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Gambino, Francesca. Canzoni anonime di trovatori e "trobairitz". Alessandria: Edizioni dell'Orso, 2003.

461,205- Anonyme

Più di un'analogia si scorge tra Can vei la flor sobre·l sambuc e la canzone Ara pos vei mon ben astruc 227, 3 di Guilhem Peire de Cazals de Caors (1): all'affinità dello schema metrico (coblas di sei versi, la rima -uc in comune, la ripresa delle parole rima vol, col) si aggiunge la vicinanza del contenuto: anche in GlPCaz 227, 3 la dama "accoglie" con generosità l'innamorato ed ha a cuore solo il suo "bene".
Alcuni studiosi hanno inoltre notato l'analogia di tono e d'immagini con due tenzoni di Guillem Rainol d'At (I terzo del XIII sec.) conservate, oltre che in D e in H, nella sezione delle canzoni di I e K (2): Auzir cugei lo chant e·l crit e·l glat GlRainol 231, 1, e Quant aug chantar lo gal sus en l'erbos GlRainol 231, 4. In quest'ultima, in particolare, lo spunto satirico e parodico (il litigio con una donna, forse la moglie, a causa di un certo Miquel che la corteggia) si sviluppa attraverso metafore faunistiche molto simili alle nostre, la menzione di specie di uccelli rari in letteratura ("Quant aug chantar lo gal sus en l'erbos | e·l piciai e·l merl'e·l coaros | e·l rossignol e l'aguisat perier" GlRainol 231, 4, 1-4), l'allusione alla pettinatura del pretendente (cfr. v. 31, per cui cfr. in An 461, 205 il v. 13), anche se sulla base di tali elementi di contiguità non si può a mio avviso formulare alcuna ipotesi di attribuzione della canzone anonima (3), che in alcuni punti continua a rimanere oscura.
Registro e topiche sembrano del resto legare tra loro numerosi testi che hanno come comun denominatore la rima difficile e rara in -uc / -ucs, che evidentemente connotava un testo scatologico o di argomento ironico-polemico. Il primo a utilizzarla è Marcabru, che nel sirventese sulla decadenza dei costumi Al departir del brau tempier 293, 3 la usa in ben quattro vv. per strofa (sucs 2 : brucx 3 : saucx 6 : yssucs 7 : lucs 10 : bacucs 11 : saucs 14 : ba[da]lucs 15; festucs 18 : damnucx 19 : saucx 22 : baudux 23; Ucs 26 : saucx 30 : bauducx; faducs 34 : Sarlux 35 : saucs 38 : benastrucx 39; huelhs cucx 42 : trabucx 43 : saucx 46 : ducx 47; saucx 50 : badalucx 51); la rima è ripresa in due componimenti attribuiti a Raimbaut d'Aurenga, sirventese-canzone di controversa attribuzione, Anz qe l'aura bruna·s cal RbAur 389, 9 (ducs 13 : 14 : desastrucs 16 : sucs 17; Ucs 21 : sambucs 24) (4), e il vers virtuosistico Ar no sui ges mals et astrucs RbAur 389, 14 (mals et astrucs 1 : malastrucs 7 : 13 : 19 : 25 : 31 : 37); cfr. inoltre la canzone Amors e jois e locs e temps ArnDan 29, 1 (astrucs 6 : oils clucs 14 : faducs 22 : ducs 30 : sucs 38 : cucs 46); il sirventese Aissi com hom tra l'estan GarApch 162, 1 (ailluc 5 : astruc 6 : faduc 13 : el suc 14); e il sirventese Non pueis mudar qan luecs es Sord 437, 21 (duc 23 : hueilh cluc 25 : n'uc 27 : peluc 28 : çuc 29 : peçuc 30 : sanbuc 32 : uc 35 : faduc 37 : Uc 38 : truc 39 : tauc 40). La rima -uc dell'incipit è anche la prima di ogni strofa in Pos vei lo temps fer, frevoluc BnVenzac 71, 3 (uc 9 : m'aluc 17 : el suc 25 : trabuc 33 : bezuc 41 : pessuc 49 : Uc 57), nel testo satirico Mailoli, joglar malastruc attribuito a BtBorn 80, 24 (faissuc 8 : paoruc 15 : sauc 22 : asertuc 29), dal quale probabilmente deriva Ar ai tendut mon trabuc LantAg 284, 1 (çuc 8 : sei hueilh cluc 15 : truc 22 : sauc 29); e in On son mei guerrier dezastruc GlRaim 229, 4 ~ Reis feritz de merda pel çuc Mola 302, 1.
 
Nel manoscritto O, a Can vei la flor sobre·l sambuc seguono senza soluzione di continuità le due coblas Cant me done l'anel daurat An 461, 203a, che vennero in un primo momento considerate come parte di An 461, 205 (5). In realtà la struttura metrica dei due testi, unica nel suo genere, è simile, ma non identica, distinta com'è da una rima (abccac | abccbc), e sarà stata proprio la somiglianza formale (e quindi melodica?) a causare l'accorpamento dei componimenti (6).
 
