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Radaelli, Anna. Raimon Gaucelm de Béziers. Poesie. Firenze: La Nuova Italia, 1997.

401,009- Raimon Gaucelm de Bezers

1. Un sirventes, si pogues, volgra far: si tratta, attenuata dalla manifestazione di (falsa) modestia, della classica propositio, assai diffusa nella lirica trovadorica. Sull’uso dei condizionale al posto del futuro caratteristico di queste formule d’apertura («farai un vers»), cfr. M.-R. Jung: «Le conditionnel marque la prise de conscience des poètes de travailler à l’intérieur d’une tradition. Leur poésie n’est plus «inconditionelle», mais soumise à la condition de cette tradition» (Rencontre entre troubadours et trouvères, Atti Montpellier 1992, III, pp. 991-1000, p. 992; cfr. inoltre Id., Ben feira chanso (PC 194,3), Misc. Rémy, I, pp. 101-108), Corrispondente all’esordio si trova al v. 41 la formula di conclusio: «Est sirventes ai ieu fach a ma guia», con cui RmGauc ribadisce la sua personale maniera di comporre scegliendo argomenti (so qu’om ve per lo mon a prezen) e forma (non er trop grans) determinati, lanciando nel contempo un invito, non sappiamo se raccolto, a perfezionare il suo sirventese, con l’aggiunta magari di nuove coblas centrate ognuna su questioni di attualità spicciola e latamente morali, come le sue.
Per questa formula esordiale, in cui al verbo faire o voler faire è unita l’indicazione del genere del componimento, si veda Vatteroni, Peire Cardenal (I), p. 203 alla nota a PCard 6 [BdT 335,8] 1-2: «A totas partz vei mescl’ab avaresa / gerra, per qu’ieu vueilh far un serventes».
 
2. quez agrades e plagues a la gen: cfr. PCard 18 [BdT 335,51] 4-9: «...pero no sai don / poirai penre que mi aon / a far sirventes entenden, / tal que non desplass’a la gen / s’ieu los repren de fallimen / on tug fallem...» (cfr. Vatteroni, Peire Cardenal (II), p. 189, nota al v. 4 sgg.: «...Cardenal tocca un nodo centrale della poesia morale e satirica di attacco personale [...]: la necessità di farsi capire e di persuadere, anche portando esempi di personaggi ben noti e particolarmente condannabili, e l’esigenza di non esporsi troppo alle loro possibili ritorsioni»). Il rilievo, con le debite proporzioni, può essere valido anche per RmGauc, anch’egli infatti vorrebbe comporre un sirventese che accontentasse tutti, composto con belhs digz e azautz motz, ma la sua volontà di ritrarre il mondo con sguardo moralisrico e severo, additando i vizi da testimone dei suoi tempi, lo rende consapevole di non poter riuscire gradito a molti: cfr. IV, 38-40: «...E sai que mal lor es / quant hom lo vers en chantan lur despon, / pero meinhs pres aquel que mais en gron».
 
3. mar no·l sai far, don m’es greu: le formule di modestia si diffusero grandemente dalla tarda antichità alle letterature romanze (cfr. Curtius, Letteratura europea e medio evo latino, pp. 97-100: «il riconoscimento, da parte dell’oratore, della sua debolezza (excusatio propter infirmitatem), della sua scarsa preparazione (si nos infirmos, imparatos... dixerimus: Quintiliano, IV, 1,8) discende dalle norme dell’oratoria forense che raccomandavano di disporre favorevolmente i giudici [...]»).
m’es: qui, come al v. 17 (valens) e come altrove nel canzoniere di RmGauc, il codice riporta una s minuta scritta sopra il rigo: si tratta di una pratica scrittoria tipica dell’amanuense di C, cfr. Monfrin, Le chansonnier «C», p. 296: «Lorsqu’il arrive au bout de la ligne et que l’espace est un peu juste pour achever le mot, il peut suscrire une lettre, particulièrcment le s final. Mais il étend cette pratique au cours de la ligne».
ben ni gen: iterazione formularia avverbiale: LR IV, 509 riporta la traduzione letterale “bien et gentiment”; così Azaïs.
 
