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Del Monte, Alberto. Peire d'Alvernha, Liriche. Torino: Loescher-Chiantore, 1955.

323,024- Peire d'Alvernha

Questa canzone è fra le più discusse di Peire. Qual’è il vieill trobar e quale il novel? Con chi polemizza il poeta? E perché polemizza?
Il COULET crede che la canzone sia composta contro Marcabru e quindi contro il trobar clus; ma la sua opinione, basata su un’interpretazione assai spericolata e non decisamente giustificata del testo, non è condivisa né da HOEPFFNER (Rom., 53, 130) né dallo JEANROY (La poésie lyrique, p. 37 ss.). E nessuna concretezza hanno altre ipotesi come quella dell’APPEL (Deutsche Literaturzeitg, 1901, 2964), secondo il quale questo componimento, come i vv. 18-21 di Cui bon vers, sarebbero diretti contro Bernart Marti (e il fatto che Bernart risponda a Peire fa supporre anche all’Hoepffner una polemica di Peire non contro di lui ma contro il suo maestro Marcabru). In realtà, lo stesso Peire è un seguace del «poetare chiuso» (cfr. VIII, 3 ss.; XII, 82 ss.) e un imitatore di Marcabru (cfr. specialmente XIII, 38 ss.); e questo stesso componimento non solo non adopera mai gli attributi peculiari al trobar clus, ma si rivela, per le rimalmezzo, le rime rare, i giochi verbali, l’estrosità metaforica, i modi allusivi, esponente di quello stile. Il KÖHLER (R. F., 64, 82), infatti, giudica il componimento una difesa del trobar clus, dandone però un’esegesi più volte arbitraria. E allora? Si premetta ch’è per lo meno eccessivo attribuire un valore di poetica a testi che riprendono talora semplicemente dei temi letterari (come quello del «vanto»). Ora, per decifrare questo sirventese, ci si può rifare alla risposta di Bernart Marti (ed. Hoepffner, 5). Bernart contrappone entier e frag: chans fragz o refragz è il cantus fractus, ma in tal caso dovrebbe riferirsi alla musica e il suo opposto sarebbe, in ogni modo, il chans plans, cantus planus. Per il resto Bernart accusa Peire di vanità riferendosi anche alla sua Cantarai d’aqestz trobadors (cfr. il v. 74 di Bernart e il v. 82 di Peire), e di leggerezza (v. 8: leujaria) e di menzogna (v. 20: truandia; v. 26: lecharia), dicendo che un vers de leujairia non può essere entier; e l’aurania, la vanità menzognera, di Peire è specificata in questa strofa:
 
E quan canorgues si mes
Pey d’Alvernh’en canongia,
A Dieu per que·s prometia
Entiers que pueys si fraysses?
Quar si feys fols joglares,
Per que l’entier pretz cambia.
 
Cioè: E quando Pietro d’Alvernia si mise come canonico nella canonica, perché si prometteva «intero» a Dio per poi «spezzarsi»? Perché da folle giullare mentì i propri sentimenti per cui muta il suo «intero» pregio.
L’Hoepffner traduce si feys fols joglares con «se transforma en fol jongleur», ma se fenher non può significare «trasformarsi», se non nel senso di «dissimularsi, fingersi», non in quello di «divenire»; onde muta anche l’interpretazione data finora dell’intera strofa. In essa s’è colto un riferimento biografico, secondo il quale Peire era un canonico e poi si fece giullare. Ora in Al dessebrar del païs Peire dice:
 
48      mes mi fora en la canonia.
 
