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Radaelli, Anna. Raimon Gaucelm de Béziers. Poesie. Firenze: La Nuova Italia, 1997.

401,003- Raimon Gaucelm de Bezers

1. vau: lezione tràdita da CR e pubblicata anche da Raynouard, ma corretta in vauc da Rochegude e quindi accettata da Mahn, Azaïs e Riquer.
Per quanto riguarda le scelte testuali operate dagli editori precedenti (dalla grafia -l per l palatale nelle rime in -elh, e da alcune lezioni adottate) emerge che Rochegude ha seguito per lo più il codice R e la sua lettura è stata accettata da Mahn, anche se in alcuni casi, laddove si imponeva una scelta fra varianti adiafore, essa è caduta quasi sempre sulle lezioni di C (vv. 12, 21, 23, 36, 38, 39, 41); Azaïs segue sostanzialmente Mahn, e Riquer pubblica l’edizione di Azaïs intervenendo solo al v. 19, come si vedrà.
Mi pare interessante sottolineare la presenza di un’abitudine grafica cara al copista di R: qui, al v. 1 (nō3), e al v. 39 (hō3) si trova uno dei fenomeni paleografici più interessanti del canzoniere: la distinzione che il copista osserva “avec une rigueur presque parfaite” (Zufferey, Recherches linguistiques, § 0, p. 108), nell’abbreviazione delle nasali: per la dentale impiega solamente la tilde, mentre per la bilabiale usa in aggiunta una sorta di m verticale, 3, segno che si trova comunemente anche in C, dove però è usato sempre dopo liquida (Gaucel3), per lo più a fine rigo e da solo, mai con la funzione di rinforzo come in R (cfr. cap. «La lingua», Il manoscritto C, o)).
 
3. ab bon talan: sul significato di talan, qui vale per “buona disposizione d’anima”, si veda nota a I, 2.
 
4. m’es per ver bon e belh: l’espressione esser bon e bel significa “far piacere, aggradare”, cfr. LR, II, 206 e SW, I, 137 e 154; si veda a titolo d’esempio GlPoit V [BdT 183,12] 39: «sapchatz qu’a mi fo bon e bel» e Id., X [BdT 183,1] 7: «De lai don plus m’es bon e bel».
 
8. m’en don raubas: il riferimento è al costume dell’epoca di regalare ai giullari dei vestiti, forse anche smessi (cfr. Mistral, II, 710: «effets d’habillement, hardes [...] vivres qu’on porte aux champs»), o altro come compenso alla loro attività. Ma la pratica seguita dai signori era probabilmente di beneficare solo il poeta che li adulasse, cfr. Marc [BdT 293,9] 13-16: «Li sordeior ant del dar l’aventura / e li meillor badon a la peintura; / la retraisso·n fatz trist e sospiraire, / c’a rebuzon fant li ric lor afaire» (ed. Roncaglia, Marcabruno: Aujatz de chan, in CN, XVII (1957), pp. 20-48) e Marc [BdT 293,23] 21-24: «(Emperaire si Dieus me gart) / S’eu me faill al vostre donar / jamais a gorc qu’auza lauzar / non ira Marcabruns pescar / c’ades cuidaria faillir» (ed. Roncaglia, I due sirventesi di Marcobruno ad Alfonso VII, in CN, X (1950), pp. 157-181). Al contrario, il trovatore che, come RmGauc, «lo vers en chantan lur despon» (v. 39), non vedeva premiata la sua sincerità.
 
9. joi: parola-chiave della poesia provenzale, il cui significato è polivalente e ricco di sfumature (cfr. Cropp, Vocabulaire courtois, pp. 334-353: «le joi sourtout échappe à nos tentatives de definition», p. 349); in questo caso è probabilmente legato a un sentimento di soddisfazione che genera allegrezza e letizia, sottolineato da alegrier con cui forma una coppia sinonimica (ampia è la bibliografia su joi, cfr. almeno A. J. Denomy, «Jois» Among the Early Troubadours, its Meaning and Possible Source, in MS, XIII (1951), pp. 177-217; M. Lazar, Amour courtois et fin’amors, Paris 1964, pp. 103-117; C. Camproux, Le Joi d’amour, Montpellier 1965).
 
