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Boni, Marco. Sordello, Le poesie. Nuova edizione critica con studio introduttivo, traduzioni, note e glossario. Bologna: Palmaverde, 1954.

437,023- Sordel

1. Per re: con una negazione precedente o seguente vale «per nulla», «in nessun modo», «a nessun patto» (cfr. V. CRESCINI, Manuale per l’avviamento, Milano, 1926, gloss.).
 
2. qu’ ... non: equivale a «in modo che non», «senza che»: cfr. S. W., VI, p. 610, 3. Quando l’espressione segue ad una proposizione negativa, come in questo caso, regge di regola il congiuntivo: cfr. Bernart de Ventadorn, canz. Ab joi mou, v. 18-19 c’anc nulhs om mo joi no·m enquis, / qu’eu volonters no l’en mentis (ed.C. APPEL, Halle, 1915, p. 3-4); Folquet de Marseilla, canz. Tan mou, v. 27-28 que messonja no·s pot cobrir / que no mueira qualque sazo (ed. S. STROŃSKI, Cracovie, 1910, p. 20-21). Quando invece segue a una proposizione affermativa regge di solito l’indicativo: cfr. Folquet de Marseilla, canz. En chantan, v. 26-28 qu’om mi parla, manthas vetz s’esdeve / qu’ieu no sai que /e·m saluda qu’ieu no·n aug re (ibid., p. 29); Peire Raimon de Tolosa, canz. No·m puesc sufrir, v. 44-46 e l’ardimen e·l sen e la vertut / ai mes en lieis, que no·m n’ai retengut / ni pauc ni pro ... (ed. A. CAVALIERE, Firenze, 1935, p. 54). Un caso particolare, in cui è unita col condizionale, si ha nei v. 12-13 della canz. Can l’erba di Bernart de Ventadorn: lairo m’en poirian portar / que re no sabria que·s fan (ed. APPEL, p. 220).
 
4. ses cor camjar: letteralmente «senza cambiare il cuore»: locuzione equivalente al ses cor vaire che ricorre altrove (V, v. 2).
 
7. lh: va riferito, mi sembra, a amor del v. 1 (e cfr. v. 3 e v. 11). - grazisc: grazir alcuna re ad alcu vale «render grazie (o esser grato) a uno per una cosa»: cfr. Gaucelm Faidit, Del gran golfe, v. 11-12 lo tornar e l’onranza / li grazisc, pos el m’o cossen (ed. C. APPEL, Prov. Chrest., Leipzig, 1930, p. 112); Peire Raimon de Tolosa, canz. Atressi cum la candela, v. 20 meilz li dei ma mort grazir (ed. CAVALIERE, p. 22); Peire Bremon Ricas Novas, canz. So don me cudava bordir, v. 4 ce no m’o degna grasir (ed. J. BOUTIÈRE, Toulouse-Paris, 1930, p. 7). Cfr. S. W., IV, p. 180, 3; APPEL, Prov. Chrest., gloss. -lo ... tray: per mal traire v. V, v. 42 e nota relativa. Il De Lollis qui ha qu’eu: ma C ha chiaramente quieu (qeu con i sovrapposto al q).
 
8. aten: atendre vale qui «sperare»: cfr. Peire Raimon de Tolosa, canz. Si com l’enfas, v. 38-39 ... si no fos jauzimen / qu’atent merce ... (ed. CAVALIERE, p. 101), e canz. Tostemps aug, v. 5-6 e si·lh fin joy de lieys en cuy m’enten, / q’ieu plus aten (ibid., p. 107).
 
11. mi dey ... lauzar: se lauzar de vale «esser contento di...» (S. W., IV, p. 343, 8 «zufrieden sein»). Una frase analoga si ha nella canz. Ar mi posc di Peire Cardenal, v. 1 Ar mi posc eu lauzar d’amor (ed. K. BARTSCH, E. KOSCHWITZ, Chrest. prov., Marburg,1904, col. 191).
 
16. La costruzione normale sarebbe: gardan que sos b. p. non chaya. È un caso di attrazione, di cui si hanno molti esempi. Su questa e altre forme di attrazione cfr. A. STIMMING, Bertran de Born, Halle, 1879, p. 236, n. al v. 1 del n. 4; O. SCHULTZ-GORA, Altprov. Elementarbuch, Heidelberg, 1936,§ 211; S. STROŃSKI, Le troub. Elias de Barjols, Toulouse, 1906, p. 47 e seg. (n. 43, testo III); G. BERTONI, I trovatori d’Italia, Modena, 1915, p. 486 (n. al v. 8 del n. I) e p. 530 (n. al v. 17 del n. XXVI); A. MUSSAFIA, Zur Kritik und Interpretation rom. Texte, in Sitzungsberichte d. Kais. Akad. d. Wiss. di Vienna, Phil. - hist. Klasse, CXXXIV, 1895, IX Abh, p. 23 e segg. Cfr. anche gli esempi citati dal CAVALIERE, nel glossario della sua ed. di Peire Raimon de Tolosa. Ne troveremo altri esempi anche in Sordello.
 