1. Can vei la flor sobre·l sambuc: stessa movenza in "can par la flors sobre·l verchant" Cercam 112, 1a, 3.
sambuc: lo sbocciare del fiore sul ramo di un sambuco connota sin dall'incipit il registro burlesco della canzone. Nella lirica dei trovatori questo albero compare infatti con singolare frequenza in componimenti dal carattere ironico e satirico, a cominciare da Marcabru, che in Al departir del brau tempier 293, 3 ne fa, insieme al salice, una presenza costante in rima nel sesto v. di ogni strofa (vv. 6, 14, 22, 30, 38, 46) e per la cui simbologia, cfr. Roncaglia 1953, p. 16.
Nella comparazione "plus caus d'un sambuc" questa pianta indica pochezza e mancanza di valore: in Mailoli, joglar malastruc BtBorn 80, 24 un giullare viene preso in giro con l'affermazione "dedintz iest plus caus d'un sauc" 22; in Ar ai tendut mon trabuc LnAg 284, 1, il barone cui viene inviato il sirventese è "plus cau d'un sauc" 29; in Anz qe l'aura bruna·s cal RbAur 389, 9, 24, i signori di Mevouillon, Bertran del Baus e Uc, vengono derisi in questo modo: "Jamais non tengran blizon, | mas fait cujon aver pron | car ni von cau con sambucs"; in Non pueis mudar qan luecs es Sord 437, 21, 33, infine, si afferma che "qe fols plus caus d'un sanbuc | sai qe n'a penedensa" ('ché un folle più vuoto di un sambuco so che se ne pente').
Il citato Roncaglia 1953, p. 16 ricorda come al sambuco nel Medioevo si ricollegavano molte leggende, tra le quali quella che Giuda vi si fosse impiccato. Usato come pianta medicinale contro la febbre (Corradini Bozzi 1997, pp. 247 n. 67 e 249 n. 91), a questa pianta era attribuita anche la proprietà di schiarire la voce: "Persona q(ue) velha cantar clar, aga de sambuci la vespra de Sant J(o)han Batista e met lo cequar al solhel, e garta te q(ue) no·l toque aygua, e mescle ne quant sera polverissat am de vy lo ser e begua ne, e quantara clar" (Corradini Bozzi 1997, p. 220 n. 49).
 
2-3. I cinguettii che, come in ogni esordio primaverile che si rispetti, segnano l'arrivo della bella stagione, non sono emessi da uccelli noti per il bel canto quali usignoli o allodole, ma sono assimilati ai versi sgraziati del picchio, della ghiandaia, del rigogolo.
Certo la varietà di razze diverse nasconde un topos utilizzato già da Marbodo (Descriptio vernae pulchritudinis, "Aurioli, merulae, graculi, pici, philomelae | certant laude pari varios cantus modulari", citato da Dimitri Scheludko, Zur Geschichte des Natureinganges bei den Trobadors, ZrPh, 60 (1935-37), pp. 257-334, p. 269), e nella lirica francese persino questi uccelli riescono talvolta a cantare doucement (cfr. gli ess. citati, tra gli altri, da TL 1965, VI, coll. 1283-84: "doucement chantent oisel, Merle, mauviz e orïol E Estornel e rossignol" Troie 2187; "Beiau s'esclarzi la matinee. Par les plains chante la coupee E parmi les jenz plaisëiz Rossignous, merles e mauviz, Jais, orïous, treie e calandre" Chr. Ben. Fahlin21425).
Ma non sarà un caso che essi compaiono ancora una volta in Marcabru ("[L'a]lauzet' e l'auriola | tornon lur chan en tazer, | lo jays e la rossinhola, | qu'iverns en fay son plazer" Marcabr 293, 38, 15-18; "Qan l'aura doussana bufa | e·l gais, de sotz lo brondel, | fai d'orguoill cogot e bufa, | e son ombriu li ramel, | ladoncs deuri' hom chausir | verai'amor ses mentir | c'ab son amic non barailla" Marcabr 293, 42, 1-6), presso la cui fauna trovano diritto d'asilo animali poco "cortesi" quali rane e storni, oppure nel dibattito umoristico con una donna di Guillem Rainol d'At 231, 4, 1-4, che ho citato poco sopra. Nell'ensegnamen alla dama di Garin lo Brun, inoltre, cfr. "Lai vi l'erba que broilla | e verdeiar la foilla, | e auzi pels ramels | lo dolz chant dels auçels: | que le merle e·l iais | lai fan voltas e lais, | e·l torz e l'auriols | e·l pics e·l rossinols, | e del altres gran massa | don lo dolz chanz s'aclassa", 163, I, 7-16 (Regina Bruno 1996).
Quanto al gais, la 'ghiandaia' era nota per la sua voce dura e litigiosa: nel sirventese di Marcabru 293, 42, 2 essa è simbolo di orgoglio e discordia, mentre nella tradizione popolare è conosciuta "for its ugly cries, gossiping, and imitation of other birds songs" (Paterson 1975, p. 37) e cfr. Hensel 1909, p. 620, n. 14. Oltre a Marcabr 293, 38; Id., 293, 42 e GlRainol 231, 4, cfr. inoltre "En estiu, qan crida·l iais | e reviu per miei los plais | iovens ab la flor que nais, | adoncs es razos c'om lais | fals'amor enganairitz | als volpillos acropitz" PAlv 323, 17, 1-6; "Belh m'es quan lo vens m'alena | en abril ans qu'entre mais, | e tota la nueg serena | chanta·l rossinhols e·l jais; | quecx auzel en son lenguatge, | per la frescor del mati, | van menan joi d'agradatge, | com quecx ab sa par s'aizi" ArnMar 30, 10, 1-8; cfr. infine LR 1840, III, p. 415 e TL 1960, IV, 1539.
Dallo studio di Saverio Guida, Note su alcuni derivati occitanici da *pik-, CN, XLII (1982), pp. 159-67, risulta evidente il legame di pic 'picchio' con uno dei significati attestati da FEW 1958, VIII, p. 450 sgg. 'coup de pointe, piqûre' (< *PĪKKARE).
 