4. azautz: cfr. LR, I, 161 “gracieux, agréable, élevé, convenable”. Sono le parole raffinate e acconce: Raimon dichiara che il linguaggio dei suoi sirventesi morali non è ricercato né i suoi dettati (digz) sono il frutto di raffinata maestria poetica, perché evidentemente alrrove è posto il suo talans.
triar: cfr. Mistral, II, 1045-1046: «trier, distinguer, choisir; séparer du troupeau; éplucher, écosser; fouler la vendange» e SW, VIII, 459 «wählen; herausfinden; aussondern; ausnehmen», da cui emerge, accanto ai significati “scegliere, selezionare”, il senso di “estrarre il meglio, distillare, decantare”, cfr. ad es.: Alegr II [BdT 17,2] 54: «Q’ieu sui cell quells motz escuma / E sai triar los fals dels avinenz»; RbAur III [BdT 389,40] 25-26: «Ben saup lo mel de la cera / Triar, e·l miels devezir».
 
5. trobars: adeguamento dell’infinito sostantivato alle norme della flessione. Jensen, Declension, pp. 49-50, rileva comunque diversi casi di infiniti sostantivati al caso retto che omettono -s morfematica (uso ammesso dalle Leys, ed. Anglade, III, pp. 87-89), sebbene si tratti di un numero di occorrenze relativamente meno frequente. Cfr. anche de sos parlars, obliquo plurale, al v. 40: «this infinitive may also, though more seldom, appear in plural form» (Jensen, Declension, p. 49).
ab maiestria: espressione con valore modale, frequente nel provenzale (cfr. Stimming, Bertran von Born, p. 248).
 
6. m’en lais tals horas que·n faria: Azaïs pone a testo «Per que men lais horas que no faria», omettendo tals e ovviando all’ipometria conseguente con l’inserzione di no, senza peraltro modificare di molto la traduzione: “C’est pourquoi je me laisse tantôt aller à ne pas le faire”. Cfr. SW, IV, 12: laissar que no “unterlassen zu”.
 
7. far n’ai un: scomposizione del futuro per farai (ne) un. Grafström riporta la medesima forma, con l’inserzione di una particella atona tra l’infinito e la desinenza, attestata in una carta albigese (far n’ai, 130,19, §49, a. Cfr. anche Schultz-Gora, Altprovenzalisches Elementarbuch, § 133 e Jensen, Syntaxe, § 557). Lo stesso procedimento è anche in IX, 36: «far m’ai». Azaïs corregge in «fag n’ai un», ma elimina così la corrispondenza esistente tra questo verso, in cui Raimon dichiara la sua ferma intenzione di comporre il sirventese, il v. 1 in cui aveva manifestato il suo desiderio (volgra far), e il v. 41 in cui afferma che il componimento è giunto al termine con la formula conclusiva «Est sirventes ai ieu fach».
e non er trop grans: la traduzione “non sarà gran che, ma...” evidenzia l’orgogliosa dichiarazione, celata sotto la formula di modestia, che comunque il sirventese sarà fatto aissi cum sai. In questo caso e assume una sfumatura concessiva e limitativa (cfr. Jensen, Syntaxe, § 801). Azaïs traduce: «et il ne sera pas trop long, comme je le sais».
 
8. quo ssai: una caratteristica della grafia del codice C è il raddoppiamento, all’interno di un’unità grafica (quossai), della -s- iniziale di parola, in special modo quando sia preceduta o seguita da un monosillabo, cfr. anche IV, 26 e V, 13 (cfr. Grafström, Graphie, § 80).
 
10. de so qu’om ve: vezer dà garanzia di autenticità alla testimonianza del trovatore, cfr. IV, 25: «Mas negus homs no vei...» e 32. Lo stilema adottato in apertura della seconda strofa, è frequente in posizione esordiale, si veda ad es. Marc XVII [293,17] 1-2: «Dirai vos en mon lati / de so qu’ieu vei e que vi» e Id., XXXII [BdT 293,32] 3-4: «segon l’entenssa / de so qu’ieu vei e vic». Pasero, nella nota a GlPoit II, 2 ([BdT 183,4] 1-2: «Companho non puosc mudar qu’eo no m’effrei / de novellas qu’ai auzidas e vei»), si richiama alla formula delle dichiarazioni giurate: «(p. es. Brunel, Chartes, 289,16: «R. Amelis dis per sagramen qu’el vi e auzi [...]»). Lo Scheludko, Beiträge, p. 57, rinvia da parte sua alle dichiarazioni di veridicità dei narratori di cronache mediolatine (per es. Ekkehard, Hieros. XXXV: «quod enim scimus loquimur et quod vidimus testamur [...]») e alla topica esordiale letteraria e cronistica» (Pasero, Guglielmo IX, p. 48).
Per hom forma pronominale con valore di soggetto indeterminato, il cui uso nella lingua dei trovatori è assai frequente e statisticamente alto, cfr. B. H. J. Weerenbeck, Le pronom on en français et en provençal, Amsterdam 1943, pp. 70-78.
 
