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Squillacioti, Paolo. Le poesie di Folchetto di Marsiglia. Pisa: Pacini, 1999.

Nuova edizione riveduta e aggiornata per il "Corpus des Troubadours", 2009.

155,005- Folquet de Marselha

Datazione: parte I, § 1.3.1.1.

2. galiador: si veda la schedatura di Cropp 1975, p. 445, n. 95.

3. per que·s taing: la lezione a testo, oltre ad essere trasmessa da mss. dei tre gruppi (ABIK CETV LNc) mi pare preferibile all’adiafora per que·m platz di DPSGMQR in quanto il concetto di «necessità» espresso da taing è meglio rispondente al contesto; nello stesso senso va intesa la lezione per q’es dreigz di Ols.

5. Un verso assai simile in PVid 364,7 (XXIV), 3: «qu’en tal domna ai chauzit».

7. e: registro l’opinione di Schultz-Gora 1921 favorevole alla lezione di β: «Das e befriedigt nicht; eine viel bessere Gedankenverbindung ergibt das von einer großen Zahl von Hss. gebrachte quar» (p. 140).
qui trop poja bas dissen: il concetto, molto diffuso in ambito trobadorico, si rintraccia già nella tradizione classica, come evidenzia Stroński (p. 78*) citando Publilio Siro, Tito Livio e l’Agamennone di Seneca. Espressioni analoghe in FqMars 155,15 (XVIII), 57: «on plus aut son cazon leugieiramen» e 155,16 (VIII), 2-3: «qu’on plus deisen plus poja Humilitatz / et Orgoills chai on plus aut es poiatz»; sull’uso dei proverbi in Folchetto si veda Pfeffer 1987, in partic. pp. 402-405, che considera Ben an mort un componimento paradigmatico del modo di organizzare i contenuti attraverso massime proverbiali (cfr. ora Pfeffer 1997, pp. 46-50). Fra le ricorrenze trobadoriche si vedano PRog 356,7 (VIII), 17-18, RbVaq 392,20 (XIV), 67-68 e, con uno scoperto senso moralistico, PCard 355,69 (XXXVII; Vatteroni 1993, p. 135), 30-32: «c’on plus aut son poiatz en las honors, / quazon plus bas ab penas et ab plors / el fons d’infern, et autre cueil la renda»; cfr. Cnyrim 1888, pp. 35-36, ni 384-90. Si può notare che nella paremiologia trobadorica aut occorre più frequentemente che trop: si sarebbe quindi tentati a considerare difficilior quest’ultimo; «qui n’aut» è invece la scelta di Stroński, ma la forma è censurata sia da Lewent 1912, col. 331, sia da Bertoni 1911b, p. 117 che propongono «qui ’n aut» (il secondo anzi suggerisce di eliminare l’(e)n rimandando al «mi sent aut poiatz» di FqMars 155,27 (X), 11, naturalmente nell’ed. Stroński). «Trop» è invece la scelta di Frank 1952.

8. mi ren: già Bertoni 1911b, p. 117 sollecitava la lezione di α, senza peraltro fornire una motivazione, in luogo di m’aten di β+γ adottato da Stroński.

9. qu’ieu non cre jes: Perugi 1978, I, pp. 29-30 ipotizza una diffrazione in praesentia: la lezione buona si sarebbe conservata in MP, per reazione ad uno iato del tipo que eu non cre; in realtà se diffrazione c’è, è in absentia in quanto MT (non P) hanno rispettivamente qe ges e egies (Perugi fraintende il q. i. con cui Stroński abbrevia la lezione in apparato). La ricostruzione dello studioso è comunque interessante: nel mettere a testo la lezione di α, noto che l’eliminazione di jes va evitata, almeno nella mia prospettiva ecdotica restaurativa, per la sua presenza oltre che nei mss. di α, in codici come M e IK che contaminano le redazioni e soprattutto in T, ms. di β; né può escludersi un’evoluzione della lezione del tipo qieu que non cre jes (α) > que ges non cre (MT) > car ies non pens (IK con parz. innovazione) > quar ieu no cre (β), ovvero un passaggio ies > ieu.

9-10. Cfr. GcFaid 167,57 (VI; Beltrami 1992, p. 282), 26-28: «que lai on es beutatz e pretz valens / non deu faillir merces ni chauzimens, / ni guizardo de fin joi ses duptansa».

10. volc: il perfetto, attestato da α, ABIK esclusi, invece del pres. indic. vol, consente di riferire l’espressione all’azione creatrice di Dio, piuttosto che alla sua volontà ordinatrice.

