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Radaelli, Anna. Raimon Gaucelm de Béziers. Poesie. Firenze: La Nuova Italia, 1997.

401,002- Raimon Gaucelm de Bezers

Azaïs data la canzone al 1 Marzo 1275. In realtà la rubrica non porta alcuna indicazione riguardo al giorno, e l’anno è stato evidentemente letto in maniera erronea.
 
1. done: in RmGuc non sono rare le forme verbali della 1ª ps. sg. del presente indicativo con uscita vocalica, specie in -i (pregui I, 9; queri II, 39; teni II, 43).
L’origine della desinenza in -e, -i per i presenti dell’indicativo e del congiuntivo è probabilmente analogica sui verbi del tipo tremblar, cobrir, sofrir ecc. in cui il nesso consonantico finale esigeva una vocale d’appoggio. Dalle testimonianze non letterarie risalenti al 1150 (cfr. Brunel, Chartes, p. XLIII) -e analogica appare in Auvergne e nel Rouergue, mentre -i è attestata per lo più nell’Albigeois e nella regione Tolosana, cfr. le forme done 61 (1 ex.) e pregui (62,13 1 ex.) a cui si aggiungano alcuni esempi tratti da Grafström: done (lod. 211-3, 9, 13), queri (alb. 130,2 seul ex.), teni (alb. 323,6 seul ex.), Morphologie, §§ 53-55. Secondo Ronjat, Grammaire istorique, III, § 554, la desinenza -i si impiega nei dialetti moderni di gran parte del Languedoc, -e soprattutto a Lodève, Clermont-l’Hérault, Nîmes, Uzès (cfr. anche §§ 598 sgg. per l’analisi delle varietà dialettali). Le Leys (ed. Gatien-Arnoult, II, 358; ed. Anglade, III, 148 sgg.) riportano una lunga lista di forme al presente con l’estensione analogica di -e, -i atone finali. Cfr. inoltre Schultz-Gora, Altprovenzalischen Elementarbuch, § 151; Anglade, Grammaire de l’ancien provençal, pp. 336 sgg.
Per le forme del presente congiuntivo (garde I, 6; II, 6; IX, 24; pregue I, 13; honre I, 29; parle III, 36; done V, 27; passe VI, 6), cfr. Grafström, Morphologie, §§ 58-59.
L’edizione di Azaïs reca stampato a testo donc, ma è da considerarsi senz’altro un refuso tipografico, poiché nella traduzione risulta correttamente «je donne».
de bon’amor / e de bon cor e de tot bon talan: espressione formulare che ha alla base la serie memoria, intellectus, voluntas (cfr. Dt 6,5: «Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo, et ex tota anima tua, et ex tota fortitudine tua» e Mt 22,37: «... et in tota anima tua, et in tota mente tua»). Una sequenza analoga si ritrova, amplificata, in VIII, 12-13: «que·l cor e·l sen e·l saber e·l vejaire / e·l bon talen», applicata però al di fuori del linguaggio religioso, nell’offerta dei propri servigi al signore.
 
2. talan: l’interpretazione “con tutta la mente” risale al testo biblico, e vuole indicare l’amore verso Dio al quale si aderisce con tutte le forze: fisiche, intellettuali, morali, spirituali. Il denso significato del termine in questo contesto è ben spiegato da Guida: «ripreso dal linguaggio degli esegeti biblici i quali, persuasi che i cristiani dovessero non soltanto conoscere il bene grazie all’intellectus, ma anche aderirvi mediante la volontà, avevano adeguato sin dai tempi di Tertulliano talentum a operatio (termine quest’ultimo inteso nel senso di studium, voluntas, bonum placitum» (Canzoni di crociata, p. 373, nota a 31, 38; inoltre Id., Jocs poetici, nota a I, 56).
Il sostantivo talan (talen) appare col significato prevalente di “desiderio, volontà, intenzione, aspirazione”, anche in III, 8 («mos talans»), IV, 3 («ab bon talan»), VI, 38 («ab bos talans») e VIII, 13 («bon talen»).
 
3. coman: da (se) comandar, cfr. Niermeyer, p. 213.8 «se recommander; se placer sous la tutele protectice (le mundium, le patrocinium) d’un seigneur, entrer dans la vassalité d’un seigneur».
 
4. gar: può essere forma della 3ª ps. sg. del congiuntivo presente di garar o di gardar, che hanno gli affini significati di “preservare, proteggere, garantire”, cfr. SW, IV, 44 garar «Acht geben, aufpassen» e SW, IV, 53 gardar «bewahren, behüten, schützen» (si veda al v. 6 garde da gardar).
 
5. folhatge: appartiene alla stessa area concettuale e semantica di folia, ma le sue occorrenze sono attestate quasi sempre in posizione rimica (cfr. Guida, Jocs poetici, p. 127).
Nelle canzoni di ispirazione religiosa e morale, la follia è una sorta di insufficienza intellettuale che conduce al peccato con azioni imprudenti e irriflessive; «faire folhor» (v. 25), commettere un’azione per folhatge, indica compiere atti non corrispondenti ad una condotta moralmente accettabile che possono condurre l’uomo alla perdizione (cfr. Thiolier Méjean, Poésies satiriques et morales, p. 170; si veda inoltre Brucker, Sage et sagesse, p. 742 a proposito di folia: «terme qui, en dehors de toute situation contextuelle, permet de porter le discrédit sur quelqu’un ou quelque chose sans qu’aucune justification soit nécessaire»). Sulla follia, intesa come qualità necessaria al vero amante cortese, lungo la tradizione trobadorica da Guillem de Poitiers a Bernart de Ventadorn, che la canonizza come abbandono totale all’amore, fino alla ricezione, attenuata e mediata in “follia assennata, ragionevole”, presso i trovatori dell’ultimo quarto del XII secolo e successivi, cfr. Asperti, Raimon Jordan, nota a XI, 25, pp. 404-406.
 