10. sembelh: risalente al lat. volgare *cy˘mbĕllum, indica in origine una campanella, il cui suono funge da richiamo e attrazione. Cfr. DCECH, II, 81 s.v. cimillo: «“vara a la que se sujeta el ave empleada como señuelo” relacionado con el lat. cy˘mbăllum “especie de platillos”, de donde campanilla empleada como señuelo”» e DEC, II, 700 s.v. címbal o címbol: «“espècie d’instrument musical” i cimbell “ocell o objecte que es posa al cim d’un pal i serveix per atraure els ocells que hom caça” (d’on, després, “atractiu, incentiu”) [...] el cembell o cimbell fou en l’origen un dispositiu que serveix per atraure ocells (sobretot moixons), dispositiu que generalment, i en l’origen sempre, emetia un so a manera de campaneta, i que sovint es confongué amb l’enze, o sigui el moixó presoner (o la seva imitació artificial) que servia de reclam per atraure els ocells incautes», a cui Perugi, Trovatori a Valchiusa, p. 220, nota 7, aggiunge: «È dunque sinonimo del celebre reclam di JRud 2.11». Cfr. inoltre SW, I, 240: «Zeichen»; Mistral, I, 557 s.v. cimboul, e II, 896 s.v. simbèu, simbel: «signe, enseigne, point de mire [...]» e G. Tilander, “Cil pert son sens qui sans moeute veult tendre”. Proverbe du Moyen Age, in Rom, 59 (1933), pp. 73-80, alle pp. 78-80.
Non discostandoci dalla nozione musicale, la locuzione far sembelh sembra evocare anche i versi del Salmo CL, 5-6: «Laudate eum in cymbalis benesonantibus, / laudate eum in cymbalis iubilationis // omnis spiritus laudet Dominum. Alleluia», cui più verosimilmente è da collegare l’espressione di RmGauc «me fan sembelh de lur amor» con il significato di “manifestare gioiosamente, e anche sonoramente, con atti e parole, la propria stima”. Accanto a questa, che è stata la traduzione prescelta, far sembelh potrebbe inoltre avere il senso di “lusingare, produrre soddisfazione e compiacimento”, senza dare a sembelh alcuna sfumatura peggiorativa.
Per la metafora, si veda Marc XXXI [BdT 293,31] 37-40: «Gent cembel fai que trahina / ves son agach lo brico, / del cim tro qu’en la racina, / entrebescat hoc e no»; GlMurs III [BdT 226,6a = 140,1c] 31-32: «Guilhem, ab bo sembel / pot far maiors assays»; l’immagine si trova anche in PVid XLI [BdT 364,42] 9-10: «mas ilh o fai si cum selh que sembella, / qu’ab bel semblan m’a mes en mortal pena». Quanto alle interpretazioni dei precedenti editori, esse si scostano dalla presente solo leggermente: Azaïs infatti traduce «que maints hommes de mérite me font assaut de leur amour et me viennent au-devant» e Riquer «porque muchos hombres valiosos me hacen muestra de su amor y se me presentan delante».
 
