come intende Stroński (che stampa «no fe» e traduce «il trouvait la fausseté et non pas la foi») alla stessa fede, come suggeriscono i recensori Salverda de Grave 1911, p. 501 (che propone nofe, cioè «la perfidie») e Lewent 1912, col. 332 (no-fe, «Untreue») e come intendono tutti gli editori successivi: Lommatzsch 1917 (no-fe, «Treulosigkeit»), Boni 1960-62 (no fe, «infedeltà»), Frank 1952 (no-fe, «perfidie») e Riquer 1975 (no fe, «desleatad»); questa seconda possibilità è comunque implicitamente avanzata da Stroński nel Glossaire, p. 250, s.v. fe.
36. Stroński non traduce il verso: lo rilevano sia Lewent 1912, col. 332, sia Salverda de Grave 1911, p. 501, che propone: «mais le juste retourne toujours vers son seigneur»; drez vale «le juste» anche per Frank 1952 (cfr. Maillard 1967: «le loyal»). La possibilità di un valore avverbiale è avanzata in via dubitativa da Lommatzsch 1917 che annota «geradeswegs (?)», ed è accolta da Boni 1960-62 che traduce: «a ragione (oppure: direttamente)» e da Riquer 1975 che traduce e «directamente», ma annota: «También se podría traducir: “pero la justicia vuelve siempre a su señor”» (I, p. 594, n. 36). Di qui la mia doppia traduzione.
38-40. Un’altra interpunzione è suggerita da Lewent 1912, col. 332: due punti dopo mante, così da intendere ‘Mercé non mi aiuta: che essa, cioè Mercé, possa entrare nel suo cuore tanto che...’; Stroński poneva invece una virgola dopo 38 mante, traducendo però «...si la Grâce ne m’appuie pas: puisse-t-elle entrer...» (p. 123).
42. deuria: al condizionale di γ +Uc (+ls) cui si affianca la forma da piuccheperfetto indicativo degra di ABO Uc, a testo quest’ultima in Bartsch-Koschwitz 1904 e Frank 1952, si oppone in β + DGQ il futuro deurai (e cfr. porrai P), privilegiato da Stroński, ma già nello Choix.
43. c’oblides la ricor: per Salverda de Grave 1911, p. 501, ripreso da Schultz-Gora 1921, p. 141, oblides dev’essere una 3ª sg., non una 1ª sg. come intende Stroński («j’oublie»), altrimenti «würde die innere Verbindung mit dem voraufgehenden Satze fehlen». Va però detto che i recensori si esprimono su un testo diverso: «qu’oblides sa ricor», dove a la, lezione peraltro largamente maggioritaria (già nello Choix e in Bartsch-Koschwitz 1904), viene preferita sa di α + DcM (a testo anche in Frank 1952); naturalmente si può intendere la ricor come attributo proprio della dama oppure come tributo, al pari della lausor di v. 44, di chi dice io (in quest’ultimo caso si elimini la virgola alla fine di v. 43). Si esprime per la anche Asperti 1990, p. 467, per il quale però oblides è «cong.pres. 2ª pl., “dimentichiate”, come richiedono sia la sintassi che il contesto, e come del resto suggerisce l’analisi completa della varia lectio: qu’oblidetz *CDªLV* [in realtà CDLNV], qu’oblides *GIKNOPQSTVae* [in realtà DcGIKOPQ TUac], qu’oblide *AB*, que oblit *EMR*»; sebbene la premessa sia scorretta: «oblides non è cong.impf. 3ª s., come erroneamente ritiene Stroński, sviato da una suggestione di Jeanroy», la conclusione è convincente.
44. lausor: sul termine si veda la schedatura di Cropp 1975, pp. 186-87 (anche a proposito di 46 lauzars).
46-47. L’interpunzione di Stroński, due punti dopo 47 malme e niente dopo 46 te, è un’alternativa non deteriore rispetto a quella qui proposta: occorre in questo caso intendere ‘il mio lodare non mi procura altro vantaggio se non di tormentarmi’: «que de me tourmenter» è infatti la traduzione di Stroński, che nel suo Glossaire, p. 243, s.v. com scrive: «l’on s’attendrait plutôt à l’indicatif; il ne s’agit donc pas de la conj. concess. com que mais de com compar. et de que compar. et de que explicat.»; l’interpretazione non convince tuttavia Schultz-Gora 1921, p. 142, che intende così i vv. 46-48: «aber einen anderen Vorteil bringt mir nimmer mein Loben, als daß die Liebesglut [traduce «que l’ardors» di Stroński], wie sehr sie (d.h. die Dame) mich auch übel behandeln möge, mir anwächst». Risolve diversamente Frank 1952, che pone l’espressione fra virgole e traduce: «combien que je me tourmente».