6. turmen: condizione dello spirito afflitto nella dannazione eterna, «a la fin», cfr. II, 6-7: «e que·m garde... / a la fi, m’arma de marrimen / qu’en negun loc non sufieira turmen» e PCard 12 [ed. Vatteroni, BdT 335,55] 34-36: «senher, sias nos guiren, / gardas d’enfernal dolor / pecchadors e de tormen» e Id., 19 [BdT 335,67] 6-8: «hieu li dirai: Seingner, merce, non sia! / qu’el mal siegle tormentei totz mos ans; / e gardas mi, si·us platz, dels tormentans». Per l’allusione ai testi biblici, cfr. Sap 3,1 («Iustorum autem animae in manu Dei sunt, et non tanget illos tormentum mortis») e 5,3.
 
7. plassa: la terminologia giuridico-feudale è applicata ai rapporti tra Dio e l’uomo; si veda anche «li coman» del v. 3, «mandamen» del v. 8 e retenerretenga») del v. 38.
lunh: la forma dell’indefinito proveniente per metatesi da nulh, è regolarmente usata da Raimon Gaucelm e impiegara sempre come aggettivo (per es. in questa poesia lunh belh bastimen, v. 22; lunha re, v. 26). L’esito è attestato nella carte dell’Albigeois e del Tolosano (cfr. Appel, Lautlehre, §§ 49, 63; Grammont, Traité de phonétique, Paris 1950, pp. 354-355; Grafström, Graphie, §§ 74-75 e Id., Morphologie, § 40).
passatge: Levy (SW, VI, 123) riporto l’intera cobla per indicare la particolare accezione dei termine: “Übertretung”. Si osservi il collegamento, per via etimologica ma con significato diverso, con (penrem) trespassamen del v. 16, locuzione perifrastica per trespassar “morire”, in cui la morte è intesa, secondo la morale cristiana, come transitus (la medesima immagine è presente in VI, 6: «lai on elh fon trespassans»). È interessante a questo punto segnalare l’affinità semantica con due esiti presenti nel sirventese di PCard 19 [BdT 335,67] 15-16: «qu’el deu esser dous e multiplicans / de retener las armas trespassans», tradotto con “le anime peccatrici” (SW, nº 4, s.v. trapassar “sich vergehen”, cfr. Vatteroni, Peire Cardenal (II), p. 205) e, con evidente equivocità, 35: «que me vaillatz a mon trespassamen», reso con: “che mi aiutate nell’ora del trapasso”. Si viene quindi a creare, per l’impiego, nel medesimo componimento, delle due accezioni, un’interessante corrispondenza testuale, tra il sirventese di RmGauc, datato in rubrica 1265, e quello di PCard di cui però, per mancanza di agganci di tipo storico, non è possibile precisare la data di composizione (ma Lavaud propone di assegnare il sirventese al 1232-1233, cfr. Vatteroni, Peire Cardenal (II), pp. 192-193). Cfr. inoltre PCard 12 [BdT 335,55] 25-27: «Hom, per que fas tal follor / que passes lo mandamen / de Dieu, quez es ton seingnor / e t’a format de nien?» in cui passar ha ancora il significato di “infrangere, trasgredire”.
Per ultimo rilevo l’altro senso, molto più frequente, attribuito da RmGauc a passatge: «passagium ultramarinum», riferito alle spedizioni crociate in Terrasanta; a questo proposito cfr. nota a VI, 14.
 
8. mandamen: nella terminologia feudale indica il dominio territoriale del signore, in cui ha vigore la sua giurisdizione, ma qui probabilmente il senso è più vicino al significato originario, astratto, del termine mandatum, come si vede in Boeci 18 (“potere di Dio sui demoni”) e in JRud VII, apocr.,41 «qu’eu sui al seu mandamen» (cfr. Pasero, Guglielmo IX, nota a I, 25).
 
10. an demembran: nella locuzione perifrastica con il gerundio, anar perde il suo valore di verbo di moto e funge quasi da ausiliare, dando valore iterativo all’azione indicata dal verbo a cui si accompagna. In questo caso, l’azione indicata dalla locuzione, se considerata riferita al presente, potrebbe far pensare ad una sorta di rimprovero che Raimon Gaucelm rivolge a Dio perché “continua a dimenticare gli uomini”, quasi che il segle malvat, galïador fosse frutto della “dimenticanza” di Dio.
Frequentissima nei trovatori, questa perifrasi è usata come sintagma fisso specie in fine di verso, per formare rime in -an, -en, cfr. IV, 35 (anava tremolan) e V, 7 (va menan), 16 (vai remembran). Si veda al proposito Meyer Lübke, Grammaire, III, § 315; Corti, Studi sulla sintassi della lingua poetica avanti lo stiluovo, IV, pp. 86-87; Henrichsen, La périphrase anar + infinitif en ancien occitan, pp. 351-363 e Jensen, Syntaxe, §§ 469 e 517.
 