12. l’a: mera variante grafica, la lezione di Stroński li’a, è ricavata da C (con Ols), ms. di riferimento per la grafia: peraltro secondo Lewent 1912: «li’a als einsilbige Gruppe ist seltsam, l. ll’a oder lh’a» (col. 331); li a è invece la proposta Salverda de Grave 1911, p. 501.
sabor: sull’espressione aver sabor ‘avoir bon goût, plaire’, anche in FqMars 155,24 (XXIV), 44, si veda la ricca esemplificazione di Stroński nel suo Glossaire, pp. 263-64, s.v. sabor.

13-14. Per l’antitesi paradossale, su cui sono interamente costruite le coblas II-III, Stroński richiama Ovidio, Ars Amatoria I, 717: «Quod refugit multae cupiunt; odere, quod instat», Amores, III, IV, 17: «Nitimur in vetitum semper cupimusque negata» (si aggiunga II, XIX, 3: «Quod licet, ingratum est; quod non licet, acrius urit».

14-15. La punteggiatura adottata è quella suggerita da Salverda de Grave 1911, p. 501, laddove Stroński pone la virgola solo dopo estrit.

17-18. L’immagine dell’amante inseguitore di un’amata in fuga è un’immagine assai tipica della poesia erotica che ha origine nell’ode saffica ad Afrodite (I 21-24): «Perché se fugge presto inseguirà, se doni non accetta anzi donerà, se non ama presto amerà pur contro il suo volere» (trad. di F. Ferrari, in Saffo, Poesie, Milano, BUR 1987, p. 95); più vicina all’impasse del passo folchettiano è tuttavia la formulazione di Callimaco nell’epigramma XXXI (Pfeiffer), 5-6: «Anche il mio amore è così: insegue chi fugge, / sa bene, ma supera in volo quel che è a portata di mano» (trad. di G. B. Alessio, in Callimaco, Inni, epigrammi, ecale, I, Milano, BUR 1996, p. 245), imitato da Orazio, Satire, I, II, 107-108: «...meus est amor huic similis; nam / transvolat in medio posita et fugentia captat» e quindi da Ovidio, Amores, II, IX, 9-10: «venator sequitur fugentia, capta relinquit, / semper et inventis ulteriora petit». È nell’elegia II XIX 36 la probabile fonte folchettiana: «quod sequitur fugio, quod fugit ipse sequor» (e si accosti l’epigramma V 83 di Marziale: «Insequeris, fugio; fugis, insequor; haec mihi mens est: / velle tuum nolo, Dindyme, nolle volo»); alla medesima fonte si rifà anche BnVent 70,42 (XLII), 22-23: «Eu sec cela que plus vas me s’ergolha / e cela fuih que·m fo de bel estage» e 70,29 (XXIX), 45-46: «(car) cel sec Amors que·s esdui / e cel l’enchaussa qu’ela fui» (segnalato, a integrazione del regesto di Stroński, da Meneghetti 1992, p. 269, n. 81). L’immagine si trova, con una sfumatura di senso diversa, già in JfrRud 262,6 (VI), 8-11: «D’aquest’ amor son tan cochos / que, quant eu vauc vas leis corren, / vejaire m’es qu’a reusos / m’en torn e qu’ela m’an fugen» (cfr. vv. 22-25 della redaz. b); altri ess. in Asperti 1990, p. 199 a proposito di RmJord 404,2 (II), 36: «ni sai fugir, ni puesc pro encaussar».

19. aissi: Stroński adotta in posizione iniziale d’aisso, lezione tràdita da γ (con T Ols) ma solo da Ols con la preposizione; aissi è spiegata come un’innovazione poligenetica indotta dalla difficoltà di un d’aisso prolettico e in una sede troppo lontana dal verbo reggente garir (cfr. p. 188). Forse ha influito sull’editore il desiderio di variatio, visto che un’identica struttura (aissi ... que) si ripete nella stessa posizione metrica ai vv. 29-30, qui senza ambiguità nella tradizione. E comunque gli argomenti non mi paiono sufficienti a far considerare aissi una lezione inferiore (Frank 1952 peraltro la adotta nella sua edizione). Registro infine l’obiezione mossa da Salverda de Grave 1911 alla traduzione proposta da Stroński («je ne sais comment je pourrais m’en délivrer») in quanto «d’aisso a le sens de ‘par rapport à cela, au sujet de cela’» (p. 501): «je ne sais comment me tirer de cette difficulté» è la proposta dello studioso.
La virgola dopo garir è richiesta da Schultz-Gora 1921, p. 140. Su garir cfr. Cropp 1975, pp. 285-87.

