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Chiarini, Giorgio. Jaufre Rudel. L'amore di lontano. Roma: Carocci, 2003.

262,002- Jaufre Rudel de Blaja

1. L’unico riscontro letterario noto a questo incipit è quello della chanson d’histoire della Bele Erembors («Quant vient en mai, que l’on dit as lons jors»), indicato da M. Simonelli che ha fatto anche opportunamente osservare, a proposito della lunghezza dei giorni di maggio, come prima della riforma gregoriana del calendario quel mese fosse alquanto più solstiziale di adesso.
 
2. de lonh. Può significare provenienza, “(che vengono) da lontano”; oppure “in lontananza”, notazione impressionistica che sfuma nel trasognamento di qualcosa di lontano.
 
3. lai. Polare rispetto a sai (segnale della presenza fisica, della corporeità), allude al luogo ideale sognato che il canto degli uccelli evoca suggestivamente (lontananza = sogno) facendone provare più acuta la nostalgia. «L’apparente determinazione lay si risolve nel suo contrario: una allusività [...]. È un intrecciarsi di vaghe allusioni ad un luogo e ad un tempo che possono esser visti nell’ottica del concetto agostiniano di esperienza, non sono tanto le sensazioni del corpo che valgono a formare un’esperienza, quanto queste sensazioni rivissute nell’animo»: così M. Allegretto, che sottolinea altresì la funzione fondamentale della memoria nella concezione agostiniana dell’«amore di udita» segnalata nel De Trinitate da P. Cherchi, («nel caso dell’amore d’udita l’immagine è visio prodotta dalla memoria e non dalla species corporis quod videtur»).
 
5. vau. Propriamente “vado”; il verbo “andare” entra spesso, come è noto, in perifrasi di significato modale o aspettivo, da interpretare opportunamente caso per caso. Qui ha valore fraseologico, quasi fosse “vado essendo” quindi “sono”, ma con accentuata sfumatura durativa (come, ad es., in “vado vedendo” rispetto a “vedo”): cfr. Raimon de Miraval, XII, v. 17 «E-n vauc embroncs et enclis», XXXVI, v. 1 «Contr’ amor vau durs et enbroncs». R. Lejeune separa con una virgola vau dalle parole seguenti, intendendo presumibilmente “cammino” o qualcosa di simile.
embroncx e clis. Dittologia che significa propriamente “a capo chino”, manifestazione dello stato d’animo mediante l’atteggiamento: enbronc (REW 1337) vale infatti «courbé, incliné; morose, sombre» (FEW, I, 564), «nach vorn geneigt, gesenkt, gebeugt» (TL, s.v.).
 
6. albespis. In rima è citazione ài Guglielmo IX («la branca de l’albespi», Ab la douzor, v. 14).
 
10. Salvo la negazione, altra citazione di Guglielmo IX («qu’ie·n sai gensor e belazor», Farai un vers de dreit nien, v. 35).
 
12 ss. C’è un principio d’ipotassi, che subito si dilegua perché la consecutiva sfuma in una frase esclamativa. La disposizione ragionativa cede significativamente a quella emotiva. Per la dittologia verais e fis cfr. Cercamon (?), Ges per lo freg temps no m’irais, v. 28: «Tant es mos jois fis e verais».
 
13. el reng dels sarrazis. La prigionia fra i saraceni è «le malheur le plus “exotic” possible» (Spitzer) e sta a significare che il pregio di questo amore è tale che per esso il poeta affronterebbe volentieri qualunque sacrificio. Quanto al lai che precede, c’è da chiedersi se anche qui abbia il solito significato tecnico: non si può escludere, perché se il lai è di norma il luogo ideale dell’amore sognato, potrebbe anche essere — nel risvolto masochistico del mero vagheggiamento — quello del sacrificio gioiosamente accettato per quell’amore. Per R. Lejeune, invece, lai indicherebbe nel presente verso un luogo ben reale: quello nel quale, per il pregio inestimabile del suo amore lontano, il trovatore accetterebbe di patire «comme un supplice de Tantale le fait d’être prisonnier en pays sarrasin, à proximité de celle qu’il aime».
 
