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Squillacioti, Paolo. Le poesie di Folchetto di Marsiglia. Pisa: Pacini, 1999.

Nuova edizione riveduta e aggiornata per il "Corpus des Troubadours", 2009.

155,004- Folquet de Marselha

Il componimento è noto per essere stato oggetto del primo esempio italiano di traduzione poetica, nel senso chiarito da Folena 1991, p. 25 e n. 34 (a p. 96), ad opera di Giacomo da Lentini nella sua Madonna, dir vo voglio. Riconosciuta per primo da Torraca 1897, pp. 160-61, l’operazione del Notaro «ha il carattere di una fondazione, in cui si contengono i tratti essenziali della nuova poesia» (1): l’atto d’inizio insomma della letteratura italiana, almeno nella prospettiva storico-culturale che emerge dal Canzoniere Vaticano lat. 3793, aperto proprio dalla canzone di Giacomo (2); un atto d’inizio tuttavia non solo simbolico, se si accetta l’ipotesi di Roncaglia 1983 secondo cui un ascendente o un collaterale di T sarebbe arrivato in Sicilia nel 1233 come dono dei Da Romano a Federico II (3). Comunque sia, la traduzione ha un indubbio interesse che questa sede non permette di evidenziare nei particolari: rimando pertanto alle analisi di Monteverdi 1971, pp. 283-91, Roncaglia 1975, pp. 24-36 (e cfr. Roncaglia 1983), Folena 1991, pp. 25-27, Antonelli 1987, pp. 24-26, Bruni 1988, pp. 79-81 e J. Schulze, Sizilianische Kontrafakturen. Versuch zur Frage der Einheit von Musik und Dichtung in der sizilianischen und sikulo-toskanischen Lyrik des 13. Jahrhunderts, Tübingen, Niemeyer 1989, pp. 172-73, 218, 228-31 (da leggere con R. Antonelli, La corte “italiana” di Federico II e la letteratura europea, in Federico II e le nuove culture. Atti del XXXI Convegno storico internazionale. Todi, 9-12 ottobre 1994, Spoleto, Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo 1995, pp. 319-45, in partic. p. 322 e note 12-13).
Attribuzione: parte I, § 1.2.1.
 
