La difficoltà di lettura del partimen era già evidente ad Azaïs che dichiarava: «Dans l’impossibilité où j’ai été d’en traduire plusieurs passages sur la copie du Gedichte, j’ai eu recours à l’obligeance de M. Paul Meyer pour le prier de la collationner avec le ms. [...] Mais le ms. étant lui même très-incorrect et l’écriture en étant usée dans divers endroits, plusieurs passages sont restés inintelligibles, et j’ai dû renoncer à les traduire» (p. 37).
Grazie alla gentilezza dei Conservateurs del Département des manuscrits della Bibliothèque Nationale, che qui ringrazio vivamente, ho potuto godere del privilegio di leggere direttamente il codice (Bibl. Nat., fr. 22543) e constatare lo stato non ottimale del f. 73: nella colonna a una macchia bruno rossiccio, dovuta forse ai reagenti o all’umidità, copre totalmente il primo verso (e parte del secondo fino a cal) che sembrerebbe riscritto, poiché l’inchiostro vi risulta più scuro: le lettere si rivelano comunque leggibili, anche se non distintamente. Un’altra macchia rende poi malagevole la lettura dei vv. 9-22. In più punti le tracce d’inchiostro sono sbiadite o del tutto scomparse, e in questi casi mi è stato di valido aiuto l’uso della lampada a raggi ultravioletti che mi ha permesso la lettura “a secco” dei punti critici, in particolare del v. 13 (v. nota).
Il soggetto parodico e burlesco della composizione è introdotto dall’iniziale miniata che raffigura una testa di giullare posta di profilo con un berretto rosso e blu a sonagli, caricatura umana dal naso sproporzionatamente aquilino, che tira fuori beffardamente la lingua (molto probabilmente opera di un artista meridionale, del sud-ovest. Per l’analisi del rapporto tra l’immagine miniata e il testo, cfr. G. Brunel-Lobrichon, L’iconographie du chansonnier provençal R. Essai d’interprétation, Atti Liège 1991, pp. 245-272; si veda inoltre Le rire au Moyen Age dans la littérature et dans les arts. Actes du colloque international des 17, 18 et 19 novembre 1988, Bordeaux 1990).
1. Joan Miralhas: di questo trovatore possediamo quest’unica testimonianza [BdT 205,1].
si Dieu vos gart de dol: per si deprecativo cfr. G. Toja, in CN, XXIX (1969), p. 77.
2. re·s: nonostante l’inchiostro sia notevolmente sbiadito, si legge res con una certa sicurezza, contro la lezione vos riportata da Raynouard ed editori successivi.
d’aquesta: nel Lexique Roman, Raynouard (ma anche Mahn dà quest’errata lettura), riporta vaqueira, considerandolo aggettivo e traducendo vaqueira partizo come «pastoral jeu-parti, qui concerne les vachers, les bergers, pastoral» (LR, V, 457); ma s.v. partizo (LR, IV, 435) considera vaqueira un sostantivo, e traduce così lo stesso verso: «Quel vous plîlt davantage, vachère, tenson?».
Azaïs e Bec riportano invece d’aquella / d’aquela, ma la lettura più corretta, sebbene la grafia non sia affatto chiara, mi pare d’aquesta.
partizo: cfr. SW, VI, 105: «dilemmatische Frage, doppelte Hypothese».
3. redons: il termine richiama certamente le immagini evocate da feisseneta (v. 15) e mojol (v. 25), ma occorre sottolineare che potrebbe designare anche cul: FEW, X, 521 s.v. rōtŭndus riporta «nfr. le rond “le cul”; Rondel “nom donné au cul personnifié”», cui L. Lazzerini, «Cornar lo corn»: sulla tenzone tra Raimon de Durfort, Turc Malec e Arnaut Daniel, in MR, VIII (1981-1983), pp. 339-370, a p. 345, aggiunge «l’argotico rondibé “anus”, [...] nonché il veneto tondin “sedere” e le varie attestazioni aretiniane di tondo “deretano”».
sol: Azaïs traduce: “jusqu’à la sole” confondendo probabilmente con l’esito dal latino sōlēa.
5. portes: congiuntivo presente 2ª ps. pl., come sembles (v. 15), cavalgues (v. 16), anes (v. 30) e portes (v. 41); si è mantenuta la grafia -es per -etz perché è frequente l’oscillazione in molti testi e carte d’archivio della Linguadoca medievale tra s, ts, z, tz, per esprimere il suono della sibilante; si veda anche, sempre per la 2ª ps. pl., l’indicativo presente rodolas (v. 27) e il futuro parres (v. 39) (cfr. Grafström, Graphie, § 78, 2b). La sistematica modificazione grafica della desinenza verbale condotta da Bec è quasi certamente dettata dalla volontà di rendere il testo più familiare ai lettori occitanici moderni.
culveta: Raynouard legge erroneamente culvera e modifica di conseguenza falvera in rima al v. 7. Azaïs non traduce il termine, stampando i puntini di sospensione e scrivendo in apparato: “ce mot ne se trouve pas plus dans Raynouard que dans Rochegude. Pour le compendre il faut le décomposer, séparer la première syllabe des deux autres”. Bec traduce, ma esprimendo incertezza, «ceinture (?)», rimandando a SW, I, 429: “Gürtel”, che dà quest’unica attestazione.
Ma l’occasione di comprendere il significato possibile di culveta, ci è offerta da Mistral, I, 687, dove, s.v. culeiroun, quiéulairon (l.), si legge: «s.m. Culeron, partie de la croupière sur laquelle appuie la queue du cheval; braie dont on enveloppe le derrière d’un enfant (v. braié)», e s.v. culeto, chiéuleto (l.): «s.f. [...] culottin, enfant en culotte».
Appare quindi evidente un’allusione grossolana, che darebbe a culveta il senso di “indumemo atto a coprire la queue, culottin, brachetta”, resa ancor più burlesca e canzonatoria dal riferimento al derrière d’un enfant. Il richiamo al medesimo campo semantico è presente anche in DCECH, II, 287 s.v. culero: «[“pañal”, Nebr.]; gall. cueiro “trapo en el trasero del niño por si se ensucia” [...]», e in DEC, II, 1098 s.v. culera: «...és també ast.or. “parte del pantalón que corresponde a las asentaderas” (Vigón)», e s.v. culata: «...un mossarabisme del cul-ata (àr. *kulâṭa) “la part de darrere”; el mateix mot mossàrab pron. kulâṭadonaria a les Illes culeta “part posterior de la bossa d’un gànguil” mall., “vulva de nena” men.».
La brachetta sarebbe così posta sobre·l nas, termine che in una lettura oscena può essere assimilato a “pene” (cfr. M. Bakhtine, L’œuvre de François Rabelais, pp. 314-315), generando un’immagine bizzarra e grottesca, pienamente giustificata e corroborata dal fatto che la fessura di Joan Miralhas farebbe risalire l’inforcatura dei suoi pantaloni fino al mento, facendo coincidere i due organi.
Il significato dato a culveta è confortato inoltre dal richiamo di Mistral a braié, che ci aiuta a mettere in luce il collegamento con braguier del v. 14 («si tot m’estai lo braguier sul guinho»): cfr. Mistral, I, 356 s.v. braieto, brageto (l.) «s.f. Brayette, braguette, ouverture ou fente de devant d’une culotte; poche qu’on y plaçait anciennement; braie d’un enfant [...] ùni braieto ... un culottin, un caleçon, une petite culotte, comme en portent les lutteurs, les sauteurs et les coureurs».
Pare abbastanza evidente quindi una corrispondenza (giù osservata da Bec), se non proprio semantica, certamente allusiva alla medesima immagine, tra culveta e braguier: ‘‘l’inforcatura delle brache”, che sovrasterebbe in questa paradossale rappresentazione, i baffi (peli del pube?) di Joan Miralhas (cfr. nota al v. 14).
6. ades: “tosto, subito”. Azaïs e Bec traducono: “sur-le-champ”. Cfr. G. Tilander, Francés antiguo, provenzal, catalán adés, italiano adesso, español antiguo adieso, in Archivo de Filología Aragonesa, 14-15 (1963-1964), pp. 315-317.