13. borda: è termine di origine francone con il significato originario di “capanna di assi” e quindi “casa colonica, fattoria”, tuttora usato in alcuni dipartimenti meridionali e in particolare nel Gers. Cfr. Mistral, I, 307 s.v. bordo: «s.f. Petite métairie, maison rustique, chaumière, porcherie, en Limousin, Gascoigne et Béarn».
mas: l’antico mansum era «la quantità di terreno, di regola 12 iugeri, ma variabile a seconda della natura dei luoghi, che una famiglia di coloni poteva coltivare annualmente con il solo aratro e con un paio di buoi» (cfr. Battaglia, IX, 735). Il termine è tuttora in uso nelle parlate della zona alpina orientale, e in catalano e provenzale mas significa “casa colonica”, ad indicare una proprietà fondiaria, una masseria o un’abitazione temporanea, connessa con l’allevamento del bestiame. Cfr. Mistral, II, 288: «s.m. Maison de campagne, habitation rurale, tènement, ferme, métairie, à Arles, en Languedoc, en Dauphiné, en Forez et en Cerdagne».
clarmontes: è la moneta di Clermont (probabilmente Clermont-Lodève, nella bassa pianura dell’Hérault, centro di fiere e di mercati; cfr. Mistral, I, 567 che sui suoi abitanti riporta questo detto: «Clar-mount, / pichoto vilo, meichant renoum: dicton relatif à Clermont-Lodève dont les habitants ont pour sobriquet lous banco-routiès»), che in quegli anni doveva ormai essere denaro minuto, di modesto valore, tanto che in questo caso assume il significato di “spicciolo”. Durante il regno di Luigi IX, infatti, vennero promulgate leggi con le quali si uniformava il circolazione monetaria in tutto il regno limitandola ai tornenses, alla moneta parisiensis e a poche altre d’uso corrente. Le monete signorili fatte coniare dai domini locali, che prima delle ordinanze regie godevano del diritto di batter moneta, avevano di conseguenza visto diminuire notevolmente il proprio valore ed erano confinate nell’uso agli scambi locali (cfr. Th. Bisson, A propos d’un registre municipal de Narbonne. Notes sur la chronologie des ordonnances monétaires de Louis IX (1263-1265), in AdM, LXXII (1960), pp. 83-88; si veda inoltre A. Germain, Mémoire sur les anciennes monnaies seigneuriales de Melgueil et de Montpellier, Montpellier 1852).
Al v. 14 (.v. cens tornes) è nominato il tornese, nome del grosso della moneta di Tours (Turonensis denarius) che, col tipo caratteristico del castello, ebbe larga diffusione anche in Oriente con le crociate. Da un atto del 1316, con cui si sospende la circolazione dei “gros tournois de 27 deniers”, è possibile conoscerne il valore: «Les tournois d’argent vieux, d’après une déclaration du viguier de la cour comune faite le 25 avril 1316, valaient dans le Narbonnais de monnaie courante en France, 20 denier t. en 1300, 21 deniers t. en 1301» (Coll. Doat, vol. 51, ff. 450-559). Comunque, qualunque ne fosse il valore, per RmGauc questi 500 tornesi dovevano certo costituire una forte somma che lui aveva sborsato di tasca propria per “garantirsi autonomia professionale”. D’altra parte, già al v. 8 («n’ai pro e sai don»), aveva orgogliosamente affermato la propria sicurezza economica. Sulla possibilità che il poeta appartenesse alla ricca borghesia locale o fosse addirittura remotamente legato ad una famiglia aristocratica della regione, cfr. il capitolo I, «Ricerca biografica e contesto storico-letterario».
 
15. La soluzione adottata a testo presenta il dativo etico contro la lezione non o planc tràdita da CR, cfr. “se planher alc. ren”: «etwas beklagen» in SW, VI, 359.2.
La e ad inizio verso ha carattere avversativo, sottolineato dalla presenza in R di mas, preferito da Rochegude e i successivi editori. Per questo uso particolare, cfr. Ménard, E initiale de phrase, Misc. Rostaing, II, pp. 697-698 e Jensen, Syntax, § 992.
 
16. lo mieu frair’En Ramon: si tratta di Raimon Gaucelm de Sabran, senhor d’Uzest en partie, cui è dedicata la lirica elogiativa VIII (cfr. le notizie biografiche fornite nel cap. I, «Ricerca biografica e contesto storico-letterario»).
 
17. aquelh que dis que trop mal fan / selh que donan: cfr. PCard 16 [BdT 335,39] 1-4: «Non es cortes ni l’es pretz agradius / ni·l plai en cort lauzors ni bos ressos / a sel que ditz que grans peccatz es dos, / selh de joglar...». Qui Raimon fa un velato riferimento a quei moralisti, predicatori e teologi, che condannavano severamente, seguendo l’esempio di Cicerone e di Seneca, l’esaltazione della largueza di Alessandro Magno; questa posizione si scontrava con quella di coloro, fra i quali è da includere RmGauc, che vedevano nella liberalità una qualità estremamente positiva, una delle doti che il signore ideale doveva possedere (cfr. nota a III, 12). «Questa più positiva rappresentazione incontrava i gusti popolari, meglio s’adattava all’atmosfera delle corti del XII e XIII secolo, e, naturalmente, secondava interessi ed aspirazioni di giullari e trovatori che, il più delle volte costretti a vivere di elargizioni nobiliari, avevano evidenti e buoni motivi per sottolineare continuamente e con particolare enfasi nelle loro liriche» (Guida, Jocs poetici, nota a II, 10, pp. 120-121, cfr. inoltre Picchio Simonelli, La lirica moralistica, pp. 74-75). Sul primato della largueza nella scala dei valori della morale cortese, cfr. anche E. Köhler, Sociologia della fin’amor, pp. 45 e sgg.
 