11. home manen: inizia una nutrita serie di sintagmi composti da hom / home seguito o preceduto dall’attributo: home manen, hom(e) ric, home bos, hom valens, ome paupre, avol hom(e), che ricordano molto da vicino le tipizzazioni caratteristiche delle espressioni sentenziose o proverbiali.
Quanto alla declinazione, il sostantivo homo, homine dovrebbe presentare gli esiti degli imparisillabi ad accento costante, e cioè hom al nominativo sg. e home all’obliquo sg., ma frequentemente si trova nei codici la forma homs per il nominativo sg. (cfr. homs valens, v. 31), tanto che le Leys lo includono tra «los mots indiferens termenans en lo nominatiu singular amb s o ses s» (ed. Gatien-Arnoult, II, 162-164, ed. Anglade, III, 80-82); parallelamente, all’obliquo sg. si trova hom («fin da Arnaldo Daniello», Crescini, Manuale, p. 69; cfr. hom ric del v. 13 e hom valen del v. 15). Gli unici casi incerti riguardano il caso retto sg. di «home bo» (v. 14) e «avol home» (v. 27), in cui le esigenze metri che non permettono un intervento normalizzatore in hom (a meno di postulare se en al v. 14 e que avol al v. 27), che invece è stato operato da Azaïs il quale stampa «avol hom» senza nessun’altra modifica, rendendo in tal modo il verso ipometro di una sillaba.
 
12. a qui = a cui: è frequente nei canzonieri del XIII e XIV secolo l’impiego di qui per cui al caso obliquo o preceduto da preposizione (cfr. Grafström, Graphie, 43,2,b e nota a V, 16).
tolre mais que donar: tolre (spesso in dittologia sinonimica con raubar) e donar, appaiono frequentemente congiunti: cfr. ad es. AimPeg XXI [BdT 10,21] 49-50: «lo pretz qu’elh tolh e raub’ez embl’e pren / e compr’ades, e no·n dona ni ven»; DalfAuv [BdT 119,9] 14: «Cum cel que rauba e tol e pren e ren non dona»; e accanto ad altri verbi, in locuzioni simili: FqMars XIII [BdT 155,10] 38-39: «quar miels gazanh’e plus gen / qui dona qu’aicel qui pren»; Chanson Croisade, 3710: «Que mais vulh dar e toldre que prendre e querir». Il concetto, di origine paolina (riferito in Atti, 20,35: «Beatius est magis dare, quam accipere»), è sottolineato anche ne Le Savi, raccolta di sentenze attribuite a Seneca, 73-74: «Trop vulhas mais donar que querre / e servir que merces requerre» (cfr. D’Agostino, Le Savi, p. 48) e nella «Traduzione del Liber scintillarum di Beda»: «Meliers chauza es donar que penres» (cfr. l’edizione di A. Wahl, Die altprovenzalische Ubersetzung des Liber Scintillarum mit Einleitung und Glossar, München 1980, oltre a L. Borghi Cedrini, Annotazioni lessicali sul cosiddetto Beda, pp, 35-59).
 
16. si·l ve, ni·l au, ni es sos abitans: espressione che indica “aver qualcosa da spartire, avere a che fare con qualcuno”.
abitans: sul participio presente sostantivato (LR, III, 524 «hôte»), cfr. Jensen, Syntaxe, § 509.
 
