1. tenc per pajat: cfr. V, v. 47 e la nota relativa.
2. sobra: sobrar ha qui il senso di «sovrabbondare», «essere in abbondanza», per cui cfr. L. R., V, p. 244; S. W., VII, p. 692, 6. - raiso: non equivale a «opportunità», come pensa il DE LOLLIS, ma a «Gegestand», «Stoff», come osserva lo SCHULTZ-GORA, rec. al vol. del DE LOLLIS, in Zeitschr. f. rom. Phil., XXI, 1897, p. 247; cfr. XVII, v. 3.
3. Il NAETEBUS, rec. al vol. del DE LOLLIS, in Archiv f. das St. d. n. Spr. u. Lit., XCVIII, 1897, p. 205, propone di leggere, per eliminare l’infrazione alle regole della flessione, con vegn’a pascor.
5. e luoc ... mesage: l’APPEL, rec. al vol. del DE LOLLIS, in Literaturblatt f. germ. u. rom. Phil., XIX, 1898, col. 229, avverte che l’espressione non deve esser tradotta «an Stelle eines wahrhaften Boten», ma «als einen wahrhaften Boten».
9. Nel ms. ilverso manca di una sillaba; d’altra parte nella lezione originaria sembra che vi dovesse essere un vius o un viure, in contrapposizione col mortç del v. 10. Ho accolto l’emendamento proposto dallo JEANROY, rec. al vol. del DE LOLLIS, in Revue critique d’hist. e de littérat., XLII, 1896, p. 284, il quale lascia intatto l’aunir, che mi sembra originario, in quanto par richiamato dall’aunir del v. 12. Il LEVY, rec. al vol. del DE LOLLIS, in Zeitschr. f. rom. Phil., XXII, 1898, p. 251, propone invece di mutare il tem aunir in tem a viure oppure in tema viure, ponendo naturalmente la virgola dopo desonratç. Il concetto si ritrova in Peire Vidal, canz. sirv. Deus en sia grazitz, v. 61-62 e reis, pos viu aunitz, / val meins que sebelitz (ed. J. ANGLADE, Paris, 1923, p. 128); cfr. anche Bertran de Born (?), sirv. Be·m platz lo gais temps, v. 40 que mais val mortz que vius sobratz (ed. A. STIMMING, Halle, 1896, p. 140; V. CRESCINI, Manuale, Milano, 1926, p. 196). Cfr. E. CNYRIM, Sprichwörter, sprichwörtliche Redensarten und Sentenzen, Marburg, 1888, p. 44, n. 711 e segg.
10. Il v. si ritrova quasi identico, benché diverso sia il contesto in cui è inserito, in Peire Vidal, canz. Tan mi platz, v. 47-48 que rics hom joves serratz / val meins que mortz soterratz (ed. ANGLADE, p. 85). Cfr. XIX, v. 40.
14. [ni] ses d. contradir. Il v. manca di una sillaba nel ms. Accetto il supplemento ni proposto dall’APPEL; il DE LOLLIS, accogliendo il supplem. già proposto dal MAHN, aggiunge invece e. Lo Schultz-Gora propone di leggere senes demanes contradir; e il Levy (ibid., p. 252; e cfr. S. W., II, p. 73, s. deman, 3) preferirebbe ses deman e s[es] contradir.