20. non puosc: m’aven di β (ERV, con DcIK), lezione adottata da Stroński forse per evitare la ripetizione con posca di v. 19, descrive la situazione dei vv. precedenti; tuttavia mi pare non puosc si attagli meglio al significato di garir: l’impossibilità di inseguire e fuggire allo stesso tempo, più della semplice menzione del verificarsi contemporaneo delle due azioni contrastanti, specifica con maggiore evidenza la necessità di uscire da un’impasse psicologica, resa metaforicamente in termini di movimento fisico. La lezione è già in Frank 1952 ed era sollecitata da Bertoni 1911b, p. 117.

22. arditz sui per paor: la fonte classica è ancora ovidiana, Tristia, I, IV, 4: «...sed audaces cogimur esse metu»; il sintagma è in PVid 364,37 (XL), 34: «e sui arditz per paor» (cfr. parte I, § 3.2.1.2.4): cfr. lo studio centrato sulla lirica d’oïl di R. Dragonetti, Trois motifs de la lirique courtoise confrontés avec les Arts d’aimer (Contribution à l’étude de la thematologie courtoise), «Romanica Gandensia», VII (1959), pp. 5-48, poi in R. D., «La musique et les lettres». Études de littérature médiévale, Genève, Droz 1986, pp. 125-168. Su ardimen si veda A. Tavera, Ardimen: un topos négligé, in Atti London 1987, pp. 493-512: citata la cobla II lo studioso commenta: «Je trouve une superbe toute cornélienne à la dernière image!» (p. 505); cfr. anche la scheda Ardit in Cropp 1975, pp. 131-32.

29-30. qu(e), que: Schultz-Gora 1921, p. 140 sottolinea il valore relativo dei due que, i quali introducono due proposizioni paratattiche, rintracciando un uso comune in BnPrad 65,2 (Appel 1915, p. 308), 20-21: «qu’ieu quier e quier, e·l joys va·m defugen / que m’es promes, que cug penre desliure». Si noti che la versione β (mss. ERTV) legge e (es R) in luogo di 30 que, lezione certo introdotta per realizzare una più ‘scorrevole’ ipotassi (cfr. peraltro la mia traduzione).

38. In base a SW, III, p. 384 (s.v. faire, n° 20), dove è registrato l’uso di faire + infinito, Jeanroy 1913, p. 259 traduce: «il y a bien des gens qu’il fait mauvais servir», meglio di Stroński: «que beaucoup de gens ont tort de servir» (a testo croi di γ invece di mal di α); così anche Lewent 1912, col. 331: «“viele Leute dienen schlecht” (nicht ont tort de servir); der Dichter dagegen dient gut und geht dabei zugrunde (v. 39-40)»; Frank 1952 inserisce il verso tra virgolette, chiudendolo con un punto esclamativo, come fosse un’allocuzione diretta di cill c’o sabon, traducendolo: «‘Qu’il fait mauvais servir certaines gens!’».

39. Cfr. RmJord 404,3 (III), 19: «[sella] cui ieu am tan que d’als no puesc pessar» (e v. 40: «ai tot en vos, si que d’als non cossir»).

41. e ja: Stroński mette a testo una lezione di β (limitata a ERV) eu oc, limitandosi a definirla «bonne leçon» a p. 188; la mia scelta coincide invece con quella di Frank 1952.
per flor: può avere senso proprio di ‘fiore’ (singolare per un plurale) come in MoMont 305,6 (V), 1-3: «Era pot ma domna saber / qu’anc no chantiey ni aic joy ni solatz / pel temps d’estiu ni per las flors dels pratz» (altre indicazioni nel Glossaire di Stroński, p. 250, s.v. flor); oppure, con sineddoche, di ‘primavera’ (Stroński cita le prime due coblas di RmMir 406,2 (XXXV): in questo caso il passo andrebbe inteso: ‘non mi vedreste poeta per quanto sia primavera’.

42. chantador: non cita questa occorrenza del termine S. M. Cingolani, Chantador, CN, XLII (1982), pp. 169-79: lo studioso estrae da uno spoglio più ampio l’analisi dei luoghi in cui «il “nomen agentis” chantaire/chantador, sulla base di una prima valutazione del materiale, compare in funzione predicativa o apposizionale» (p. 170).

44-45. lo bon rei ... d’Aragon: è Alfonso II (1164-1196): cfr. parte I, § 1.3.1.1 e infra il commento a FqMars 155,15 (XVIII), 37-44.