11. mi: le forme disjointes dei pronomi personali al caso obliquo in -i (mi, ti (tu), si), sono attestate soprattutto nelle carte del Tolosano e dell’Albigeois (cfr. Brunel, Chartes, p. XXV; Grafström, Morphologie, §§ 18 e 23). Mi pare dunque superflua la correzione me di Azaïs.
negus: è stata considerata forma obliqua plurale del pronome indefinito, concordante con «totz selhs quez estan» e perciò conservata, mentre Oroz Arizcuren preferisce correggere in negun. Il suo impiego al plurale, al di là delle locuzioni temporali (in forma aggettivale, del tipo «nuls temps»), non è effettivamente frequente (cfr. Jensen, Syntaxe, §§ 388-391), si veda tuttavia, per un uso in parte simile, l’articolo indefinito uns con il significato di “alcuni”, per es. in GrRouss 48: «desoz uns graz» (cfr. Diez, Grammaire, III, 75 e Meyer Lübke, Grammaire, III, § 50).
quez: forma anti iato; per Monfrin, Le chansonnier «C», p. 298, è uno di quei tratti che «marquent un souci de faciliter la lecture à haute voix, d’éviter au lecteur de s’embarasser dans le cas d’élision, d’hiatus, de lui suggérer des coupures bien placées» (cfr. cap. III, «Il manoscritto C»: caracteristiche paleografiche).
 
13. quadau: l’espressione composta da quada + numerale ha solitamente significato distributivo, cfr. SW, I, 182,2 «jeder».
Ho mantenuto a testo la forma asigmatica al caso retto sebbene nel codice sia scritta a fine rigo e quindi il condizionamento spaziale della colonna avrebbe  potuto indurre il copista a ridurre la parola, tralasciando la -s segnacaso (infatti Azaïs e Oroz Arizcuren stampano quadaus). Tuttavia l’attestazione di un’altra forma asigmatica del pronome indefinito al nominativo singolare, in III, 42: «e si negu», senza che per essa esista l’eventualità del condizionamento imposto dalla colonna, mi ha permesso di considerare legittima la conservazione di tale esito. Va anche ricordato che alla fine del XIII secolo, si sono ormai quasi del tutto perduti gli schemi della declinazione bicasuale e nelle carte è generalizzato l’uso del caso retto singolare asigmatico contro quello plurale, con la -s (sulle infrazioni alle regole della declinazione bicasuale, cfr. Pellegrini, Appunti, pp. 173-174 e Jensen, Declension, pp. 123-137).
de bon coratge: ha lo stesso valore avverbiale di «de bon cor» del v. 2 e di «de cor» del v. 9: “con tutto il cuore, ardentemente”. Heinimann, Abstraktum, p. 45, considera coratge un sostantivo astratto come ardimen o valor, e al v. 43 infatti (bon e ferm coratge), il termine, in rima equivoca, assume il senso di “fede, speranza” (cfr. Pasero, Guglielmo IX, nota a VII, 23).
 
14. fallimen: deriva da falhir “faire défaut, manquer, commetre une faute”, verbo del linguaggio profano entrato presto nel lessico religioso ove ha acquistato il senso di «to sin by omission» (cfr. Gay-Croisier, Religious Elements, p. 58; inoltre SW, III, 400: «Verkehrtes, Unrichtiges»). L’idea primaria è quella di un errore commesso per infrazione alla morale e in questa sede il termine è stato tradotto con “manchevolezza”, indicante l’imperfezione dell’uomo da cui consegue la sua inclinazione a peccare. Oroz Arizcuren traduce: «que nos perdone nuestro pecado».
le: si è accettata la correzione apportata da Oroz Arizcuren alla lezione li del codice, non attestata altrove come forma dell’obliquo singolare. L’esito le è caratteristico del Languedoc occidentale, in particolare del Tolosano (cfr. Ronjat, Grammaire istorique, § 533; Grafström, Morphologie, § 2 pp. 22-23 e Zufferey, Recherches linguistiques, § 34, che sottolinea la presenza di le al caso obl.sg. nel canzoniere R e nel frammento p, mentre in C è considerata eccezionale).
Si segnala la scelta di Azaïs che invece ha mantenuto la forma li considerandola obliqua plurale, traducendo: «qu’il nous pardonne nos manquements».
 
16. cfr. nota al v. 7. Oroz Arizcuren traduce: «tomemos pasaje».
 