16-17. abitans: abitar. esempio di cobla capfinida in cui la parola in rima dell’ultimo verso della cobla precedente è ripresa in corrispondenza “grammaticale” dalla rima del primo verso della cobla successiva. Cfr. Sakari, Guillem de Saint-Didier, p. 31.
abitar: cfr. LR, III, 523: «habiter, demeurer» e Mistral, I, 197 s.v. avita, abita (l.): «prendre racine».
 
18. home ric vil, escas e tenen: la critica all’avarizia si sviluppa lungo il corso di tutta la poesia provenzale, da Marcabru in poi, ed assume presto il valore di topos letterario (cfr. E. Köhler, Sociologia della fin’amor, pp. 39-79). Le testimonianze sono assai numerose, si veda l’ampio elenco di attestazioni presente in Calzolari, Guillem Augier Novella, nota a VIII, 2.
ric: in questo caso assume il significato di “ricco”, in senso puramente economico, piuttosto che di “nobile, potente, autorevole”, legato al senso originario proveniente dall’aggettivo germanico *rîki (cfr. Cropp, Vocabulaire courtois, pp. 93-97 e V. Piccininni, Analisi semantica di antico-provenzale «ric/ricaut», in MR, IV (1977), pp. 272-293).
vil: posto in forte contrasto asindetico con ric, vale per “miserabile, dappoco, di scarso valore”.
escas e tenen: dittologia sinonimica abbastanza frequente, cfr. SW s.v. tenen: “knauserig, geizig”, che riporta citazioni, tra gli altri, di AtMons II [BdT 309,1] 1125-1128: «E pueis seran escas / e tenen et yrat / car an menescabat / Per leugier sen lo lor»; DPrad, Quatre Vertutz Cardenals [BdT 124,II] 1503-1508: «Cor avareza moutas vetz / met en luec de me son mal vetz, / e fai ome aissi tenen / et escur que no val nien, / e fay retraire a las gens / qu’el es tempratz e contenentz».
 
19. aver jauzimen: insieme a tornar (en re) del verso successivo, è riconducibile ad un campo semantico strettamente collegato alla nuova mentalità mercantile: ha infatti il significato di “trarre profitto, fruire, godere (di un beneficio materiale)”, mentre tornar en re “avere un tornaconto in qualcosa, recuperare”. Il senso è sottolineato da perda e dans del v. 15, e proficharia del v. 22. La convinzione che la frequentazione di un ricco dovesse portare ad un’utilità materiale, era particolarmente diffusa nella seconda metà del XIII secolo, cfr. Guida, Jocs poetici, nota a I [BdT 226,8] 39-40: «c’om deu amar de senhor atertan son pretz co·l sieu pro», p. 80 (cfr. inoltre ibidem, p. 125, nota 38 e pp. 134 sgg.).
 
20. en re quez elh aja, tornar: cfr. Mistral, II, 1011, s.v. tourna: «v. restituer, donner de retour»; torne: «s.m. retour, soulte, ce que l’on rend en argent, pour égaliser un troc».
 
23. soplejans: LR, IV, 568 traduce con «suppliant» e Azaïs «soumis»; Levy, SW, VII, 822 riportando l’intera cobla aggiunge: «Hierher gehörendoch auch die beiden letzten Belege bei Rayn.: suppliant. Ist nich hierher auch die folgende Stelle zu setzen?»
 
25-32. In questi versi RmGauc pare giustificare l’agire del “malvagio” perché «fa so que deu, quar d’elh se tanh a far», quasi fosse imprigionato da una sorte-dovere alla quale non può sfuggire. Il «libro della vita» scritto da Dio, contenente i nomi dei predestinati fin dalla fondazione del mondo, è immagine biblica ben presente nel pensiero cristiano (Es 32,32; Sal 69,29; 139,16; Ap 20,12 sgg.), ma l’ammissione dell’ineluttabilità del destino dell’avol home che pare emergere in questi versi potrebbe far pensare che RmGauc conoscesse la dottrina della doppia predestinazione, diffusa nel IX secolo da Gotescalco, monaco di Fulda e studioso di S. Agostino. Secondo questa teoria, che misconosceva il valore della libertà, i buoni e i cattivi erano predestinati nella prescienza divina alla salvezza o alla dannazione: chi cadeva sotto il primo decreto non poteva dannarsi, come chi cadeva sotto il secondo, non poteva salvarsi, giacché Dio voleva salvi solo gli eletti e Cristo era morto solo per questi. Le condanne dei vari sinodi che seguirono, stabilirono definitivamente l’universalità della redenzione e negarono la predestinazione alla dannazione, imputata solamente alla malizia dell’uomo.
Il medesimo motivo si trova anche in GlMont V [BdT 225,11] 1-9: «On mais a hom de valensa / Mielhs si deuria chauzir / No fezes desconoyssensa. / Quar hom pros leu pot falhir / e·l malvatz, al mieu albir, / no falh, quan fai falhimen, / quar per dever yssamen / fan li malvat malestan / com fas bos fagz li prezan».
 