6. qe, qant: il ms. legge e qânt, e Appel 1890, seguito dagli altri editori, scioglie que e quant (il titulus abbrevierebbe u); se nel primo caso potrebbe essere plausibile uno scioglimento in qe(n) = q’en, nel secondo si tratta certamente di un titulus superfluo, presente altrove nel ms., ma a quanto vedo non segnalato dagli editori; si veda, a titolo di esempio, ôm per om a c. 226v, r. 19 e gaireñtça per gairentça a c. 227, r. 9 in FqMars 155,10 (XII), 1 e 37; per qe a c. 228r, r. 10 e a c. 228v, r. 11 in FqMars 155,5 (I), 9 e 59; uêrtç per vertç a c. 140v, r. 18 e qûe per que a c. 141v, r. 2 in GcFaid 167,10 (XXI; Vatteroni 1991, pp. 174), 1 e 46; nôno per non o a c. 141v, r. 15, domña per domna a r. 17, fegña per fegna a c. 142r, r. 9, retegña per retegna a r. 13, reuegña per revegna a r. 19 in GcFaid 167,20a (XIX), 19, 24, 56, 68 e 84; entêra per entera a c. 183r, r. 24 e cêm per ce·m a c. 183v, r. 2 in FqRom 156,3 (IV), 10 e 19. Altrove il titulus viene dimenticato: si veda qui al v. 14 nies per niês (niens) e cfr. gn per (gran) e taln per talñ (talan) a c. 226v, r. 13 in FqMars 155,9 (XV), 20 e 21 e ancora gns per gñs (grans) a c. 230v, r. 9 in FqMars 155,14 (IV), 45. Il fenomeno del titulus superfluo si riscontra in altri codici: cfr. ms. P mîr per mir a c. 7va, r. 12 in FqMars 155,11 (XIII), 39 e gârd per gard a c. 7vb, r. 5 in FqMars 155,15 (XVIII), 32; ms. G mêu per meu a c. 3ra, r. 31 in FqMars 155,22 (II), 46 e c. 5rb, r. 14 rên per ren in FqMars 155,5 (I), 52. È inoltre attestato in un àmbito, quello delle scritture di carattere pratico, al quale Brunetti 1990, pp. 54-55 accosta il ms. T: cfr. quanto scrive Alfredo Schiaffini a proposito del Libro di conti di banchieri fiorentini del 1211: «Notevole che in questo libro di conti, come in altri che ho avuto occasione di esaminare a Firenze [...], assai spesso la lineetta orizzontale sovrapposta alle vocali non ha alcun valore» (Testi fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, Firenze, Sansoni 1954, p. 3); e inoltre Luisa Miglio nota a proposito del libro dei Consigli di San Gimignano (1238) che: «l’uso approssimativo del sistema abbreviativo che dimenticava la lineetta dove era necessaria e la metteva dove non era richiesta» (L’altra metà della scrittura: scrivere il volgare (all’origine delle corsive mercantili), «Scrittura e civiltà», X (1986), pp. 83-114, a p. 96; altro es. a p. 103). Sull’uso particolare del titulus in testi italiani si veda anche F. Ageno, Particolarità grafiche di manoscritti volgari, «Italia medievale e umanistica», IV (1961), pp. 175-80, soprattutto le pp. 175-78.
amar: Appel 1890 conserva amor del ms.; già Torraca 1921, p. 163, che non riproduce l’originale provenzale, emenda implicitamente in amar dal momento che traduce «per amar finamente». L’emendamento, ignorato da Stroński, è riproposto senza commento da Monteverdi 1971, p. 286, il quale cita la prima strofa dall’ed. Stroński, con questo emendamento e altri ritocchi grafici; da Folena 1991, p. 26, che stampa solo la prima strofa con le correzioni di Monteverdi; e quindi da Roncaglia 1975 che, pur mantenendo il testo di Stroński (ma la -o- di amor è in corsivo!), scrive: «il sostantivo amor di T [...] sarà da emendare nell’infinito amar. Appare infatti alquanto strano che l’avverbio determini un nome, né finamen è logicamente riferibile al verbo muer; mentre, leggendo amar finamen, si restituisce l’esatto corrispondente verbale della notissima espressione nominale amor fina» (pp. 28-29). D’altro canto, aggiungo io, lo stesso ms. T legge (con f) desamor invece di desamar a c. 228v in FqMars 155,11 (XIII), 14; inoltre amar è confermato dalla tradizione della canzone del Notaro (rimando alle CLPIO): per bene amare L 005.8 (= P 037.8), per ben amare V 001.8, per bene amà’ B 32.8, «per bene amare» nell’ed. Antonelli 1979b, p. 1, n° I (è da qui che, salvo avviso, cito il testo).
qe viu qant muer: una possibile suggestione di BnVent 70,31 (XXXI), 27-28: «cen vetz mor lo jorn de dolor / e reviu de joi autras cen» è indicata da Roncaglia 1975, a p. 29. Cfr. anche GcFaid 167,50 (XLIX) negli ultimi due vv. di ogni cobla: «qu’en tel damey porai mon cuer / don muer et viv’ et viv’ et muer».
 