18. no·ns prezem, quar petit de valor / avem: sulla caducità e vanità delle cose terrene, motivo ricorrente nella poesia religiosa (per influenza di Ecclesiaste e Sal 39, 6-7,12), cfr. a titolo d’esempio FalqRom VIII [BdT 156,12] 13-16: «E morrem tug, so sabem veramen! / Doncx laissara quascus sa heretat / E so qu’avem de tort e de peccat / Trobarem totz al jorn del jutjamen», che presenta somiglianze anche con i vv. 25-27; si veda inoltre, in ambito oitanico, il canto di crociata Parti de mal e a bien aturné [Anonimo, S 401] VI, 10-14: «Kar, quant il unt grant tresor amassé / Plus lur covient a grant dolur guerpir. / Mielz lur venist en bon vis departir, / Kar, quant il sunt en la terre buté, Ne lur valt puis ne chastel ne cité» (ed. J. Bédier, Les chansons de croisade, pp. 70-71).
avem cascus: a causa del suo duplice aspetto, collettivo e distributivo, il pronome indefinito cascu è soggetto a variazioni nell’accordo verbale. Quando, come in questo caso (e al v. 34 deuram /...quascus), esprime la nozione di “ciascuno di noi (voi)”, l’accordo avviene col soggetto sottinteso nos (vos) (cfr. Jensen, Syntaxe, § 375). Trattandosi comunque di un testo tardo, non si può del tutto escludere che si tratti di una forma di caso retto plurale sigmatico, secondo la tendenza invalsa alla fine del XIII secolo nelle carte documentarie (cfr. nota al v. 13).
segle truan: l’aggettivo truan oscilla tra l’accezione “coquin, fripon” e “débauché” (cfr. LR, V 435); riferito a segle, insieme a malvat, galïador del v. 12, sottolinea la seduzione illusoria del mondo e il disordine dei costumi. Per il motivo, cfr. PCard 11 [BdT 335,54] 1-2: «Tan vey lo segle cobeytos, / plen d’avareza e d’enian» e, per il contesto semantico, sempre PCard 20 [BdT 335,2] 1-9: «Aissi com hom planh son filh o son paire / ho son amic quan mortz lo·i a tolgut, / planc eu los vius que sai son remazut, / maint desleial, felon e de mal aire, / mensongier, truan, / cobe, de mal plan, / raubador, lairo, / iurador, tiran, abric de trachors» (cfr. inoltre Thiolier-Méjean, Poésies satiriques et morales, pp. 127-133).
 
19. totz homes: caso retto plurale sigmatico come ai vv. 36 e 43 e selhs del v. 30. Per questa ragione ho ritenuto opportuno mantenere la forma asigmatica del nom. sg. tot hom al v. 37 anziché correggere in totz hom come hanno preferito fare Azaïs e Oroz Arizcuren. Sulla presenza di diverse varianti flessionali del sostantivo homo in Raimon Gaucelm, cfr. nota a III, 11.
poiriran: futuro di poirir, verbo poco attestato in provenzale, cfr. PCard 19 [BdT 335,67] 41: «S’ieu ai sa mal et en ifern poiria» e nota al verso, in Vatteroni, Peire Cardenal (II), p. 207; si veda inoltre Rhytmus de contemptu mundi, attribuito a Bernardo di Chiaravalle: «quando moriturus est omnis homo nescit: / hic qui vivit hodie cras forte putrescit» (PL, CLXXXIV, 1313). Il tema del disprezzo del mondo (memento mori, ubi sunt) tratto dalla letteratura ascetica e monastica, era uno degli argomenti principe dei predicatori, al cui repertorio RmGauc attinge a piene mani («segon qu’aug dir a quascun cofessor», v. 28), si veda ad esempio il sermone in lingua volgare [M]elior est paciens viro forti (BN fr. 13316 f. 1v-4v, l. 7-11): «Altresi morrissent li riche cum li povre, li vengié cum li tué. Tot vunt une voie, tot porrissent, tot puent, tot devienent caruigne, tot manguent li ver» (cfr. Zink, La prédication en langue romane avant 1300, pp. 451-463). Sull’argomento cfr. inoltre M. Liborio Ferrucci, Il sentimento della morte nella spiritualità dei secoli XII e XIII, in «Il dolore e la morte nella spiritualità dei secoli XII e XIII», Atti del V Convegno di studi sulla spiritualità medievale, Todi 1967, pp. 45-65.
 
20. honor: è qui inteso nella sua accezione materiale di “proprietà, feudo”;  honor infatti è termine dal significato polivalente che oscilla tra un senso astratto con componente morale (“il rispetto, la gloria, la reputazione, la fama”) e un senso concreto, materiale (“la terra, il possesso territoriale, il dominio, il patrimonio”); Guida, Canzoni di crociata, p. 339 alla nota 48, sottolinea la sua “indefinitezza semica”, tanto che «gli stessi uomini del tempo non mostravano di percepirne nettamente la differenza, dal momento che per loro l’onore economico e sociale costituiva giusto premio e naturale riconoscimento d’un atto di valore». Sul termine, cfr. Hollyman, Le développement du vocobulaire féodal, pp. 33 sgg.; Sheridan Burgess, Vocabulaire pré-courtois, pp. 68-90; Pasero, Guglielmo IX, p. 286, n. 14; Cropp, Vocabulaire courtois, pp. 362-365; Köhler, Sociologia della fin’amor, pp. 1-18; Thiolier Méjean, Poésies satiriques et morales, pp. 89-90; Guida, Jocs poetici, p. 169, n. 23-24; inoltre Serrano Martínez, «Honneur» y «honor»: su significación a través de las literaturas francesa y española, Murcia 1956. Sui termini relativi a proprietà e vassallaggio, cfr. L. M. Paterson, Les «Féodalités» occitanes et les troubadours: propriété et vassellage dans les chansons de geste occitanes jusqu’à la croisade albigeoise, Atti Montpellier 1992, I , pp. 15-32.
Oroz Arizcuren interviene sul testo stampando ricx e traducendo: «y no tendrá honor rico ni pobre», suscitando l’impressione di considerarlo sostantivo accanto a paupre, piuttosto che aggettivo riferito ad honor.
 