16-17. Amilhau cobratç. Lo Schultz-Gora osserva che sarebbe più naturale che nel v. 17 si mantenesse come soggetto della frase il re d’Aragona, e propone perciò di leggere a Milhau çobratç (ove çobratç = sobratz), ossia «è stato vinto a Millau». La correzione çobratç è assai facile dal punto di vista paleografico; però non mi sembra strettamente necessaria, e perciò preferisco mantenermi più vicino alla lezione del ms. Mantengo anche la forma Amilhau, più vicina alla base latina (< Amiglavum; e cfr. le forme parallele Amellianum, Amelianum e sim.: cfr. C. DEVIC, J. VAISSETE, Hist. gén. de Languedoc, Toulouse, 1866, VIII, p. 1010 e 1041; Gallia christiana, VI, Instrumenta, 370), che si trova anche nel planh in morte di Blacatz (XXVI, v. 27) e nella razo del sirv. Pois lo gens terminis di Bertran de Born (cfr. J. BOUTIÈRE, A. H. SCHUTZ, Biographies des troubadours, Toulouse-Paris, 1950, p. 54, 1. 54); ho eliminato però, seguendo lo Schultz-Gora, il -tç finale, che è probabilmente un errore grafico dovuto al seguente cobratç. Il cobratç allude naturalmente alla riconquista della città da parte di Raimondo VII di Tolosa: quindi tanto be·m platç quanto gient sono usati in senso ironico.
18. q’el ac [ab]: emendamento proposto dal De Lollis; lo Schultz-Gora preferirebbe ce tenc ac. L’ ac naturalm. allude alla riconquista della città da parte di Giacomo I. Il TORRACA, Sul «Pro Sordello», in Giorn. dant., VII, 1899, p. 14, propone di leggere ce es ab vassalagie, e vorrebbe tradurre «perché bene si ricupera Millau, se ricuperata con valore». Il Torraca, come si è visto, ponendo il sirventese nel 1233, non ammette che qui si tratti della temporanea conquista della città da parte di Giacomo I e della successiva riconquista da parte di Raimondo VII: per lui Giacomo I non ha ancora tentato di riconquistare Millau, toltagli col trattato di Parigi. Così pensa anche il Salverda De Grave (cfr. nota 251 a p. LXVIII).
19-20. Mi pare che il senso sia: tuttavia per questa perdita (o anche è vero che per questa perdita) il re di A. non fu vilipeso né biasimato, in quanto non concluse tregua né giurò pace. Si può ammettere, come pensa il De Lollis, che in queste parole Sordello riconosca che Giacomo non era punto rassegnato alla perdita della città e un giorno o l’altro l’avrebbe reclamata; il che sembra addolcire alquanto, come ritiene il De Lollis, il rimprovero. Però il rimprovero è sottinteso — mi sembra — anche in questi versi, perché il poeta vuol dire che in realtà Giacomo I merita biasimo, in quanto non ha resistito con più tenacia e si è ritirato, né è ritornato subito all’attacco (cfr. v. 14). Secondo il Levy i due versi sarebbero amaramente ironici: Sordello vorrebbe dire che in realtà il re d’Aragona ha meritato onta e disonore, perché ha rinunciato all’impresa e ha giurato pace.
21. ves: terza pers. sing. del pres. indicativo di vezer, che i ms. T e f presentano in luogo di ve anche nella canz. VII, v. 2 (cfr. l’apparato), e che si trova anche nel v. 2351 di Flamenca (cfr. C. APPEL, Prov. Chrest., Leipzig, 1930, p. 24; e cfr. p. XXVIII). Cfr. anche SCHULTZ-GORA,rec. al vol. del DE LOLLIS, p. 247 - Belcaire: cfr. n. al v. 22 del n. XIX; per vari passi trobadorici in cui si fa ricordo della località cfr. la nota del DE LOLLIS.
22. lo: qui e al v. 29 ho corretto in lo, seguendo lo Schultz-Gora e il Levy, il li dato dal ms. (e mantenuto dal De Lollis), che è forma del tutto estranea alla lirica trobadorica (si trova soltanto nel Girart de Rossillon e nel frammento su Alessandro: cfr. APPEL, Prov. Chrest., p. XVI) e di cui non si ha alcun esempio nelle altre liriche di Sordello.