3. airol: o auriol, a. fr. oriol, per cui cfr. REW 1935, n. 791 (< AUREŎLUS); LR 1836, II, p. 151; TdF auriou. Oltre a Marcabru 293, 38 e GarBrun 163, I, cfr. anche "Ara non siscla ni chanta | rossigniols, ni crida l'auriols | en vergier ni dinz forest" RbAur 389, 12, 1-3.
brau: secondo Hensel 1909, p. 616 n. 7 l'aggettivo si riferirebbe alla natura combattiva dell'uccello, opinione riportata da Paterson 1975, p. 37 "The oriolo was also reputed for its harsh and quarrelsome voice".
 
4. m'am: il fatto che il poeta dichiari di essere amato dalla sua donna colloca immediatamente la canzone al di fuori di un contesto cortese, dove, se non altro per le apparenze, è normale il contrario (cfr. per tutti "Ja per drudaria | no m'am, que no·s cove; | pero si·lh plazia | que·m fezes cal que be, | eu li juraria | per leis e per ma fe, | que·l bes que·m faria, | no fos saubutz per me" BnVent 70, 25, 50-56; "Era no sai qu'i s'es ni se deve, | qu'eu am cela quez ilh no m'ama re | e si·n tenh eu tot can ai en bailia | e tot lo mon, si fos meus, en tenria" GrBorn 242, 35, 5-8 ecc.).
el corrisponde a ela.
 
6. privatz: riferito ad sensum ad amar; insieme al successivo mol, l'aggettivo potrebbe però riferirsi anche alla domna (l'impiego del maschile, con il quale i trovatori possono pure riferirsi alla donna amata, richiederebbe però qualche pezza d'appoggio) e assumere l'accezione di 'famigliare, intima', per cui cfr. Cropp 1975, pp. 76-77 e Squillacioti 1999, p. 412 n. 34. Esso qualifica amor in Marcabru ("Cest' amors sap engan faire, | ab engan ses aigua raire, | puois qan l'a ras se remuda | e qier autrui cui saluda, | a cui es doussa e privada, | tant qe·l fols deven musaire" Marcabr 293, 5, 7-12) e in uno dei trovatori che a lui più direttamente si ispirano (cfr., con la significativa presenza di un usignolo, "e·l rossinhols mou son chant | sotz la fueilla el vergant, | sotz la flor m'agrada | dous'amors privada" BnMarti 63, 3, 14).
Privat, come i corrispondenti aggettivi in francese e inglese, può anche rapportarsi agli organi sessuali, per cui cfr. Simon Gaunt, Pour une esthétique de l'obscène chez les troubadours, in Atti Torino 1993, I, pp. 101-17, p. 117 n. 43; in Gaunt - Harvey - Paterson 2000, p. 94, lo stesso studioso osserva che l'aggettivo "has connotations of immorality [...] and of intimacy", mentre, a p. 368, aggiunge "examples of privat and privada suggest a frequent opposition with estranh that is played upon here [...]: privat in the courtly lyric takes on the meaning of 'ami intime' and is akin to drut. If the masculine privat can therefore have erotic overtones, the feminine privada may suggest wantonnes: compare Marcabru V, 11 and Bernart Marti III, 18, where the manuscript reads puta privada".
mol: letteralmente 'molle, soffice'. Meno appropriata mi sembra la possibile interpretazione di mol come una III sg. ind. pr. da molre 'affilare, arrotare' e, in senso figurato, 'stuzzicare, eccitare', con sogg. la domna. Mol è riferito al jazer in Marcabru ("mol jazer e soau dormir" Marcabr 293, 22, 27), al letto in Serveri de Girona (cfr. ad es. "en mol lit dorms, mas l'altr'er aspr'e durs" Cerv 434a, 45, 13).
 