23. deuram: attestato anche al v. 33 e in VI, 15. L’interpretazione di questo esito lascia una certa perplessità: potrebbe infatti trattarsi di una forma del condizionale I al posto del regolare deuriam, oppure del futuro al posto di deurem (forme simili di futuro sono attestate nelle carte edite dal Brunel soprattutto provenienti dal Rouergue, cfr. Chartes Suppl., p. XIV). In sede di traduzione è stata preferita la prima ipotesi perché il senso richiedeva non un’imposizione ma piuttosto un’esortazione per la quale è sembrato più appropriato il condizionale.
Azaïs corregge in deuriam, rendendo ipermetro il verso (anche al v. 33) e Levy, SW, II, 121, riportando i vv. 15-16 della canzone VI, corregge in degram la forma riportata dal codice.
Condizionali di tipo simile, con desinenza -am, -atz sono segnalati da Ronjat, Grammaire istorique, III, § 588 e Dobelmann, La langue de Cahors des origines à la fin du XVIe siècle, Toulouse-Paris 1944, p. 143, doc. dell’anno 1287, 56 (auratz, pagaram), per cui la studiosa suggerisce (pp. 87-89) che si trarti di forme di condizionale I con riduzione della desinenza -iatz etimologica ad -atz. Questa ipotesi però è rifiutata da Grafström (Morphologie, § 51) che propende a ritenerle forme di futuro, aggiungendo: «les types -am, -atz étaient beaucoup plus répandus autrefois en domaine occitan» (sulla questione cfr. anche Guida, Jocs poetici, nota a III, 85 e Asperti, Raimon Jordan, nota a VI, 7-8).
carnatge: qui sarà da intendere come “tutto ciò che è terreno: il corpo, ed ogni cosa materiale destinata alla corruzione”; si noti l’opposizione carnatge  = armas che rientra nel dualismo più tradizionale cors = arma. Le allusioni alla tradizione biblica sono molteplici, cfr. Sap 9,15: «corpus enim quod corrumpitur aggravat animam et terrena inhabitatio deprimit sensum multa cogitantem»; 1 Cor 15,50; Gal 5,16-26 e 6,8; Gc 5,1-3; Mt 6,19.
 
24. sol: Azaïs, interpretando sol (que) come una congiunzione che introduce una proposizione condizionale reggente il congiuntivo, traduce così il verso: «Pourvu que les âmes vinssent à salut», ed anche Oroz Arizcuren traduce sol come: «con tal de que las almas perviniesen a salvación», ma il senso di questa traduzione non mi sembra molto pertinente, per cui ho preferito lasciare “solo” e considerare vencson congiuntivo potenziale di venir, traducendo: “solo le anime potranno giungere a salvezza”.
vencson: esito, per quanto mi consta unico, della 3ª ps. pl. del congiuntivo imperfetto di venir. Anglade, (Grammaire, p. 351, nota 3, insieme a Grandgent, Phonology and morphology, § 192,1, Crescini, Manuale, p. 121 e Schultz-Gora, Altprovenzalischen Elementarbuch, § 142) la considera “forme abrégée, rare”, al posto di quella regolare venguesson, facendo riferimento proprio a questo luogo di RmGauc. Grafström (Morphologie, § 63) attesta la presenza di forme similari, per la 1ª e la 2ª ps. pl., nel Lodévois: axem, pertcex, pertces e già Brunel (Chartes, p. XLV) aveva spiegato la formazione, secondo regolare fonetica (con la caduta della -e derivata da -i delle desinenze lat. -issemus, -issetis), di esiti come retcem, pogsem, axem, fetcem, pertcez, messez. Anche la forma vencson rientra quindi in questa serie, determinata da un’estensione analogica alla 3ª ps. plurale. Segnalo che Lowinsky, Geistlichen Kunstliede, p. 191, propone vengon.
Si osservi l’espressione formulare venir a salvamen, che ricompare anche al v. 44: «que per s’amor vengam a salvamen», cfr. T.-L., IX, c. 239.
 
25. folhor: “stoltezza, azione imprudente e insensata”, Oroz Arizcuren traduce con “locura”. Cfr. nota al v. 5.
fezem...folhor: nelle espressioni faire + sost. il verbo può corrispondere a “mostrarsi, rivelarsi, essere” ed il sostantivo assume il valore dell’attributo corrispondente, cfr. anche al v. 30: «auran fag bon captenemen» e ai vv. 37-38: «be fa tot hom gran gazanhatge / ... e gran sen», cfr. inoltre nota a II, 6.
 
27. enqueras: cfr. Pfister, Lexikalische Untersuchungen, p. 407.
tornara denan: SW, VIII, 301,18 s.v. «tornar denan a alqu», interpreta “vor jemand treten”. Raynouard, LR, V, 376, traduce il verso: «encore il nous mettra tout devant», considerando Dieus soggetto sottinteso.
 
28. segon qu’aug dir a quascun cofessor: il riferimento è agli esponenti degli ordini mendicanti, le cui occupazioni principali erano la predicazione e la confessione; inoltre il IV Concilio Lateranense del 1215, canone XXI, proclama l’obbligo per ogni cristiano della confessione annua, favorendo in tal modo una pratica generale dell’esame di coscienza (cfr. P. Michaud-Quentin, Sommes de casuistique et manuels de confession au moyen âge (XIIe-XVIe siècle), Analecta mediavalia Namurcensia 13, Louvain 1962; sulla storia dell’evoluzione della confessione e della penitenza, cfr. P. Anciaux, La théologie du sacrement de pénitence au XIIe siècle, Louvain 1949). Nel 1247, con l’autorizzazione regia, i Domenicani avevano costruito il loro convento a Béziers sullo spazio del distrutto palazzo dei visconti, e dalla seconda metà del secolo in città si erigono le sedi di altri ordini mendicanti: i Francescani sono al faubourg Saint-Jean come gli Agostiniani, mentre i Carmelitani si stabiliscono vicino alla porta di Saint-André (cfr. M. Bourin, Une ville royale, in Histoire de Béziers, pp. 122-127).
 