23-24. de Tolsan: per la separazione dell’espressione indicante il feudo dal sostantivo a cui è legata cfr. XV, v. 62-63. - a grant onor ... iscir: pare che qui si accenni, come pensa il De Lollis, all’eroica riconquista di Beaucaire fatta da Raimondo VII, ancor giovanissimo, nel 1216, quando era ancor vivo suo padre Raimondo VI. Egli riuscì contemporaneamente a conquistare la fortezza di Beaucaire, che aveva cinto d’assedio, e a vincere le truppe di Simone di Montfort, che lo avevano a loro volta assediato: a questa doppia vittoria, sulla guarnigione francese chiusa nella fortezza e sulle truppe del conte di Montfort che l’avevano circondato, si alluderebbe appunto con l’ intrar e l’ iscir del v. 24. Su questi avvenimenti cfr. DEVIC, VAISSETE, Hist. gén. de Languedoc, VI, p. 487 e segg., e la lunga nota del De Lollis, che riporta passi di vari cronisti e della Chanson de la croisade contre les Albigeois. Naturalmente Sordello ricordando l’eroismo giovanile di Raimondo VII vuol mettere in luce la sua presente pusillanimità. Certo a cobrat è un po’ strano, come osserva lo Schultz-Gora, per un avvenimento accaduto una ventina d’anni prima; e sì potrebbe anche pensare a qualche riconquista più recente di Beaucaire da parte di Raimondo (nell’ Essai sur l’hist. politique de la commune de Marseille del BOURRILLY, Aix-en-Provence, 1925, p. 148 trovo che nel 1240 Beaucaire è in possesso di Raimondo VII, e manda un suo contingente nell’esercito tolosano; ma non trovo notato l’anno della riconquista della città). Su questo punto sarebbero necessarie nuove indagini, che non mi è possibile fare in questo momento e col limitato materiale bibliografico che ho a mia disposizione. Però la precisa corrispondenza che c’è tra la conquista del 1216 e l’ intrar e l’ iscir di Sordello fa pensare che il trovatore abbia veramente voluto riferirsi a quell’impresa giovanile di Raimondo, che forse il conte si compiaceva spesso di ricordare.
27-28. Ho seguito la punteggiatura adottata dal De Lollis, che anche il BERTONI, I trov. d’It., Modena, 1915, p. 298, giudica preferibile. Lo Schultz-Gora invece propone di collegare strettamente il v. 28 al v. 27, ponendo le virgolette alla fine del v. 28. – qe·us: il De Lollis legge que vos, mantenendosi più vicino al ms.; ma la correzione (cfr. Levy, rec. al vol. del DE LOLLIS, p. 251 e Jeanroy, rec. al vol. del DE LOLLIS, p. 284) è necessaria, perché mantenendo que vos il verso avrebbe una sillaba in più. – a·l conort del salvagie: per l’espressione cfr. la bibliografia citata nella n. 137 a p. CXLIII. Sordello vuol dire, come è ovvio, che Raimondo VII non ha alcuna ragione di rallegrarsi alla vista della tor di Beaucaire (egli fa come il «selvaggio», che si rallegra del cattivo tempo). (Cfr. anche le osservazioni del Levy a questo passo).
29-30. Come già abbiamo accennato (cfr. l’ Introduzione, p. CXXVI, n. 83) col trattato di Parigi (1229). Raimondo VII era stato costretto a rinunciare al titolo di duca di Narbona e a cedere una parte dei suoi domini alla corona di Francia. Come si vede, dei «tre diseredati» il più amaramente colpito sembrerebbe Raimondo VII, il nemico acerrimo di Raimondo Berengario.