15. Iratz e jauzens. Cioè «dans l’état paradoxal caractéristique d’un amour sans issue» (Spitzer). L’ossimoro è la figura rappresentativa di tale stato (cfr. pres / lonh, v. 25; lonhdas / vezis, v. 27).
 
16. s’ieu ja la vei l’a. Una parte della tradizione ha la variante quan veirai cest’a., forse dovuta ad influsso del v. 30. La lezione adottata, comunque, risponde meglio alla prospettiva di pura eventualità in cui l’evento è generalmente considerato (cfr. n. al v. 28), come ha fatto opportunamente notare A. Burger (pp. 778-9).
 
19. pas. Alcuni codici presentano la variante portz, che la Lejeune accoglie nel senso di “porti”, intendendo quelli dai quali ci si può imbarcare per la Terrasanta. Si tenga tuttavia presente che il termine significa spesso anche “passi montani”, sicché assumendolo resta opinabile la scelta dell’accezione marinaresca.
 
20. no·n sui devis. Cfr. Cercamon, Quant l’aura doussa s’amarzis, v. 33: «Quar de s’amor no suy devis».
 
23. l’alberc de lonh. Due codici hanno la variante l’amor de lonh, accolta e difesa dalla Lejeune, che nella parte ecdotica del suo lavoro opera talvolta brillantemente sui contesti ricavandone dati in ordine alla struttura tecnica complessiva della canzone. L’osservazione da questo rispetto più interessante è quella che l’elemento strutturale de lonh si specifica come amor de lonh almeno una volta in ogni strofa. Farebbe eccezione, secondo la lezione della maggior parte dei testimoni, soltanto la strofa presente: tale smagliatura in una trama formale altrimenti ineccepibile sarebbe inaccettabile e imporrebbe l’accoglimento della variante minoritaria. Nel testo restaurato dalla Lejeune (per amor Dieu l’amor de loing) Rudel dichiarerebbe sua gioia suprema il mendicare, per l’amore di Dio, l’amore lontano: «demander à son terrestre amour de loin l’amour de loin qu’il lui témoigne». La «trouvaille de style» consistente nell’unire l’amore terreno («fût-il lointain») e quello divino («fût-il formulaire») non sarebbe stata compresa dalla maggior parte dei copisti. Francamente, tale «trouvaille» non sembra un gran che, né può costituire l’elemento decisivo per la scelta fra le lezioni concorrenti. Ben più valido è certo l’argomento strutturale, ma neppure questo incontrovertibile. Nel verso non manca, infatti, in assoluto il sostantivo amor, anche se inserito in altro sintagma e separato da de lonh: si potrebbe allora pensare a una scissione e divaricazione dei componenti lessicali della formula in questa sede. Poiché inoltre della formula amor de lonh si registrano due occorrenze nelle strofe sesta e settima, una sua attenuazione compensativa in quella presente e centrale non compromette irreparabilmente l’equilibrio strutturale.
 
28. La straordinaria abbondanza di varianti nella tradizione allude chiaramente ad una lezione originale di non immediata comprensibilità. In particolare, in luogo del sintagma bels digz accolto da tutti gli editori, è ben attestato (direttamente o attraverso alterazioni che lo postulano) il sintagma cortes ginh (o gen o gieinh), nel quale il sostantivo (INGENIUM) vale «abilità, astuzia» ed è usato da Bernart de Ventadorn a proposito di difficoltà amorose («parlar degram ab cubertz entresens, / e, pus no·ns val arditz, valgues nos gens!», Can l’erba fresch’ e·l folha par, vv. 47-8; l’intero sintagma si trova in Folchetto di Marsiglia, XVIII, v. 41: «qu’us cortes gienhs de Dieu fo»): lezione indubbiamente «difficilior» (se n’è accorta la Lejeune e ne ha tratto le debite conseguenze A. Burger, p. 778), il cui ripristino nel testo comporta necessariamente — per esigenza metrica — il recupero anche della variante jauzis ad essa associata in due testimoni. Variante, questa pure, di notevole interesse, trattandosi di forma verbale al congiuntivo imperfetto, con valore di condizionale: modo opportunissimo in relazione ad evento incerto — ma considerato del tutto improbabile — non meno di quelli a cui si riferiscono gli «ottativi irreali» fos (vv. 14, 33, 35) e resembles (v. 42).
 