7. plantar: 'puntare', come il cane a caccia di selvaggina. Si tratta probabilmente di una metafora venatoria: l'allocco è un uccello che non merita attenzione da parte del cacciatore, una preda senza valore, e il poeta vorrebbe sottolineare così l'incongruità del suggerimento di abbandonare la dompna. TdF, II, p. 590 s.v. planta registra anche il significato 'arrêter', 'aposter', e il verbo arrêter conosce la stessa specializzazione del significato: cfr. "le chien a arrêté une compagnie de perdrix: il en a indiqué la présence en s'arrêtant, et il les tient immobiles devant lui", es. cit. da Émil Littré,Dictionnaire de la langue française, Paris, Hachette, 1877, I, p. 200 s.v. arrêter n. 9 "terme de chasse". Un'evoluzione semantica in parte simile a plantar conosce del resto l'it. piantonare GDLI 1986, XIII, p. 304 s.v. 'vigilare a vista e con continuità un luogo, un edificio o una persona indiziata di reato', verbo che deriva indirettamente dal fr. planter (> s. m. fr. planton > s. m. it. piantone > denominale piantonare).
duc: 'allocco', REW 2789a, p. 250 (< *DŪCU, venez. dugo, ao. e cat. duc, afr. grand duc); DECLC 1982, III, pp. 215-17; Donatz proensals 2974 ducs / 'quedam avis' (Marshall 1969). Il significato di 'imbécile' è attestato in occitano moderno da FEW 1934, III, p. 196b; cfr. inoltre TdF s.v. du, duc, dove si citano le espressioni faire lou du 'rester silencieux, être ahuri' e soprattutto a 'no tèsto de dugo 'il a la tête dure'. In italiano la metafora è la stessa e si spiega probabilmente con il fatto che l'uccello notturno osservato alla luce del giorno appare goffo e con gli occhi intontiti.
Tale accezione si inserisce bene nell'elencazione di volatili che precede, ed è confermata da una strofa di Sordello tratta dallo stesso sirventese Non pueis mudar qan luecs es  in cui al v. 33 compare in rima sanbuc (cfr. nota 1): "Se çai ven *** | qi fon seinher d'Argensa, | coms, ben sai que seres duc | clamatz, a ma parvensa | e qe volares hueilh cluc | de Roine trosq'a Vensa, | qui qe n'uc. | Chascus ha cor qe·us peluc, | si q'el çuc | remanra[n] blanc li peçuc", Sord 437, 21, 21-30. Sebbene l'editore Marco Boni traduca "conte, ben so che sarete chiamato duca", anche in questo caso il poeta allude all'omonimia con l'uccello notturno, come dimostra il riferimento al volo del v. 25 e allo 'spennacchiare' del v. 28 (e, come se non bastasse, al v. 20 compare in rima un aurion, un'aquila): cfr. in particolare l'interpretazione del gioco di parole costruito intorno a duc ('duca' e 'allocco') data da Asperti 1995, pp. 201 sgg., con edizione e traduzione del testo a pp. 223-25. Si noti inoltre che, come in Sordello ai vv. 25 e 29, anche in Can vei la flor sobre·l sambuc vi è un riferimento al movimento ad oil cluc 11 (come fa l'uccello notturno quando è disturbato di giorno), alzuc 13, e a pezuc 19 ('i segni', delle beccate oppure degli strappi).  Una terza occorrenza del termine con lo stesso significato, infine, potrebbe essere quella di "Senior, eu no soi ges ducs, | ni no veg can tenc sol ducs" RbAur 389, 9, 13-14.
Nei bestiari medioevali (Bestiari medievali, a c. di Luigina Morini, Torino, Einaudi, 1996, dal "Bestiario moralizzato", LIII "Del Gufo" Lo gufo per la sua deformitate, p. 519, e dal "Bestiaire" di Philippe de Thaün, p. 256 vv. 2789 sgg., s.v. nicticorax) il gufo non ama la luce a causa della sua bruttezza: è per questo che vola di notte, cibandosi degli altri uccelli addormentati; egli può rappresentare il diavolo o i giudei.
 
8. chi: italianismo grafico dovuto probabilmente al copista.
 
9. vol: per vuolh, ind. pr. I sg.
virol: 'giro', deverbale da virolar;  il sostantivo è il solo es. citato da SW 1924, VIII, p. 796; viròu, virol in TdF 1979, II, p. 1131; revirolar in Marcabru (Pos la foilla revirola 293, 38, 1), da confrontare con reviroula 'tourbilloner, pirouetter, rouler sur soi, valser' in TdF 1979, II, p. 785 e con Perugi 1995, pp. 65-66.
 
11. cluc: 'chiuso', aggettivo presente in questa forma solo nel sintagma ohl(s) cluc(s), cuc(s), per cui cfr. LR 1836, II, p. 410 n. 26; SW 1894, I, p. 264, che cita anche "claücs clausis" del Donat proensal; e cfr. gli esempi citati nel paragrafo sull'intertestualità all'inizio di queste note.
 
12. non col:  da colhir, in rima etimologica con acuoil 15. Il momento propizio per l'incontro tra amanti sarebbe dunque quello in cui la domna 'non accoglie' il marito, secondo l'accezione più diffusa del termine.
Un'altra possibilità è quella di riferire il verbo a quest'ultimo, intentendendo: quando il marito 'non coglie, non percepisce' e, quindi, 'non se ne accorge', ma nella lirica trobadorica non ho trovato esempi che suffragassero questa interessante interpretazione. Ancora meno opportuno mi è sembrato far derivare il verbo da colre (SW 1894, I, 287 n. 1), e, sempre riferendolo al marito, interpretare letteralmente 'non riposa' (e quindi 'è occupato'), oppure 'non festeggia' (e quindi 'non gode di lei').
 