7. mor e viu: è la lettura di Appel 1890 e Stroński: la e è molto chiusa, ovvero manca il caratteristico tratto superiore della lettera (si può confrontare con la seconda e di deues nel penultimo rigo della carta); non posso tuttavia escludere che sia un o piuttosto disarticolato: quest’ultima lettura troverebbe conforto nel testo del Notaro edito da Contini 1960, I, p. 51, che assume al v. 9 («a titolo di lectio difficilior»: così Contini 1967, p. 87) «mor’u viv’eo»la lez. di L 055.9 mor u’ viv’ eo, laddove P 037.9 (e la Giuntina) hanno moro eo, V 001.9 e B 32.9 morire eo. Tuttavia Contini annota: «u: ‘o’ (anche toscano)», mentre F. M. Minetti fa rilevare che «“...vive quando more” 7 suggerirebbe, in chiasmo, “Dunque, mor’ u’ [ubi = quando, appunto] viv’ eo?”» (Schede lessicali e sintattiche di poesia del Duecento, «Studi di lessicografia italiana», II [1980], pp. 31-100, a p. 50); come si evince dalla forma della lezione in L 055.9, questa stessa è l’interpretazione di Avalle: cfr. l’introduzione alle CLPIO, p. cxliii. E il medesimo valore avrebbe un eventuale o nel testo folchettiano (per l’esito di ubi in apr. cfr. FEW, XIV, p. 1; per il significato di ‘wo, wohin’ cfr. SW, V, p. 440, s.v. o). Diversa la scelta di Antonelli 1979b, p. 11 che emenda in «mor’e viv’eo» quello che ritiene un errore d’archetipo (cfr. p. 8) in base al confronto con l’ed. Stroński di A vos, midontç («muer e viu»: si noti il dittongo, già in Appel); per difendere poi (in Antonelli 1986, a p. 49, n. 18) emendamento e archetipo contro Minetti, il quale si era spinto a postulare una «duplicità redazionale, magari mediata da editio variorum». Ancora diversa la soluzione di Bruno Panvini, che in Panvini 1962-64, I, p. 3, recupera l’ottocentesca congettura («moriraio eo») di L. Valeriani, per accogliere la lezione tradizionale «morire’ eo» in Panvini 1994, p. 39, ossia «starei per morire»: entrambe le soluzioni sono discusse e rigettate a favore della scelta di Antonelli da M. Berisso nella rec. a Panvini 1994, in «Rassegna della letteratura italiana», s. VII, XCIX (1995), pp. 181-85, alle pp. 184-85.
 
9. c[e] am: il ms. legge cam e il v. risulta ipometro; Stroński integra ieu recuperando una proposta da Appel 1890 avanzata in nota (qu’ieu am), ma sarebbe bastato eu; io mi limito a introdurre un e, interpretando c come una riduzione in elisione, meramente grafica, di ce forma usuale nel codice per qe (cfr. Appel 1890, p. xi); oppure come l’errata trascrizione di un q con titulus dell’antigrafo (cfr. supra la nota 6). La medesima soluzione è proposta da Perugi 1978, I, p. 33 con una minima differenza grafica (que am).
Stroński modifica inoltre l’interpunzione di Appel che mette un punto dopo amoros (v. 8) e quindi: «A! vos, dompna c’am tan coralmen / sufretç...», così da legare il v. 9 al successivo; il collegamento è accettato da Roncaglia 1975 che propone inoltre di emendare a vos del ms. in E vos, in modo da favorire il legame fra i versi sottolineando il parallelo con il v. 13 («per voi, donna») e il v. 15 («e voi») della traduzione del Notaro. Preferisco mantenere l’interpunzione di Stroński e il legame del v. 9 con i due precedenti, dei quali costituisce una specificazione: ai vv. 5-6 si enuncia la ‘vita in morte’ causata dalla fin’amor; la domanda retorica di v. 7, che tende a mettere in luce l’irragionevole coincidentia oppositorum, trova una risposta razionalizzante, ma nel contempo ambigua, stante il doppio significato di cors, ‘cuore’ e ‘corpo’, nell’affermazione dei vv. 8-9 che è il cuore a morire e resuscitare per amore della donna.
 
10. cuisen: cfr. Asperti 1990, pp. 456-57.
 
13. Già il primo emistichio del décasyllabe è sospetto per l’anomalo accento su vos: è anzi molto probabile che all’origine vi sia stato un più canonico ce·us voigll: si veda d’altronde la tradizione del v. 15 di FqMars 155,9 (XV), dove il solo T legge ce uos a fronte del queus degli altri testimoni (CEMQa). Le condizioni della parte finale del verso sconsigliano tuttavia ogni intervento; confermo comunque la lettura di Appel 1890, rigettando i dubbi residui di Stroński (-n o -u in len; c- o t- e -nr- o -m- in carna). Delle due congetture di quest’ultimo, la prima (ab l’entera fe) è paleograficamente più plausibile della seconda (ab entera ma fe e recupero della sillaba c’ie·us in luogo di ce vos), dettata proprio dalla ricerca di una «meilleure mesure du vers»; e tuttavia la prima è metricamente incompatibile con ce·us voigll. La costruzione più diffusa pare essere amar de (o per) + aggettivo + fe: per es. si veda: PVid 364,36 (XXXVII), 59: «Na Vierna, cui am de bona fe» e PoChapt 375,24 (XXI), 14-15: «E non crea son cor, c’ab lejal fe / Serai tostemps sos hom e sos servire»; comunque, per la costruzione ab + aggettivo + fe si veda GcFaid 167,68 (LII), 19-20: «ans sui de mos bels ditz servire / ab bon cor et ab leial fe» e RmJord 404,10 (X), 13-14: «per qu’ab bona fe / vos m’era donatz». Secondo Roncaglia 1975, p. 31 è «inutile perdersi in congetture, alle quali non fornisce comunque appoggio utile la traduzione, alquanto più libera che nella prima strofa».
 