31 s. Il bene della vicinanza non può che accrescere (raddoppiare) il male dell’irraggiungibilità, intensificando la percezione dolorosa di un’invalicabile distanza che è dato permanente e irrevocabile dell’amor de lonh.
 
33. Il motivo del pellegrinaggio, come quello della manna in Quan lo rius, vv. 20-21, va inteso «par le transfert de concepts religieux à la passion humaine» (Spitzer). Il ricorso a metafore tratte dalla religione fa parte di quel cristianesimo secolarizzato su cui si fonda l’amore trobadorico. Tali argomenti non sono però condivisi dalla Lejeune, che interpreta pelegris come “crociato” e vede nel passo un’allusione alla seconda crociata: tutto il componimento sarebbe per lei, del resto, «une chanson de croisade en même temps qu’une chanson d’amour».
 
34. mos fustz e mos tapis. Si tratta degli attributi classici del pellegrino. Secondo la Lejeune il tapis di Jaufre sarebbe qualcosa di alquanto diverso dall’umile schiavina dei pellegrini qualunque: «une étoffe épaisse richement décorée qui, jetée sur les épaules, faisait office de protection et qui devait servir aussi pour s’asseoir et se coucher».
 
36. tot quant ve ni vai. Espressione formulare la cui origine, come quella di altre consimili, sta certo nella Bibbia (cioè, nel Genesis: cfr. L. Spitzer, in «Romania», LXXVII, 1956, p. 112) anche se, come osserva la Lejeune, non è dato reperirvene una identica. Per lo Zorzi, è proprio questo «venire e andare» il «tema-chiave della poesia di Jaufre Rudel», essendosi il principe di Blaia ripetutamente immaginato nell’atto di andare e venire in rapporto al suo amore: che sarebbe poi da interpretare alla luce del panteismo della scuola di Chartres (ogni amore rifluisce in Dio, da cui promana).
 
37. formet. Propriamente “creò”, con esplicito riferimento a Genesis, II, 7 («Formavit igitur Dominus Deus hominem de limo terrae»): dato, questo, che corrobora la tesi spitzeriana di cui alla nota precedente. La Lejeune rifiuta questa lezione, sembrandole «difficilior» la variante fermet che introduce un’antitesi «mouvement - fixation» col v. 36.
 
38. L’interessante ipotesi di una pressoché sistematica abolizione nella tradizione manoscritta trobadorica di originarie lezioni dialefiche prospettata da M. Perugi (Le canzoni di Arnaut Daniel, I, p. 3 ss.), sulla base di una ingente casistica nella quale risulta variamente persuasiva, non credo lo sia del tutto nel verso presente (mi don poder, que eu cor ai) e neppure nel successivo (que eu veya s’amor de lonh).
 
39. qu’ieu veia sest’a. La variante qu’en breu veia l’a. è solidale con quella di cui alla nota al v. 16, accolte entrambe dalla Lejeune perché a suo giudizio l’incertez.za rudeliana riguarderebbe soltanto il tempo del futuro incontro. Ma gli ostacoli che vi si oppongono sono tali (vv. 18-20) da far dubitare, a mio parere, il poeta anche della possibilità che esso si verifichi. A parte queste opinabili considerazioni, mi sembra in ogni modo opportuna proprio a questo punto della canzone la dilatazione della formula amor de lonh in sest’amor de lonh: a rilevare la specificità ontologica dell’amore nell’atto di chiederne la visione verace.
 