18. selhs que donan: l’impiego di questa costruzione col relativo è frequente in Raimon Gaucelm, cfr. VI, 14: «aquelhs que so del passatge duptans» e VII, 26: «selhs que la crotz solïan far levar». Per il suo uso nella poesia trobadorica, si veda Guida, Jocs poetici, p. 124.
men pus que fals mezel[h]: evidentemente i mendicanti, per spingere a maggior compassione ed ottenere l’elemosina, si fingevano lebbrosi. Cfr. SW, V, 275: “finnig”. Millot, III, 192, ha invece considerato mezel come “joueur de musette” spiegando così la sua interpretazione: «les jongleurs, les joueurs d’instruments, ressembloient beaucoup aux charlatans d’aujourd’hui».
Nel XII secolo a Narbona esistevano due maisons “del mezelh” e a Béziers si ha notizia di un lebbrosario «situé sur le chemin de St.-Thibéry, dans le voisinage du faubourg dit de St.-Pierre», ed un altro, la Maladrerie, era vicino alla prioria di St.-Julien, sulla riva destra dell’Orb (cfr. E. Sabatier, Histoire de la ville et des évèques de Béziers, Béziers 1854 (répr. Marseille 1977), p. 272).
 
19. qui dona a lauzor: ritorna il motivo della largueza come virtù essenziale per quanti desiderassero conseguire non solo il prestigio sociale ma anche la benevolenza di Dio, manifestando il proprio altruismo; cfr. le coblas esparsas riprodotte in Meyer, Les derniers troubadours, pp. 109-111: IV [BdT 461,221] 1-4: «Si com al larc dona Dieus que despenda / Car largueza es vertut principals, / A l’avar tol son percas e sa renda / C’avareza es peccat criminals»; V [BdT 461,76] 1-2: «Dels .v. bons aibs per c’oms es plus honratz / Es largueza premier», oppure AtMons II [BdT 309,1] 1445-1448: «Mai dona de lauzor / la valors de largeza / que nulha savieza / c’omz puesqu’e·l mon aver».
Per lauzor inteso come “buona fama, pregio, lodevole reputazione”, cfr. SW, IV, 347.3 “lobenswerthe That, löblisches Thun”, e Cropp, Vocabulaire courtois, pp. 186-187. Forma frequentemente dittologia con grat (v. 20).
on que an: formula stereotipata formata da on que + la 1ª o la 3ª ps. sg. del presente congiuntivo di anar, della quale Guida, Jocs poetici, nota a I, 66-67, offre uno spoglio al quale bisogna aggiungere il presente esempio.
Per quanto riguarda l’interpretazione degli editori precedenti, si rileva che nessuno di essi ha riprodotto a testo la lezione dei codici, ma Rochegude ha corretto on que s’an, seguito da Mahn e Azaïs, mentre Riquer interviene sul testo con on que se n’an, rendendo però in questo modo il verso ipermetro, a meno che non si considerino dona a uniti da sinalefe.
 
20. e grat de Dieu, que·l mon ten en capdelh: formule simili, a clausola di verso, sono frequentissime nei trovatori, cfr. a titolo d’esempio, GlPoit III [BdT 183,5] 8: «Senher Dieus... del mon capdels e reis»; BnVent XXV [BdT 70,25] 21: «m’en lais jauzir Deus, que·l mon chapdela» (riferito ad amore); RmMen [BdT 405,1] 30-32: «E tal perdo, quon ac la peccairitz, / prec que·l fassa la Trinitatz complida, / que tot quant es el mon capdell’e guida». L’onnipotenza di Dio è espressa anche con locuzioni differenti, cfr. VI, 36: «Jhezu Crist, que tot quant es enansa» e per altre espressioni: BnVent XXVI [BdT 70,26] 22-23: «Deus, que tot lo mond garanda»; JoEst IV [BdT 266,9] 65-67: «Toza gaya, / a Dieu playa, / si quo·l mon soste» e Id., XI [BdT 266,10] 37.
 
21. luns hom: si è già visto (cfr. nota a III, 11) come per le stesse Leys fosse indifferente l’uso del nominativo sigmatico accanto alla forma regolare hom: in R infatti si trova homs.
valens: l’aggettivo ha qui un’accezione morale e religiosa: è la carità che dona il vero valore all’individuo, mentre al v. 10 la sfumatura è cortese e mondana.
 