17. ieu fatz: così legge il ms. C, e non vi è alcuna ragione di mutare — come ha mostrato il MUSSAFIA, ibid., p. 15; e con lui è d’accordo lo SCHULTZ-GORA, ibid. — tanto più che la lezione è indirettamente confermata dalle lezioni sicuramente erronee — anche perché rendono il verso ipometro — aci fas di T e qui fas di R (nate forse dalla varia trasformazione di una lezione corrotta per la caduta del per iniziale), ove sempre il verbo è in prima persona. - orguelh: la frase faire orguelh significa «mostrarsi orgoglioso», «mostrarsi troppo ardito» (cfr. S. W., V, p. 519, 1 «anmassend sein, sich hochmüthig, spröde zeigen»); è una costruzione analoga a faire ardimenenganesfortz, ecc. Il Mussafia parafrasa: «ich weiss, es ist verwegen von mir [dem Geringfügigen] sie [die Hochstehehende] zu lieben...». Per il concetto cfr. Peire Raimon de Tolosa, canz. De fin’ amor, v. 21-22 E sai que fas ardimen et orgoil / s’eu dic que·us am (ed. CAVALIERE, p. 31).
 
18. no·n puesc may. Il DE LOLLIS traduce (Vita e poesie di Sord., Halle, 1896, p. 284): «non ne posso più»; ma è una traduzione che non coglie il senso della frase. Bene invece rende il senso il MUSSAFIA, ibid.: «ich kann aber nicht anders». Su questo significato della frase cfr. S. W., VI, p. 409, 5, dove è citato anche questo passo di Sordello. Si potrebbe però anche tradurre, forse (ma, credo, men bene), «io non ci ho colpa»; senso per il quale cfr. S. W., VI, p. 409, 6. Per il concetto cfr. Bernart de Ventadorn, canz. Non es meravelha, v. 21 Eu que·n posc mais, s’amors me pren...? (ed. APPEL, p. 189); passo che S. BATTAGLIA, nella sua edizione delle liriche di Jaufre Rudel e di Bernart de Ventadorn (Napoli, 1949, p. 211) traduce: «Che posso io fare, se amore mi imprigiona...?».
 
21. La scarsa attitudine dei ricchi ad amare profondamente e la preferenza che le dame debbono quindi dare ai poveri sono motivi abbastanza comuni: cfr. la canzone di Azalais de Porcaraigues, v. 17 e segg. (ed.O. SCHULTZ-GORA, Die provenzalischen Dichterinnen, Leipzig, 1888, p. 16); la canz. No sap per que di Guilhem Montanhagol, v. 14 e segg. (ed. J. COULET, Toulouse, 1898, p. 131); e il partimen di Esteve, v. 13 e segg. (ed. K. BARTSCH, Denkmäler d. prov. Lit., Stuttgart, 1856, p. 132).
 
23. ric home: il NAETEBUS, rec. al vol. del DE LOLLIS, in Archiv f. das St. d. n. Spr. u. Lit., XCVIII, 1897, p. 206, preferirebbe leggere con T rics homes (da unirsi naturalm. a cen) a causa del plurale del v. 24.
 
29. mais ... trac: cfr. il v. 7; per trac cfr. CRESCINI, Manuale, p. 110.
 
32. aver captenemen: aver captenemen è usato qui nel senso di se captener, «condursi», «comportarsi»: letteralmente «so comportarmi». Si potrebbe accogliere anche la lezione di R T e aver bel c.; ma mi sembra una lectio facilior.
 
33. que·m: equivale a ab la qual me. Per questo uso della congiunz. que in sostituzione del relativo cfr. F. DIEZ, Grammatik der roman. Sprachen, Bonn, 1882, p. 1040. - ·m fora gen: m’es gen, «mi piace»: cfr. S. W., IV, p. 101, 4.
 