13. m'aplan: il fatto di lisciarsi i capelli indica per metafora l'intenzione di corteggiare la dama allo scopo di ottenere da lei qualcosa di concreto. Bernart de Venzac, ad esempio, esorta il folle a non pettinarsi se poi 'gli manca forza di lancio al giavellotto' ("e·l fols no s'aplat son cabeill, | pos li faill lo pertraitz al broc" Marcabr 293, 12, 31-32, ma molto probabilmente BnVenzac), in una lirica che presenta altre corrispondenze con la nostra quali l'esordio stagionale ("Bel m'es qan s'azombra·ill treilla | e vei espandir la bruoilla, | e chascus auzels s'esveilla | per chantar desotz la fuoilla" 1-4 ecc.) e il motivo della donna che, come qui al v. 15, 'accoglie' ("gent acuoill, mas puois embruia | femna pois a faich de bois teill" 29-30), anticipato dalla figura del "Na Plana-Pel", 'ser liscia-pelo', del v. 22, vale a dire il maligno pieno di lusinghe e di bei discorsi.
pel: la capigliatura, uno dei maggiori fondamenti della bellezza secondo la prassi descrittiva della poesia occitanica, veniva definita per lo più con questo termine, per cui cfr. Arnaldo Moroldo, Le portrait dans la poésie lyrique de langue d'oc, d'oïl et de si aux XIIet XIIIe siècles, CCM, 26 (1983), pp. 147-67 e 239-50, p. 149. La stessa sineddoche per capelli compare in "si tot m'ai lo pel sais | qe·l cors es fres e gais" AimPeg 10, 46, 63; il plur. pels indica inoltre la chioma nella canzone della dompna soiseubuda di Bertran de Born ("Pois tenc ma carrieira, | no·m biais, | ves Rocacoart m'eslais | als pels N'Agnes qe·m daran", BtBorn 80, 12, 34-37, per cui cfr. l'ediz. di Pietro G. Beltrami, Bertran de Born poeta galante: La canzone della dompna soiseubuda, in Ensi firent li ancessor, Mélanges de philologie médiévale offerts à Marc-René Jung, publiés par Luciano Rossi avec la collaboration de Christine Jacob-Hugon et Ursula Bähler, 2 voll., Torino, Edizioni dell’Orso, 1996, I, pp. 101-17).
zuc: s. m. sg., 'sommità della testa, testa', per cui cfr. SW 1915, VII, p. 870suc; Donatz proensals 2981 zucs / 'testa capitis' (Marshall 1969, con nota relativa), e la nota di Perugi 1978, p. 487 ad ArnDan 29, 1, 38. La voce occitanica non possiede la prevalente connotazione scherzosa dell'italiano zucca: il citato Arnaut Daniel, ad esempio, inserisce il termine in un contesto serio ("can sera blancs mos sucs").
 
14. fais: 'pena, tormento', per cui cfr. IX, 37 e n.; in coppia con gerra anche in "gerra ni fais, ni barrieira ni pon" GlBerg 210, 1, 29; e inoltre "tant cum gerra, trabails e fais" BtBorn 80, 2, 20.
 
15. plaza: più che di una 'piazza' si tratterà di una plaisa, voce glossata da PD, p. 296 con 'terrain entouré de haies, clos (?)' e attestata da "Laisar!  Car?  Aco non miga! | C'anc trencatz no fo ab aisa | ni en forest ni en plaisa | ni en verdier c'om planta; | ans es fin'amors c'anc no frais | que·m pauzet el cor ab un bais" GlAdem 202, 8, 31-36. Non solo l'immagine naturalistica si attaglia magnificamente alla fauna della canzone, ma diventa più esplicita metafora: anche nell'italiano scurrile, ad esempio, "boschetto" può indicare la vulva.
m'acuoil: sul vasto spettro di accezioni del termine acolhir, che nella lirica indica il modo in cui la dama riceve l'innamorato guardandolo, salutandolo o invitandolo ad avvicinarsi ad essa, cfr. Cropp 1975, pp. 163-68. Nel nostro contesto, tuttavia, l'accezione del verbo potrebbe essere molto concreta, analogamente al gent acuoill di Bernart de Venzac 293, 12, 29, per cui cfr. la nota al v. 13 e il commento a acuillimen IV, 14.
 
16. tenc: forma analogica di ind. pr. I sg.
meillor: 'il più importante'.
vesin: è secondo termine di paragone per le prodezze affrontate nell'alcova anche in Guglielmo IX ("Ben aia cel que me noiri, | que tan bon mester m'escari | que anc a negun no·n failli: | qu'ieu sai jogar sobre coisi | a totz tocatz; | mas no sai de nuill mon vezi, | qual qu'en vejatz" 183, 2, 22-28, per cui cfr. Eusebi 1995 'perché sul cuscino, per ogni tasto, ne so di più di nessun vicino, per qualsivoglia mi vediate alla prova'); per Pasero 1973, p. 177 n. 27, invece, non è chiaro se si tratti di riferimento generico (vezi come 'prossimo') oppure ci sia allusione geografica (come in altri due passi del duca di Poitiers); infine secondo Giorgia Bottani, Archeologia ferica. Tristano e le tre Isotte, in Interpretazioni dei trovatori, Atti del Convegno, Bologna 18-19 ottobre 1999, QFR, 14 (1999-2000), pp. 45-76, alle pp. 52-53 i "vicini" di Guglielmo IX e Jaufre Rudel sarebbero riconducibili a figure feriche della cultura celtica. In Guglielmo IX vezi potrebbe tuttavia riferirsi anche alla donna, interpretazione che, estesa ai nostri versi, suonerebbe come un'allusione scherzosa al fatto che 'quando sto con lei, la migliore delle mie amanti non vale nulla'.
fol: 'qualcuno che non vale niente', in confronto al poeta che è stato invece degnato dell'attenzione della dama. 'Folle' è il vicino in Guiraut de Borneill ("C'ans fos eu mortz qu'en aital mot falhis | c'amic non ai be d'aisso no trais; | car om non es non aia per uzatge | un fol vezi que·l vai mal enqueren, | per c'us no·s fiz en filh ni en paren" 242, 13, 32-36).
 