40. en tals aizis. Propriamente, aizi è «ambito di stretta e diretta pertinenza, dominio e dimora riservata» (Roncaglia). Ma sull’intero campo lessicale, tra i più importanti del linguaggio trobadorico, al quale il termine appartiene, è da vedere l’ampio studio di R. Dragonetti: Aize et aizimen chez les plus anciens troubadours, in Mélanges de linguistique romane et de philologie médiévale offerts à Maurice Delbouille, II, Gembloux, 1964, pp. 127-54. La variante locs aizis è banalizzazione poligenetica indotta da Pro ai del chan, v. 50.
 
43. lechai. Propriamente “leccone”. Ha perfettamente ragione R. Lejeune rilevando che la traduzione di Jeanroy («avide») priva il termine «d’une partie de sa substance», e lodando Spitzer che ha visto in esso «une sorte d’antiphrase paradoxale». Antifrasi che però sussiste se si tratta davvero di una «gloutonnerie [...] toute métaphysique». L’impiego di lechai sarebbe invece soltanto sconveniente, da parte del principe di Blaia, se riferito al suo amore per una dama d’alto rango o addirittura per la regina (anche se «di liberi costumi» [Santangelo]).
 
44. deziron. L’interpretazione spitzeriana di lechai trova conferma nel valore semantico di «sehnsuchtsvoll» che l’Appel assegna a deziron (che qui è parificato a lechai) in Bernart de Ventadorn (Glossar, s. v.).
 
47. atahis. Lezione congetturale, preferita da Jeanroy a quelle offerte dai manoscritti (tant ais, tant ahis, tot tais, aital ecc.) e da lui considerata sostantivo maschile corrispondente ad ataina. Ben più persuasivamente, Roncaglia la spiega quale forma del verbo atahinar “impedire”. Tanto R. Lejeune quanto R. T. Pickens hanno procurato di evitare l’emendamento: la prima accettando ahis, da ahir «haïr», il secondo, invece, opinando che «the possibility that tai(n)s may be “authentic” must be admitted» (p. 169), nel significato di «delay, postponement» (p. 267). Tentativi, francamente, poco persuasivi: l’uno, perché sembra arbitrario attribuire ad ahis il senso di «refusé», anzi «cruellement refusé»; l’altro, perché il contesto non postula «differimento, rinvio», ma «impedimento», cioè ostacolo permanente e insormontabile. L’opportunità della correzione, invero, più ancora che sulla inammissibilità (forse non asseribile in assoluto) dell’una o dell’altra delle lezioni attestate, si fonda sulla sua intrinseca pertinenza e plausibilità, che dissolve senza residuo nel confronto la credibilità (già di per sé modestissima) di quelle lezioni, mentre n’evidenzia l’eziologia di maldestri conati di trivializzazione.
 
48. Il motivo della fatagione condizionante si trova già in Guglielmo IX («qu’enaissi fui de nueitz fadatz, / sobr’un pueg au», Farai un vers de dreit nien, vv. 11-12), ma Rudel ne attribuisce, precisando quel che nel suo predecessore resta indeterminato, la responsabilità al padrino di battesimo. Per Spitzer questi sarebbe l’equivalente mondano dell’ostacolo dei mistici: «cet obstacle est ce qui empêche en nous l’union mystique — l’éloignement est paradoxalement consubstantiel avec le désir de l’union». Diametralmente opposta è l’interpretazione realistica della Lejeune, che ravvisa il precedente della predestinazione rudeliana all’amore non corrisposto nella sorte di cui si lagna il duca d’Aquitania («anc d’aquo qu’amiei non jauzi» e «vuelh so que no puesc aver», Pus vezem, vv. 14 e 20). Poiché il nonno di Rudel ebbe rapporti di una certa familiarità col primo trovatore, la Lejeune suppone che possa essere stato proprio questi il padrino di Jaufre, ritenendo che l’audace ipotesi trovi conferma nei fatto che i versi conclusivi di Lanquan li jorn si presentano come «un petit centon» ricavato dal canzoniere di Guglielmo.

 

 

 

 

 

 

 

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