22. pero mais val lo dos: la concezione di ispirazione cortese del donar viene arricchita e portata a compimento da Caritatz eMerces. Infatti nelle due coblas successive il motivo della condivisione con i poveri, collegato in particolare a Is 58,7 e Mt 25,31-46, viene sviluppato dipingendo in modo caustico e irrisorio i comportamenti dominanti nelle classi più in vista.
francx: l’aggettivo assume in questo caso il valore di “disinteressato”.
Si noti l’opposizione semantica tra aggettivi, sintagmi ed espressioni avverbiali che esprimono un agire manifesto e gusto per la verità: «fan sembelh / de lur amor e m’en venon denan» (vv. 10-11), «lo dos... francx» (v. 22), «lo vers en chantan lur despon» (v. 39), «drech cami a pales» (v. 41) e quelli che indicano invece inganno e sotterfugio: «men pus que fals mezelh» (v. 18), «dins lai on estan / s’acluzon» (vv. 27-28), «veston quetz» (v. 30), «a rescon» (v. 31), «aquel que mais en gron» (v. 40).
 
24. lai on Merces: la pietà che funge da guida al cristiano, è motivo che si ritrova anche in PCard LXI [BdT 335,38] 16-19: «Li magers valors / E·l mielhers qu’el mon sia / Es dos e socors / La on merces la guia».
L’espressione metaforica fai planca e pon ha sapore proverbiale, cfr. SW, VI, 357 faire planca e pon de alcu “über jmdn. hinwegschreiten”; i due termini sono sovente associati nella lingua dei trovatori: cfr. ad esempio RbAur XXXIV [BdT 389,33] 19-21: «Mas ar no·m val tan ni can / Quar tota gens no·n s’acorda / E non passon pons e plancas»; ArnDan XVI [BdT 29,3] 29: «S’ieu n’ai passatz pons ni planchas»; Gavaud X [BdT 174,1] 13: «Ab pon frag, ab frevol planca»; GlFig II [BdT 217,2] 78-80: «Roma, Dieus l’aon e·lh don poder e forsa / al comte que ton los Frances e·ls escorsa, / e fa·n planca e pon, quand ab els se comorsa»; etc. Per una locuzione simile, cfr. PCard 17 [BdT 335,43] 1-4: «Cals aventura / es aisso d’aquest mon, / qe la dreitura / no·i troba ga ni pon» e nota al verso in Vatteroni, Peire Cardenal (II), pp. 179-180 e p. 191 nota a 19,32.
 
26. qu’a sso manjar negun paupre apelh: cfr. la parabola del ricco cattivo e il povero Lazzaro in Lc 16,19-31 e le opere di misericordia per le quali verranno giudicati gli uomini, qui soprattutto i precetti “dar da mangiare agli affamati” e “vestire gli ignudi”, cfr. Mt 25,35-36 («[...] esurivi enim, et dedistis mihi manducare [...] nudus, et cooperuistis me»). Ma il mutuo soccorso era anche al centro dello spirito comunale, verso la fine del XII secolo infatti sorsero organismi di solidarietà urbana collettiva: offene di cibo e vestiti, distribuzione di denaro, erano le forme in cui essi si esprimevano. Proprio a partire dagli anni 1269-1271 però, le condizioni di vita nel Bas-Languedoc peggiorarono, determinando l’aumento della popolazione povera e il rallentarsi dell’opera di sostentamento pubblico. Si hanno infatti testimonianze di difficoltà di approvigionamento a causa del cattivo raccolto: nel 1269 viene convocato a Carcassona il consiglio della sénéchaussée nel quale il siniscalco interdice l’esportazione del grano al di fuori dei confini del proprio territorio (cfr. HGL, t. VIII, coll. 1664-1668); nel 1271 una decisione simile viene presa dal viguier di Béziers (cfr. HGL, t. VIII, coll. 1739-1744: «propter messes steriles & bladi karistiam imminentem»); successivamente le notizie di carenza di cibo e difficoltà di approvigionamento nelle città, alternando con buone annate, sono sempre più numerose (HGL, t. X, coll. 125-131); tra le cause preponderanti ci sono l’aumento della popolazione e le frequenti inondazioni che in quegli anni colpirono il Biterrois e il Narbonnais (HGL, t. VIII, col. 783; si veda inoltre Histoire du Languedoc, p. 217; M. Bourin, Villages médiévaux en Bas-Languedoc, II, pp. 205-207; M. J. Larenaudie, Les famines en Languedoc aux XIVe et XVe siècles, in AdM, LXIV (1952), pp. 23-35).
sso manjar: sulla caduta di n finale specialmente davanti ad m (si veda anche so mantelh al v. 34), cfr. Ronjat, Grammaire istorique, § 385, Grafström, Graphie, § 53,1 e Id., Morphologie, § 28.
 