17. m'abessuc: interpreto la forma come la I sg. pr. ind. di un verbo parasintetico *abessugar da besuc, che nella penisola iberica quale prima accezione significa 'guercio', ed esiste anche nel Midi della Francia: cfr. DECLC 1980, I, p. 784 s.v. besugo o besuc; REW 9243a bizco 'schief, schielend'.
Per superare le difficoltà di questo passo Raynouard (LR 1836, II, p. 208 n. 4; 1843, V, p. 45 n. 8) corregge il testo coniando un verbo non altrove attestato in antico provenzale ("tot m'abelluc": 'je suis tout ébloui', 'mi attizzo tutto'). Levy (cfr. SW 1907, V, pp. 462-63) ne segnala un parallelo in TdF, abeluga 'éveiller, émoustiller', s'abeluga 's'éveiller, s'animer, s'échauffer au travail', per cui cfr. Alibert 1965, p. 65 che, per abelugar, risale all'etimologia beluga, 'scintilla, favilla'. Come parasintetico da beluga il verbo è accettato con questo unico esempio da DOM 1996, I, p. 24 abelugar, che rinvia al tolos. abelugad, rouerg. -at 'éveillé, dispos' (FEW 1959, IX, p. 147).
 
18. et oclei: nella lirica provenzale non ci sono altre attestazioni del v. oclejar; cfr. però uclia, ucla in TdF, II, p. 1075 s.v. uscla 'flamber, brûler' ma anche 'offusquer la vue, éblouir'. È una delle numerose immagini desunte dalla falconeria: come ricorda Lazzerini 1996, p. 50 ai giovani falchi "ciliati" erano state cucite le palpebre per abituarli progressivamente alla presenza dell'uomo e poterli così addestrare senza spaventarli; un'alternativa alla ciliatura era l'uso del cappuccio ed entrambe le pratiche sono più volte raffigurate nel Trattato di falconeria di Federico II di Svevia: si veda la riproduzione del manoscritto Palatino lat. 1071 De arte venandi cum avibus della Biblioteca Apostolica Vaticana, postfazione di C.A. Willemsen, Legnano, Edicart, 1991, f. 61v, 80v, 109r, 111v ecc.
Raynouard traduce il verso in due modi diversi: in LR 1843, V, p. 45 n. 8 'et je suis aveugle plus qu'une taupe'; in LR 1842, IV, p. 367 n. 6, dopo aver rinviato a OCŬLUS per il denominaleoclei, 'je clignotte plus d'un petit rat'. Levy in SW 1907, V, pp. 462-63 manifesta perplessità sia a proposito della forma oclejar, sia della traduzione, che palesemente fraintende il tipo di animale.
ratairol: è un uccello da preda, traducibile secondo gli usi attestati con 'gheppio', 'sparviere' o anche 'terzuolo'; cfr. TdF, II, p. 708 rateiròu, ratairol 'petit faucon, tiercelet'; FEW 1962, X, p. 123b (prov. ratier 'crécerelle', Brhône ratyé 'épervier', Drôme ratęróu 'épervier'); e Christian Schmitt, Untersuchungen zu den Namen der französischen Feld- und Waldvögel, ZfrPh, 115.3 (1999), pp. 410-63, p. 444.
L'ennesima comparsa ornitologica, che arricchisce quelle dell'incipit, offre alcuni spunti per contestualizzare meglio il senso di questi versi, dal momento che sia le letterature provenzale e francese che la letteratura italiana forniscono utili indicazioni sul comportamento dell'uccello. Il 'terzuolo', il maschio dei falchi (dal prov. tersol, fr. terçuel, a sua volta derivato dal lat. *TERTĬOLUS dimin. di TERTIS 'terzo', perché i maschi sono di un terzo più piccoli delle femmine), è citato sostanzialmente per due caratteristiche principali:
   1) tanto l'astore è aggressivo, fiero e coraggioso, tanto il terzuolo è spesso descritto come svogliato e lento nella caccia: Daude de Pradas ci informa che "e de totz auzels cassadors | te hom los femes per meillors, | e tug li mascle son tersol; | e son tan caut que, per lur vol, | non penrion mas lur aon; | mas li feme son deziron, | e·l femeniges si·lls destrenh | que de penre non a desdenh, | ans son volontos de cassar", vv. 67-75 (Alexander Herman Schutz, The Romance of Daude de Pradas Called "Dels Auzels Cassadors", Columbus (Ohio), University Press, 1945, p. 67), e l'immagine sostanzialmente negativa del terzuolo trova conferma nella lirica provenzale. Essa figura in Bertran de Born, per il quale passare dallo stato di prim (l'uccello femmina) a quello di tersol rappresenta un regresso e la metafora sottolinea come Filippo, re di Francia, non mostri più le stesse qualità belliche della guerra del 1188-1189: "Le seinher de cui es Manta | e Murols | s'es de prim tersols | tornatz. Ab qe sai non rest" BtBorn 80, 3, 21-24. In Peire Raimon de Toloza i terzuoli diventano addirittura la personificazione di uomini privi di ogni qualità cortese ("c'us tersols malazautz ramencx | (be sai que son de bon ai[p] vueg) | ve[i] trics qu'an afilatz lurs becx, | e·il pro, cortes, adref fan plors e gems, | quar pretz es mortz e cazutz et envers" PRmTol 355, 4, 12-16: 'vedo infatti che alcuni terzuoli scortesi, rustici, falsi (e so che son privi di ogni buona qualità) hanno aguzzato i loro becchi, mentre gli uomini prodi, nobili e giusti si lamentano e gemono, ché Valore è morto, caduto in basso e distrutto'), e continua: "Jurar vos puesc per Sancta Crotz | q'un no·n vey que pretz entier am, | que d'avareza·ls art lo