È perspicuo che Bernart ripete quasi esattamente l’espressione di Peire: par dunque ch’egli mistifichi un’allusione di una canzone di Peire, proprio come questi aveva fatto nei riguardi dei trovatori di cui parla nella sua rassegna caricaturale. Bernart, adottando lo stesso procedimento, ha attribuito realtà biografica a una immagine, dando per «fatto» ciò che Peire dichiara che «avrebbe fatto». In ogni modo, che ci si ostini nell’interpretazione tradizionale o che si condivida la nuova, dalla strofa ora esaminata di Bernart è perspicuo che i termini entier e frag sono riferiti da Bernart non più al contenuto e alla forma dei componimenti poetici ma alla situazione sentimentale. Ora, nell’estetica scolastica, in cui il pulchrum e il bonum sono identificati (Summa Theologiae, I, qu. 5, art. 4), una delle condizioni della pulchritudo è l’integritas sive perfectio, mentre quae diminuta sunt, hoc ipso turpia sunt (S. Th., I, qu. 39, art. 8). E il pulchrum, con la sua debita proportio sive consonantia e la sua claritas, oltre che con l’integritas, porta la ratio alla cognitio (S. Th. I, qu. 5, art. 4). Nei termini dell’estetica scolastica si possono riconoscere quelli dei trovatori (cfr. KÖHLER, Neophil., 37, 202), corrispondendo entier e frag a integer sive perfectus e a diminutus. È d’altra parte ovvio che l’identità della terminologia non significa identità di contenuto concettuale — né infatti il Köhler riesce a un’interpretazione del sirventese di Peire da questa visuale. La ratio dei trovatori è il sen, la cognitio è il ioi d’amor, ch’è fonte della virtus cavalleresca, la cortezia, ma che è attingibile solo mediante la dedizione alla donna con l’assolutezza propria dell’etica feudale. Da quanto detto appar dunque che entier viene a significare «nella propria integrità e assolutezza spirituale» e frag diventa epiteto di chi «ha infranto quest’integrità e assolutezza spirituale, rinnegando la propria totale dedizione a qualcuno», e la colpa imputata a Peire è quella di «dissimulazione e incoerenza dei propri sentimenti». Ora, la canzone di Bernart pare una ritorsione, benché non personale, di quella dell’Alverniate. Questi condanna coloro che appaiono enigmatici, perché non seguono una via ininterrotta ma saltano di qui e di lì e adoperano qualsiasi parola per esprimersi. Questi concetti appariranno agevolmente intelligibili nella luce in cui li si è prospettati e in cui debbono interpretarsi. Chi non segue sempre una via è «quegli che non si dedica totalmente a qualcuno o a qualche cosa», chi salta di qui e di lì «quegli ch’è incoerente nei propri sentimenti», chi non si cura di selezionare la propria espressione «quegli che s’abbandona con superficialità alle proprie reazioni affettive e ai modi più immediati di esprimerle». Peire condanna quindi coloro che non si sono imposti una disciplina sentimentale, castigando nella coerenza e assolutezza della propria integrità e dedizione amorosa le contrastanti e dissipate parvenze della prassi esteriore, e una disciplina artistica, depurando al severo vaglio delle espressioni di quest’unica condizione sentimentale la facile immediatezza dell’esprimere grezzamente il mutevole atteggiarsi dei propri affetti. Secondo Peire, alla mancanza d’integritas spirituale e stilistica s’accompagna una mancanza di claritas, una sgradevole oscurità che non è quella del trobar clus, volontaria, intesa a difendere la propria solitudine spirituale coi segreti dello stile, ma accessibile all’intelligenza eletta della «scuola» (cfr. DEL MONTE, Studi sulla poesia ermetica medievale, Napoli, 1953, p. 46 ss.), ma che appare invece inconsapevole, dovuta alla dispersione sentimentale e all’incuria stilistica e inaccessibile proprio ai cultori dei poetare ermetico. A essi l’Alverniate oppone se stesso, chiuso nel suo ioi e gaug, che procedono dalla sua bona sospeiso e che non possono non dare gran.
 
3. ZENKER, COULET e RIQUER seguono la lezione di V.
 
4. entiers: cfr. nota a VI, 34.
 
5. DEJEANNE propone di leggere qu’en sia.
 
6. COULET: estav’a razo = era con ragione che fu così.
 
7. tenh... e·l pan e·l coutel: possiedo tutto l’occorrente. Cfr. GUGLIELMO DI POITIERS, ed. Jeanroy, 10, 30: nos n’avem la pessa e·l coutel.
 
8. apanar: nutrire. Cfr. LEVY, Pet. Dict., s. v. Si noti il gioco di parole con pan.
 