7. si non: “altrimenti, in caso contrario”. L’accostamento, in consecuzione, della congiunzione si e dell’avverbio non, è invalso in area galloromanza a partire dal tardo XIII secolo; Jensen, Syntax, § 907, pon a ad esempio attestazioni trecenresche (volgarizzamento de lo Pseudo Turpino) e quattrocentesche (raccolta di Mystères proveniente dal Rouergue).
en vos: si è preferito mantenere la lezione del manoscritto en (così legge anche Mahn), mentre gli editori precedenti, da Raynouard a Bec, stampano eu; ma a questa lettura si oppone l’abitudine grafico-fonetica del copista di R, il quale rende quasi esclusivamente il pronome personale di 1ª ps. sg. con la forma dittongata ieu, cfr. i vv. 27, 34, 45 e Zufferey, Recherches linguistiques, § 1 p. 108: «La diphtongaison conditionnée de E et O ouverts est notée régulièrement [Bernhardt, pp. XXV-XXVI]».
c’aital falveta: il termine ricorre in rima anche nella tenzone tra Taurel e Falconet [BdT 438,1] 27-32: «Ronciners joglars, plaides, / pron sabetz de la falveta, / se ja de Guillem Rentis, / trachetz chavals ni roncis; / anz portaretz armas de mon segnal, / pois donara ad amdos per igal», secondo la lezione del codice O, nell’edizione a cura di V. de Bartholomaeis (La tenson de Taurel et de Falconet, in AdM, XVIII (1906), pp. 172-195), il quale trad uce: «Jongleur monteur de roussin, enjôleur, vous serez bien habile si vous tirez des chevaux et des roussins de Guillaume Rentis; et, de plus, vous porterez des armes à la même enseigne que moi, car il donnera également à tous les deux». Bertoni, I trovatori d’Italia, pp. 135-136, traduce l’espressione che qui interessa con: «giullare da ronzino, attacca-briga, voi sapete bene turlupinare...». Il sostantivo è interpretato da Raynouard (LR, III, 246) come “talent de faire des contes, art d’enjôler” collegandolo al lessema fabla, faula. Tobler (Vermischte Beiträge, 2e série, pp. 208-212, a p. 211), identifica invece falveta con la fauve asnesse spesso menzionata nei resti del Nord della Francia (l’espressione savoir de fauve asnesse si trova nel Renart) e che, come fauvain, entra più tardi in innumerevoli locuzioni: egli traduce quindi il termine con “Falschheit üben” (cfr. al riguardo anche A. Jeanroy in AdM, XV (1903), p. 220, compre rendu critique di F. Torraca, Su la lirica italiana del Duecento, Bologna 1902, pp. 218-221).
Levy dal canto suo, inserendo in SW, III, 408 anche la citazione dei vv. 1-8 del partimen di RmGauc, dichiara la sua incertezza: “ich verstehe den Sinn des Wörtes nicht”. Della stessa opinione è anche Bec, che traducendo, sulla scia di Azaïs, “que j’ai un tel art d’enjôler que vous n’en ferez plus ni couplet ni tenson”, ammette: «mot de sens douteux [...] serait dérivé de faula «fable», [...] mais rien n’est moins sûr».
Mi sembra tuttavia che il senso dato a falveta in questa traduzione: “bugiardaggine”, intesa come inclinazione alla panzana, alla ciarla, alla storiella inventata, in cui si presume una relazione fonetico-semantica con fabula ma anche con fallēre e i sostantivi ad esso attinenti (falsetat, falsura, cfr. FEW, III, 344: «afr., mfr. faule “récit mensonger”»), sia quello maggiormente appropriato, trattandosi di una sorta di minaccia burlesca di RmGauc di gettare discredito sul collega, accusandolo di essere un “racconta-fandonie”, e impedendogli così di esercitare l’attività di poeta se non avesse accettato la sua sfida. Il verbo dever in questo caso, assumerebbe il significare di “essere conveniente e opportuno”: il mentire non è infatti un atteggiamento conforme al decoro del poeta.
Una seconda possibile interpretazione di questo verso, che conferirebbe al testo, reso ellittico, un’aura di oscura minaccia, senza peraltro mutare la sostanza della sfida di RmGauc, vedrebbe la preposizione en con funzione di relazione “a proposito di, riguardo a”. In questo modo la traduzione risultante sarebbe: «altrimenti dirò che sul vostro conto circola una tale diceria che...».
D’altra parte non è del tutto da scartare, anche se forse meno pertinente al contesto, l’interpretazione di falveta come “abilità nel parlare, facondia” (cfr. Mistral, I, 1108 s.v. favello «faconde, parole, discours», e favela «improviser») posseduta da Raimon, che lo renderebbe capace di impedire al contendente di controbattere in alcuna maniera: «altrimenti a vostro scapito («en vos») dirò che ho («c’ai») una tale facondia e capacità d’improvvisare que non devetz far cobla ni tenso», dando sia a cobla che tenso il senso di “replica, argomentazione, riscontro dialettico”.
c’a’ital: la scelta di stampare la forma aggetivale senza il supporto del predicato al contesto, come ha fatto Raynouard («si non eu vos dirai c’aital falvera»), non mi pare accettabile, mentre la lezione scelta da Azaïs e Bec, con la forma della 1ª ps. sg. di aver, «c’ai tal», è stata considerata, come detto sopra, meno consona alla beffarda provocazione lanciata da RmGauc.
9. negus: Azaïs riporta in apparato: « Negus est une faute. Le pronom n’est pas le sujet, mais le régime de semblar du vers suivant. Il faudrait negun». Tuttavia è già stata più volte sottolineata la tendenza, verso la fine del XIII secolo, ad usare la forma sigmatica per il plurale dei pronomi indefiniti, e anche in questo caso negus (inteso come “nessuna delle due alternative”) rientra, a mio avviso, in quest’impiego assai usitato in RmGauc (cfr. nota a I, 11).
10. Il verso è ipometro ma Azaïs, che non lo nota, traduce tuttavia: “et je n’ai point de raison (pour le désirer)”. Bec ripristina l’isometria stampando: ni [d’aiçò] n’ai. Qui si è preferire integrare con <en be> in conformità ad espressioni similari, quali per es. in Sord XXVI [BdT 437,24] 1-2: «Planher vuelh en Blacatz en aquest leugier so, / ab cor trist e marrit; et ai en be razo», e nella tenzone tra Faure e Falconet [BdT 149,1] 12-13: «E joguera·us En Gui de Cavalho, si no fos pros, et agran·n be razo» (ed. L. Selbach, Dar Streitgedicht in der altprovenzalischen Lyrik, Marburg 1886, p. 103 e D. Jones, La tenson provençale, pp. 75-82).
razo: il termine, proprio soprattutto della retorica legale, indica “ragione, argomento, prova portata avanti nel dibattito per far valere il proprio punto di vista”; cfr. Meneghetti, Il pubblico dei trovatori, p. 112, n. 32 e Gruber, Dialektik, pp. 85-91. Il senso è poi ripreso in chiave ironica da per razo del v. 19.
11. È stata mantenuta l’integrazione <l’un> pubblicata da Azaïs e accettata da Bec, ma voglio segnalare un’altra ipotesi interpretativa, alternativa a questa, che propone «mas, <si> penrai, per la festa c’om col, / mais am...», integrazione certamente più plausibile dal punto di vista paleografico, poiché la congiunzione, iniziando con sibilante, avrebbe potuto facilmente essere tralasciata per aplografia. La traduzione risultante sarebbe allora: “ma, se sceglierò (= se devo scegliere), ..., preferisco...”.
per la festa c’om col!: l’esclamazione è un perfetto riempitivo del secondo emistichio con rima - òl, cfr. PCard LVI [ed. Lavaud, BdT 335,30] 25: « Gran festa fai mas ges ben no la col». Il raffronto con il sirventese di PCard è importante perché in esso le terminazioni sono sostanzialmente identiche a quelle del partimen: - ol, - i, - eta. Notevole è sopratutto la coincidenza nella rima cara -eta (cfr. cap. IV «Metrica e versificazione», Rimas caras), anche se tuttavia non si registrano corrispondenze significative, tranne che, forse, al v. 5: « l’una a vieil marit e es tozeta».
Ma perché non pensare anche ad una ricorrenza, occasione di un incontro speciale o di un semplice divertimento? Persino il “serio” RmGauc vi partecipa, coinvolgendo Joan Miralhas il quale, messo alle strette e burlescamente minacciato, è costretto ad accettare, rispondendo più o meno in questo modo: «proprio perché oggi facciamo festa, starò al gioco!».
12. esser trop: cfr. R trop esser, l’inversione è uno degli errori più tipici commessi dal copista, si veda anche al v. 48 estrueps per estreups e IV, 2 res fag per fag re.
pro: unico caso in cui Bec non interviene a segnalare la nasale caduca. Nella sua edizione infatti, tutte le rime in -o sono uniformate graficamente, tranne questa: partizon : menton : falhizon : tençon : razon : guinhon : bon : fogairon : faiçon : son : bodoisson : randon : esperon : boton : talon : arçon : pron : con : carrïaton : ochaison : companhon.