15. fioc[s]: -io- per -uo- (cfr. anche lioc a c. 87r, r. 10 nella cobla anon. 461,237 [Appel 1890, p. 334], 5) non è per Perugi 1978, II, pp. 716-18 un semplice venetismo (come voleva Bertoni 1915, p. 196, peraltro parzialmente contestato da Folena 1990, p. 15), quanto un tratto proprio della lingua di ArnDan: di qui l’accoglimento a testo di liocs del ms. in ArnDan 29,1 (IX), 1, laddove Eusebi ha luecs dell’altro testimone. Condivide l’analisi di Perugi Meliga 1993, p. 776; si veda ora la posizione più cauta di Perugi 1996, p. 34, n. 62.
remuda o dan: confermo anche in questo caso la dubbiosa lettura di Appel 1890, p. 95: «als Ende des Verses hat wohl zuerst remuda gestanden, dann folgt ein zweifelhafter Buchstabe, etwa o, zuletzt sicher dan», menzionando le precisazioni: («re paraît certain, mu (ou viu) est douteux, avec da commence, dans le ms., un mot à part») e la congettura (no·s rema dardan) di Stroński. Una soluzione potrebbe essere la semplice espunzione di o con cui si avrebbe: no·s remud’ a dan ‘non si ritorce a danno’: il senso di ‘cambiare, trasformare’ è nel SW, VII, p. 223, s.v. remudar, n° 7: «wechseln», ma il senso del verbo si può accostare a quello dell’afr. remuer nell’esempio «Cilz a congnoissance perdue / qui du bien au mal se remue» (dall’Epistre des femmes, ms. Dijon 298, cit. in Godefroy, VII, p. 15). Diverso è il concetto espresso da Giacomo da Lentini: «Foc’aio al cor non credo mai si stingua» (v. 24), ma si è già detto della libertà di traduzione del Notaro, specie nella seconda strofa.
 
17-19. La sentenza sull’abitudine che si fa natura è aristotelica (cfr. Retorica, 1,11); molto fortunata nel medioevo («da Ambrogio e Agostino in giù, è difficile trovare chi non l’abbia ripetuto»: Roncaglia 1975, p. 33), la si ritrova in ambito occitanico: cfr. il ‘Seneca provenzale’: «Non uses doncs lo us malvatz, / que lay on son acostumatz, / er a laychar greu causa e dura; / car costuma torna a natura» (Bartsch 1856, p. 211) e la cobla esparsa di GlOliv 246,11 (Schultz-Gora 1919, p. 54), 12-13: «Qu’ieu atruep sert e l’escriptura / c’avol us o bon forsan natura»; cfr. la cobla 246,65 (Schultz-Gora 1919, p. 48), 5: «mais, car loncx us torna cais en natura».
 
18. segon dreic e raiso[s]: segon regge l’obliquo per cui raiso[s] o è un’infrazione oppure, se obl. plurale, è una forzatura, considerata la grande frequenza della iunctura al singolare.
dreic: recupero la lezione di Appel 1890, laddove Stroński, seguito da Roncaglia 1975, stampa drec e annota in apparato: «(dret?; Appel: dreic)»: in realtà -i- è presente, aggiunto sul rigo fra -e- e -c; che quest’ultima lettera non sia -t lo mostra il confronto con un dreit a c. 227v, r. 13 (FqMars 155,23 [IX], 29): il ms. conosce comunque sia drec (c. 226v, r. 13, FqMars 155,9 [XV], 20) che dret (c. 232r, r. 22, FqMars 155,6 [XVII], 3); cfr. Appel 1890, p. xii.
 