9-11. ZENKER: que d’est mestier s’an levat capairoses acordier que no·s rompa·ls (?) semdiers; — qu’ieu dic dese e mostr’ els faitz no vers. Ma non tenta neanche di correggere la lezione manoscritta flagrantemente corrotta né d’interpretare (né lo tenta il LEVY; cfr. SW, s. v. capairo). Il DEJEANNE emenda il v. 6 Qu’ieu dic que nier si mostra·l fatz obriers e traduce: per fare questo mestiere si son levati (cioè son pervenuti alla notorietà) degli individui (dei cappelloni, dei poeti presuntuosi e sciocchi) noncuranti di tenersi nel dritto sentiero; e io dico che pieno di perfidia (rozzezza) si mostra lo sciocco operaio. Ma l’interpretazione di s’an levat capairo è assai stentata e altrettanto arbitrario l’emendamento fatz obriers. Il COULET legge il v. 9: que d’est mestier s’a·n levat capairo; corregge il v. 11 in qu’ieu dic estier e mostr’els faitz no niers; e traduce: se, in ragione di questo ufficio, che ho assunto, il nostro uomo ha posto il cappello di guerra, senza accordo possibile tra noi, non è una ragione perché io abbandoni la via che ho tracciata. Affermo del resto e mostro coi fatti che sono ben chiari ecc. Già accettare una simile complessiva interpretazione esige molta buona volontà; ma, soprattutto, è impossibile intendere levar capairo come «coiffer le chaperon» che significa giusto il contrario, e l’emendamento estier non è giustificato in alcun modo dagli elementi largiti dai mss. Il RIQUER, seguendo il testo Zenker, ma con le correzioni del Coulet al v. 11, traduce: che in questo bisogno si son tolto il cappello (ma che significa? !) senza preoccuparsi che non si rompa il sentiero; io dico, inoltre, e lo dimostro con fatti non oscuri, che ecc., annotando che «rompersi il sentiero» deve indicare il rompersi del costume o della tradizione (ma cfr. vv. 1 e 4). Il KÖHLER, seguendo il testo Zenker, intende: persone incapaci (capairo) si son messe in folla, senza rendersi conto, che non ci si può fermare a metà strada; il che è arbitrario e monco.
Ora, risultato impossibile mantenere la lez. di V (capairo), se si adotta quella di E (en pairo), già si ottiene un senso: riguardo a questo mestiere hanno innalzato a modello (cfr. LEVY, Pet. Dict., s. v. pairo). A comprendere il verso seguente (letteralmente = che non si rompa il sentiero) soccorrono i vv. 21-22 di L’airs clars: qui de gaug a dezirier — [ben] tengua a dreyt so semdier dov’è perspicuo che tener so semdier significa «proseguire nella propria via, perseverare nel proprio sentimento». Si noti che deve far ciò chi de gaug a dezirier e che nella canzone in esame Peire contrappone agli avversari se stesso, il suo ioi. Romper lo semdier significherà quindi «interrompere la propria via, non perseverare nei propri sentimenti» (e si cfr. in qual senso adotta franher Bernart Marti nei versi già citati).
Si potrebbe anche intendere altrimenti. Dato che il v. 10 non si può emendare se non allontanandosi troppo dalla lezione ms. (per es.: ses acordier que no·s ronc’als seus diers = senza il patto che non si russi coi suoi denari), si potrebbe correggere il pairo del v. 9 in peiro (cfr., per il significato, SW, s. v.; cfr. anche XIX, 45), ché il trapasso di e in a è paleograficamente giustificato e la divergenza di E e V autorizza a supporre che già il loro archetipo fosse corrotto. Ne risulterebbe: hanno innalzato in un luogo elevato (cioè hanno posto in alto), senza pattuire che non s’interrompa la via verso questo luogo (cioè: il tramite a raggiungerlo, a intenderlo). Ma la prima interpretazione è di molto preferibile per il senso e per la coerenza con l’intero testo e con l’opera in genere di Peire.
Quanto al v. 11, se ottimo è l’emendamento del Coulet del vers dei mss., arbitraria è invece la sua congettura estier: eliminata l’erronea lez. di V che ripete la parola in rimalmezzo del v. 6. E dà que ner che col Dejeanne si deve correggere in que nier (e si noti il gioco nier... non niers). Quindi, s’intenda: poiché (o anche: le quali genti) hanno innalzato a modello in questo mestiere del poetare, senza pattuire che egli perseveri nel suo itinerario spirituale, colui che io dico che si mostra triste anche nei fatti non tristi ecc.
niers: COULET e RIQUER = oscuri; ma cfr. VI, 19: faitz niers. Anche qui insomma è una contrapposizione del proprio ioi all’altrui ira.
ten om: ha un valore di necessità, esprimendo un giudizio del poeta, o si riferisce a un pubblico più generico che non quello che invece lo esalta.
 