25. avol home: ha qui il significato di “malvagio” in senso anticortese ma potrebbe anche essere ricondotto al sintagma paolino mali homines.
 
26. croi ni desavinen: il significato di croi (“spregevole”) viene precisato attraverso l’accostamento a desavinen “sconveniente, disdicevole”. Sul suo impiego sostantivato cfr. Leys, che lo fanno rientrare tra «los motz estranhs li qual no son en uzatge de cominal parlar, mas solamen per alqus dictadors anticz que·ls han pauzatz» (ed. Gatien-Arnoult, II, 192; ed. Anglade, III, 102).
 
27. si tot: seguita dall’indicativo, è una delle congiunzioni più impiegare in provenzale per esprimere la proposizione concessiva; cfr. A. J. Henrichsen, Du latin à l’ancien occitan: la proposition concessive, Misc. Boutière, 1971, I, pp. 295-304.
 
28. d’elh se tanh a far: cfr. RmJord II [BdT 404,2] 50: «tot enaissi cum sap que·l tanh a far» e GcFaid XXXVIII [BdT 167,4] 72: «vos sabetz co·is tanh a far».
Per il senso, si veda Mistral, II, 944 tagne: «toucher, appartenir par le sang [...]; être nécessaire ou à propos, convenir, concerner, avoir rapport à»; SW, VIII, 54 intrans. e rifless.: «sich ziemen, passen»; DEC, VIII, 284 tànyer: «“pertànyer” ant. ... També és freqüent que a l’E. Mj. s’usi com a reflexiu». Per il costrutto se tanher de (per), Levy riporta l’espressione in Matieu de Caersi (Appel, Provenzalische Inedita, 193-195) [BdT 299,1] 74-77: «e·l corone e·l fassa lay sezer / en selh regne on non a desplazer, / quar aitals locx crey que de luy se tanha», ma mi pare che in RmGauc vada sottolineata la sfumatura di dovere ineluttabile, quasi di costrizione, secondo l’accezione “appartenir par le sang” di Mistral: al malvagio tocca di essere sottomesso al suo destino al quale non può sfuggire. Anche Azaïs pone l’accento sulla sua condizione inevitabile e traduce: «vu que c’est pour lui nécessité de le faire».
a far: la preposizione a seguita da infinito può indicare obbligo, necessità, dovere, cfr. Jensen, Syntaxe, § 690.
 
29. falhis: Azaïs stampa follis, creando una corrispondenza tramite figura etimologica con folhia in rima, e traduce: «fou est celui qui blâme folie».
Qui folhia equivale all’agire dell’avol home quando commette «lunh fach croi ni desavinen», come è detto al v. 26. Per il valore dato al termine, cfr. I, 5.
 
30. cortes cortezia: figura etimologica, resa ancora più incisiva dalla mancanza di hom che accompagna invece le altre tipologie umane prese in considerazione (ad eccezione di lo paupre del v. 23).
 
31. far ricx faitz: il sintagma, intensificato semanticamente dalla figura etimologica, è molto frequente nella lirica trobadorica, si veda I, 39 «bos faitz fazen» e, ad es. BgPal VII [BdT 47,10] 39, «e fai tans de ricx faitz valens»; RmJord I [BdT 404,1] 25: «Vostre ric fait fan vostre pretz melhor»; GlMagr VI [BdT 223,1] 11: «e dels onratz rics fatz q’il fan», etc.
vils faitz: in questo caso vil equivale a vilan, perché presso la società cortese tutto ciò che costituiva una minaccia ai valori fondamentali di «pretz, mezura, sen, cortezia, largueza», era rifiutato come «vilania» (cfr. R. Bezzola, Les origines et la formation de la littérature courtoise en Occident (500-1200), 1944-1963, t. II, 3e partie).
 