29. e no·us pessetz Dieus i honre paratge: si segnala la traduzione di Azaïs da considerare sicuramente errata: «et ne vous contera pas Dieu une honorée noblesse» e già corretta da Lowinsky, Geistlischen Kunstliede, p. 191: «glaubt nicht, dass Gott o (beim Jüngsten Gericht) Adel Ehre».
i: a differenza di i enclitico del v. 20, qui la particella avverbiale conta come sillaba ed è stata considerata con valore temporale: “in quel momento”, mentre Oroz Arizcuren traduce: «que Dios estime allí la alcurnia».
 
30. mar: è una delle varianti dialettali di mas, cfr. SW, V, 26 s.v. mais. Pellegrini, Appunti, p. 127, riferisce di casi di rotacismo nella Linguadoca, nel Rossiglionese e nel Limosino, ma il fenomeno è attestato molto tardi (XIV/XV sec.).
 
31. <qu’en>: l’integrazione è necessaria per ripristinare l’isometria del verso, ipometro in C. Il manoscritto riporta e / sofriran, quindi è assai verosimile l’omissione di una breve serie di lettere a fine rigo. Azaïs ha preferito integrare con una negazione: «e <non> sofriran caitivatge», traducendo «et ne souffriront pus la méchanceté» e considerando caitivatge come “malvagità, cattiveria”. Oroz Arizcuren invece integra con «e <en> sofriran caitivatge» e traduce «hubieran sufrido maltrato por ello», sottolineando che, paleograficamente, è più probabile durante la copia la soppressione di en, per aplografia, piuttosto che quella di non. Nella presente edizione si è cercato di ristabilire una coordinazione completando il verso con <qu’en> (), che rientra nell’uso stilistico di RmGauc, il quale più di una volta ha mostrato di prediligere l’anafora di que nelle sue liriche (a titolo d’esempio cfr. VI, 1-4).
Il senso dato a caitivatge da Oroz Arizcuren “prisión, cárcel” (p. 401) mi trova concorde. Non vi sono attestazioni del termine, ma Levy, SW, I, 186, alla voce caitivetat riporta “Gefangenschaft” e s.v. caitiveza «“Gefangenschaft” (Diez) oder “Elend” (Bartsch)», riferendosi, come Appel nel Glossario della Chrestomathie, ad un passo del Boeci 105,88: «per aizo’m fas e chaitiueza star». Così nella mia traduzione, poiché in VI, 30 si trova l’affine suffrir affan: «et als autres, qu’auran suffertz affans / per la su’amor», in un contesto similare (anche se probabilmente più specifico, riferito all’esortazione di patire come Gesù, in Terra Santa), ho optato per il significato più generale di “sofferenze, tribolazioni” che si può collegare sia a quelle subite nella prigionia, per le persecuzioni, sia a quelle non necessariamente legate a motivi particolari ma riferite alle vicende dolorose della vita sopportate con cristiana rassegnazione. In questo senso condivido la relazione che Oroz trova tra sofriran caitivatge e Mat 5,10: «Beati qui persecutionem patiuntur propter iustitiam: quoniam ipsorum est regnum caelorum»; a cui aggiungerei quella con Ap 2, 2-3: «scio opera tua, et laborem, et patientiam tuam, et quia non potes sustinere malos [...] et patientiam habes, et sustinuisti propter nomen meum ef non defecisti».
Per l’impiego in rima di termini inusitati aventi suffisso -atge, in RmGauc, cfr. piusellatge al v. 41 e salvatge di V, 20.
 
32. sobre: preposizione che, collegata a tot e rafforzata pleonasticamente da majormen, esprime valore superlativo, cfr. Jensen, Syntaxe, § 723. Si veda invece Oroz Arizcuren che la considera 3ª ps. sg. dell’indicativo presente di sobrar, traducendo: «obtendrán su amor que supera cualquier otra cosa».
 
33. plen de doussor: la dolcezza ricorre frequentemente fra gli attributi divini, cfr. a titolo d’esempio, Marc XXXV [BdT 293,35] 4-5: «Cum nos a fait, per sa doussor / lo seingnorius celestiaus»; Gavaud IV [BdT 174,9] 9: «nos mostra patz per sa doussor»; PCard 12 [BdT 335,55] 33-34: «Dieus verais, plens de doussor, / senher, sias nos guiren».
 
34. esser humils: “genuflettersi, inchinarsi”, quindi “mostrorsi supplichevoli e sottomessi” (cfr. LR, III, 548 «être soumis» e SW, VIII, 536,4 «sich neigen, sich beugen (vor jd.)»), con umiltà, che è la virtù cristiana grazie alla quale Dio accorda il suo favore, e ab belh semblan, inteso come “atteggiamento devoto” più che “volto, sembiante amichevole e benevolo”, secondo il senso più usuale dell’espressione. Per la costruzione con l’oggetto indiretto dei verbi indicanti sottomissione, cfr. Jensen, Syntaxe, § 438.
 
