1. fin: l’alternativa con ferm è ricorrente nella varia lectio di un certo numero di componimenti trobadorici fra cui ArnDan 29,17 (XVII): Perugi 1978, II, p. 591, nel commento al v. 15 della canzone, offre una schedatura del fenomeno che comprende anche la canzone folchettiana. Nel testo di Arnaut Perugi adotta fers ‘fedele’ in luogo del fis della «vulgata» (Eusebi ha invece sers ‘servo’): non mi è chiaro se viene suggerito di adottare ferm anche nel testo di Folchetto.
1-2. Secondo Asperti 1990, p. 392 con questo incipit «esemplare» Folchetto può superare «l’impasse angosciante che è alla base del “paradosso amoroso” di JRud» (il rimando è a JfrRud 262,6 [VI], 15-21); si veda anche infra la nota 43-45.
2. m’agr’ ops que fos: costruzioni analoghe di aver (esser) ops al condiz. pres. e completiva al cong. pres. sono schedate in Asperti 1990, p. 467.
vers: con é chiusa (in rima anche in FqMars 155,27 [ X], 22) non può essere ‘verso, poesia’, ovvero vèrs, come intende Stroński che traduce «mon vers» (così anche Torraca 1897, p. 162): lo nota Avalle 1960, II, p. 197 commentando PVid 364,20 (XXV), 45: «quar anc no fon sauputz mos vers»; cfr. anche Beltrami 1992, p. 270, n. 34. La traduzione ‘sentimenti’ è derivata da SW, VIII, p. 655 (s.v. ver): «Die wahren Empfindungen Jemandes, sein wahres Denken»; stessa scelta fa Perugi, e dopo di lui Eusebi, per tradurre «mainhs vers» di ArnDan 29,13 (IX), 47: cfr. Perugi 1978, II, p. 300, n. 47 (Toja 1960, p. 263 proponeva, probabilmente a ragione, «verità»). D’altro canto ‘verso’ rimanda a ‘vero’ nella falsa etimologia nella «deffinitions de vers» nelle Leys d’Amor (cito da Di Girolamo-Lee 1996, p. 190 perché migliorano la «pessima» ed. di Gatien-Arnoult 1841-43, I, p. 388): «[vers] deu tractar de sen, e per so es digz vers, que vol dir verays, quar veraya cauza es parlar de sen»; cfr. anche PCard 335,3 (XLIII; Vatteroni 1995, p. 174), 7-8: «car nuill[s] cantar[s] non tanh si’apellatz / vers, si non es vertadier[s] ves totz latz» e la nota di Vatteroni a p. 177.
6. enders: nota Beltrami 1992, pp. 269-70 che il termine, qui e altrove con é chiusa, rima con termini in -èrs in GrBorn 242,17 (VII), costituendo un raro caso di rima di è aperta con é chiusa nella tradizione trobadorica. Del testo giraldiano Beltrami offre una nuova edizione alle pp. 297-308 del lavoro citato.
11. aders: commentando un m’aerc in ArnDan 29,1 (XIV), 42 Perugi 1978, II, p. 487 ricostruisce prima il secondo emistichio in: «que es tant aut aders», probabilmente con dialefe fra que ed es, poi valorizza, con formula dubitativa, la lezione di LS per il primo emistichio: «al seu ricx pretz» con seü dieretico (ma unendo i due emistichi non si ottiene un verso ipermetro?). Più utile il rimando a Pfister 1959, pp. 239-40 (n° 24), per il passaggio di ADERIGERE ‘an etwas aufrichten’ a aderzer ‘erheben, sich anhängen, verheiraten’ «che ha anche il significato giuridico di ‘aufnehmen, einkleiden (z. B. beim Eintritt ins Kloster)’, cfr. in Rouergue ‘per mon aderzement al servizi de Deu’».
16. com ja pogues: Perugi 1978, I, p. 32 ipotizza, in base al qeu ia di DaIKNP e al per qeu di c, di ricostruire: «que eu pogues retraire sa valor», con dialefe fra que e eu, e di intendere ‘come potessi’ il com pogues di ABEQR, laddove Stroński scioglie «c’om pogues». Nella lezione a testo accolgo quindi la sostanza dell’intervento.
19-20. no·n ai, no·n ai: le due occorrenze di non ai sono variamente intese: Stroński interpreta «no·n ai» al v. 19 (suo 28) e «non ai» al v. 20 (suo 29); Lewent 1912, col. 332 suggerisce in entrambi i casi no n’ai, mentre Salverda de Grave 1911, p. 501 propone di estendere la forma no·n ai anche al v. 20: faccio mia la proposta.