28. pus no fa’b: si è mantenuta la lezione tràdita da C, con elisione della vocale della preposizione ab. La forma, aggiunta all’ellissi di que, non doveva essere usuale, e infatti il copista di R banalizza, concordando fan col singolare auzelh. Gli editori precedenti emendano pubblicando: «plus no fa».
 
29. e sai prelatz e terriers e borzes: nell’assemblea tenuta a Béziers il 16 agosto 1271, erano stati convocati i tre Stati della sénéchaussée di Carcassona e cioè «prelatos & barones & consules & communitates civitatum (Narbone, Carcassone, Biterre, Agathe & Lodeve) & aliarum bonarum villarum de senescallia Carcassone & Biterris», tra i quali evidentemente RmGauc individua coloro che, pur avendo responsabilità amministrative o d’assistenza (le chiese e i monasteri erano i centri di distribuzione di viveri e rifugio per i poveri), non se ne curano ma custodiscono gelosamente le riserve di cibo e di vestiario entro le proprie case.
Un simile atteggiamento è denunciato anche da PCard 29 [BdT 335,61] 29-32: «Non cre que·l gens alamanda / senhor tolledor acuelha, / ni que mal parta vianda / ni que per manjar s’esconda», e PCard, LXX [ed. Lavaud, BdT 335,49] 9-12: «De tals en sai que pisson a prezen / Ez a beure s’escondon dins maizon, / Ez a manjar non queron compaignon / Ez a taillar queron en mais de cen».
Mi pare inoltre il caso di osservare che quelle di Carcassona nel 1269 e di Béziers nel 1271, sono le prime convocazioni dei tre Stati della sénéehaussée di cui si abbia conoscenza: queste date allora potrebbero costituire il terminus post quem della composizione del sirventese.
 
30. que·s veston quetz quascus: si osservi l’accordo del pronome indefinito singolare quascus con il verbo plurale (ponendo l’accento sull’individualità: “ognuno per proprio conto”, cfr. nota a I, 18). Al verso successivo (quascus ven) invece, la concordanza è al singolare.
Anche al v. 33 (Negus d’aquetz no fan) si osservi negus, al caso retto singolare, in unione col verbo concordante al plurale con aquetz. D’altra parte la forma negun, riportata da R, potrebbe essere considerata un tentativo di stabilire una corrispondenza col nominativo plurale, e ciò supporterebbe la possibilità di ritenere negus di C forma di retto plurale sigmatico, così come si è ipotizzato per cascus di I, 18.
 
31. a rescon: “di nascosto, furtivamente”, cfr. SW, VII, 258; tuttavia la forma più usuale dell’espressione è a rescos, sulla cui frequenza, in funzione di rimante, fornisce un elenco Asperti, Raimon Jordan, nota a XI, 37.
 
32. aon: forma del congiuntivo presente di abondar, aondar “rendere la mano, offrire, soccorrere, assistere” (cfr. LR, IV, 371 e SW, I, 6: «reichen, sich erstrecken»). La lezione azon di R proviene invece da adonar “rivolgere la propria attenzione, dedicare cure” (cfr. LR, III, 11: «confier, allier, familiariser; adonner, vouer» e SW, I, 22 «geneigt, geeignet»), che comunque non porta sostanziali differenze di senso alla testimonianza di C. Per la grafia, cfr. Grafström, Graphie, § 47.
 
33. aquetz: la grafia dissimilata per aquests non è rara, cfr. le forme tolosane e albigesi aquez in Grafström, Graphie, § 78,2d e nota 1 a p. 235.
 
34. San Marti: cfr. PCard 3 [BdT 335,1] 19-25: «per mols gonels tescutz de lan’englesza / laisson selis car trop aspres lur es, / ni parton ges lur draparia / aissi com sains Martin[s] fazia, / mai almornas, de c’om sol sostener / la paubra gen, volon totas aver». Martino di Tours, una delle figure più notevoli e significative della Gallia cristiana, è il santo più popolare che la Francia abbia avuto nel Medioevo. Intorno alla sua figura, che ha trovato il suo biografo in Sulpicio Severo (Sulpice Sévère, Vie de Saint Martin, a cura di J. Fontaine, 3 voll. Paris 1967-1969 [Sources Chrétiennes 133-135], 3,1-2), sorsero presto popolari leggende: quella che narra come Martino, incontratosi ancor cavaliere con un mendicante presso Amiens, gli donasse metà del proprio mantello per ripararlo dal freddo, è la più famosa, e l’iconografia del santo elaborata in Francia dal V secolo, lo raffigura spesso in quest’atto. Notizie bibliografiche concernenti la rappresentazione dell’episodio, si trovano in Vatteroni, Peire Cardenal (I), nota a 3,22, pp. 138-139 (per l’argomento, cfr. anche E. Cerulli - R. Morghen (a cura di), Agiografia nell’occidente cristiano, secoli XIII-XV, Roma 1981 e A. Vauchez, La santità nel Medioevo, Bologna 1989).
 