31-33. Be·m plai del comte: per l’attrazione del soggetto della dipendente nella principale cfr. XII, v. 19-20 e la nota relativa. - li vei … cuglir: letteralm. «gli vedo riscuotere»; quando un infinito di verbo transitivo, seguito dal suo oggetto, dipende da un verbo che significa vedere o sentire, il sogg. logico dell’infinito è in dativo (F. DIEZ, Gramm., Bonn, 1882, p. 866). - a onor: per il costrutto cfr. STIMMING, Bertran de Born, p. 248, n. al v. 43 del n. 8. La parola onor ricorre in rima anche al v. 23. - Pare che si debba intendere che Raimondo Berengario riscuote, nel momento in cui Sordello scrive, le rendite del porto di Marsiglia, ossia della città bassa, toltegli, come è detto nei versi seguenti, da Raimondo VII (cfr. l’ Introduzione, p. CXXVI, n. 84). La vera e propria sottomissione di Marsiglia a Raimondo Berengario non si ebbe che nel 1243 (22 giugno) (V. L. BOURRILLY, R. BUSQUET, La Provence au moyen âge, Marseille, 1924, p. 59; BOURRILLY, Essai sur l’hist. politique, p. 152 e segg.): ma poiché pare che il sirventese, come si è visto, sia al più tardi del 1238, e in ogni caso non sembra che si debba scendere oltre il 1241, si dovrà pensare a qualche momentaneo riaccostamento dei Marsigliesi a Raimondo Berengario o anche — è un’ipotesi, però, che avanzo con molte riserve — a qualche momento in cui si sperava oramai imminente la sottomissione della città ( vei ... cuglir sarebbe in tal caso equivalente a un «vedo che torna a riscuotere»; azione non realizzata ma ritenuta in via di realizzazione): e si potrebbe pensare quindi al periodo di sospensione delle ostilità in Provenza che si ebbe dopo i primi di giugno del 1237, quando Raimondo VII si ritirò dalla Provenza (cfr. DEVIC, VAISSETE, Hist. gén. de Languedoc, VI, p. 704 e seg.). Si potrebbe anche col Torraca, che, considera, come si è detto, il sirventese tutto ironico, ritenere ironico anche questo passo: Sordello cioè vorrebbe in realtà dire che Raimondo Berengario, con suo grande disonore, non riscuote più le rendite del porto di Marsiglia. Anche il Levy osserva, a proposito di questa cobla: «Ebenso kann Str. 4 meines Erachtens nichts anderes besagen, als dass der Graf von Provence, als der Dichter das Sirventes schrieb, die Einkünfte des Hafens von Marseille preisgegeben hätte, und höhnend sagt Sordel, sein Herr habe Ehre davon, den Schaden werde er leicht wieder gut machen, d. h. er nimmt seine Schande leicht und durckt sich, wie er auch der Kirche gegenüber nachgegeben habe».
34-36. Si allude a una delle varie invasioni della Provenza da parte dell’esercito di Raimondo VII di Tolosa. Il Torraca pensa che si tratti di quella del 1232; ma potrebbe anche trattarsi di quella del 1230, avvenuta quando i Marsigliesi, in contrasto con Raimondo Berengario, invocarono l’aiuto e la protezione di Raimondo VII, che sembrerebbe rispondere meglio al contesto, perché appunto con tale spedizione il conte di Tolosa incominciò a godere le rendite del porto di Marsiglia, che si pose sotto la sua signoria appunto il 7 novembre 1230. Su questi avvenimenti cfr.la bibliografia citata nella n. 84 a p. CXXVI. L’ autran è da intendersi naturalmente in senso generico, non nel senso di «l’anno scorso», come vorrebbe il Torraca. - de Tolsan: il tut del ms., conservato dal De Lollis, è un’aggiunta del copista, che rende il verso ipermetro, e va tolto, come giustamente hanno osservato lo Jeanroy e il Levy. Pongo col Levy la virgola dopo passagie, considerando de Tolsan legato al comte del v. 34 (cfr. v. 22-23); però si potrebbe anche collegare questa espressione con passagie, leggendo, se mai, come propone lo Jeanroy, dels Tolsan o del Tolsan. - seçatç: sulla voce, che si trova anche nell’ Ensenhamen (XLIII, v. 309) cfr. S. W., VII, p. 639. Questa lezione non è ritenuta soddisfacente dallo Schultz-Gora, che però si limita a proporre secatç, non senza avvertire che anche tale forma soddisfa poco, e a ricordare il sercatz del Mahn.