13. pider qu’e<s>pas<·s> ses meta. Il verso è di difficile interpretazione testuale anche se mi pare lampante una lettura scatologica e scurrile, come hanno già notato i precedenti editori. Mahn legge uider ma la lezione è di ardua comprensione. Azaïs non traduce il verso (né traduce i vv. 14-16) e in apparato commenta: “Ce vers, qui est assez obscur, me paraît exprimer une pensée obscène que fait assez comprendre le mot flautol du premier vers du couplet suivant”. Avanza però questa congettura: “N’est-ce pas vieg ou viet qu’il faudrait mettre à la place?”. Anche Levy, SW, V, 266 s.v. meta, dichiara che vider è incomprensibile, comunque, considerandolo sostantivo, propone di leggere: «[...] Oder ist meta Praes. Conj. von metre und passes Plural von pas? Oder ist qu’e pas s’esmeta zu schreiben? Aber der Sinn?». Bec opta per budèl “boyau”, ma ammette che si tratta di una «correction problématique. Le manuscrit a vider, ce qui n’a aucun sens. Il semble bien que le mot ait ici un sens grivois». La sua traduzione dunque è: “j’aurai mon boyau qui dépassera les limites (?)”.
La soluzione accolta a testo è frutto di un’attenta lettura del codice condotta con il supporto della lampada di Wood (sulla cui utilità cfr. F. Zufferey, Les exploits du Comte de Poitiers sous les rayons ultraviolets, in CN, LIII (1993), pp. 135-149): attraverso la riproduzione fotografica infatti è possibile leggere chiaramente solo la sillaba finale der mentre le due lettere precedenti sono illeggibili a causa della perdita dell’inchiostro sotto una macchia d’umidità. Grazie ai raggi ultravioletti invece ho potuto distinguere la traccia del calamo che disegnava una p ed una vocale leggermente inclinata verso sinistra che mi pare di aver individuato come una i (o, con maggior incertezza, una e): pider dunque.
Per il senso da attribuire al termine emergono due aree semanriche distinte: ambedue dipingono con vivacità l’iperbolica immagine di Joan Miralhas, ma l’una è stata favorita sia per il maggior numero di corrispondenze all’interno del partimen, sia perché più grottescamente in sintonia con l’argomentare del contendente di RmGauc. Mi pare comunque opportuno presentarle di seguito, cominciando dalla prescelta:
I) pider: “deretano”. Non ho rintracciato nei lessici la precisa attestazione del termine, tuttavia si veda Mistral, II, 521 s.v. peirié, peié (rh.), [...] peiriè (l.): «(rom. peirier, cat. pedrer) s.m. pierrier, machine à lancer des pierres; petite pièce d’artillerie, et burlesquement les fesses», con rimando a petadou II, 557: «(cat. petador) s.m. cannonière de sureau, jouet d’enfant; tout ce qui détone... et familièrement, fondement, anus; li petadou: les tibias en style burlesque» e petaire: «[...] fondement, derrière»; cfr. inoltre FEW, VIII, 132: «apr. petier m. “péteur” (14.-15. jh.) [...]. Norm. pétière f. “ouverture de la culatte par derrière” [...]; yèr. petière “cul”».
È questa l’interpretazione preferita, poiché la “scoppiettante” attività, come è detto nell’introduzione, è l’argomento stesso del partimen, ed è anche il Leitmotiv che accompagna le repliche di Joan Miralhas. Egli infatti sceglie di essere una lunga fessura perché in questo modo potrà rumoreggiare a piacimento mentre cammina, al contrario del suo avversario che sarà invece simile ad un tondo barilotto senza attributi (e no·us cal espero, v. 32) né sbocchi (feisseneta, mojol); successivamente, in contromossa alla subitanea replica di RmGauc, che ironizza: «Joan, pueis poiretz al son del flaütol balar!» (vv. 17-18), Joan escogita un furbo rimedio alle flatulenze che la sua strana figura emette ad ogni passo: «a l’ussol farai ne bodoisso» (v. 28): a questo punto a Raimon non rimane altro che augurarsi che le conseguenze di questa occlusione non lo danneggino troppo al momento del prossimo crepitus ventris: «si·l vostre cul peta / de la bocca, esper <no> beure pro» (vv. 39, 40). La rapida sequenza di botta e risposta sul crepitante argomento, diffusissimo nella comicità popolare, mi pare dunque giustifichi in maniera soddisfaceme l’accezione pider “deretano” (sulla frequenza del motivo del πρωκτός λαλώυ nella letteratura medievale, cfr. Curtius, Letteratura europea e medio evo latino, pp. 485-486; in ambito trobadorico si vedano i componimenti pubblicati in Sansone, I trovatori licenziosi, n. XXV [Raimon Berenguier e Arnaut Catalan, Amics N’Arnautz, cent dompnas d’aut paratge], XXVI [Arnaut e Alfonso X, Sinner, adars ye·us vein querer], XXIX [Anonimo, Quand lo petz del cul venta], XXX [Anonimo, Deu vos sal, dels pez soberana]).
Esiste tuttavia anche l’eventualità che pider sia un predicato: sempre nel medesimo campo semantico potrebbe cioè indicare “scoreggiare”, derivando dal lat. pēdēre, ma in una forma grafico-fonetica non attestata nei lessici, cfr. DEC, VI, 482 s.v. pet: «Per a la possibilitat d’un verb cat. arcaic peure “petar” pēdēre en un doc. de 1250, = cast. peer, oc.ant. pęire, it.ant. pédere [...]». Una forma apr. peire, accanto a afr. mfr. peir e mfr. (Rabelais) e arag. peder, è attestata anche da FEW, VIII, 120, con il campid. pidai, a p. 143. Il verso così inteso comporterebbe però due questioni: principalmente quella di considerare il futuro di aver con il significato non comune di “avrò la possibilità, la facoltà di”, e quindi la necessità di modificare la lezione del codice que passes, probabile predicato, in un abbinamento aggettivo indefinito e sostantivo, come per esempio que<c> pas, dando luogo ad un’ipotesi testuale di questo tipo: «c’al mens aurai pider quec pas ses meta», traducibile come: “ché almeno potrò scoreggiare ad ogni piè sospinto liberamente”. La minor economicità di questa soluzione la rende però meno sostenibile.
II) La seconda area semantica alla quale si collega pider è lontana da ogni riferimento scatologico, ma si collega ad una successiva argomentazione di Joan Miralhas: poiché egli sottolinea a più riprese come possa camminare (v. 27) e cavalcare (vv. 45 sgg.), al contrario di Raimon che invece rotola ed è costretto a farsi tirare da una carreta, si può pensare che pider sia legato alla nozione del muoversi, dell’andare, dell’articolare le membra, ed indicare appunto questa sua prerogativa. Derivato dal lat. pēs, pēdis, potrebbe costituire il predicato, per cui cfr. Du Cange, VI, 242 s.v. pedare: «pedibus metiri: marchier des piés; aler nus piés. Petier: deambulare, vulgo se promener», e s.v. pēdiare (VI, 244): «quasi per pedibus metiri, mensurare (v. piduare)». Anche FEW, VIII, 128 s.v. pēdĭtare, ci conduce al medesimo concetto: «afr. pieter v.n. “marcher”, mfr. “id., aller et venir” [...] St-Pol pyete “marcher allègrement” [...] bert. “appuyer les pieds sur le sol de façon à laisser de nombreuses empreintes” [...] Lausanne pider “aller vite”, Blon. pyętá “appuyer fort en marchant, taper du pied”; Lyon piattó v.n. “marcher, avec idée de répétition; voyager” [...] Mâcon pider “mesurer, avec les pieds, une distance, au jeu de boules” [...] Champagnole, Vaudioux pider “mesurer avec le pied”. A queste attestazioni sono poi strettamente legati gli esiti: Vendôme pêtée “danse”, Montana repitá “bondir, danser”. Il senso del verso sarebbe allora il seguente: “ché almeno potrò camminare spassandomela liberamente”, in cui si sottolinea non solo la nozione del “muoversi”, ma anche quella del “marciare, muovere i piedi ripetutamente”, quasi fosse “una danza ritmata”. L’immagine evocata illuminerebbe così anch’essa il senso della replica di Ramon ai vv. 17-18.
Parallelamente alla prima area semantica, ma con i termini rovesciati, pider può essere considerato anche sostantivo: si veda ad es. SW, VI, 174 s.v. pe-drech che rimanda a Mistral, II, 515: pèd-dre «s.m. pied-droit, jambage», con metafonia e inversione nell’ultima sillaba (nota caratteristica del copista di R, si veda al v. 48 estrueps per estreups). Per giunta emergerebbe un doppio senso osceno (già sottolineato da Azaïs) ben conforme al testo (cfr. nas al v. 5): “ché almeno avrò la gamba che si muove in libertà”. Per la metafonia nei testi arcaici catalani nei derivati da pede(m), cfr. DEC, VI, 502 e 510.