35. anava tremolan: in questa locuzione perifrastica anar rafforza l’azione del verbo che accompagna, prolungandone la durata nel tempo. In questo caso serve a rendere l’idea della continua condizione di bisogno del povero. Sulla presenza di questa costruzione in RmGauc, cfr. nota a I, 10.
In tremolan la non avvenuta caduta della protonica è imputabile quasi certamente a ragioni metriche.
 
36. cre: è stata adottata a testo la lezione di R, preferita a quella di C «sai»; ritengo infatti che quanto RmGauc dice nei versi 36-38 sia da considerarsi una sorta di professione di fede, di contro alle esperienze personali e ai fatti che ha potuto verificare per i quali invece meglio si addicono i sintagmi: «no vei» dei vv. 25 e 32 e «sai» dei vv. 27, 29 e 38.
estranh mazelh: l’espressione, particolarmente forte, si trova anche nel sirventese contro Roma di GlFig II [BdT 217,2] a proposito dell’effetto suscitato dal massacro di Béziers, avvenuto il 22 luglio 1209: «quar de mal capel / etz vos e Cistel, qu’a Bezers fezetz faire / mout estranh mazel» (vv. 152-154). L’assedio di Béziers è l’episodio più rilevante della prima fase della crociata albigese. All’arrivo dei crociati, non si trova in città il visconte Ramon Roger Trencavel, che si è rifugiato a Carcassona, ma vi sono solo i borghesi. È difficile credere che i biterresi, che pur si erano spesso rivoltati contro il visconte e scontrati con la Chiesa locale, fossero eretici, anzi è assai probabile che la maggioranza della popolazione fosse cattolica, almeno formalmente. Il rifiuto dunque dei cittadini di Béziers di consegnare gli eretici (in realtà catari ed ebrei avevavo già trovato rifugio a Carcassona) nelle mani dei crociati, è da vedere soprattutto come volontà di affermare la propria autonomia contro ogni ingerenza esterna, specie in materia di giustizia, piuttosto che protezione dell’eresia. Un errore tattico degli assediati permise ai crociati di incendiare e mettere a sacco la città, e massacrarne gli abitanti. I cronisti del tempo divergono nel riportare il numero degli uccisi, da 15.000 a 60.000 vittime, 7.000 nella sola chiesa della Madeleine: «on a beaucoup brodé sur le nombre des victimes; il dut y en avoir près de 10.000» (Histoire d’Occitanie, pp. 306-308. Cfr. HGL, t. VI, col. 289; Guillaume de Tudèle, La Chanson de la croisade Albigeoise, éditée et traduite par E. Martin-Chabot, Paris, 1931-1961; Pierre des Vaux de Cernay, Histoire albigeoise, traduite par H. Maisonneuve, Paris 1951 (Petrus Vallis Cernaii, Historia Albigensum, in PL, 213, 543-572); Guillaume de Puylaurens, Chronique, éd. J. Duvernoy, Paris 1976. Sulle motivazioni per cui Béziers fu scelta dai crociati per l’assedio e il massacro, cfr. M. Bourin in Histoire de Béziers, pp. 95-102: «quelques centaines de morts constituent déjà un charnier insupportable [...] Reste que ce massacre demeura dans la mémoire des hommes de la région un souvenir intense», p. 106).
La tuerie sauvage di Béziers suscitò una tale impressione da diventare l’immagine esemplare del castigo. Allo stesso modo RmGauc prevede un estranh mazelh per coloro che, al momento del giudizio, saranno dichiarati colpevoli di egoismo e mancanza di carità verso il prossimo.
 