38-39. fai va riferito tanto a aculhir, quanto a solatz e a semblan; ma nel tradurre è assai difficile mantenere un unico verbo. Solatz si può forse tradurre qui «conversazione», o forse anche «familiarità»: cfr. per questo significato S. W., VII, p. 774, 4. La locuzione faire solatz è comunemente usata nel senso di «accompagnare» (S. W., VII, p. 776, 9: «begleiten»): di qui si potrebbe arrivare anche al senso di «compagnia», il che permetterebbe di far dipendere da fai i tre nomi nella traduzione («e la gaia compagnia... che mi fa») evitando l’inversione di termini a cui sono stato costretto. Sull’evoluzione semantica di solatz cfr. A. JEANROY, J. J. SALVERDA DE GRAVE, Poésies de Uc de Saint Circ, Toulouse, 1913, p. 185 e segg. (n. a IX, 28). Faire bel semblan vale «mostrare bel sembiante», «fare (mostrare) un bel viso», «mostrare un viso affabile»: è locuzione assai frequente: basti citare Bernart di Ventadorn, canz. Pois preyatz, v. 53 vos me fatz bel semblan (ed. APPEL, p. 208; il BATTAGLIA, ibid., p. 222 traduce «fatemi un bel viso») [e cfr. di Bernart anche: canz. 15 v. 35 e 27 v. 28]; Arnaut de Maroill, Dona genser, v. 105 e·l bel semblan que·m fetz al prim (ed. CRESCINI, Manuale, p. 201); Peire Raimon de Tolosa, canz. Anqera·m vai, v. 36 Mas si·m fezes un bel semblan (ed. CAVALIERE, p. 39).
 
40. anava preyan: anar in unione con un gerundio, come è noto, rafforza il verbo che accompagna, dandogli un senso iterativo. Il costrutto è tanto frequente che non occorre qui citare esempi: cfr. L. R., II, p. 78; APPEL, Bernart de Ventadorn, gloss., e Prov. Chrest., gloss.; CAVALIERE, Le poesie di Peire Raimon de Tolosa, gloss. La cobla aggiunta dopo questo v. da C, che sembra una parafrasi della cobla quinta, è certamente spuria.
 
44. auze: lo JEANROY, rec. al vol. del DE LOLLIS, in Revue critique d’hist. et de littérat., 1896, XLII, 2, p. 286, ricordando che in antico provenzale la concordanza dei tempi non è sempre rispettata, propone di leggere auzes.
 
45. ela es. Dopo varie incertezze, mi son deciso ad adottare la lezione di R, che si intravvede anche nella storpiatura di T, e a relegare nell’apparato l’elays di C, mantenuto dal De Lollis, a proposito del quale già aveva espresso dubbi lo SCHULTZ-GORA, loc. cit., e che è forma del tutto eccezionale. La s finale potrebbe spiegarsi facilmente come un caso di elisione aferetica, di cui non mancano, anche proprio per es, gli esempi, anche se rari (Boeci, v. 161 filla’s, v. 171, 176, 243 bella’s, v. 248 zo’s, e — il caso per noi più interessante — v. 162 e 245 ella’s; Leys d’Amors, passo cit. dal CRESCINI, Manuale, p. 340, l. 59 so’s); sì che si potrebbe arrivare a una lezione ela’s. Ma è assai difficile spiegare la presenza dell’y.
 
46. asaya: lo SCHULTZ-GORA, loc. cit., osserva che qui era da mantenere la lez. di C essaya. Ma la lez. essaya si trova solo nella cobla spuria che C aggiunge dopo il v. 40: nella quinta cobla autentica che segue C ha asaya, lezione data concordemente anche da R e da T, e che è quindi da mantenere.
 
47. alcus sembra poco soddisfacente al LEVY, rec. al vol. del DE LOLLIS, in Zeitschr. f. rom. Phil., XXII, 1898, p. 256, che dubita se non si debba emendare in alques, oppure sostituire con la lezione di T (al cor).
 
48. fay. Accolgo nel testo, seguendo lo SCHULTZ-GORA, loc. cit., e il NAETEBUS, ibid., la forma fay, data da C nella cobla spuria, e che si intravvede, storpiata, nel fae di T in questo verso, perché una forma ay per la 3ª pers. sing. di aver non è in alcun modo attestata. Però è da notare che C R la danno concordemente in questo verso: sicché resta sempre qualche dubbio che ay possa mantenersi, come forma del tutto eccezionale, dovuta alla rima (forse per analogia con fai,estai,vai,plai,tai ecc., per cui cfr. CRESCINI, Manuale, p. 111?).
 
51. chanso[s]. L’emendamento è del NAETEBUS, ibid.

 

 

 

 

 

 

 

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