13. RAYNOUARD, Lex., II, 237: a un tenen s’en moc borrel = sur-le-champ il s’en émut bagarre; che non significa nulla: cfr. SW, s. v. borrel. KÖHLER: qu’a un tenen sen mot (= molt) borrel = il discorso di un (poeta) che dà importanza a un senso conciso e oscuro; il che è arbitrario. Per a un tenen (COULET: a un sen e = senza incoerenza e), cfr. LEVY, Pet. Dict., s. v. tener, BERNART DE VENTADORN, ed. Appel, 17, 21. Borrel è tradotto dallo ZENKER: läppisch; dal COULET: obscure; dal RIQUER: basta. Lo JEANROY propone o l’etimologia da burra nel qual caso significherebbe «rugueux» o da burrus e dovrebbe tradursi «de couleur sombre, terne», preferendo la seconda, perché i derivati da burrus hanno questo significato in più lingue romanze (cfr. RICHTER, Die Bedeutungsgeschichte der rom. Wortsippe burd, in Sitzungsberichte Ak. Wien, 1908, p. 11) e specialmente nei dialetti della Francia meridionale (cfr. MISTRAL, Trésor, s. v. bourret).
Secondo me borrel deriva invece da burra che s’adoperava col significato di quisquiliae, quidquidcadiae soprattutto nell’Aquitania (cfr. FORCELLINI, Lex., s. v.; MEYER-LÜBKE, REW, s. v.; PORENA, Il verbo abborrare, in Lingua Nostra, 14, 36) e significa «superfluo»; cfr. l’ital. scrivere in borra.
 
15. de Mauri en Miro: sono state finora considerate come due parole prive di senso indicanti: da un soggetto all’altro; tanto che il DEJEANNE e lo JEANROY propongono la correzione di Mauri in Mori, per ottenere un’esatta corrispondenza fra le due sillabe. Malgrado l’esattezza dell’interpretazione nella sua genericità, occorre però domandarsi perché il poeta inventi proprio questi termini, se cioè essi non hanno, pur nell’estrosa apparenza di toponimi fantasiosi, un loro significato. Perciò si corregge qui Mauri in M-ari (cioè: mi ari, da arire < adridere, cfr. TOBLER-LOMMATZSCH, Afr. W., s. v.) e si scompone Miro in Mi-ro (da roire), intendendo: chi passa saltando dal tema della buona accoglienza a quello della repulsa, della distruzione ecc. Ma si puòpur sempre intendere: da cosìa cosà, e simili.
 
17-18. ZENKER non traduce. DEJEANNE: Com del trebalh quecs motz fa·s messatgiers ecc. = De même (?), chaque mot est messager de torture (annonce que l’auteur s’est mis l’esprit à la torture) car il soumet une énigme à l’auditeur dans la maison (? ?). COULET: com el trebalh, que·ls motz fai messorguiers ecc. = (e deve anche cadere) se s’affatica a far mentire le parole e a fare un enigma della parola maiso. RIQUER, adottando la lez. di V fas al v. 17: quando faccio messaggiera del [mio] lavoro ogni parola, pongo in un indovinello la comprensione di... e, sulle orme dello Jeanroy, rinuncia a interpretare maiso. KÖHLER: in maniera che ogni parola riveli la tensione (poetica) in colui che costringa i membri della casata nell’ascoltarlo a una applicazione spirituale faticosa. Io intendo: chi s’esprime con parole non selezionate, pone l’intendere di casa nell’indovinare.
 
22. ZENKER: ieu son iratz, ma la rima dev’essere in -itz. DEJEANNE: formitz. JEANROY: arditz. COULET e RIQUER: iauzitz. Ma ogni emendamento è gratuito, largendo E la rima esatta. Si noti: raitz... premiers.
Il Dejeanne proponeva di restaurare il v. 22 in questo modo: Qu’us acropitz sols mi dira de no. E lo Jeanroy proponeva per i vv. 21-24:
 
Jeu soi arditz   e dic qu’ieu primiers so
De ditz complitz   vensen mos fatz guerriers
Que·m levon critz   c’anc no fon vertadiers
Que d’etz mos ditz   no m’en pu[e]sc tener pro.
 
La lezione di E, da me adottata, indica però che la lacuna è formata dal v. 21, né si può tentare una restaurazione.
 