focx | e tug lor fait son de fadencx": 'vi posso giurare sulla Santa Croce che non ne [di costoro] vedo uno solo che ami il perfetto valore; il fuoco della cupidigia li arde e tutte le loro azioni sono quelle di uomini pazzi'. Cavaliere 1935, p. 16 n. 12 commenta il tersol di "C'us tersols malazautz ramencx" PRmTol 355, 4, 12 come un termine che viene riferito a persona che pretende di essere più di quanto sia in realtà. Ma forse il riferimento più interessante è quello di Guillem Rainol d'At ("Car dei un pol a son tersol lanier" 231, 4, 36), nel quale Rieger 1991, 15, p. 341 vede un'allusione sessuale: "es ist anzunhemen, daβ sich dahinter (auch unter Bezug auf v. 6) eine erotische Anspielung verbirgt; zumindest fühlte sich die domna aufgrund der Bemühungen des "Falkners" zu der Gegenleistung verpflichtet, dem "Falken" ein "Hühnchen" zu opfern (ob allerdings damit auf eine Schwangerschaft angespielt wird, wie dies Krispin vermutet, scheint uns zweifelhaft)".
Gli esempi provenzali sono consonanti con i brani citati per la letteratura francese da TL 1974 X, col. 243 35 s.v. terçuel: "et li mascle sont moins ardi assez et sunt appellé terçol" Moamin 11, 7 ecc.; e da Ziltener1989, col. 314 n. 7: "Et je di qu'amor de pucele, | quant fins cuers i est ententiex, | est sor toute autre rien gentiex | comme li ostors au terçuel" J. Bod. Gomb II clers 18. Nel Tresor di Brunetto Latini, che del resto potrebbe avere come fonte proprio Daude de Pradas, si afferma che "Por ce dist li mestres que en eslire bon ostor l'en doit garder k'il soit grans et bien furnis par tout; car a la verité dire, en trestoz oiseaus chaceours li grignor sont femeles, et li petit, c'est a dire li terzel, sont malles. Et sont si caut por la masculinité ki en aus regne, et si orgilleus, ke a paine prennent autre chose se tant non come il wellent" (Francis J. Carmody, Li livres dou tresor de Brunetto Latini, 2 voll., Berkeley and Los Angeles, University of California, 1948, I.146, p. 137).
In un volgarizzamento italiano del 1288, infine, si legge un particolare che non deriva dalla fonte latina, ma è frutto dell'osservazione fisiologica medievale: "siccome noi vedemo che li sparvieri sono femmine e i moscardi sono maschi, e che sono più vili che li sparvieri. E così l'astore è femmina, e 'l terzuolo è maschio, ed è più vile che non è l'astore; e dunque, se delle bestie e dell'uccelli, e delli altri animali, e maschi e le femmine si combattono, e' pare che, secondo l'ordinanza della natura, che le femmine debbiano andare a combattere, siccome gli uomini, ed imprèndare a combattere" (Reggimento de' principi di Egidio Romano (Del). Volgarizzamento trascritto nel MCCLXXXVIII, a cura di Francesco Corazzini, Firenze, Le Monnier, 1858, L. 3, pt. 1, cap. 3, p. 219.18).
   2) In amore il terzuolo è dipinto in modo alquanto cinico, in quanto bada ad appagare il piacere immediato, senza curarsi delle eventuali implicazioni sentimentali del rapporto amoroso: esemplari a questo proposito sono i versi di Lunardo del Guallacca nel "sirventese" in coda al "rintronico" misogino Sì come'l pescio al lasso, vv. 64-72 ("Dal tersolett' ho appreso; | a sua guisa mi porto: | s'alcuna mi si baglia, | prendo del su' mistero | quello che m'è mistero, | e per altro non l'amo, | per vista che me faccia | né per beltà di faccia: | pió no abbocco l'amo", in Contini 1960, I, pp. 289-92) e la prima quartina del sonetto di Dante da Maiano ("Usato avea [per] lungo temporale | d'amor manera de lo terzolello, | che dilettando sé, tanto gli cale: | preso diletto, non si cura d' ello", in Rosanna Bettarini, Dante da Maiano, Rime, Firenze, Le Monnier, 1969).
Entrambi questi tratti caratteriali sono pertinenti con i versi della canzone provenzale: la svogliatezza potrebbe infatti essere messa in relazione con il fatto che il poeta dichiara di passare il tempo a lisciarsi i capelli e a stare lontano dalle occupazioni militari ("Per lei m'aplan lo pel del zuc | e non desir guera ni fais", 13-14). Che le gioie o le cure amorose allontanassero dalle armi e dall'impegno politico-civile era cosa risaputa: nella canzone di crociata Ara sai eu de pretz quals l'a plus gran BtBorn 80, 4, ad esempio, Bertran de Born, dopo aver lodato la tempestività di Mesier Conratz, si scusa per non avere ancora preso la croce frenato dalla vista della donna amata. Ma anche l'atteggiamento impudente del terzolello in materia d'amore non stona con le immagini e le allusioni sessuali disseminate in Can vei la flor sobre·l sambuc.
 
19. ela tem canch: il verso è ipometro e a mio parere difficilmente sanabile. La lezione del manoscritto potrebbe forse essere letta anche "E la tem, canch e pezuc" e tradotta 'e la tengo, la giro e la pizzico', con canch fatto derivare da camjar 'cambiare di posto'.
pezuc: anche 'pizzicotto', per cui cfr. Donatz proensals 2978 pezucs / 'strictura facta cum duobus digitis' (Marshall 1969).
 