Come sottolineato in precedenza, ho presentato questa seconda, pur legittima, interpretazione legata alla connotazione del “muoversi”, più che altro per offrire un panorama, il più completo possibile, delle immagini che possono scaturire da questo verso così complesso. Ma la lettura in chiave scatologica mi pare tuttavia la più aderente all’atmosfera del partimen.
Resta ora da giustificare la scelta di leggere que passes come qu’espas·s (ses), considerandola 3ª ps. sg. del congiuntivo presente di e(se)spassar, verbo che, se inteso con il significato di “sollazzarsi, andare a spasso, camminare piacevolmente”, include ambedue le accezioni proposte per pider. Cfr. LR, IV, 443, SW, III, 246: “entfernen, befreien” e Mistral, I, 1018, s.v. espaça: «espacer, éloigner; mesurer un espace; promener, récréer, dissiper, épancher, répandre [...]». DCECH rende ancor più chiaro il senso che qui si vuole dare al verbo: II, 731, s.v. espaciar: «explayar [...] “alegrar, refrescar”; espaciarse “holgarse, divertirse, solazarse” [...]; «espaciarse: spacior, deambulor», Nebr.; «spatiari es andar aviendo dello plazer: espaciarse» APal. 465b; [...]». Il significato è reso ancor più pregnante dalla relazione con expatiari “uscire dai limiti” a cui si collega meta (“cippo, pietra di confine, limite”, cfr. Mistral, II, 332, alla voce meto: «but pour certains jeux, comme les boules ou le palet, en Rouergue [...]» e DCECH, IV, 12-13: meta «[...] Cultismo es meta “término señalado a una carrera, o mojón, que lo marcaba”»), inteso, nell’espressione ses meta, come “senza limite, liberamente”.
14. braguier: il senso dato al termine di “inforcatura delle brache” mi pare riesca a comprendere, in maniera esaustiva, le immagini suggerite dalle diverse attestazioni offerte dalla tradizione, dallo spoglio dei lessici e dall’interpretazione degli editori precedenti.
Azaïs non traduce l’intero verso, tuttavia scrive in apparato: «“brayer, bas du ventre, enfourchure” (Rayn. et Rocheg.); dans le dialecte de Béziers “pis de la vache, de la brebis, de la chèvre”» (p. 39).
In realtà differente è l’origine delle accezioni del termine proposte da Azaïs: braguier inteso come “pis de la vache”, è attestato anche in catalano “conjunt de les mamelles d’una vaca, truja” (cfr. DEC, II, 188) e deriva dal latino ūber + il suffisso collettivo -eguer che dà l’esito supposto *l’ubreguer; in seguito, per dissimilazione della vocale dopo vibrante e per falsa separazione dell’articolo, si giunge a lo braguer che viene a coincidere con braguer proveniente da braga: «si bé és clar que acabà per haver-hi una confusió popular dels mots que influí en el sentit i forma de l’un i de l’altre» (cfr. inoltre DCECH, V, 707 s.v. ubre: «[...] Por el Norte el área del vocablo se extiende al Languedoc [...]», e Mistral, I, 356 s.v. braguiè «pis, mamelles de vache, de chèvre, de jument ou de tout autre animal»). Bec dà al termine lo stesso senso di culveta del v. 5 e quindi traduce ancora “ceinture”. Anche la sua interpretazione si ricollega al dominio linguistico catalano, cfr. DEC, II, 188 che riporta due attestazioni di braguier come “cinturó” all’inizio del ’300 e nel secolo successivo, con il significato più preciso di “corretja encoixinada per contenir una hèrnia” (cfr. inoltre DCECH, I, 649). Anche in questo caso vi è corrispondenza nell’area linguistica occitana, con estensione tuttavia del campo semantico: «almenys en llengua d’oc tingué un ús més ampli que l’antihèrnia, semblant al de “braga” o “bragueta”». A questo proposito cfr. Mistral, I, 356 s.v. braié: «Petit caleçon de lutteur ou de coureur; brayer, suspensoir, sorte de bandage; braie, poche que les nourrices placent nu derrière des enfancs (v. culeiroun) [...]» e s.v. braguiè (l.): «Cuissard, partie de l’armure des chevaliers; ceinture placée au-dessus des braies (vieux); brayer, sorte de bandage [...]». Da ultimo cfr. Godefroy, I, 718-719,3: «ceinture; milieu du corps appelé ceinture: “Tout nud, excepté tant seulement d’un brayer ou demy chausses qui lui couvroit le ventre, les reins et le dessus des cuisses”(J. Le Maire, Illustr. des Gaules, I, 134)».
Si aggiunga che nella tradizione letteraria, l’accezione di braguier come “inforcatura” si può rintracciare ad es. in BtBorn XXXII [BdT 80,25] 10-12: «En brieu veirem camps joncatz de qartiers / D’elms e d’escutz e de branz e d’arços / E de fendutz per bustz tro als braiers» (Gouiran traduce: “le bust fendu jusqu’à la ceinture”); Jaufré, 2365-2369: «C’un palm de la gonela blanca / li trenqet e·l polpil de l’anca, / e la camisa, e·l braguier, / e de las bragas un cartier, / Qe no·l pot pus ant avenir», 1398-1400: «(el nan) ac tan corta forcadura / que no a ges un palm entier / del talo entro al bragier».
Da questo elenco, sicuramente suscettibile di variazione quanto a numero d’esempi, e dalle testimonianze dei lessici esaminate sopra, mi pare emerga una duplice funzione connotativa di braguier: essere un indumento o parte di esso: “brache corte, cosciale, brachiere, sospensorio” (in questo caso ci sarebbe coincidenza con culveta, cfr. nota al v. 5), oppure “la parte del corpo umano dove finisce il busto e cominciano le gambe” e comunque il “bas du ventre”, l’“entrecuix humà” che, orientandosi, non arbitrariamente in questo contesto, verso una lettura oscena, può essere collegato al significato che in catalano assume bragueta: «és general com a eufemisme per “membre viril”» (cfr. DEC, II, 188). In questa chiave andrebbero quindi visti anche i “mustacchi” su cui trova posto lo braguier di Joan Miralhas.
15. feisseneta: la lettura appare difficoltosa per la scomparsa in alcuni tratti dell’inchiostro, tuttavia è possibile leggere con sufficiente chiarezza feisseneta perché è visibile l’impronta a secco del calamo per l’asticciola dellaf. Quanto ai precedenti editori, Azaïs dichiara che feissenta “n’est pas plus intelligible” di seisseneta letta da Mahn. Levy, SW, III, 428, dà solo questa attestazione (“feiseneta?”), ma non propone alcuna interpretazione. Bec traduce sembletz faisseneta con “ressembler à un petit ballot (?)”: «Lecture difficile (ou seisseneta?) et sens obscur. [...] Le terme semble dérivé de fais “fardeau , ballot”, peut-être de faisson “lange”. J’interprète “petit ballot”, ou “petit paquer de langes”».
Il termine dovrebbe indicare qualcosa di tondo, goffo e pesante, che non può muoversi né camminare, anzi rotola (cfr. rodolas del v. 27). Non ho trovato alcuna attestazione nella tradizione né nei lessici. Solo nel panorama linguistico dei dialetti occitani, offerto da Mistral, si possono vedere alcune forme che riconducono sostanzialmente al campo semantico relativo al mondo contadino e soprattutto al lavoro caseario.
Dal lat. fiscella, Mistral riporta le voci feissello (I, 1112) «[...] pour éclisse, forme à fromage», e fiscello, feiscello (I, 1138): «éclisse, petit rond de jonc ou d’osier sur lequel on fait égoutter le lait caillé, vase de poterie dans lequel on fait les fromages, cagerotte, fromager; plateau sur lequel on enveloppe et on soumet à une forte pression les moules de fromage [...]»; gli oggetti descritti possono essere avvicinati all’italiano fascera, quella fascia circolare di legno in cui si colloca la cagliata perché si liberi dal siero e assuma la forma propria del tipo di formaggio desiderato, o comunque all’immagine di un recipiente di sagoma larga (vaso, cesta o grande coppa) in cui si fa sgocciolare la forma di cacio.
Ma altri lemmi a questi assimilabili, riconducono anche al mondo vinicolo: feissèu, feissèl (l.): «Fascieau, charge; charretée de vendange, pour éclisse, forme à fromage», fiscèu: «Forme à faire les fromages; cuvée de vendange» e feisseiau, faissiau (l.): «Panier long, sorte de manne qu’on porte sur la tête, hotte de vendageur», in cui compare la nozione di volume e capacità che poi si troverà in mojol al v. 25; a ciò si aggiunga l’idea di pesante goffaggine che risalta da feisset, faisset (l.) «Fascicule, petit fagot, petit charge; paquet de tripes d’agneau ou de mouton» e feisseto, faisseto (l.): «Braie, lange, couche d’un enfant au maillot [...]».