23. guerriers: avversari. Cfr. LEVY, Pet. Dict., s. v.
 
24. Mss.: crim. L’emendamento è dello ZENKER.
me’n tenh pro: non me ne difendo, cioè non me ne curo; cfr. SW, s. v. pro; BERTONI, Trov. d’Italia, n. a 42, 58.
 
25-26. COULET, emendando il v. 26 menton tot entier per ecc.: dunque, benché la truppa che formano menta in tutto per i denti.
 
27. DEJEANNE: certo di fare meglio di ciò che è ed è stato fatto. Meglio: certo di possedere il meglio ecc.
 
28. DEJEANNE e COULET: e seguras. ZENKER, COULET, RIQUER: a sobriers.
 
30. Il DEJEANNE vi suppone un vanto della propria fecondità poetica.
en sazo: cfr. FOLQUET DE MARSEILLA, ed. Stroński, gloss., s. v. sazo: a sazo.
 
33-36.COULET: e se dico qualcosa che vada intorno ai giovani (se i miei canti giungono loro) (ma cfr. nota seguente) (che essi sappiano che) io vi rinuncio, perché una doppia gioia s’eleva per me (probabilmente quella d’essere stato un buon poeta e d’essere un buon cristiano), gioia d’una dolce spiga (la salute eterna), che è un gioioso pensiero, (una preoccupazione di felicità), per la quale buoni e malvagi m’avranno per amico (cioè i miei sentimenti cristiani m’impongono la carità, anche verso i malvagi). Ed è inutile insistere sulla gratuità di tale interpretazione..
 
33. E: aic, impossibile per la rima. L’emendamento è dello ZENKER.
que lur an enviro: ZENKER non traduce; COULET: che le (alla gioventù) conviene; RIQUER: che non giunga vicino a essa (alla gioventù). Ma lur non può riferirsi a ioven. Meglio, SCHULTZ-GORA, Lit.-Blatt., 1902, 73: wenn ich etwas sag, was sich auf sie (sc. bauzas) bezieht. S’intenda: se io dico qualcosa in comune coi bauzas, ecc.
Par quasi una replica all’accusa di Bernart. Ora si ricordino i versi di CERVERI DE GIRONA (ed. Riquer, 100, 16-18):
 
mey vers seran   loncs com cil que fazia
Peyr, ‘ab son gran, d’Alveryna, qui plazia,
car cascun an   d’una cobla·s crexia.
 
Non potrebbe questa cobla essere posteriore alle altre? Essa manca in V. Allora E ci avrebbe tramandato una redazione posteriore del sirventese? Sono domande che investono un problema finora mai neanche sfiorato e che forse parrà temerario proporre. In ogni modo, non è qui il luogo d’insistere in un simile discorso.
 
35. espic: è ripresa l’immagine del gran.
 
36. COULET: li mai. S’intenda: è così grande il mio ioi che indulgo a tutti, buoni e malvagi.
 
37. COULET: in questo mi sento potente e ne ho il giusto sentimento.
 
38. L’emendamento, necessario, è del DEJEANNE. RIQUER: m’asic = me acomodo; ma asic è 3ª perf. di asezer (o asire).
 
39. COULET: et a ioi ecc. = e a Joi e a Gaug attacco tutti i miei sentimenti; RIQUER: con allegria e gioia fisso i miei desideri.
 
40. COULET: et cel joi ric e gaug vuelh ecc. = e questo Joi e questo Gaug voglio che Dio me li accordi. RIQUER, accettando il solo emendamento di pic in ric: e con ricca gioia e desiderio (?) voglio che Dio me l’ottenga. Ora le prime sei sillabe del v. 40 sono eguali a quelle del v. 39. O il copista le ha erroneamente ripetute e allora non vale a nulla emendare la sola parola in rimalmezzo; o la ripetizione è un artificio del poeta. E questa è l’ipotesi più probabile. DEJEANNE, molto dubitativamente: il mio desiderio punge (ma pic non è 3ª ind. pres.) con gioia e allegrezza. E che Dio voglia dargli (al mio desiderio) soddisfazione con una gioia e un’allegrezza mutevoli (così forse che cessa d’essere profana per divenire religiosa).
Si può anche intendere: e voglio che io li solleciti con gioia e letizia: Dio me Io conceda.

 

 

 

 

 

 

 

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