35. no valram un aglan: formula di negazione e di sprezzo, di uso comune nelle lingue romanze; cfr. nota a IX, 34: «qu’ieu non pres vostre dig un boto».
Il sostantivo femminile latino glande(m) dà l’apr. glan(t), generalmente maschile, ma femminile nella Chanson Croisade, v. 1041. Proprio per quel che concerne il genere del termine, Guida, Gavaudan, nota a X, 19: «totz l’aurs no vos val un aglan», sottolinea la diversità di opinioni tra gli studiosi, dovuta anche all’incertezza delle fonti documentarie e delle attestazioni manoscrirte: «il Levy, Textkritische, p. 91, propende a ritenerla femminile, sebbene nel Petit Diction. avesse indicato soltanto il genere maschile; ma pare più giusto attenersi alle conclusioni del Millardet (Études de dialectologie landaise. Le développement des phonèmes additionnels, Toulouse 1910), p. 17, secondo il quale glan era senz’altro femminile, mentre aglan, per effetto dell’agglutinazione prostetica della a sottratta all’articolo e della finale di sembianza maschile, cambiò (in tempi diversi a seconda delle regioni, ma con un processo generale conclusosi nel XIII sec.) meccanicamente genere divenendo maschile». Infatti nei dialetti attuali, aglan, tipo dominante, tranne che in Aquitania Nord-Occidentale e nell’estremo sud del Languedoc dove domina glan(d), è sempre maschile (cfr. Ronjat, Grammaire istorique, §§ 339, 458 α3, 671 ß).
valram: l’interpretazione come forma del condizionale è stata facilitata dalla presenza di serïam del verso successivo (cfr. nota al v. 23). Non è condivisibile la scelta di Azaïs che preferisce correggere con il futuro 3ª ps. pl., valran.
 
36. totz ardens en pudor: come in II, 31: «qu’ades tras el fuec d’ifern arden», nella traduzione ho preferito intendere ardens riferito a pudor sebbene grammaticalmente concordi con totz. Cfr. Azaïs: «mais nous serions brûlés dans la puanteur» e Oroz Arizcuren: «arderíamos todos en hedor». Per l’immagine scritturale, si veda Gv 15,6: «Si quis in me non manserit, mittetur foras sicut palmes, et arescet, et colligent eum, et in ignem mittent, et ardet».
 
37. e doncx: formula di carattere conclusivo con e in principio di frase, cfr. Ph. Ménard, E initial de phrase en ancien occitan, in Misc. Rostaing, II, pp. 691-707.
 
38. qu’El retenga per amic: Oroz Arizcuren stampa «que·l retenga per amic», considerando soggetto tot hom del verso precedente, traducendo così i vv. 37-38: «así pues, buena ganancia saca y gran sensatez demuestra todo aquel que lo retiene por amigo» (Azaïs è meno chiaro poiché stampa quel senza alcuna divisione grafica, secondo una prassi consueta, traducendo tuttavia: «Ainsi donc bien fait tout homme grand gain, Quand il le retient pour ami»). La lezione posta a testo, al contrario, considera soggetto Rei plen de doussor del v. 33, e accoglie le suggestioni bibliche che percorrono il componimento, secondo le quali il Signore concede la sua amicizia ai prescelti (Mosè e Abramo sono stati scelti come “amici” da Dio, cfr. Es 33,11; Is 41,8) e protegge chi avrà seguito con fedeltà la sua legge; una particolare influenza pare giungere da Gv 15,10-16: «Si praecepta mea servaveritis, manebitis in dilectione mea [...] Vos amici mei estis, si feceritis quae ego praecipio vobis. Iam non dicam vos servos [...] Vos autem dixi amicos [...] Non vos me elegistis, sed ego elegi vos [...]».
Con una costruzione zeugmatica complicata da uno scambio del pronome personale, da soggetto (El) a oggetto (·l), RmGauc vuol quindi dire: guadagna (il paradiso) chi è scelto come amico dal Signore, ma dimosrra anche di essere assennato se si comporta in modo tale da conservarne l’amicizia e la protezione (sottintendendo quindi «que·l retenga per amic») con atti di devozione e fedeltà. Si veda a questo proposito anche VI, 1: «Qui vol aver complida amistansa / de Jhezu Crist» e nota al verso, inoltre cfr. PCard LXXX [ed. Lavaud] 65-68: «que·l sens de Dieu lor par folia / E l’amicx de Dieu, on que sia / Conois que dessenat son tut / Car lo sen de Dieu an perdut»; PCard LXXXII [ed. Lavaud] 12-13: «Anz deu ben servir en grat / Dieu, son amic, d’onor»; GrRiq vers XXV [BdT 248,81] 29-32: «De Dieu li ven sos bos captenemens / per qu’ieu li prec e li cosselh e·l dic / que·l retenha quon senhor ad amic, / ab humil cor de totz vils faitz temens».
retenga: il discorso religioso, come spesso accade in questa poesia, viene reso impiegando termini del linguaggio giuridico-feudale, come il verbo retener, con il quale si indica l’accettazione da parte del signore della sottomissione e del servizio del vassallo (cfr. Cropp, L’apr. retener: son sens et son emploi dans la poésie des troubadours, Misc. Rostaing, I, pp. 179-200), e il sostantivo amic, indicante il vassallo cresciuto presso il signore e appartenente alla sua maisnee (cfr. E. Wechssler, Frauendienst und Vassalität, in ZFSL, XXIV (1902), pp. 159-190, a p. 176, n. 75 e H. Legros, Le vocabulaire de l’amitié, son évolution sémantique au cours du XIIe siècle, in CCM, XXIII (1980), pp. 131-139).
sen: secondo Brucker, Sage et sagesse, pp. 297 e 364, sen si inscrive, nell’ambito del vocabolario intellettuale e morale della fine del XII e inizi del XIII secolo, nel campo nozionale della «sagesse» indicando “bon sens, intelligence, acte raisonnable”. Il contatto tra sensus, latino, e sinn francone, ha arricchito semicamente sen che ha acquistato un’accezione morale che il latino ignorava (cfr. inoltre D. Koenig, «Sen/sens» et «savoir» et leus synonymes dans quelques romans courtois du 12e et de début du 13e siècle, Berne 1973 e Ch. Brucker, Sage et son resau lexical en ancien français, Lille 1979).
 