39. lo vers: lurs di C e lor di R, sono stati indotti, per sinonimia contestuale, dalla presenza di lor del v. 38 e lur del v. 39.
Quanto al significato di vers (en chantan) come “verità recitata”, il termine sentirà sicuramente l’analogia con vers, forma poetica che dalla seconda metà del XIII secolo coincide col sirventese, dopo aver subito una falsa rietimologizzazione (vers < verum), assumendo il senso di “componimento in versi di carattere moralistico”, cfr. Leys (ed. Anglade, I, 338): «vers [...]deu tractar de sen, e per so es digz vers, que vol dir verays, quar veraya cauza es parlar de sen» (sull’argomento, cfr. J. H. Marshall, Le vers au XIIe siècle: genre poétique?, in Actes et mémoires du IIIe Congrès International de Langue et Littérature d’Oc, Bordeaux 1961, II, pp. 55-63; U. Mölk, Guiraut Riquier. Las Cansos, pp. 121-133; E. Köhler, Zum Verhältnis von «vers» und «canso», in Misc. Horrent, pp. 205-211). In questo modo RmGauc inscrive la sua produzione poetica, dopo aver citato coblas e sirventes al v. 6, entro i confini dei generi moralizzanti e sermocinanti, attingendo a piene mani dal ricco repertorio divulgativo dei predicatori.
I precedenti editori hanno posto a testo lor ver en cantan lor despon, mostrando, pur emendandola, di seguire la lezione di R. Azaïs quindi traduce: «quand on leur signale leur vérité en chantant», mentre Riquer interpreta vers come fosse preceduto dall’articolo, come nella presente traduzione: «cuando cantando se les expone la verdad».
en chantan... despon: “recitando in versi”, cfr. GrRouss, 98-99: «pois li despont des saumes David tres vers, / e contet lui de Jop qui fun Deu sers».
 
40. en gron: da gronir “mormorare, manifestare malcontento” (cfr. Appel, Chrestomatie, Glossar, p. 262: “dumpfes Geräusch machen, brummen, murren”, 1,43 e 91,17).
 
41. Sirventes vai: per le formule di invio rivolte alla composizione, che diviene messaggero dell’autore, cfr. Dragonetti, Technique poétique, pp. 307-308 e B. Barattelli, Appunti per una rilettura della canzone «Dompna, ieu vos sui messatgiers» di Guillem de Saint-Didier, in «Quaderni di Lingue e Letterature», XI, 1986, pp. 399-412.
drech: l’aggeuivo, oltre ad essere reso con il senso di “giusto, retto, sincero”, concordemente a quanto detto nella nota al v. 22, può essere inteso anche in modo avverbiale col significato di “diritto, di filato”, come per es. in Flamenca, 52: «e vai s’en tot dreh vas Flamenca».
Da segnalare l’interpretazione di Mahn («Sirventes vai drech camin a Pales»), il quale ha preferito considerare Pales un luogo geografico, non identificato, piuttosto che parte dell’espressione avverbiale a pales “pubblicamente, apertamente”, connessa al latino palam (cfr. Levy, PD, p. 274).
 
43. quez es / savis, et a ferm e fin cor volon: il verso è ipometro di due sillabe in ambedue i mss.; per ovviarvi si sono unite, formando coppia allitterante, le due varianti dei codici che con ogni probabilità riflettono parzialmente la lezione dell’archetipo. La combinatio dei due aggettivi, fin e ferm, mi è stata suggerita dall’usus scribendi di RmGauc e dalla sua predilezione per le dittologie sinonimiche unite da allitterazione, specialmente in questa poesia, cfr. i vv. 4 («bon e belh»), 15 («d’aval e d’amon», 24 («planca e pon»). Lo stesso procedimento è stato impiegato da Rochegude, ma combinando gli aggettivi fin e ferm in maniera diversa; la sua interpretazione dei vv. 42-43, accolta da Mahn, Azaïs e Riquer, è la seguente: «Al mieu frair’en Ramon Gaucelm, quez es / savis e ferm, et a fin cor volon».
savis: è aggettivo che aderisce perfettamente al registro morale del sirventese col senso di “saggio, giudizioso, conscio del bene”, quindi “giusto”.
cor volon: cfr. JoEst XI [BdT 266,10] 11-14: «e sabia far son dever / ... / ... / e mielhs bos faitz de cor volon».
 
44. far bos fatz: oltre che in chiave cortese diretta al suo signore, l’espressione andrà intesa anche in chiave moralistica, secondo il tono del componimento.

 

 

 

 

 

 

 

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