La figura di Raimon è quindi tonda come una fascera, capiente come una fiscella, involto voluminoso come un fagotto o un fastello di trippa: mi pare che la sagoma del cacio tolto dalla forma possa esprimere con vivacità la foggia buffa e impacciata toccata a Raimon Gaucelm.
16. cavalgues, insieme con espero (v. 32), en cavalh sim l’arso (v. 38), de bel’ambladureta / en palafre (vv. 45-46), mas estreups (v. 48), forma un gruppo di espressioni relative al cavalcare, motivo tradizionale della metafora sessuale (cfr. L. T. Topsfield, Troubadours and Love, Cambridge 1975, p. 18: «“Chevaucher”, comme ses synonymes, est très souvent une métaphore pour l’acte sexuel»; cfr. inoltre J. N. Adams, The Latin Sexual Vocabulary, London 1982, p. 165). In questo contesto tuttavia, così burlesco e canzonatorio, mi pare che il riferimento sessuale sia da porre in secondo piano. Le allusioni oscene agli attributi maschili (nas, pider (in un’interpretazione secondaria), braguier, guinho, espero, auchol) e alla facoltà di cavalcare sono infatti da vedere all’interno della messinscena grottesca con cui si vuole sollecitare e solleticare l’immaginazione dell’uditorio.
si·eus: per questa forma cfr. Zufferey, Recherches linguistiques, p. 108, § 1: «Très fréquente, l’évolution iu> ieu en milieu tonique ou non constitue l’un des traits linguistiques dominants du chansonnier R» (cfr. Bernhardt, At de Mons, p. XXVI; Stroński, Elias Barjol, p. 56; Guida, Gavaudan, p. 128, f; Pfister, Sprachliches, p. 105).
sap bo: locuzione impersonale col significato di “piacere, aggradare” + dativo, indicante il soggetto logico; cfr. a titolo d’esempio ArnDan VI [BdT 29,7] 22: «Ar conosc ieu e sap mi bo»; RmJord XI [BdT 404,11] 26: «Sabetz per que? Quar mi platz e·m sap bo» e 51 «e s’anc re fis qu’a vos no saupes bo»; GrRiq V [BdT 248,76] 36: «pero soven fay que sap al cor bo»; JoEst II [BdT 266,7] 41-42: «mas, si·us sap bo, / m’amor vos do».
17. flaütol: evidente la greve allusione ad un altro “strumento a fiato”, cfr. quanto detto per pider alla nota al v. 13, a proposito di li petadou: «les tibias, en style burlesque». Inoltre si veda ancora Mistral, I, 1140 s.v. flahutet, flagutet (l.): «galoubet, petit flûte à trois trous dont on joue de la main gauche en s’accompagnant du tamborin; flageolet, chalumeau»: la prima descrizione ci consente di immaginare un accompagnamento “a percussione” che ritma la danza improvvisata di Joan. Il medesimo effetto, ma in un contesto erotico, si trova in Montan [BdT 306,2] 25-28: «adoncs conoisseretz s’eu sui truan, / qu’eu vos farai lanzar per la culada / tals peitz que son de corn vos semblaran, / et ab tal son fairetz aital balada» (cfr. I. Cluzel, Le troubadour Montan, in Misc. Rostaing, I, pp. 153-164, a p. 161).
18. per razo: per l’espressione, cfr. Stroński, Folquet de Marseille, pp. 219-222, nota a V, 54.
19. fai: con funzione di verbo vicario, frequente nelle comparazioni, cfr. Boni, Sordello, p. 156, nota 24; Ageno, Il verbo, p. 484, nota 3; Jensen, Syntaxe, § 419.
que·s calfa al: questo verso, mantenendo il continum grafico tràdito da R e considerando lo iato, risulterebbe ipermetro di una sillaba. Per ristabilirne l’isometria, due sono le possibilità: considerare la sinalefe, mantenendo intatta la grafia: «califa al» o praticando l’elisione della atona finale: «calif’al», oppure mantenere lo iato tra vocali uguali ed eliminare l’intertonica nel verbo: «calfa al». Si è scelto di porre a testo quest’ultima ipotesi, poiché l’esito più comune da *cal(e)fare (per calefacere) nelle parlate dell’ovest del Languedoc è calfar, cfr. Ronjat, Grammaire, § 545 e DEC, II, 424: «oc.ant. calfar o escalfar: tant l’un com l’altre es troben ja en Llull»; cfr. inoltre GlPoit V [BdT 183,12] 40-41: «et eu calfei me volenter / als gros carbos» e nota a p. 149 ed. Pasero: «calfar è abbastanza raro; cfr. Donat 847 calfar = calefieri, e nota ed. p. 279 (il latino suggerisce che il traduttore cerchi di rendere “the intransitive sense of the verb used reflexively”)».
cruol: “lucerna, lampada” dalla forma incavata; l’immagine del lucignolo mi pare ben raffigurare il calore emanato da una fiammella contro il crepitare vivo del focolare. Cfr. Mistral, I, 683 cruso: «lampe en fer qu’on accroche, lampe à trois becs et en laiton, dans les Alpes et les Pyrénées» e DEC, IV, 645 s.v. gresol: «“llum d’oli”, “recipient per fondre matèries a altes temperatures [...] El significat antic era “llumener”, “llum d’oli”, de vegades “llum de ganxo”, o el del cast. crisuela: o sigui la cassoleta inferior de les llumeneres, destinada a rebre l’oli que cau de la “candileja”». DEC, nello stesso luogo, ci fornisce anche la data del partimen di RmGauc: «En llengua d’oc trobem [...] cruol “llumener” en una tençó de c. 1270». Cfr. inoltre DCECH, II, 246-249, FEW, II, 1356 e T.L., II, 1086.
Il carattere popolare della similitudine suggella in modo icastico e paradossale la scelta, illogica per Raimon, fatta da Joan Miralhas; cfr. C. Buridant, Nature et fonctions des proverbes dans les Jeux-Partis, in Revue des sciences humaines, 163 (1976), pp. 377-418.
20. laissa: ho preferito uniformare la grafia della sibilante sorda intervocalica col segno - ss-, secondo l’uso più attestato nel codice. Allo stesso modo faisso, in rima al v. 22, e creissera, al v. 51 (cfr. cap. III «La lingua», Il manoscritto R).
21. car s’aitals es: es è stata considerata forma della 2ª ps. pl. di esser come ai vv. 32 e 41, in collegamento con pus aital faisso / voletz aver dei vv. 22-23, mentre Bec ha preferito considerarla 3ª ps. sg., quindi corregge in aital es: “car s’il en est ainsi”.
tozeta: il termine toza è tipico nelle allocuzioni dirette alla pastorella: cfr. a titolo d’esempio Marc [BdT 293,30] 8-10: «Ves lieys vinc per la chalmissa: / «Toza», fi·m ieu, «res faitissa, / dol ai del freg que vos fissa» (ed. Roncaglia, in Atti del VII Congresso Internazionale di Lingua e Letteratura d’Oc e di Studi Francoprovenzali (Montélimar, 2-7 settembre 1975), sez. I: Lingua e Letteratura Medievale, La critique textuelle et les troubadours (quelques considérations), in CN, XXXVIII (1978), pp. 207-214, a pp. 211-212) e inoltre ai vv. 15, 18, 29, 43, 57, 71. Per giunta, oltre ad indicare, insieme con vielha, “tutte le donne”, sottolinea in modo burlesco a quale tipo e ceto sociale appartenessero quelle frequentate da Joan, in opposizione a Raimon e alla sua Na Cors Car che, in maniera altrettanto comicamente enfatica, si nomina al v. 29.
22. cre·us: Bec corregge in cre vos ma in questo modo rende il verso ipermetro.
23. Dieus prec: per la forma sigmatica di Dieus, cfr. nota a II, 9.
trameta: “ve la procuri” in rima equivoca col v. 29 «na Cors Car trameta»: “vi mandi (a dire), vi trasmetta (con un messaggio)”; trametre è «termine tecnico, probabilmente risalente alla retorica poetico-epistolare, come mostrano per es. le «love letters» mediolatine edite dal Dronke, Medieval Latin, II p. 472 ss. [...]» (Pasero, Guglielmo IX, nota a IV, 44-48).