49-50. La metafora del fuoco è ovidiana: cfr. Amores, I, ii, 11-12: «vidi ego iactatas mota face crescere flammas / et vidi nullo concutiente mori» e Remedia, 731-34: «Ut, paene extinctum cinerem si sulphure tangas, / vivet et e minimo maximus ignis erit, / sic, nisi vitaris quidquid renovabit amorem, / flamma redardescet, quae modo nulla fuit». Scheludko 1934, p. 169, sostenitore di una fruizione diretta dei testi ovidiani da parte del trovatore (cfr. parte I, § 3.3), estende il riscontro all’intero passo dei Remedia (vv. 717 sgg.) in cui si mette in relazione fuoco e passione amorosa; si noti poi che una variante dell’immagine degli Amores si trova ai vv. 807-808: «Nutritur vento, vento restinguitur ignis; / lenis alit flammas, grandior aura necat». Si veda anche Picchio Simonelli 1982, pp. 217-18.
53-54. Il riferimento è alla famosa leggenda araba secondo la quale l’inventore degli scacchi Sisah Ibn Dahir, sollecitato dal re di Persia Shihrâm ad esprimere un desiderio, chiede il numero di chicchi di grano ottenuto mettendo un chicco sulla prima casella della scacchiera, due sulla seconda, quattro sulla terza e così via, raddoppiando sistematicamente sino alla sessantaquattresima: dopo aver ingenuamente accettato, il re si rende presto conto dell’enormità del numero totale di chicchi. L’aneddoto è molto fortunato: nella Chanson de la croisade albigeoise, è messo in bocca proprio a Folchetto, ormai vescovo di Tolosa: «“Senher coms”, ditz l’avesques, “cals es est reproviers? / que sel que mais vos ama vos deu estre esquerriers / car a vos no tang ira ni nulhs espaonters, / car en breu de termini se doblara·l taulers» (192,41-44; e cfr. Martin-Chabot 1931-61, III, p. 66, n. 1); vi alludono trovatori come Marcabr 293,3 (III; Roncaglia 1953), 29-32: «tota nueg joston a doblier, / e·l jorn, a l’ombra dels saucs, / auziratz nauzas e baududcs / e doblar entr’els l’escaquier» e PVid 364,47 (XI), 41-42: «Mil tans es doblatz sos bes / que·l comtes de l’escaquier»; lo userà in chiave iperbolica anche Dante in Par. XXVIII, 91-93: «L’incendio suo seguiva ogni scintilla; / ed eran tante, che ’l numero loro / più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla»; e càpita di ritrovarlo ancora oggi: scrive Paolo Maurensig dopo averlo narrato: «La leggenda sottace il fatto che quel sovrano dovette pagare in seguito un prezzo ben maggiore: egli si appassionò al nuovo gioco fino a smarrirne la ragione. L’esosità del mitico inventore, infatti, è pari solo a quella del gioco stesso» (La variante di Lüneburg, Milano, Adelphi 1993, p. 9). Oltre alle indicazioni bibliografiche di Stroński (pp. 218-19) si vedano almeno M. R. Blaakeslee, ‘Lo dous jocx sotils’: la partie d’échecs amoreuse dans la poésie des troubadours, CCM, XXVIII (1985), pp. 213-22 e S. Melani, Metafore scacchistiche nella letteratura medievale di ispirazione religiosa: i Miracles de Nostre Dame di Gautier de Coinci, SMV, XXXV (1989), pp. 141-73.
54. per raison: Stroński nell’analizzare alle pp. 219-22 i casi in cui «per razo est pris absolument» determina che dei cinque possibili sensi assunti dal sintagma (schematicamente: «pour cause», «naturellement», «de règle», «dans la mesure juste», «d’une façon convenable») è il secondo (ossia, più estesamente, «naturellement, par la nature des choses, nécessairement»): «le sens qui seul convient à l’endroit en question de Folquet» (p. 220); si confà Boni 1960-62 con «per la natura delle cose». Lo contesta invece Schultz-Gora 1921, p. 142: «der Zusammenhang erfordert eher ein ‘in richtigem Verhältnis’»; seguono quest’ultimo sia Frank 1952 («en proportion croissante»; e cfr. p. 163), sia Riquer 1975 («proporcionalmente»). La mia traduzione è invece più vicina al terzo dei significati indicati da Stroński (ossia, più estesamente, «Conformément (à la raison) à l’orde naturel des choses, de règle, régulièrement»).
58. car creis: Frank 1952 scioglie con «c’ar creis» e traduce: «qui augmentent à présent». |