47. per qu’ieu: la scelta di Stroński di stampare e si non ha ragioni stemmatiche, essendo i suoi relatori (EMRTV) limitati alla famiglia y del suo stemma (eccetto M che può avere assunto la lezione per contaminazione), laddove tutti gli altri mss. hanno per qu’ieu, esclusi IK che leggono pero. La motivazione è più probabilmente stilistica in quanto, se il riferimento è il re d’Aragona dei vv. 44-45, si ottiene un iperbato abbastanza forte: il sintagma lo bon rei ... d’Aragon, già interrotto dall’augurio incidentale cui Dieus guit, è poi separato dal suo referente da 45-46 m’an partit / d’ira e de marrimen, verbo e complementi oggetto di una proposizione reggente con soggetto in 43 prec de mo seinhor. Questa faticosa ipotassi, se trova in un certo senso sollievo con e si, che opera una bipartizione della cobla in due strutture paratattiche (vv. 41-46 e 47-50), può essere più facilmente evitata dando a per qu(e) il senso di ‘per cui, per la qual cosa’, così da riferirlo all’insieme dei versi precedenti. Per di più a Schultz-Gora 1921 pare che per qu’ieu «dem Sinne besser Genüge leisten würde» (p. 140); anche Frank 1952 adotta la lezione traducendo: «je chante donc».

50. vei: Stroński stampa vem, 1ª pl. del pres. indic. di vezer, attestata solo da PS (inoltre G legge uei con -i ricavata da m secondo Stroński, ma più probabilmente uein con -n erasa, come indica Bertoni 1912, p. 15; D ha ven) mettendola in relazione con un analogo veim in FqMars 155,3 (VI), 40, la sua canzone n° X: «Il serait facile d’accepter pour I, 50 la 1e pers. sing. vei, bien que la 1e plur. corresponde mieux au contexte. Mais il est moins facile de proposer une autre leçon pour X, 40. Et en tout cas, comment expliquer la présence de ces formes dans les variantes et leur substitution à d’autres formes, régulières? Il faut les respecter» (p. 217). A parte l’infondatezza della notazione stilistica (in una cobla dominata dalla presenza di chi dice io è piuttosto il repentino passaggio al plurale a risultare stridente), l’ipotesi di una forma analogica su fa(i)m ‘facciamo’ ed ém ‘siamo’, è considerata poco economica da Lewent 1912, col. 333 e da Jeanroy 1913, p. 259, e del tutto scorretta da Bertoni 1911b, pp. 117-18: la vicinanza dei mss. che l’attestano più o meno integra, riconducibili tutti al gruppo α, e l’inconsistenza del richiamo al veim in FqMars 155,3 (VI), 40 (per cui rimando alla relativa nota del Commento), sono gli argomenti che vengono addotti.

51-52. Altro proverbio topico nella tradizione lirica trobadorica (basti ricordare Marcabr 293,24 (XXIV), 18, BtBorn 80,28 (XXV), 41-42 e soprattutto il celebre inizio di GrBorn 242,51 (XXXVII), 1-2: «Non puesc sofrir c’a la dolor / de la den la lengua non vir»; cfr. Cnyrim 1888, p. 49, ni 895-99); Schultz-Gora 1921, pp. 140-41 mette in evidenza l’elaborata costruzione sintattica del passo («Es ist gewiß stilistich merkwürdig, daß Folquet ein erläuterndes a lieis cui mi ren asyndetisch an das voraufgehende a la dolor de la den anschließt»), criticando l’integrazione di un «je parle» fra parentesi nella traduzione di Stroński, subito prima di «à celle à laquelle je me rends»; viceversa l’editore omette di tradurre sai, sebbene il Glossaire registri il sai in questione, traducendolo impropriamente con «là», mentre vale, come spiega Frank 1952: «‘ici’, à ce point de la chanson, d’où le sens temporel ‘à present’» (p. 165).

53. merces: si può discutere se questo termine chiave della lirica trobadorica, che mantengo volutamente ambiguo nella mia traduzione, valga «acte méritoire» come propone Jeanroy 1913, p. 259, sulla scorta di SW, V, p. 230 (s.v. merce, n° 2): «Dankenswerthes, Verdienst» (meglio che «une recompense» di Stroński) oppure «un acte plein de grâce» come traduce Frank 1952 (ma già Lewent 1912, col. 331: «Gnade»).

52’. (e)N Raimon Berengier: cfr. parte I, § 1.3.1.1.

56. s’o auses dir: Frank 1952, divide diversamente le parole (so aus esdir) e traduce «voilà le vœu que j’ose prononcer».

 

Postilla 2009

Devo l’adozione di gandir come rimante al v. 19 della versione β a un suggerimento di Zinelli 2003, p. 518, n. 31. Sul rimante al v. 10 (aizir / assir) si vedano le considerazioni di Perugi 1997, pp. 373-74 e di Pfister 2002, pp. 514-15.

 

 

 

 

 

 

 

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