25. mojol: cfr. LR, IV, 244: «moyeu, jaune d’œuf; moyeu de charrette». SW, V, 289, riporta «Trinkgefäss, Becher», secondo l’attestazione del Donat 54ª, 30: «Moyols cifus vitreus», e cita i vv. 25-28 del partimen di RmGauc e ArnDan [BdT 29,11] 17-18: «Totz li plus savi en vauc hiure / ses mujol e ses retomba» [IV, secondo l’ed. Eusebi], già citato da LR, dove mujol è tradotto “sans moyeux [de charrette] et sans cycloïde”. Perugi (Arnaut Daniel, t. II, pp. 149-169, stampando, secondo la lezione di Dª, moillol) ed Eusebi (Arnaut Daniel, p. 26) traducono invece “senza bicchiere né bottiglia”. Cfr. inoltre Cerv 101 [BdT 434,4a] 14-17: «No puix menjar cinc tuynols / ses companatg’e viada; / ne beu pus de set mujols / de vi, a una tirada» tradotto da Coromines “no puc menjar cinc panets sense companatge ni cansalada viada ni bec set mesurons de vi d’una tirada” (Lírica II, pp. 228-231).
Per dare un nome alla buffa forma di RmGauc ci vengono ancora in aiuto Mistral, II, 355 e 386 s.v. mouiòu... mujòu, mujol: «moyeu [...] oronge, espèce de champignon»; e DEC, V, 711 s.v. mode: «de ll. mŏdĭus “mesura de capacitat” [...] mujol ant. “atuell petit de líquids” [...]; cf. oc.ant. mojol «vase à boire, gobelet», PDPF [...]». Cfr. inoltre DCECH, IV, 99 e le numerose attestazioni in HGL, per es. VIII, 1396 e sgg.: «modia ordei, [...] modium frumenti, [...] modia vini [...]».
Raccogliendo tutti i suggerimenti offerti dai lessici e dalla tradizione, in aggiunta al doppio esito che il lat. modius ha avuto in italiano: mòzzo (“perno di una ruota”) e mòggio (“antica misura di capacità per granaglie e recipiente usato per la misurazione della sabbia o del frumento”), la figura che si presenta alla nostra immaginazione ha i seguenti connotati: è piccola e tozza come una coppa o un bussolotto; capiente e panciuta come un fiasco o una botte; corpo sferico come un tuorlo d’uovo e rotante come una mola di frantoio: penso proprio che la sagoma di un “barilotto” corrisponda perfettamente ai requisiti richiesti.
27. rodolas: è indicativo presente con significato futuro da collegare a irai del 2º emistichio. Anche Bec nota, a testo, rodolatz traducendo «vous, vous roulerez».
28. Il verso è una metafora oscena che trae dall’attività vinicola i termini della sua rappresentazione.
ussol: LR, V, 455 lo intende semplicemente come «huis, issue»; SW, VIII, 546 non riporta alcuna traduzione: «usol?». È Mistral (II, 1075) che ci permette di cogliere l’impiego tecnico del sostantivo: s.v. ussa: «v. bondonner un tonneau, y mettre la bonde avant de le remplir, en boucher les fentes, l’étouper»; usset, lusset (d.) essiol (lim.): «(rom. ussol) s.m. bonde, petite porte menagée dans l’un des fonds d’une futaille, pour servir à la nettoyer»; usso, uso (l.): «s.f. luette, épiglotte; plaque ronde percée de trous, placée au bas d’un corps de pompe»; si aggiunga DEC, VIII, 958 uix: «“porta” (ant.), “obertura en una bóta per a entrar a netejar-la”». Questa rapida rassegna lessicale conduce dunque ad un’immagine enologica e precisamente allo “sportellino” che si trova nel mezzule, il “foro” situato sul fondo della botte attraverso il quale viene introdotta la spina fecciaia e che viene turato con uno zaffo prima che l’interno sia riempito. L’interpretazione evidentemente scurrile da dare a questa “apertura” posta sul “fondo” della botte, trova stretta corrispondenza con i vv. 13, 17 e 39-40.
Al medesimo campo semantico appartiene bodoisso: SW, I, 152, alla voce bodoison non propone alcuna interpretazione ma rimanda a Mistral; Azaïs invece propone: «ce mot manque dans les dictionnaires de Raynouard et de Rochegude. Boissier de Sauvages (Dict. langued.) donne boudouissou, bouchon, comme un mot de la vieille langue qui s’est changé plus tard en boudissou» e traduce: “et à l’huis je me ferai bouchon”. Bec accetta la sua interpretazione ma esprime perplessità rimandando all’occitano moderno: “et à la porte je me ferai bouchon (?)”. Mistral, I, 313 s.v. boudissoun, boudouissoun, riporta: «(rom. bodoysso) s.m. bouchon, en Languedoc; [...] petit excrément, babouin, polisson, courtaud”; boudòs «s.m. bouchon, bondon, en Languedoc» e s.v. bouisso (I, 322): «[...] tampon d’un réservoir; boîte d’une roue; boîtillon d’une meule»; bouisseso «morceau de bois anchâssé dans l’oeillet d’une meule». DEC, II, 24-25 s.v. bodoix o budoix: «“tros apilotat de matèries com llana o terra” [...] probablement emparentat amb l’oc. bodoisson de sentits semblants. [...] Bodoyssó apareix rimant amb bo BONUS en un trobador poc conegut, de l’època clàssica, que tençona amb Ramon Gaucelm de Beziers [...] Sembla que vulgut dir “cagalló”».
Si dovrebbe trattare dunque dello zipolo, il cavicchio con cui si tura la spia o si occlude la cannella del fondo della «botte-Joan Miralhas», immagine grottesca nient’affatto nuova nel panorama parodico-burlesco provenzale e che trova la sua più famosa rappresentazione in madonna Ena, oggetto della quaestio cui partecipano Truc Malec, Ramon de Durfort e Arnaut Daniel con quattro componimenti in cui esprimono la loro posizione a proposito dell’imbarazzante «affaire Cornilh». Perugi prima (Arnaut Daniel, t. II, pp. 3-70) e Lazzerini poi (L. Lazzerini, Cornar lo corn, cit., pp. 339-370) concordano infatti nel riconoscere in Na Ena una «maleolente donna-botte» (Lazzerini, 358), sulla base di attestazioni «di termini propri alla tecnica vinicola per la designazione di parti del corpo e delle attività sessuali connesse» (Perugi, II, 6). Inoltre la relazione tra le due immagini è evidenziata anche lessicalmente: infatti bodoisso di RmGauc potrebbe facilmente corrispondere al dosil del v. 47 della tornada di «Pois Raimonz e Truc Malecs» di ArnDan [I ed. Perugi, BdT 29, 15, vv. 46-49: «Dompna, Bernatz no s’estrail / del cor cornar ses gran dosil / ab que·l seim traig del penil: / pueis poira cornar ses peril»] tradotto da Perugi con “cannello” (cfr. II, 66-68 per la documentazione lessicale), dalla Lazzerini con “spina fecciaia” e da Eusebi con “zaffo”; allo stesso modo penil del v. 48 potrebbe avvicinarsi a ussol nell’interpretazione della Lazzerini: “buco praticato ad hoc nel fondo del mezzule” (inteso però come “vulva, vagina” e non “deretano” come in questo caso). Sulla complessa situazione testuale della tornada e la sua interpretazione, oltre all’analisi delle precedenti posizioni, cfr. A. D’Agostino, Per la «tornada» del sirventese di Arnaut Daniel, in MR, XV (1990), pp. 321-351.
farai ne: ritengo che la mancata scomposizione del futuro con l’inserzione della particella atona ( far n’ai), come avviene al v. 36 ( far m’ai), sia dovuta a ragioni essenzialmente metriche (cfr. nota a III, 7).
Azaïs lascia a testo la scrizione del codice ma in apparato scrive: “probablement pour me”. Bec concorda.
29. Na Cors Car: il senhal è attestato in una dansa di GrEsp VI [BdT 244,3] 1-2: «Ges ancara / Na Cors-Car», ma qui è chiaro il capovolgimento parodico del mondo e della lirica cortese (cfr. anche midons del v. 35), tanto che, con un facile passaggio semantico, car potrebbe tranquillamente significare “che si vende ad alto prezzo” (cfr. SW, I, 208 “werthvoll”; “schwer”) dando corpo ad un’immagine femminile tutt’altro che prezioso oggetto d’amore irragiungibile. Azaïs non traduce l’appellativo e in apparato riferisce: «ces mots presque illisibles sont sans doute un nom propre défiguré».
30. de rando: formula avverbiale indicante “fretta, rapidità, foga”, cfr. SW, VII, 31 «(sehr) ungestüm, heftig» e «(sehr) eilig, schnell, gleich»; ma si veda anche Mistral, II, 698 che accanto a randoun: «impétuosité, effort, élan», riporta, s.v. rando, l’espressione a rando: «à côté, au bord, le long, près de, en Dauphiné».