20. e: con valore avversativo.
 
21. moiol: 'bicchiere', probabile allusione sessuale. Il termine ricorre anche in RmGauc 401, 6, 25 con il significato di 'barilotto', per cui cfr. la nota relativa di Radaelli 1997, p. 234; moillol in ArnDan 29, 11, 2; mujols in Cerv 434, 4a, 16.
 
22. rocairol: 'sassicola, uccello che si nasconde tra i massi'. Cfr. SW 1915, VII, p. 358.
 
23. s'embuc: 'si ubriaca'. Levy traduce in PL il lemma embugar con 'boire son soûl' (traducibile in italiano con il forse troppo pacato 'bere a sazietà'), mentre in SW 1898, II, pp. 365-66 aveva proposto una traduzione di questi versi che a mio parere non coglie nel segno ("und er (oder sie) würde sich in einem Trinkgefäss, in einem Becker ertränken, denn er trinkt so fein, so wenig wie ein Weissschwanz - nie sah ich ein Geschöpf, das sich so bald satt trinke - und isst wie ein Eichhörnchen"). Lo stesso verbo ricorre in "E N'Arnaut n'auzi clamar, cel de Nahuga, | q'era si espes e gros que tot l'enbuga" GlBerg 210, 21, 15-16, tradotto da Riquer 1971 "que era tan gordo y grueso que todo le pringa", e nel glossario s.v. enbugar: 'humedecer'.
 
24. e mania a lei d'un escirol: nel Medioevo lo scoiattolo non è l'animaletto simpatico che siamo abituati ad immaginare, ma è considerato pigro, lubrico, stupido e taccagno. La "scimmia della foresta", come lo definisce l'autore tedesco del XIV sec. Konrad von Megenberg, passa la maggior parte del suo tempo a dormire, a stuzzicarsi con i compagni e a scorazzare sugli alberi. Inoltre, ed è il particolare che qui più ci interessa nonché peccato molto grave, egli immagazzina più cibo di quello che gli è necessario, non ricordandosi neppure più dei nascondigli che ha utilizzato, segno quest'ultimo di grande stupidità (cfr. L'animal exemplaire au Moyen Âge (Ve-XVsiècle), textes rassemblés par Jacques Berlioz et Marie Anne Polo de Beaulieu, avec la collaboration de Pascal Collomb, Rennes, Presses Universitaires, 1999, p. 25 n. 38). Nell'arte e nella letteratura medioevale, inoltre, gli scoiattoli, insieme a gatti e conigli, erano usati come emblema della sessualità femminile (cfr. Bruno Roy, La belle e(s)t le bête: Aspects du bestiaire féminin au moyen âge, "Études française", 10.3 (1974), pp. 319-27; Debra Hassig, The Mark of the Beast. The Medieval Bestiary in Art, Life, and Literature, New York-London, Garland, 1999, p. 72 e p. 87 n. 7).
Si noti che, pur in un contesto e con un significato chiaramente diverso, l'avverbio/aggettivo leu è associato all'immagine dello scoiattolo anche in "q'esquirols | non es, ni cabrols, | tan lieus com eu sui, q'el test | m'es la joia q'em cercava" RbAur 389, 12, 22-23; "E qar le reis de Castella| qe prez e valor capdella, | estan ab sos Espainhols, | vol l'emperi ni l'apella, don ieu dic qez escurols | non es plus lieus qe sos vols" Raim Tors 410, 3, 13-18.
 

Note

(1) Cfr. Mouzat 1954, IX, pp. 673-75. Lo schema metrico di GlPCaz 227, 3 sembra alludere alla sestina di Arnaut Daniel, essendo la canzone formata da coblas di sei versi in cui le parole rima si rovesciano specularmente di strofa in strofa secondo il sistema della retrogradatio. ()
 
(2) Il che potrebbe essere indizio di tenzoni fittizie. ()
 
(3) Cfr. Rieger 1991, pp. 331 sgg., e pp. 341 sgg. Con una certa disinvoltura Gourc 1994, pp. 107-109 propone per An 461, 205 la paternità del Miquel causa di dissapori nella tenzone di Guillem Rainol d'At. ()
 
(4) Pattison 1952 la ritiene apocrifa; cfr. inoltre Francesca Gambino, Le attribuzioni "inverosimili" nei canzonieri provenzali (I), in VI Congrès International de l’Association Internationale d’Études Occitanes, 12-19 septembre1999, Wien, Edition Praesens, 2001, pp. 372-90, p. 379. ()
 
(5) Cfr. De Lollis 1886, p. 80. ()
 
(6) Cfr. l'edizione in Rieger 1991, pp. 657-61, e inoltre Gourc 1994, pp. 108-109. Sulla base dei vv. 2, 5-6 Rieger 1991, pp. 659-661 ha ipotizzato che l'autore di An 461, 203a possa essere una donna, forse identificabile con l'anonima partner della già citata tenzone An 231, 4 di Guillem Rainol d'At. Anche in questo caso, tuttavia, il fatto che entrambi i testi mostrino la stessa propensione per rime difficili (comuni quelle in -at), effetti comici e giochi di parola non dimostra gran che. Più stringente è forse il comune riferimento a Miquel, anche se non sono chiare le conclusioni che si possono trarre da tale osservazione. ()

 

 

 

 

 

 

 

 

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