20. n’ai: non dà senso per Zingarelli 1896, p. 33, n. 42 che propone l’emendamento viu, così da realizzare un parallelismo con il v. 30 della traduzione del Notaro, «vivo ’n foc’amoroso». La correzione, accolta dal Torraca, è interessante ma non necessaria, in quanto la difficoltà deriva tutta dalla lacuna dell’ultimo verso che doveva contenere la conclusione del concetto iniziato co don vos al v. 19.
 
21. plaisen: può essere interpretato come participio sostantivato e riferito a n’ai di v. 20 (n’ai plaisen = n’ai plazer); oppure gli si può dare valore aggettivale e riferirlo a fioc o a amor o anche al contenuto ignoto del verso successivo.
 
22. Il verso manca, e inoltre si può presumere che il componimento non si arrestasse a questa seconda cobla: la presenza in Madonna, dir vo voglio dell’exemplum: «La salamandra audivi / che ’nfra lo foco vivi stando sana» (vv. 27-28) che introduce il confronto con la condizione dell’innamorato («eo sì fo per long’uso, / vivo ’n foc’amoroso», vv. 29-30) farebbe pensare in A vos midontç ad un paragone finale con le virtù della salamandra. L’ordine di esposizione dei concetti sarebbe rovesciato: in Folchetto c’è prima l’accenno all’uso che, prolungato, procura delle caratteristiche naturali, quindi l’ipotetico exemplum della salamandra; Giacomo invertirebbe la successione. Accanto a questa ipotesi già Torraca 1921, p. 164 aveva posto quella di un’immagine poetica legata al grano da cui il Notaro avrebbe tratto l’ultimo verso della sua strofa: «lo meo lavoro spica e non ingrana», v. 32.
 
 
Postilla 2009
 
Gli studi principali sul contributo dei testi di FqMar (e di A vos, midontç in particolare) per la nascita e lo sviluppo della Scuola poetica siciliana sono nella Postilla al cap. 3 dello Studio introduttivo. Aggiungo che gli elementi essenziali della relazione di Roberto Antonelli al convegno di Palma de Mallorca cit. nella Nota al testo sono in Antonelli 1999.

 

Note

(1) L. Formisano, La comunicazione letteraria, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a cura di F. Brioschi e C. Di Girolamo, I (Dalle origini alla fine del Quattrocento), Torino, Bollati Boringhieri 1993, pp. 95-143, a p. 137. ()

(2) Sulla struttura e il progetto culturale del canzoniere basti un rimando a R. Antonelli, Canzoniere Vaticano latino 3793, in LIE. Le Opere, I (Dalle Origini al Cinquecento), Torino 1992, pp. 27-44 (in part. p. 30), da confrontare con C. Giunta, Un’ipotesi sulla morfologia del canzoniere Vaticano Lat. 3793, «Studi di filologia italiana», LIII (1995), pp. 23-54. Si aggiunga, con Roncaglia 1983, p. 322, che la canzone apre la sezione del Notaro anche nel Laurenziano Red. 9: cfr. CLPIO, L 055 JaLe. ()

(3) «La proposta e un primo esame analitico» del legame fra T e la Sicilia federiciana erano già nella relazione di Antonelli a Palma de Mallorca (cit. supra a n. 1) come risulta da R. Antonelli, «Non truovo chi mi dica chi sia amore». L’Eneas in Sicilia, in Studi di filologia e letteratura italiana in onore di Maria Picchio Simonelli, a cura di P. Frassica, Alessandria, Ed. dell’Orso 1992, pp. 1-10, a p. 2, n. 5; la tesi di Roncaglia, anticipata ne Le corti medievali, in LIE, I (Il letterato e le istituzioni), Torino 1982, pp. 33-147, alle pp. 141-42, ha incontrato un certo favore, ma anche il dissenso di A. Varvaro, Il regno normanno-svevo, in LIE. Storia e geografia, I (L’età medievale), Torino 1987, pp. 79-99, a p. 92 e ora, come anticipato sopra, di Asperti 1994, che sposta nelle corti dell’Italia nord-occidentale l’incontro fra T e i poeti siciliani. ()

 

 

 

 

 

 

 

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