32. en travers es: Azaïs non interviene a correggere l’ipermetria e lascia a testo us en traverses, Bec invece cerca di ovviarvi con vo’n traversetz, traducendo: «je ne vois pus d’autre solution pour vous que de vous mettre en travers d’une charrette». Nella forma posta a testo ho escluso us, che probabilmente è stato attratto per sinonimia contestuale da no·us del secondo emistichio, e ho preferito en travers es, sia perché la locuzione avverbiale appare anche al v. 16 ed è una sorta di tormentone nella replica di Joan Miralhas, sia perché es è forma comune per etz da estis anche ai vv. 21 e 41.
espero: assai probabile allusione oscena, ma si pensi anche alla comica esplosione della tonda e gonfia palla-RmGauc sfiorata da uno sperone!
33. pec: cfr. Mistral, II, 510: «hébété, idiot, niais, ignorant».
auchol: cfr. Ronjat, Grammaire istorique, § 261: «prov., lang., guyen., aq. auco, -ca, -que, alp., dauf., auv., lim. aucho, -cha remonte non à auca [...] mais à *av(i)ca refait, à côté de la forme fonétique auca, sur avicula, refait lui-même, à côté de aucula, sur avis (cfr. Juret, Dom. 239)». Cfr. REW, 826 s.v. avica. Propriamente sarebbe il maschio dell’oca, cfr. SW, I, 101, s.v. auc «Gänserich», secondo le testimonianze del Donat 43b, 32: «aucs anser masculus». Cfr. inoltre Mistral, I, 173: auc, auch: «jars, oie mâle» e 174 auco, aucho: «s.f. Oie».
Azaïs e Bec preferiscono stampare qu’un nuchol dal lat. tardo noctula “nottola, civetta”; Azaïs sceglie «chouette» e commenta in apparato: “nauchol n’est dans aucun dictionnaire. On trouve dans celui de Raynouard nuachol, nuchola, et dans Flamenca, 2122, nozol: hibou, chouette”. Concordemente Bec traduce nuchol come «oiseau de nuit».
L’accostamento scherzoso di persone ad animali è tra i motivi più popolari sin dall’antichità per esprimere dileggio e prendersi gioco di qualcuno (cfr. FEW, XXII, 6-7: «châtell. ogo m. “imbécile”; jers. nousseux m. “niais”»; Monaco, Paragioni burleschi degli antichi,Palermo 1963 e Ph. Ménard, Le rire et le sourire, Genève 1969), ma la metafora animale è diffusa anche nelle designazioni sessuali cosicché auchol potrebbe assumere anche una connotazione oscena, cfr. F. Crevatin, Breviora Etymologica, in Paideia, XXXII (1977), pp. 73-75, che porta l’esempio di alcuni dialetti italiani settentrionali in cui il tipo lessicale OCO, ha significato sessuale di “pene”.
34. non pres vostre dig un boto: su simili topiche formule di sprezzo (si veda anche I, 35: « no valram un aglan»), cfr. Cnyrim, Sprichwörter n. 940; Guida, Jocs poetici, nota a V, 18; Id., Gavaudan, nota a X, 19; inoltre Ph. Ménard, Le rire et le sourire, pp. 112 e 568, che ha notato come le comparazioni di questo tipo «sont pour les trouvères et les jongleurs des tournures commodes à l’assonance ou à la rime, des expressions toutes faites, des quasi-chevilles, bien propres à terminer le vers». Per ultimo si veda F. Möhren, Le renforcement affectif de la négation par l’expression d’une valeur minimale en ancien français, Tübingen 1980 ( Behiefte ZRPh, CLXXV Heft), pp. 66-74 e n. 24.
35. midons: sostantivo basilare della lirica trobadorica usato in chiave parodica, cfr. R. Harvey, The satirical use of the courtly expression «si dons» in the works of the troubadour Marcabru, in «Modern Language Review», 78 (1983), pp. 24-33.
mi: Azaïs e Bec correggono in me, ma le forme dei pronomi personali in - i sono ben attestato nel Tolosano e nell’Albigeois, cfr. anche al v. 24 e nota a I, 11.
38. sim l’arso: Azaïs commenta «il faudrait al sim de l’arso. M.P. Meyer propose sus, au-dessus, qu’il faut admettre».
39. non i parres: si è considerata lectio difficilior nei cfr. di non i par res, «il n’y paraîtra rien», scelta da Azaïs e Bec.
peta: intorno alla polisemia di questo verbo (cfr. anche fendutz vv. 4, 12, 46; fendratz v. 52; (si)·s trenca v. 50; esclatara v. 56) sono costruite le due paradossali figure impersonate da RmGauc e Joan Miralhas; si veda Mistral, II, 557: «péter, claquer, éclater; casser, rompre, crever, mourir» e le espressioni peta de graisso, dóu rire «crever d’embonpoint, de rire», peta dins sa pèu «crever dans sa péau» e le attestazioni in FEW, VIII, 133 s.v. peditum: «lütt. pèter “éclater, retentir; pétiller, craqueter; se fêler” [...] mdauph. petá “craquer, rompre”, pr. “éclater: se rompre”, Péz. “faire du bruit”, Ariège “crépiter”, [...] HVienne “gercer; déchirer”»; 139: «bress. khpéta “se fendre avec éclat”; mdauph. ęspętá “v.r. crever par excès de gonflement”; [...] Alais espetá “v.r. crever d’embonpoint”, Béz. “v.n. éclater (de rire, etc.)”».
40. esper <no> beure pro: il verso è ipometro et intendendolo come controreplica ludica e oscena a Joan Miralhas, si è integrato <no> dopo il verbo reggente, immaginando che, poiché Joan ha messo un bodoisso all’ussol del suo fondo (v. 28), Raimon si auguri di non ingurgitare troppo, inspirando le sue flatulenze, quando scoppierà il prossimo peto dalla bocca del collega: «si·l vostre cul peta / de la bocca». La scena è di una grossolanità rustica, popolare, che collega ancora una volta la figura peteggiante di Joan al mondo vinicolo, come appare da questi detti occitani citati da Mistral (II, 557): lou vin cue fai peta li boutiho «le vin cuit fait péter les bouteilles», oppure béure uno bono petado «boire un gran coup de vin»: riappare così l’immagine di Joan «uomo-botte» (in ebollizione).
A proposito del motivo del ribaltamemo parodistico dei due orifizi naturali, si aggiunga FEW, VIII, 132 petengorge: «“sorte de jeu” Baïf. Nfr. pet-en-gueule (1534, Rab [...]), Aix petangoulo P, Barc. patingouélas [...]».
Quanto al senso dato a beure “ingurgitare, trangugiare” ma anche “inspirare, inalare”(SW, I, 143, 1 «einathmen»), cfr. Marc XXXI [BdT 293,31] 55-58: «Aquest intr’ en la cozina / Coitar lo fuoc el tizo / E beu lo fum de la tina / De si donz na Bonafo», tradotto da Dejeanne (pp. 144-150 con “Celui-ci [ce goujat] entre à la cuisine soigner le feu sur les tisons et boit la fumée de la tine de sa dame Bonafo”, e da Pollina (Si cum Marcabrus declina, pp. 52-53) “and drinks in the steam from the vat of his lady, Dame Good-Was-She” (per altre interpretazioni dei v. 57, cfr. Gaunt, Troubadours and Irony, p. 50 “and he drinks the perfume from the fountain” e Harvey, Marcabru and Love, pp. 142-143 “and drinks the smoke from the butt”). È notevole inoltre la possibilità di un ulteriore aggancio con «l’affaire Cornilh» (si veda nora al v. 28) e precisamente con le diverse sfumature semantiche di cornar: “soffiare” (nella duplice accezione “espirare” ed “inspirare”), “sonare il corno” ma anche “bere, sorbire” (per la documentazione lessicale e polisemia di cornar, cfr. Perugi, Arnaut Daniel, II, 9 e Lazzerini, Cornar lo corn, cit., pp. 351-353). Significativa, anche se in una metafora erotica e non scatologica, è la presenza di beure nel secondo sirventese di Raimon de Durfort III [BdT 447,1] 15-16: «qu’ieu no·i baysses la car’ e·l fron / com si volgues beure en fon» (ed. G. Contini, Per la conoscenza di un serventese di Arnaut Daniel, in SM, IX (1936), pp. 223-231). Ma la corrispondenza più evidente è offerta da Lazzerini, la quale attesta un impiego metaforico di beure tratto da Audigier (strofa VIII), che s’addice perfettamente al verso di RmGauc: «ove boivre è riferito, oltre che a deiezioni di consistenza intuibile («ne plaigniez pas la merde quant ge la boi», v. 477), a materia indiscutibilmente gassosa: «Hé Dieus!, dist Turgibus, «quel entremés, / qui or eüst a boivre un poi aprés!» / «Donc bevez», dist Rainberge, «sire, ge vés: / assez aurez a boivre a toz vos més, / quar j’ai le ventre plain de vent punnais»; a questa si aggiungano le strofe successive, IX: «Donc bevez. ― dist Raimberge ― que j’ai vesi» e XL «Souviegne vos de boivre: et savez quoi? / que vos n’i bevrez ja se je n’i poi» (cfr. O. Jodogne, Audigier et la chanson de geste, avec une édition nouvelle du poème, in Le Moyen Age, 66 (1960), pp. 495-526 e L. Lazzerini, Audigier. Poema eroicomico antico-francese in edizione critica, con versione a fronte, introduzione c commento, Firenze 1985). Sulla «casistica del peto nella Francia medievale», cfr. L. Borghi-Cedrini, La cosmologia del villano secondo testi extravaganti del Duecento francese, Torino 1989, pp. 79-85.