40. estan lïalmen: la lealtà è qualità fondamentale, che sta alla base dell’etica feudale, sociale e religiosa (cfr. Thiolier-Méjean, Poésies satiriques et morales, pp. 76-78).
 
41. En la Verge car(a) ab car piusellatge: ho cercato di mantenere nella traduzione il rilievo chiastico del poliptoto.
Maria è preziosa perché custodisce in sé il mistero della sua maternità virginale, e prezioso è il suo piusellatge, segno di quella “integrità” dovuta all’assenza di corrompemen, in quanto fu concepita senza macchia originale e assunta in cielo anima e corpo, senza aver conosciuto la corruzione del peccato e della morte corporale. Questo la rende perfetta e cara in opposizione agli uomini che invece non hanno alcun valore senza l’amore di Dio: si osservi quante volte RmGauc insiste sul concetto di “dare un prezzo, valere, stimare prezioso”: «Doncx no·ns prezem, quar petit de valor / avem» (vv. 17-18), «quar ses s’amor no valram un aglan» (v. 35), «E doncx be fa tot hom gran gazanhatge» (v. 37), che è completato dalla nozione di vanità del mondo terreno e della sua corruttibilità: «quar totz homes d’aquest mon poiriran» (v. 19), «Per que deuram pauc prezar lo carnatge» (v. 23).
Maria è invocata altre due volte da RmGauc, che ritorna sulla purezza della Vergine Madre e sulla sua regalità su tutti i santi, che la rendono perfetta advocata degli uomini, in V, 45: «Totz preguem Sancta Maria, / qu’a sobre totz poder gran» e VII, 41: «Maires de Dieu, Verges emperairitz» (cfr. note relative). Sulla devozione mariale nella lirica trobadorica si veda A. Jeanroy, La poésie lyrique, II, pp. 305-314; D. Scheludko, Die Marienlieder in der altprovenzalischen Lyrik, in NM, XXXVI (1935), pp. 29-48 e XXXVII (1936), pp. 15-42; J. Salvat, La Sainte Vierge dans la littérature occitane du Moyen Age, in Misc. Frank, pp. 614-656; B. Saouma, La louange à la Vierge chez les troubadours et chez saint Bernard, in Atti Vitoria-Gasteiz 1994, pp. 307-314.
Similmente Azaïs traduce: «En la Vierge chère avec précieuse virginité», mentre diverso è il senso dato a piusellatge da Oroz Arizcuren: «En la virgen preciosa con hijo precioso», seguendo le indicazioni di Levy, PD, p. 295, che s.v. piucel riporta “puceau, garçon ou fille vierge”.
Per completezza riporto due proposte interpretative dello studioso spagnolo; la prima riguarda una questione grafica: egli pone a testo, al v. 42, car invece di quar, trasmesso da C, perché in questo modo vuole sottolineare il gioco grafico-semantico: «Obsérvese la traductio car’ “querida”, car “preciosa”, car “porque”» (p. 403). Ma la correzione si oppone alla consuetudine scrittoria del copista di C il quale ha sempre reso la qu etimologica latina con la grafia originaria (cfr. Monfrin, Le chansonnier «C», §§ 10, 32, 47 e Zufferey, Recherches linguistiques, § 11 a-b). La seconda proposta, riguarda l’interpretazione di «(En la Verge) car’ab» del v. 41: a suo avviso ab potrebbe essere forma poco attestata (cfr. ad es. Appel, Chrestomathie, 2, 23-24) della 3ª ps. sg. del perfetto di aver, e car, costituirebbe la resa grafica per quar. I due esiti si ritroverebbero nel verso successivo ma con forme differenti: quar e ac; le due sequenze, legate dalla congiunzione e all’inizio del v. 42, avrebbero quindi lo stesso significato: “porque tuvo”; ma è lo stesso studioso che ammette la manchevolezza di questa interpretazione: «aunque llamaría la atención el uso de dos formas diferentes [...] en dos versos seguidos, con la misma función, [...] y además quedaría destruida la traductio» (La lírica religiosa, p. 403, nota al v. 41).
Per guanto riguarda i continuatori del lat. tardo *pul(i)cella, l’esito in apr. piucela / piuzela (del tipo piuse da pul(i)ce), è tipico delle parlate dell’ovest del Languedoc (soprattutto Carcassona, Lauragais, Tolosano e Pays de Foix, cfr. Ronjat, Grammaire istorique, §§ 72, 151-152, 301, 331).

 

 

 

 

 

 

 

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