20. no·n ai doncs pro?: la domanda è topica: Stroński ne rintraccia alcuni esempi a p. 82*: GcFaid 167,61 (XXXII), 23: «no n’ai doncs pro? Ja sui sieus finamen»; PRog 356,6 (III), 16: «non ai donc pro car sol la vey?»; RbOr 389,37 (XVI), 31-32: «no m’es doncs pros e be no·m vai / si·m pens qe tan ric joi desir?».
21. Sull’espressione donar/dar/aver lezer rimando alla schedatura di Asperti 1990, p. 282 (a proposito di RmJord 404,4 [IV], 53: «quon que·m des lezer»).
26-27. Stroński traduce: «il m’a paru qu’elle voulût me donner son amour toutes les fois qu’elle tournait vers moi ses yeux pleins de douceur» (p. 123) e viene giustamente ripreso da Lewent 1912, col. 332: «Ohne Grund steht in der Uebersetzung dieser Zeilen eine Zeit der Vergangenheit».
27. quan volv: invece di sol vir del ms. base A (con BOlsGLS), metto a testo la lezione di DaIKNEM, dalla cui deformazione originano probabilmente le forme di P (can uo), QV (qan uol), R (câ uous), T (can uals), c (qan uuoilh).
36. huoills del cor: l’espressione ‘occhi del cuore’, conservata soltanto da g (T escluso) + B, ha origine nell’epistola paolina Ad Ephesios 1,18: «illuminatos oculos cordis vestri», ed ha avuto grande fortuna nell’allegoresi biblica, trovando in S. Agostino colui che «begründet die antike und biblische Metapher von den Augen des Herzen [...] theoretisch neu» (G. Schleusener-Eichholz, Das Auge im Mittelalter, München, Fink 1985, II, pp. 1019-20; ma è da vedere l’intero paragrafo, pp. 1019-40, dedicato alla presenza del motivo nella Patristica e nella letteratura medio-altotedesca). Utile anche R. H. Cline, Heart and Eyes, RPh, XXV (1971), pp. 263-97, che propone un excursus sui rapporti occhi-cuore dalla tradizione classica a quella francese e provenzale medievale; indicazioni più specifiche sulla fortuna dell’espressione fra i trovatori occitanici vengono da O. Schultz-Gora, «Augen des Herzen» im Provenzalischen und Altfranzösischen, ZrPh, XXIX (1905), pp. 337-40 e da Wechssler 1909, pp. 376-83, che offrono una serie di passi che può essere utile riportare secondo le edizioni correnti:
i) occhi del cuore (da Schultz-Gora): DPrad 124,9 (dubbie II), 22 e Quatre vertus cardinales (Stickeney 1879), 215-16; Peirol 366,14 (VIII), 33-34; anom 461,240 (Schultz[-Gora] 1888, p. 31), 33-34; Sord, Ensenhamen d’onor (XLIII), 494-95; la poesia religiosa Auiaç, si Deus vos alça (Levy 1887, p. 202), 542-44; nell’ed. Mouzat il v. 27 di GcFaid 167,60 (XI), schedato da Wechssler, suona «q’ades i teing lo cor e·ls huoills amdos» (los huelh del cor è la lezione largamente maggioritaria dei mss. CDEFGIKL NO[P]QS). Oltre agli «euz du cuer» al v. 9 di Thibaut de Champagne, Douce dame, tout autre pensement (R315 e n° 240,22 di Linker 1979; ed. Wallensköld 1925, p. 31), 9 citato da C. Lee, La solitudine del cuore: caratteri della lirica cortese in Francia, in Bruni 1988, pp. 49-78, a p. 70, aggiungo GcFaid 167,68 (LII), 17: «c’ab los huoills del cor vos remire».
ii) vedere col cuore (da Wechssler): AimPeg 10,20 (XX), 41-42; BnVent 70,41 (XLI), 41-42; FqMars 155,21 ( VII), 45-48 (e cfr. FqMars 155,1 [ V], 19: «que·l cor plora»); UcBrun 450,4 (IV), 49-53; il salut d’amor di ArnMar Tant m’abellis e·m platz (Bec 1961, n. III), 130-31.
iii) vedere nel cuore (da Wechssler): AdNegre 3,3 (ed. Appel 1890, p. 1), 17-20; ArnDan 29,4 (XIII), 28; ArnMar 30,22 (VIII), 25-32; BonCalvo 101,2 (IX), 26-28; GcFaid 167,21 (XX), 87-90; GlSal 235,2 (III), 35-38 (schedato anche come GrSal 249,4); PVergt 363,1 (Appel 1890, p. 250), 9-10; PoChapt 375,10 (XV), 9-10; aggiungo le indicazioni di Stroński (p. 82*) a proposito di FqMars 155,23 ( IX), 51 [si vedano le mie versioni α e β, nella Nota al testo dell’edizione]: ArnMar 30,13 (XXII), 26-27: «que·m te vostras faissos / dedinz e mon coratge» e 30,17 (XII), 32-35: «...E car soven no·us vei, / lai on vos es, contrasta·l mieus temers, / qu’inz e mon cor mi faisson aital, / com s’era lai als plus plazens vezers»; GlCapest 213,1a (IX), 23-27: «C’anc, puois la vi, per nuill pensar / non fo q’inz el cor no m’estes / sos semblans, per q’eu la vi clar / car ella·m fetz pels huoills passar / sa beutat que totz temps mires» (schedato anche come GrBorn 242,7); RbOr 389,1 (XXXV), 47-49: «En mon cor, dompna, vos esgar; / c’ades mi·us veig inz dompn’estar / vostre bel nou cors covinen». E inoltre GrSal 249,1 (II), 19: «ieu la vey ben e mon cor, per ma fe!».