Quanto all’intervento sul verso ad opera dei precedenti editori, Azaïs non nota l’ipometria e stampa la lezione del codice: de la boca es per beure pro, aggiungendo in apparato: «v. 39, 2e hémistiche et v. 40. Le sens en est si clair que je m’abstiens de les traduire». Bec invece procede a questa integrazione: de la boca ètz [près] per beure pron, traducendo: “vous serez près de la bouche, pour boire suffisamment” e notando in apparato: «Notre interprétation n’est qu’une hypothèse, mais elle ne doit pas s’éloigner du sens, visiblement grossier, de ces deux vers. On pourrait comprendre aussi: «Votre bouche ne sera pas loin pour boire à satiété». Certe proximité des deux orifices naturels, qui caractériserait Joan Miralhas, aux yeux de Gaucelm peut être notée ailleurs: cf. v. 5 et vers 14».
41. Adzempratz: cfr. LR, V, 194: “solliciter, presser, fréquenter”. Per la tendenza del copista di R ad impiegare la grafia dz, che si ritrova in testi del Toulousain e del Pays de Foix ( Breviari d’Amor, Daurel et Beton, Guillaume de la Barre, etc.), cfr. Zufferey, Recherches linguistiques, § 17, pp. 118-119. Lo studioso spiega il fenomeno come prodotto del comportamento di una particella atona all’interno di un’unità fonica: «le préverbe ou la préposition AD demeurent inchangés quand ils sont envisagés de façon autonome, alors que, s’ils sont considérés comme indissociables, l’occlusive se spirantise. Entre les deux pôles constiués par d et z, la graphie [...] dz peut représenter une graphie de compromis cntre l’occlusive et [z]». Sull’argomento si veda anche Grafström, Graphie, § 48, che, nelle carte da lui edite, riscontra l’uso di una d “cédillé”, resa con dz, solo in posizione finale, e Brunel, il quale rileva il fenomeno in una carta albigese ( Chartes, 342), in cui la d “cédillé” è rappresentata con dz per il nome proprio femminile na Gaudzio(s) e per il toponimo Boissadzo (cfr. Cl. Brunel, Les lettres T et D cédillés, in Remarques sur la paléographie des chartes provençales du XIIe siècle, BECh, 87 (1926), pp. 347-358, alle pp. 347-350). Cfr. inoltre cap. III «La lingua», Il manoscritto R, l).
filhol: cfr. Mistal, I, 1133 filhòu, filhol (l.d.): «filleul; convoi pour un baptême, cérémonie et fête baptismale, repas de baptême, dans le haut Languedoc».
43. L’immagine di una sgangherata carretta per trasportare la goffa figura di RmGauc è un altro dei fili conduttori nelle sequenze di botta e risposta tra Raimon e Joan: si veda la provocazione salace dello sfidante: «Ramon... en una carreta / en travers es. E no·us cal espero!» (vv. 31-32), rintuzzata con prontezza dall’avversario: «far m’ai, si soi redons tro al talo, / portar a leis en cuberta carreta» (vv. 36-37), e la battuta finale di Joan che volge tutto in burla: «si vos cazetz de la carreta, / ... la vostra panseta / esclatara» (vv. 53 sgg.).
Anche carrïol evoca buffamente un “barroccino”, una “carriola” oppure un sostegno su rotelle che ricorda un “girello” per bambini o una “girella” per sollevare corpi pesanti a mo’ di carrucola; cfr. Mistal, I, 479 carriolo, coriolo (l.): «carriole, voiture de roulier, charrette à quatre roues, charrette couverte d’une toile [...]; brouette, en Languedoc et Gascoigne; roulette d’enfant»; carriòu, carriol (l.): «chariot [...]; charrette à bœufs et à claire-voie, en Limousin».
Quanto al senso dato a carrïato (v. 44), è stato utile il riferimento che Levy (SW I, 220) fa a Mistral, I, 479: «tine, vaisseu de bois évasé qui sert à porter de l’eau ou de la vendange, en Gascogne», che egli non considera pertinente al testo, mentre pare proprio che lo sia, vista l’interpretazione data in questa sede a mojol “barilotto”. Inoltre, s.v. carrïaton (SW I, 220) e carrïol (SW I, 221) riporta solo questi versi di RmGauc senza tradurli, dichiarando comunque di non essere concorde con l’interpretazione di Azaïs: “si alors en carriole vous ne vous faites tirer”, che tra l’altro non traduce a tal carrïato. Bec da parte sua, interpreta così i due versi: «si en carriole vous ne vous faites pas tirer en une charrette de la sorte!».
44. faitz: «da FACITIS unico avanzo nel provenzale di /-ĭtis della III coniugazione latina, mantenuto dal bisogno di distinguere la 2ª sg., fas, dalla 2ª plurale» (Crescini, Manuale, p. 111).
45. bel’ambladureta: propriamente l’ambio è l’andatura dei cavalli quando muovono contemporaneamente la zampa anteriore e quella posteriore dello stesso lato, cioè il trotto ritmato del palafre, durante una parata.
47. el mieu mieg loc: Azaïs traduce «au milieu de mon enfourchure». MG dichiara la sua incertezza nel leggere loc ed effettivamente la lettura è assai malagevole (la parola è scritta a fine rigo con tratto insicuro, la o è troppo larga e nasconde parzialmente la l (h?) che la precede) ma il senso è chiaro.
48. estreups: cfr. LR, II, 231: “étrier”, si veda a titolo d’esempio BtBorn VI [BdT 80,15] 48-49: «e regnas breus qu’om no puesc’alonguar, / et estreups loncs en caval bas, trotier» (testo di CFRT, p. 98 ed. Gouiran).
50. si·<s> trenca: anche Azaïs nota in apparato: «sis au lieu de si», ma lascia a testo si.
52. fendratz: futuro di fendre. Bec corregge in fendretz, ma Grafström, Morphologie, § 51, riporta forme analogiche in -atz, per la seconda classe dei verbi, attestate sia nelle Chartes edite da Brunel (pp. XLII-XLIII), specialmente del Rouergue e del Gévaudan, sia in testi letterari (Vie de Sainte Énimie, Chanson de la Croisade Albigeoise, Daurel et Beton, Guillaume de la Barre, etc.), che in ulteriori documenti pubblicati dal Brunel (Supplément, p. XIV).
Segnalo che Azaïs scambiando tost con tot, nella traduzione riporta: «Et pour vous fendre en entier il faudra peu de chose».
per pauc de: cfr. SW, VI, 150,11 «beinahe, fast, es fehlt wenig daran dass».
54. companho: termine specifico dei vocabolario feudale delle origini, utilizzato per designare i compagni d’arme del signore, membri della sua mainada. In questo caso è la brigata di amici buontemponi con cui si dividono divertimento e burle (cfr. Pasero, Guglielmo IX, nota a I, 1 e Asperti, Raimon Jordan, nota a II, 50).
55. panseta: cfr. Mistral, II, 462 panseto: «petite panse, petit ventre; panse de mouton, de cochon; homme ventru et court» e panso: «[...] bas ventre, bedaine». Il partimen si conclude con la pingue figura di RmGauc in procinto di esplodere, rappresentazione di un’immagine grottesca e ridicola circolante nei riti carnevaleschi del Languedoc, per esempio nella figura del Pétasson di Trèves, e nella tradizione popolare, anche successiva, cfr. Gargantua el Pantagruel, livre V, chapitre XVII: «[...] fuismes advertis que l’hoste en son temps avoit esté bon raillard, grand grignoteur, beau mangeur de souppes lyonnoises, [...] et ayant jà par dix ans pédé gress en abondance, estoit venu à ses crevailles et, selon l’usage du pays, finoit ses jours en crevant, plus ne pouvant le péritoine et peau, jà per tant d’années deschicquettéz, clorre et retenir ses trippes qu’elles ne enfondrassent par dehors comme d’un tonneau défoncé» (F. Rabelais, Œuvres complètes, Paris 1955, p. 796; cfr. inoltre M. Bakhtine, L’œuvre de François Rabelais, pp. 302-432 e L. Borghi-Cedrini, La cosmologia del villano, pp. 85-87 e 111-113). |