38. revenra. Il De Lollis ritiene che qui revenir abbia il senso di «riparare» (cfr. L. R., V, p. 496; S. W., VII, p. 313, 9), come in XXVI, v. 6, 35, 36, e XLIII, v. 829, 906. Lo Schultz-Gora propone invece di intenderlo nel senso di «ritornare», e traduce: «leicht wird ihm Schaden wiederkommen». Dopo damagie il De Lollis pone punto e virgola; ma cfr. Schultz-Gora, rec. al vol. del DE LOLLIS, p. 247.
39-40. Questi versi parrebbero riferirsi a Raimondo VII, perché Raimondo Berengario, per quanto mi consta, non ebbe contrasti con la Chiesa e non ebbe scomuniche. Per l’interpretazione del Levy cfr. n. ai v. 31-33. - ni: emendamento proposto dallo Schultz-Gora; il De Lollis ha ne. - qier: emendam. proposto dal De Lollis: il ms. ha ce nos.
41. car: come di consueto, la propos. introdotta da car è preposta alla principale: cfr. XV, v. 61 e la nota relativa; cfr. XV, v. 67 e XXIV, v. 25. - ne[m]bri: per questo fenomeno di dissimilazione regressiva cfr. J. ANGLADE, Gramm. de l’ancien provençal, Paris, 1921, p. 183 e 200; cfr. S. W., V, p. 184 e 185 ( membrar, membre). - la: il ms. ha lo, ma si tratta probabilm. di una svista del copista, come osservano il Levy e il Bertoni.
42. malvastaç: nel senso di «lâcheté», «Feigheit»: cfr. S. W., V, p. 74, 12 e Petit dict., s. v.
43. desamor: emendamento che è già nel De Lollis e che il De Lollis dice suggeritogli dallo Chabaneau.
44. ma[s]. Per l’aggiunta della -s cfr. la nota del De Lollis (p. 260).
45. II verso si ritrova quasi identico nella canz. Ar mi posc di Peire Cardenal (che ha le stesse rime del sirventese di Sordello), v. 28 ni a mon cor en guatge (ed. K. BARTSCH, E. KOSCHWITZ, Chrest. Prov., Marburg, 1904, col. 191).
46-47. In questi versi il testo del ms. è certamente corrotto; e la loro interpretazione è stata per questo assai discussa. Il De Lollis emendava demandan in demandar, e intendeva: «Ogni uomo (ognuno), se l’abbia pure a male (ovvero: me ne venga pure odio), io vo reclamare che si mantenga in pregio». Ma il Naetebus e il Levy, mettendo a confronto questo passo con l’ultima tornada del planh in morte di Blacatz ( XXVI, v. 43-44), hanno suggerito di correggere demandan in de mon dan, che ha molte probabilità di essere la lezione esatta. Il Naetebus mantiene il preiatç e suggerisce di tradurre, pur non presentando tale traduzione come del tutto sicura: «wenn Gott nur die Geliebte behütet, will ich, mag jedermann, wofern ich darum bekümmert wäre, um meinen Schaden gebeten sein». Il Levy invece giudica preiatç insoddisfacente e propone, sempre a titolo di ipotesi, di leggere si’ apensatç, con cui si potrebbe tradurre: «dann will ich, dass jeder, der mich deswegen hasse, (immerhin) auf meinen Schaden bedacht sein möge». Il Levy però si domanda anche se non si debba addirittura giungere a leggere, allontanandosi notevolmente dalla lezione del ms., a mon dan voigll sia getatz.
51. rictatç: qui vale «nobiltà», «eccellenza», «Vortrefflichkeit» : cfr. S. W., VII, p. 343, 3.
54. enveatç: = envezatz, col senso di «gioioso», «giocondo», «esultante», cfr. L. R., III, p. 131; S. W., III, p. 168.
55. prent ... volontatç: cfr. III, v. 4 e nota relativa. L’espressione ritorna anche nella canz. XII, v. 12. |