33. tal vetz calliei que degra mielhs parlar: ritorna il gioco degli opposita logici e lessicali, con cui Raimon mostra la sua preparazione retorica, attingendo anche al patrimonio della sapienza popolare, cfr. Fierabras, 2100: «e val mais bon calar que no fay fol parlar» e Speculum Juris (G. Durand, citato in LR, II, 288): «melius est tacere quam cum pudore loqui, juxta provincialium vulgare proverbium, quo dicitur: mais val calar / que fol parlar».
 
35. per so o dic: nel componimento organizzato su un impianto retorico evidente, la conclusione è affidata ad una frase di sapore sentenzioso, epigrammatico, che serve a rendere più incisivo e memorabile il messaggio dell’autore.
sen: il campo concettuale e semantico di questo termine è assai ampio, tanto che il suo significato può assumere sfumature diverse a seconda del contesto in cui si trova; qui vuol indicare “giudizio, buon senso” (cfr. anche nota a I, 38).
 
38. si pro li tenia: si sottintende callar, è cioè la ripetizione con variatio di «si·l valria mais callar» del v. 36: infatti tener pro + dativo ha il significato di “giovare, favorire, recar vantaggio o profino a qualcuno” (SW, VI, 565 «nützen, helfen»), cfr. ad es. Guida, Jocs poetici, I, 4: «E non ten pro a negun’autra gen».
 
39. enans: avverbio (“prima”) in rima equivoca con il sostantivo enans del v. 44, col significato di “progresso, occasione di perfezionamento”, e quindi anche “orgoglio, vanto” (cfr. LR, II, 95 e SW, 2,414).
guia: la forma con «l’absorption de -z- par un i tonique» al posto di guiza, costituisce una «rime fautive» che i trovatori utilizzavano frequentemente quando avevano bisogno di un’uscita in -ia (lo stesso vale per camia, cfr. Zufferey, Recherches linguistiques, § 16, p. 117). Il suo impiego in rima è infatti tollerato dalle Leys: «Item devetz saber que alqu mot son qu’om pot dire en doas manieras, quar es acostumat, e que aytant es acostumat li us cum l’autres coma: a ma guia, a ma guiza, ...» (ed. Gatien-Arnoult, II, 208; ed. Anglade, III, 112). La forma è attestata anche in documenti albigesi (cfr. Grofström, Graphie, § 56.2) e del Rouergue (cfr. H. Kalman, Étude sur la graphie et la phonétique des plus anciennes chartes rouergates, Zürich 1974, p. 76).
 
42. e si negu·i: per negu, forma asigmatica al caso retto, cfr. nota a I, 13.
 
43. melluirar: nel codice C, per analogia con i termini composti col suffisso -airia (da -ari˰·ía, con «yod parasite») prevalenti di gran lunga su quelli in -aria (del tipo drudairia, roubairia, trichairia...), si osservano attestate forme come melhoriarmelhuyran, meluirera... (cfr. Zufferey, Recherches linguistiques, § 37, p. 151).
no m’er dans / ans m’er honors...: sul rifacimento come segno di successo per l’opera imitata, e motivo di vanto per l’autore, cfr. Avalle, I manoscritti, pp. 50-51.
L’invito del poeta nel congedo a perfezionare il suo sirventese, nuovamente accompagnato dal topos di modestia (cfr. v. 3), non è molto frequente nei trovatori, si ritrova ad es. in BnVenz V [BdT 323,6] 50-59: «Lo vers vas la fin s’atraia / e·lh mot sion entendut / per n’Izarn, cui Dieus aiut / .../ se y a mot que no s’eschaia / vuelh que l’en mova, si·l plai / e que non lo y tenha nec / ...Lo Vescoms, qui gran ben aia, / vuelh que lo·m melhur, si·l plai, / lo vers, si fals motz lo sec», e inoltre BnVenz I, 50-52 e II, 57-60. A questo proposito cfr. Picchio Simonelli, Lirica moralistica, pp. 66-67.

 

 

 

 

 

 

 

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