37-40. Stroński mette a testo ai vv. 37-38 la redazione di γ: «Car anc no·ill dis – tant tem vas lei faillir – / com s’es en leis aturatz mos volers » (suoi 19-20); aveva scelto come me la redazione α Zingarelli 1899, p. 31 che ben commentava il passo, fornendo per di più una spiegazione dell’alternativa 40 s’abaisa/s’abrasa: «se egli [scil. l’io lirico] insomma non sfogherà con le parole, lasciando ogni riguardo, è certo di sentire viepiù l’interno ardore: pensiero non punto nuovo, ma espresso in maniera nuova, che non fu intesa da più d’uno, perché un codice legge nell’ultimo verso «s’esbraisa», e un altro «s’abaisa», che sarebbe come dire che il fuoco si spegne coprendolo, laddove il poeta assicura fermamente che egli sente molto più che non dica, e notte e giorno ha gli occhi e il cuore alla donna amata, pur non mostrandosi a lei. È insomma il verso di Ovidio, Metamorfosi, IV, 65: “Quoque magis tegitur, tectus magis aestuat ignis”».
40. Stroński accosta al verso i vv. 35-37 di Peirol 366,27 (XI): «Trop l’ai atenduda / mas ‘la flam’ esconduda / es greus ad escantir’».
41. nafrat: si noti l’italianismo ferit del copista di A commentato da Zufferey 1987, p. 65, che considera questa canzone, insieme con FqMars 155,3 ( V), il luogo privilegiato per l’indagine linguistica sulla ‘tradizione alverniate unificata’ rappresentata dai mss. AA’B (vd. le pp. 40-58 del suo lavoro).
42. sojornars ni jazers: Stroński traduce «divertissement ni volupté» (p. 123), contestato Schultz-Gora 1921, p. 142, per il quale Folchetto vuol dire che per la ferita del dio d’amore non esiste rimedio né cura: traduce pertanto «Ruhen und Liegen»; seguo la sua indicazione. La dittologia è comunque attestata col significato di ‘divertirsi’ in Marcabr 293,31 (XXXI), 60: «ieu sai cum sojorn’ e jai».
43-45. Questi versi, ma già i vv. 5-6, configurano una sorta di chanson de change (o meglio ‘après le change’), che si può confrontare BtBorn 80,10 (V; Beltrami 1989, p. 37), in partic. 1-2: «Sel qui camja bon per meillor, / se·l mielz prent, ben deu mais valer» (sull’espressione camjar bon per meillor si veda anche Cnyrim 1888, p. 47, ni 810-24); il motivo del cambio si ritrova in PVid 364,2 (III), 65-67: «Ans, si Dieus mi perdo, / m’en parti de tal qui / m’agra dat tan ric do»: il parallelo è segnalato da Stroński a p. 82* (e cfr. Avalle 1960, I, p. 41), che cita anche il v. 20 di GlCapest 213,6 (VI): «tot autr’amor oblit e dasampar», attribuendo però il testo a Guillem de Saint-Didier, a cui nessuna delle rubriche lo attribuisce.
46-48. La tornada è considerata apocrifa da Stroński: «sa tournure banale et maladroite, et le fait que seuls les mss. z [=GLS] e V la conservent, rendent son authenticité très suspecte; rem. d’ailleurs la forme irrégulière deit» (p. 222); il testo, ricavato in sostanza da G, è comunque offerto in apparato: «A vos mi rend, pros domna cui ador, / e prendetz mi qe segui dreit d’amor: / deit lo·m esgard, fin corag’, e ricor», ma senza traduzione, cosicché non mi è chiaro il senso del v. 48: nel Glossaire deit è registrato come 3ª pers. sing. dell’ind. pres. di dever. Di opinione contraria Jeanroy 1913: «la tornade, quoique donnée par quatre ms. seulement, doit être introduite dans le texte et traduite tout autrement» (p. 260); accolgo la sua proposta testuale che valorizza il ms. V, e in particolare le lezioni 47 segon (con L) e 48 egar, di cui esgar(d) costituisce una chiara banalizzazione. |